Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.25 (2024), 211–213
ISSN 2280-9481

Suturare la precarietà. Rossella Catanese, Bill Morrison, “Decasia: The State of Decay”. L’alchimia della rovina. DSL Press/Mimesis, Milano/Udine 2023

Denis LottiUniversity of Verona (Italy)

Pubblicato: 2024-08-01

Lungo l’itinerario tra le rovine che caratterizza Decasia: The State of Decay (Bill Morrison, 2002), a un tratto incontriamo un boxeur impegnato a prendere a pugni una massa informe, ossia un blob che a fine sequenza pare inghiottire impietosamente la figura dell’atleta. Si assiste cioè a un imprevisto destino drammatico per il pugile, ineluttabile nonostante l’affannarsi dell’uomo infine sopraffatto da quella che diviene una lotta impari. La visione del frammento citato, che si accompagna ad altre metamorfosi e mostrificazioni originate dalla decomposizione di antiche pellicole, lascia in dono allo spettatore un vago, quanto irrazionale, senso di sgomento. La sequenza del boxeur diviene, almeno per chi scrive, un efficace emblema dell’intero progetto Decasia: testimonianza filmica di un passato ignoto, che con il suo dipanarsi genera uno stato di perturbazione continuo. Il brano cristallizzato diviene parte di un più vasto moto dalla tendenza circolare, caratteristica strutturale dell’opera di montaggio firmata da Morrison. Infatti il film assembla un catalogo di immagini in movimento dell’epoca del muto, alterate dal decadimento fisico-chimico, mettendole in corrispondenza con la partitura musicale composta per l’occasione da Michael Gordon (pp. 41-46), il cui tema portante è, appunto, la decadenza. La rovina mostrata è, innanzitutto, quella del nitrato, ma ben presto, sulle ali della metafora, Decasia evoca il destino mortifero che riguarda l’uomo così come le sue creazioni. Il found footage di Morrison cita, riadattandolo all’uopo, il titolo del disneyano Fantasia (1940), del quale riprende l’idea di una stretta relazione tra musica e immagini (cfr. Marta Braun, Prefazione, p. 15). Il processo produttivo si fonda sul ritrovamento di nitrati compromessi, destinati perciò a scomparire, e sulla successiva sutura di frammenti che avviene secondo insiemi ben precisi. Nella fattispecie Decasia è distinto in quattro capitoli: Creazione; Civilizzazione; Enigma; Disintegrazione e Rinascita (p. 64). L’esperienza del film è basata sulla rianimazione concettuale e simbolica di porzioni di pellicole “orfane”, ossia senza più un’origine nota, ma fissate poco prima di un’ulteriore – quanto probabile – dissolvenza definitiva delle immagini medesime, le quali, a detta del regista, oggi potrebbero non esistere più (cfr. Intervista a Bill Morrison, a cura di Sonia Colavita, p. 102). Sulla scorta ideale dell’esperimento del dottor Frankenstein, Morrison dà luce a un collage di brani di origine eterogenea (p. 35), formando un corpo altro da sé: un corpo suturato che viene rinnovato finanche nel senso dall’accostamento di frame che possono riguardare via via paesaggi, luoghi di lavoro, persone che svolgono azioni più o meno riconoscibili. Frammenti, dunque, che non avevano alcuna reciproca relazione in origine. Come accennato, quest’accostamento – e l’“effetto Kulesov” che ne deriva – contribuisce a traslare la visione dei fotogrammi ricuciti sul piano della metafora. Le suggestioni offerte dalla sinergia tra immagini e una musica martellante suggeriscono inevitabili riflessioni sul destino che riguarda gli esseri umani, che si riflette sul paesaggio di desolazione e decadenza. Decasia diviene, dunque, un esplicito catalogo della rovina e della morte al lavoro utilizzando immagini in movimento sfigurate e ormai irrecuperabili, almeno nella loro forma originaria.

Nel suo volume monografico dedicato a Decasia, il primo di una collana centrata sul cinema sperimentale (EX Series. Excess, Exergue, Experiment), Rossella Catanese costruisce in modo esemplare un percorso di risemantizzazione del film di Morrison, nato dall’unione di materiali dall’origine pressoché ignota e alla quale è difficile, se non impossibile, risalire. Decasia mettendo insieme lacerti di pellicola ritrovati, esprime un passato che nel nuovo insieme filmico viene nuovamente fissato, congelato; concetto quest’ultimo che ritroviamo in un successivo documentario di Morrison dedicato al ritrovamento di nitrati sepolti nel permafrost sul quale è fondata la città canadese Dawson City (Dawson City: Frozen Time, 2016): un caso letterale di archeologia del cinema. Anche l’operazione che Morrison compie per costruire Decasia è parente stretta dello scavo archeologico. Un processo cui Catanese dedica un intero capitolo (pp. 47-57) che trova nuovo senso nella dialettica fondata sull’estetica della rovina – sorta di memento mori –, cui si sommano il recupero della pellicola come esperienza artistica e la pratica del re-enactment (p. 55). Il destino mortale dell’artefatto (nonostante ci si affanni a conservarlo o ricostruirlo) in Decasia devia in un percorso che presto svela una vocazione ricreativa, imperniata attorno all’estetica della fruizione e della rovina (p. 64), caratteristica di un progetto nato per suturare due millenni (il film è concepito nel 1999 e terminato nel 2002), nelle intenzioni di Morrison, che infine consegna il proprio lavoro alle libere riflessioni e suggestioni di studiosi e del pubblico (p. 105). Nonché alle rilocazioni più disparate: a quanto risulta al regista, Decasia è, infatti, proiettato “nei locali notturni accompagnato da musica dance” o a corredo di brani musicali pubblicati da alcune band su YouTube (p. 103).

In sintesi, se nel primo capitolo Catanese riordina la genesi del film dando conto delle esperienze pregresse di Morrison nella sperimentazione cinematografica (ad esempio The Film of Her, 1996, pp. 31-33), nel successivo l’autrice propone un confronto metodologico che ibrida le teorie del cinema, dando rilievo all’archeologia dei media quale strumento che porta alle citate pratiche di riappropriazione e di sfruttamento, basando la speculazione sul piano concettuale nonché simbolico di Decasia. Il terzo capitolo, partendo dalla selezione delle sequenze del film, analizza la specificità mediale della pellicola, intesa come dispositivo materico, e il conseguente, inevitabile