Nel quadro delle ricerche sugli ephemera cinematografici, questo contributo si concentra sui manufatti spettatoriali di produzione spontanea e, in particolare, sul diario privato. Fra le fonti effimere tradizionalmente più trascurate dalla storiografia (anche in virtù di una oggettiva difficoltà di reperimento; Rak 2009: 22–23, Brezzi e Gabrielli 2022),1 il diario è un materiale di particolare interesse soprattutto se letto alla luce del dibattito contemporaneo sul life–writing, che valorizza la “writing culture of ordinary people”, le scritture delle persone comuni (Jolly 2001: ix). I diari che incrociano il cinema ci consentono, d’altra parte, di guardare da vicino alle forme del consumo cinematografico, raccogliendo le sollecitazioni che emergono nell’ambito delle ricerche della New Cinema History, che invitano a guardare all’esperienza spettatoriale nelle sue numerose declinazioni, alle quali corrispondono altrettante forme di consumo (Biltereyst et al. 2011). La ricerca sulla scrittura privata rappresenta peraltro un campo di studi interdisciplinare, che vede nelle storie di vita fonti utili sia dal punto di vista dell’analisi delle forme che della documentazione storica (Ben Amos e Ben Amos 2020). Le forme di scrittura personali e autobiografiche, inoltre, assumono una rilevanza crescente nel dibattito contemporaneo sulla storia di genere, laddove le intersezioni fra storia privata e movimenti collettivi sono in grado di favorire una riflessione sulle rappresentazioni delle identità sessuali.2
Dispositivo che non è inteso primariamente al servizio della registrazione del consumo cinematografico (come sono ad esempi gli schedari o le agendine), il diario viene scelto da chi scrive come superficie di autorappresentazione spontanea, su cui annotare il quotidiano e le urgenze personali. I diari fanno parte di quelle scritture che si dispiegano nel tempo, “an unfolding of time in life, and of time in ‘diary time’” che possono rimandare al passato, ma si concentrano più che altro sul rappresentare il presente (Rak 2009: 23–24). Si possono definire tali, come osserva Philippe Lejeune, in prima istanza perché contengono delle date e intrattengono un rapporto inestricabile con il tempo e con la sua archiviazione. Testimonianza auto–narrativa singolare, il diario nasce nel Rinascimento e si afferma insieme a una serie di innovazioni maturate in occidente, come ad esempio l’orologio e il calendario (Lejeune 2009: 18). L’affermazione della pratica diaristica avanza di pari passo allo sviluppo della concezione della soggettività occidentale e i diaristi e le diariste sarebbero “silent producers of culture who create their own logics of espression” e “‘poets of their own acts’ who performs the present for an unforeseeable future” (Rak 2009: 18).
È probabilmente tale impulso di archiviazione del quotidiano a vantaggio del futuro a spingere Claudia, una giovane romana nata nel 1941, ad annotare con una certa continuità i suoi pensieri in una serie di diari inediti, redatti tra il 1956 e il 1971 e oggi conservati presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano.3 Proveniente da una famiglia benestante della capitale, Claudia trascorre la sua adolescenza fra gli impegni scolastici, il consumo culturale e i numerosi viaggi compiuti insieme alla famiglia, sia in Italia che all’estero. I supporti su cui scrive sono per lo più diari con copertina rigida, di cui alcuni chiusi con lucchetto, contenenti fogli bianchi senza righe. Fra quelli conservati nell’archivio della memoria fondato da Saverio Tutino, sono i diari che vanno dalla fine degli anni Cinquanta ai primi Sessanta (in particolare dal 1956 al 19624), a ospitare un resoconto quotidiano e dettagliato della vita della giovane, nel lasso di tempo che coincide sostanzialmente con la sua adolescenza, a partire dai quindici anni di età.5 Se le annotazioni dei primi quaderni corrispondono al resoconto piuttosto spensierato di attività ordinarie, la scrittura di Claudia si fa negli anni sempre più urgente e fitta, portatrice di istanze individuali e di conflitti emotivi che vedono nel diario anche il custode di una personalità in formazione.
Mentre tra le pagine la giovane calendarizza il presente, costruendo il suo archivio del quotidiano, al contempo sperimenta nel suo quaderno forme di creatività e di composizione visiva, trovando sulla carta, infine, un’irrinunciabile superficie speculare capace di custodire i pensieri più privati. Il suo scritto è allora un po’ un registro, in cui annotare il consumo culturale, un po’ uno scrapbook sul quale giocare con la produttività spettatoriale; e ancora una pagina confessionale, cui consegnare i pensieri più intimi e costruire così un senso di sé. Il diario di Claudia è, insomma, un dispositivo ibrido, all’interno del quale convergono una dimensione memoriale, una produttiva e infine una riflessiva: tre direzioni, compresenti ed intersecate, che compongono questo oggetto effimero personale che intendo analizzare nelle pagine che seguono.
1 Memoria: il diario come archivio del consumo
Prendiamo in considerazione il biennio 1956–1957,6 in cui Claudia riempie ben quattro diari, includendovi la cronaca puntuale delle sue giornate. Mentre racconta dei rapporti con i genitori, con le amiche, dei primi approcci sentimentali e della scuola, la ragazza annota con dovizia anche le numerose letture, le serate a teatro, le passeggiate per Roma, le visite in sartoria, i concerti e le proiezioni filmiche. Del mondo del cinema, i suoi scritti mettono in luce la dimensione immaginaria, il sistema divistico, la rete paratestuale, mentre costruiscono al contempo una riflessione implicita sulla sua esperienza sociale. Lampi dello schermo attraversano la scrittura privata in un momento storico – come è quello che segue la metà degli anni Cinquanta – in cui il cinema passa da “punto focale” di una nuova “industria culturale integrata” (Scarpellini 2018: 24), che emerge negli anni Trenta, a una fase di flessione, che inizia a partire dal 1955, anno in cui si verifica in Italia il picco di oltre 819 milioni di biglietti cinematografici venduti.7 Sebbene il cinema rimanga comunque la voce principale nella spesa per spettacoli (Casetti e Fanchi 2002: 140), il decennio successivo, che va dal 1954 al 1964, apre a una fase moderna dell’industria culturale (Forgacs 1992, Casetti e Fanchi 2002).
Il cinema non è necessariamente l’unico centro degli interessi di Claudia, che si dedica anche alla poesia, alla narrativa, al teatro e alla musica, eppure questo è presente in modo consistente nei suoi scritti. In un periodo di soli due mesi (dal 1° gennaio al 28 febbraio 1957, a cui corrispondono oltre centodieci pagine di diario), la giovane va al cinema in più di venti occasioni,8 anche due o tre giorni alla settimana, e comunque tutte le volte che le è possibile, e non cela di consegnare alla pagina il proprio disappunto nei confronti delle rare occasioni mancate e talvolta sostituite, senza troppo entusiasmo, dalle visioni televisive. Così la ragazza, a gennaio del 1957, commenta: “ho sperato fino alla fine di andare a vedere Duello al sole […] ma nulla da fare a letto me ne vado”. Di nuovo annota un paio di giorni dopo: “Sono uscita appena mangiato con papà […] Avevo sperato di andare al cinema ma ho sperato a vuoto”.
Habitué delle sale della capitale, la donna non manca mai di annotare i titoli visti (rigorosamente fra virgolette), conservando il più delle volte anche i biglietti di ingresso e incollando tra le pagine pubblicità cinematografiche promozionali, precedentemente ritagliate dai periodici. Nel diario annota le visioni in sala di film come Poveri ma belli (Dino Risi, 1957), Rope (Nodo alla gola, Alfred Hitchcock, 1948), Born Yesterday (Nata ieri, George Cukor, 1950), Il giullare del re (The Court Jester, Melvin Frank e Norman Panama, 1955), Guys and Dolls (Bulli e pupe, Joseph L. Mankiewicz, 1955), Beyond a Reasonable Doubt (L’alibi era perfetto, Fritz Lang, 1956) e The long Arm (La lunga mano, Charles Frend, 1956).
Nella sua economia personale, il cinema è l’imprescindibile momento di consumo che invade il quotidiano, “atto feriale” (Fanchi 2001: 347) la cui esperienza, seppur frequente, merita sempre di essere registrata tra gli eventi significativi. Claudia rientra in quel 5% di italiane che negli stessi anni frequentano il cinema con grande assiduità, con una corrispondente spesa percentuale importante nell’apparato dei consumi individuali (Casetti e Fanchi 2002: 135–171). Spettatrice decisa nella scelta dei titoli da considerare, arriva sempre preparata al momento della visione, grazie soprattutto alla fruizione sistematica di materiali paratestuali, che rimandano alla lettura di periodici illustrati, probabilmente acquistati dai genitori e consumati in casa con continuità. Sicura del suo gusto, non lesina di esprimere le sue preferenze, assumendo occasionalmente anche atteggiamenti di superiorità rispetto ad accompagnatori e accompagnatrici (“Francesca […] per me non capisce niente”), e ripetendo saltuariamente persino la visione dello stesso film (“[Il pianeta proibito (Forbidden Planet, Fred M. Wilcox, 1956)] io l’avevo già visto a Londra ma avevo capito molto poco e allora mi sono divertita molto”; […] “sono andata a rivedere Poveri ma belli al Quattro Fontane, è proprio carino quel film”). La pratica del collezionismo e le numerose testimonianze materiali di consumo culturale, che appaiono nel suo diario, contribuiscono all’affermazione di Claudia come consumatrice cinematografica e alla sua autodefinizione come soggetto con una precisa identità spettatoriale.
Mentre registra la frequenza in sala, la giovane romana appare invece piuttosto laconica nei suoi commenti critici. Ci dice, infatti, generalmente, molto più del contesto di visione che dei film stessi: “Il film non era male” scrive in seguito alla proiezione di Il Ferroviere (Pietro Germi, 1956), che ha visto a gennaio del ’57 e di cui attacca anche il relativo biglietto e l’inserto pubblicitario ritagliato dalla stampa. Ma interrompe ben presto il suo commento, per annotare i nomi dei conoscenti seduti alcune file dietro di lei, a riprova che sia il cinema come “luogo di incontro e di socializzazione” (Fanchi 2001: 355) e come esperienza culturale complessiva, reiterata e condivisa (spesso con la madre, talvolta con le amiche) a interessarle, più che i singoli film. Divagazioni simili sull’esperienza di consumo sono numerose, e possono riguardare ad esempio i prezzi dei biglietti: “siamo andati a vedere al Fiamma Moby Dick […] quanto è caro il Fiamma 700 lire a persona”.
Per Claudia, insomma, il cinema è momento di evasione, di socialità, ma anche “momento di cultura” (Fanchi 2001: 348) in grado di interagire con una formazione intellettuale più ampia: è uno strumento di educazione al gusto e di confronto relazionale. Al pari di altri oggetti effimeri, il suo scritto è interessante proprio per la sua dimensione di luogo di “«inscrizione» di un sapere e un saper fare alla cui formazione l’esperienza relativa allo spettacolo cinematografico presiede solo in parte, e solo in quanto confusa alle attività del vissuto quotidiano” (Dotto e Mariani 2019: 77–78). Gli ephemera, infatti, permettono di penetrare il quotidiano degli spettatori, mettendo in relazione le visioni filmiche con lo spazio individuale e agendo come “backdrop to the routines of ordinary life” (Wickham 2010: 319, Noto e Pesce 2016).
Il supporto che compila si pone allora in primo luogo come uno strumento memoriale, archivio minuto dell’esperienza che diventa fonte preziosa per la storia del consumo cinematografico, fornendo un’evidenza “delle complesse relazioni tra offerta cinematografica e consumo” (Comand 2019: 44). La catalogazione quotidiana della giovane articola dunque in primo luogo quella che Rak chiama “performances of the everyday” (2009: 25), o quello che Lejeune definiva “archive in time”, che rivela del diario anche la dimensione compilativa e per certi versi un po’ maniacale,9 sorta di appropriazione e fotografia di un capitale culturale che si arricchisce nel tempo. Le pagine, da lei stessa numerate, si chiudono con un vero e proprio indice tematico redatto su più facciate, che meticolosamente categorizza per argomenti (spesso anche cinematografici) quanto fin lì annotato, con tanto di riferimenti a margine al corrispondente numero di pagina, quasi a suggerire la natura di prodotto editoriale del suo scritto, con un’inconscia disposizione a una successiva esperienza di fruizione.
2 Produttività: il diario come pratica di consumo
La dimensione verbale del diario, seppure rilevante, non sembra necessariamente prevalere nei primi anni della scrittura confessionale di Claudia. Se è vero che è la stessa forma di un oggetto a condizionare le modalità di interazione con esso (Dant 1999, Dotto e Mariani 2019: 76–78), nel supporto di 16x21 cm a pagine bianche Claudia vede probabilmente anche un “canvas”, sul quale imprimere liberamente parole e immagini, senza necessariamente aderire a uno schema preordinato. È così che occasionalmente il manufatto si apre a una dimensione composita, che accoglie materiali di diversa natura: fra le pagine compaiono lettere scritte su carta color pastello e destinate ad amiche e amici (chissà se successivamente ricopiate dall’autrice e spedite, o viceversa mai recapitate), insieme a fogli di carta intestata degli hotel in cui la giovane si trova a soggiornare, utilizzati per annotare le assai movimentate giornate di viaggio (forse in quei momenti di mancanza del diario stesso). Si accumulano inoltre ritagli di riviste, disegni, fotografie, cartoline, biglietti di cinema e di teatro e perfino petali di fiori. Talvolta la scrittura si posiziona a margine delle immagini, altre volte perpendicolarmente alla pagina, tanto che per leggerla è necessario girare il foglio. In altre occasioni, ancora, la componente verbale occupa spazi residuali, i soli che rimangono al di fuori della dominante iconografica.
A seguito delle frequenti vacanze, la giovane combina nel suo quaderno le tracce materiali di esperienze di valore, mentre intesse sulla trama di carta un immaginario fuori dall’ordinario. È consapevole della sua condizione privilegiata di estrema mobilità, in un momento storico in cui se da un lato la vacanza inizia a diventare di massa, “cioè alla portata di tutti grazie principalmente all’aumento del reddito pro capite”, questa si qualifica ancora “agli occhi della popolazione come espressione cosciente del consumo in grado di definire appartenenze e status sociale” (Zinni 2016: 127).10 Per questo custodisce i suoi souvenir, strappati ai momenti euforici, in un supporto che intende anche come un taccuino di viaggio, da affollare di ricordi, francobolli e cartoline.11 Lo stesso avviene anche con i menu dei ristoranti o i fogli degli alberghi, tracce vorticosamente incluse in quel piccolo universo cartaceo che pare talvolta insufficiente a contenerle.
Alcune pratiche che qualificano il suo diario, a ben vedere, rimandano più alla tecnica dello scrapbooking12 che alla scrittura diaristica vera e propria. Perché se è vero che il principio ordinatore della data scandisce il tempo della scrittura, è talvolta però la logica del montaggio e della frammentazione a conquistare le pagine. Da spettatrice del suo tempo, la giovane adotta nel suo quaderno sperimentazioni grafiche originali e ricrea gallerie fotografiche corredate da didascalie, che ricordano le soluzioni visive impiegate nelle riviste illustrate del tempo8, in un momento in cui la domanda di un giornalismo per immagini è pressante e la diffusione dei periodici illustrati particolarmente massiccia (De Berti 2009: 13).13
Dalle riviste di cui dispone (come ad esempio il periodico Oggi, che sicuramente circolava a casa della giovane e di cui un articolo è conservato nel diario del 195714), la giovane ritaglia le fotografie dei divi preferiti; le riassembla poi su carta, seguendo un criterio del tutto personale, finalizzato ad esempio alla creazione di una galleria sentimentale immaginaria, eliminando la componente verbale e sostituendo a questa i suoi appunti scritti a penna. Alle figure dei propri beniamini accosta a volte commenti ironici e scanzonati. “Ciao James! Peccato!”, scrive a matita accanto al ritaglio di James Dean, fotografato durante una pausa di East of Eden (La Valle dell’Eden, Elia Kazan, 1955) e prematuramente scomparso due anni prima, nel 1955. “Marlon, sei un brutalone”, aggiunge invece a matita sotto la fotografia di Brando. Ancora, nel diario del 1956 inserisce una fotografia con autografo di Gregory Peck; e nello stesso foglio conserva anche la lettera di un’amica che la ringrazia per avergliene regalata una identica, a riprova che il cinema sia in questi anni anche “un mezzo fondamentale di coesione e di costruzione di un senso di identità generazionale, esperienza collettiva di appartenenza a una collettività” (Fanchi 2001: 355). Se è vero che “[…] la pratica del collezionare le fotografie dei divi segna ancora nel secondo dopoguerra un po’ ovunque la frontiera del consumo cinematografico attivo” (Vitella 2015: 56), in alcune pagine il prodotto testuale prende così le forme dell’album di fotoritagli, con una configurazione che si allontana dal diario tradizionale per sconfinare nelle pratiche eterogenee dei testi prodotti dagli ammiratori.15
Da solo strumento di archiviazione del presente, allora, il diario si fa consapevolmente anche tela su cui sperimentare una forma di produttività testuale, i cui “gesti”de–compositivi e ri–compositivi” si pongono come forme di un pensiero in divenire e tracce di un’operatività materiale e intellettuale” (Comand e Mariani 2018: 204) e di consumo attivo, che gli studi sul fandom hanno individuato come ricorrente nella prassi spettatoriale degli ammiratori (Vitella 2015b). La produttività testuale del diario qui analizzato intercetta in questo senso alcune modalità comuni ai dispositivi prodotti in particolar modo da fan adolescenti, se pensiamo che il fattore anagrafico ha un peso importante nella definizione di specifiche forme di consumo attivo e del loro impatto identitario (Scheiner 1998: 83). Attraverso il libero montaggio di immagini, Claudia fa del suo diario anche un album, inteso come “virtuale spazio di migrazione e di transizione, grazie al quale la spettatrice può esternalizzare l’esperienza intima del cinema e […] fare proprie, le immagini dello schermo e della carta” (Comand e Mariani 2018: 211). Nel suo montaggio adopera procedure resistenti di “creatività interpretativa”, che sovrappongono la logica individuale agli schemi discorsivi e ideologici originari (Comand e Mariani 2019: 53): dai suoi ritagli spesso sopprime la componente verbale, dando spazio così alle associazioni fra le immagini, affrancate dalle stesse politiche editoriali dello spazio di provenienza.
In questa prospettiva, i materiali di produzione spontanea si rivelano prodotti culturali importanti, che contribuiscono a esplorare il cinema al di fuori della sala, che ci aiutano a considerare la spettatorialità come processo insieme di produzione e di consumo (Scheiner 1998: 92) in relazione a determinati contesti storici, culturali e visuali e a osservare pratiche di autorialità, di fandom e di espressione femminile.
3 Riflessività: il diario come costruzione del sé
“I miei sogni mi portano lontano, e in questi io sguazzo assai felice. L’ultima mia avventura: sono diventata moglie di William Holden, e sono diventata celebre”. In assenza di modelli valoriali e di confronto a livello parentale e sociale, in un periodo storico in cui l’autoespressione femminile era schiacciata sui ruoli familiari, il cinema diveniva spesso per le giovani generazioni una superficie di proiezione identitaria. Claudia fa parte di quella “prima generazione” (Piccone Stella 1998: 162) per cui “il film e il cinema offrivano ai giovani una forma di rispecchiamento silenzioso, un’occasione di adesione spontanea che nessuna altra forma culturale proponeva, offrendo un punto di vista diverso sulle cose” (Fanchi 2001: 349).16
Leggendo il suo diario, appare chiaro quanto il divismo agisca nella sua adolescenza come superficie desiderante, come i film costituiscano un modello astratto di relazioni tra i sessi e in che misura il cinema diventi un’esperienza culturale, formativa e occasionalmente anche eversiva17 (“È vietato ai minori di 16 anni ma io ci posso andare!”, osserva a un certo punto). Nel diario Claudia lascia spazio al libero emergere delle pulsioni provocate dagli attori dello schermo, come ad esempio quando raccoglie i divi preferiti “su cui farei un pensierino”; o quando si presenta a un cameriere in qualità di signora Holden, prendendo a prestito il nome del divo più amato per farne uno pseudonimo personale.
Se il mondo del cinema lascia fluire nella scrittura pensieri liberi e affrancate pulsioni, la realtà del quotidiano assume forme più disciplinanti. Tra le pagine Claudia racconta degli incontri con i coetanei, di sentimenti verso l’altro sesso ambivalenti e spesso mutevoli, di legami sentimentali passeggeri e di incontri desiderati o rifiutati. A seguito di un incontro con un giovane, fa riferimento a un “un certo non so che” che sente nel cuore, ma si ripromette contestualmente di non lasciarsi vincere dal desiderio. Se i riferimenti sottintesi alla sessualità sono numerosi, non mancano riflessioni esplicite che convocano la concezione coeva dei generi, del desiderio, del corpo femminile, della famiglia e dei rapporti prematrimoniali. Ancora, commenta: “Sono molto frivola nel mio desiderio. In ogni modo voglio sposarmi col mio amore intatto come la mia santa S. Claudia vergine non mi piace il matrimonio in altre maniere, se deve essere mio marito sarò tutta sua e sarò perfetta dal lato morale, almeno lo desidero!”“.
Chiamata ad aderire a un modello di femminilità tradizionale, la ragazza trova il suo spazio di espressione nell’articolazione di un immaginario cinematografico, nell’universo onirico e nelle libere associazioni visive del suo diario.
Leggiamo il resoconto privatissimo di un’identità sessuale che si va lentamente definendo in un contesto valoriale ben codificato. Negli anni in cui la donna scrive, infatti, la rappresentazione dei generi si relazionava a una specifica concezione culturale del corpo femminile (Jeffers McDonald 2010: 2), inserendosi nel quadro di un dibattito complessivo di influenza cattolica che vedeva in esso il luogo ideale della purezza e della verginità.18 La maternità, insieme alla verginità altro grande collettore del discorso pubblico sul femminile, si poneva in questa direzione come sessualità incanalata nelle forme normate della procreazione, all’interno di un perimetro di legittimità come quello della famiglia eterosessuale. I rapporti prematrimoniali, viceversa, minavano la “coerenza culturale” di un sistema di codici di controllo sui corpi, esercitato al fine di istituirne e preservarne i confini.19 La formazione di una soggettività sessuata ricorre fra le pagine del suo diario, forse mostrando un conflitto interiore e una difficoltà a coniugare pulsioni e prescrizioni comportamentali mai del tutto manifesta e rinvenibile piuttosto nelle lacune e nei silenzi della scrittura, in cui spesso si annidano i significati più profondi. Prodotto “residuale” di una pratica, come lo definisce Lejeune, il diario prima di essere un testo è infatti soprattutto un modo di vivere, il cui risultato in ultima istanza appare spesso oscuro e solo parzialmente decodificabile “written for oneself, journals are filled with implicitness, and kept irregularly” (Lejeune 2009: 31).
Oltre a costituire uno strumento testimoniale e creativo, il suo scritto è dunque anche un dispositivo riflessivo che oscilla tra “self–construction” e “self–regulation” (Summerfield 2018: 29), attraverso cui guardare ai perimetri della soggettività e tentare un riconoscimento personale, per accogliere le tensioni private e legittimare un bisogno di autodeterminazione e di conoscenza di sé. Una volta scritti sul diario, i pensieri diventano uno specchio, “allowing for reflection and self–objectification. In the hands of others, the written diary becomes a window into a psychological moment, an opportunity to understand another’s perspective and to reflect on our common humanity” (Hyers 2018: 10). Il diario di una giovane donna può essere in questo senso un dispositivo rilevante per riflettere sull’espressione femminile;20 non a caso, le forme autobiografiche rivestono nel dibattito contemporaneo un ruolo centrale per indagare la storia delle donne e la questione della scrittura soggettiva di genere è divenuta oggetto privilegiato per le riflessioni emerse all’interno dei movimenti femministi.21
Lontano da modelli più consapevoli e dalle istanze di emancipazione che troveranno forma nel decennio successivo, attraverso le rivendicazioni dei movimenti giovanili e femministi, il diario di Claudia ci mostra l’emergere di alcune tensioni soggettive e di un bisogno di riordinare pensieri e ossessioni e di mettere in discussione in modo più o meno implicito comportamenti e valori, introducendo un meccanismo desiderante diverso. Se nei suoi sogni immagina di essere la moglie di un noto attore, questo in realtà non le basta. Desidera contestualmente anche essere celebre a sua volta, essere vista. Non si relega del tutto a un ruolo subordinato, in linea con quel bisogno di visibilità che sarà il tratto comune di una generazione (che cresce nel seno della spettacolarizzazione della vita quotidiana22) e con le istanze che contrassegneranno la storia delle donne nel nostro Paese e non solo.
4 Conclusioni
Il diario di una giovane donna degli anni Cinquanta è stato osservato in questo contributo come uno strumento nel quale si incrociano tendenze memoriali, produttive e riflessive. Se è vero che il processo di scrittura diaristica è inseparabile dalla comprensione del contesto di chi scrive, il diario qui analizzato convoca la storia del consumo, la produttività spettatoriale e le articolazioni di genere. Nel raccontare vita quotidiana e processi di formazione identitaria, la scrittura personale ci è sembrata registro di un nuovo consumo culturale, luogo di riverbero di modelli familiari e sociali, vaglio di pratiche sociali, momento di analisi dei valori egemonici e delle norme comportamentali, riflessione sul femminile, luogo di desideri e di prescrizioni, di parole e di silenzi. Al confine tra questioni pubbliche e private, la scrittura diaristica favorisce così una “storia intima” dei fenomeni culturali, che valorizza l’“agency” individuale nell’analisi e nell’interpretazione di processi storici più ampi (Brezzi e Gabrielli 2022: 9), in grado di aprire nuove prospettive di ricerca e ampliare l’analisi delle culture (cinematografiche e non solo) del nostro Paese.
In questo senso, i diari privati, insieme ad altre forme di scrittura personale, sono divenuti fonti di ricerca in ambiti diversi, dalla letteratura alla storia, dalla sociologia alla psicologia (Hyers 2018: 11), quali luoghi che recano testimonianza in prima persona di esperienze ed eventi storici. Questi sono intesi nel dibattito contemporaneo come elementi di ricerca indispensabili nell’ambito della storia sociale e culturale, nella costruzione di una storia “from below”, “behind whose individual voices the historian could perceive the experience of the mass” (Summerfield 2018: 22). Se il diario di Claudia, allora, può essere letto come testimonianza dal basso nel contesto dell’Italia del dopoguerra, in grado di illuminare il rapporto multiforme e centrale tra cinema e identità spettatoriale, questo assume una certa importanza in una prospettiva di genere, illuminando il rapporto fra adeguamento e resistenza a determinati modelli identitari. La scrittura e i processi memoriali e autobiografici possono essere in questa direzione anche pratiche politiche, oltre che fonti ricche di spunti per le prospettive di critica femminista, laddove le scriventi si pongono in primo luogo come soggetto (e non oggetto) di scrittura (Cosslet et al. 2000: 6): “The recovery of the past through personal testimony can have a political dimension depending on what is remembered and what is forgotten” (Cosslet et al. 2000: 5).
A lungo “the most overlooked and devalued form of writing in the fields of literary studies and history” (Rak 2009: 16), il diario appare insomma oggi come un dispositivo testuale prezioso, in grado di superare, più agilmente di altre pratiche di scrittura in prima persona, l’ideologia dominante e le concezioni dei generi, favorendo una riflessione mai finalizzata direttamente a un pubblico, né incanalata nelle forme del confronto sociale e relazionale, che consente l’affermazione di una visione anti–egemonica di un contesto. Testualità aperta e pratica in evoluzione, infatti, i diari non prevedono un destinatario, come avviene per esempio nella lettera, e nemmeno solitamente ipotizzano un lettore, come per esempio invece si verifica nei memoriali e nelle autobiografie. Gli autori e le autrici in essi si presentano come soggetti, orientano attorno al proprio centro tutti i rapporti personali, si relazionano a un sé futuro al quale consegnare proiezioni e desideri. La scrittura contribuisce all’affermazione di una soggettività e alla legittimazione di una presa di parola: “Nel diario c’è solo un soggetto, lo scrivente: non si afferma che gli altri non lo sono, ma di fatto non possono apparire tali perché non hanno voce propria” (Lonzi 1978: 8).
La scrittura diaristica prevede però ugualmente una modalità di address, che invece di orientarsi verso un destinatario specifico tende verso una soggettività futura, sia essa riconducibile a un future self, “the one who will reread them (perhaps immediately, as an editor)” o a un incerto lettore del futuro, “whether that person is the diarist or someone else” (Rak 2009: 23–24). Mi pare che nel diario di Claudia tale procedimento proiettivo sia particolarmente presente. La frammentazione del racconto in prima persona, la combinazione di materiali diversi e l’inserimento di generi eterogenei (la poesia, il racconto in prosa, la cronaca diaristica) contrastano infatti la linearità cronologica della datazione, facendo del suo diario una superficie personale e creativa che sfugge dalla normatività; l’autrice inventa una forma sempre in evoluzione, che risponde unicamente alle logiche del suo universo privato.23
Al punto che il diario diventa, per lei, anche uno strumento di esercizio letterario, in cui annotare poesie e racconti e immaginare, in termini più ampi, l’apertura verso un’esperienza di scrittura diversa, che esuli dalla forma diaristica, sconfinando magari verso i terreni della letteratura. In esso, insomma, Claudia sperimenta anche una forma di soggettività autoriale. Il manufatto si trasforma tra le mani del soggetto che lo manipola, mentre nell’esercizio della scrittura si articola anche una dimensione personale desiderante, che fra le pagine e nelle pagine si autorappresenta, si autodetermina, si definisce e si immagina al di là dei confini del diario stesso. “Uno di questi giorni”, conclude l’autrice in una delle sue cronache, “scriverò qui sopra un bel romanzo chissà!”.
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“As Philippe Lejeune himself has observed at various times, the study of diary has been met with indifference, incomprehension, and hostility. Historians have regarded diaries either as transparent source documents or personal records which should be taken with a grain of academic salt. […] the diary is regarded as a minor, non–literary, feminized form which contains its own narcissistic pathology” (Rak 2009: 22–23). Si veda anche Brezzi e Gabrielli (2022).↩︎
La scrittura in prima persona e le forme autobiografiche rivestono un ruolo importante per la storia delle donne: “It is the act of speaking or writing, where personal experiences are given voice through their incorporation into larger cultural scripts, that constitutes the self” (Barclay e Richardson 2015: 3). Si veda anche Coslett et al. (2000), Gamberi (2017). Per quanto riguarda il contesto italiano, cfr. fra gli altri Passerini (1998), Sapegno (2011), Perrotta et al. (2017), Betri e Chiarito (2002).↩︎
Desidero ringraziare Cristina Cangi, Natalia Cangi e tutte le persone incontrate all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano per la generosa disponibilità.↩︎
Sono conservati dodici manufatti, che complessivamente coprono un arco cronologico che va dal 30 maggio 1956 al 24 marzo 1971.↩︎
Nell’ambito della presente ricerca, i diari di Claudia sono stati comparati con una serie di manufatti privati realizzati da giovani spettatrici e spettatori italiani negli anni del secondo dopoguerra e conservati presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Fra i manufatti consultati, si è scelto di concentrarsi sui testi disponibili redatti da autrici adolescenti (un corpus che sarebbe anche auspicabile ampliare nel corso di ricerche successive), omogenei per quanto riguarda la composizione anagrafica, il genere dei soggetti scriventi e il periodo storico di stesura (gli anni a cavallo del boom economico). Nei diari presi in esame, si è osservata un’analoga attenzione per il cinema, in grado di accomunare soggetti di estrazione sociale eterogenea e appartenenti a realtà geografiche fra loro diverse. Nell’attribuire valore al momento cinematografico e all’esperienza in sala, le autrici dei diari osservati guardano al film come spazio di evasione dalle norme sociali, mentre il confronto con personaggi e motivi narrativi offre l’accesso a modelli affrancati dai vincoli normativi di un contesto culturale e relazionale (la scuola, la famiglia, le relazioni sociali), talvolta percepito dalle giovani come opprimente.↩︎
Le citazioni del diario all’interno del presente contribuito fanno riferimento alla cronaca riportata dall’autrice nelle seguenti date: 17 giugno 1956; 2–9–10–12–22–31 gennaio 1957; 2 e 10 febbraio 1957.↩︎
Nel 1957 i biglietti di cinema venduti sono oltre 758 milioni. Si veda anche Mosconi (2006: 250): “Si consideri che sempre nel 1955 i biglietti comprati da ciascun italiano per il cinema sono 16,8”. Cfr. Annuario “Lo spettacolo in Italia”, Società Italiana Autori ed Editori, Roma per gli anni 1955 e 1957.↩︎
Nel 1957 la media di biglietti comprati da ogni italiano per il cinema è di 15,3. Cfr. Annuario “Lo spettacolo in Italia”, Società Italiana Autori ed Editori, Roma per l’anno 1957.↩︎
Dimensione maniacale ben presente in alcune pratiche di scrittura personale che archiviano l’esperienza cinematografica in una sorta di “«database» ante litteram” (Sainati 2019: 320).↩︎
Da questo punto di vista il suo scritto racconta anche del cambiamento della percezione del tempo libero che nella società del boom si stava verificando. Al contempo, la vacanza alla metà degli anni Cinquanta rimane ancora un sogno per la maggior parte della popolazione, soprattutto se intesa come periodo prolungato fuori casa (Zinni 2016: 130).↩︎
La valorizzazione della vacanza permea d’altra parte, negli stessi anni, la scrittura diaristica degli italiani, mentre le cartoline aiutano a fissarne il ricordo (Gabrielli 2011).↩︎
A partire dai primi decenni del Novecento, gli scrapbooks erano diffusi tra i fan e le fan come “one of the most popular ways in which fans in the first four decades of the twentieth century collected and creatively explored their interests in early movie stars and films […] Scrapbooks pull together articles, photos and brightly colored cover portraits that moviegoers clipped from the fan magazines, combined with newspaper clips and theater programs; they might be annotated by the scrapbook maker with lists of favorite performers, drawings and embellishments” Click e Scott (2017: 31). Sull’analisi degli scrapbook cinematografici rimando anche a Comand e Mariani (2018: 201–216).↩︎
Pensiamo che la produzione della stampa popolare vede in questi anni una crescita esponenziale: “[…] cresce a dismisura la vendita di rotocalchi e di fumetti (per questi ultimi si passa da due milioni di copie all’anno nel 1950 ai quattro milioni nel 1955, fino ad arrivare ai sei milioni alla metà degli anni ’60)” (Casetti e Fanchi 2002: 136).↩︎
Si tratta in particolare di Oreste Del Buono. 17–01–1957. “L’americana sfida la francese”. Oggi, 19–20, conservato fra le pagine 17 e 18 del gennaio 1957.↩︎
L’album di ritagli sarebbe annoverabile fra i “tertiary texts” del fandom (Vitella 2015: 51–64).↩︎
“L’impatto del cinema nel vissuto dei giovani dei primi anni ’60 è legato soprattutto alla convinzione che il cinema (o un certo tipo di cinema, un certo tipo di prodotti e di esperienza di consumo) costituisca una voce fuori dal coro, nuova e autonoma” (Fanchi 2001: 349).↩︎
“[…] è soprattutto il ricordo e l’esperienza della censura a far emergere, per contrasto, la vocazione intimamente eversiva del cinema (Fanchi 2001: 350).↩︎
Sui rapporti tra cinema e cultura cattolica si veda Subini (2021), Mosconi (2018).↩︎
“Ogni discorso che istituisce i confini del corpo lavora al fine di insediare e naturalizzare alcuni tabù relativi ai limiti, alle posture e ai modi di scambio appropriati, che definiscono ciò che costituisce i corpi” (Butler 2017: 201 e sgg).↩︎
“The diary form has been an important means of expression for women from many cultural, economic, and ethnic backgrounds” (Rak, 2009: 23). Sebbene non sia una pratica unicamente femminile, la scrittura diaristica può però costituire luogo di risonanza di individualità marginalizzate o oppresse, essendo in grado di illuminare realtà culturali diverse. In particolare, Penny Summerfield cita gli studi di Harriet Blodgett e Dorothy Sheridan (Summerfield 2019: 51).↩︎
La scrittura in prima persona e le forme autobiografiche rivestono un ruolo importante per la storia delle donne: “It is the act of speaking or writing, where personal experiences are given voice through their incorporation into larger cultural scripts, that constitutes the self” (Barclay e Richardson 2015: 3). Si veda anche Coslett et al. (2000), Gamberi (2017).↩︎
“Il gusto per la celebrità, il successo, l’attenzione per l’aspetto fisico, per l’apparenza e il vestiario (ha inizio l’era della moda giovanile) corrispondono a un fenomeno preciso del decennio ‘50–60 che possiamo chiamare la spettacolarizzazione della vita quotidiana, composta di molteplici facce. Evitare di essere notati, di ’essere sulla bocca di tutti’ faceva parte fino a pochi anni prima della buona educazione e della riservatezza delle famiglie italiane, era una preoccupazione dell’uomo per bene e della donna per bene, medi, rispettabili. Mentre con la diffusione della stampa a rotocalco e poi della televisione, l’idea di vedere pubblicata sui giornali la propria fotografia, la propria faccia, è una cosa che tutti desiderano” (Piccone Stella 1998: 164).↩︎
Facendo pensare a una pratica, quella dell’anacronismo, che caratterizzerà ad esempio il celebre diario di Carla Lonzi, Taci anzi parla, in cui l’autrice altera deliberatamente il canone della forma diario (Lonzi 1978). Cfr. anche Zapperi (2015: 69), Cucchi (2021: 105).↩︎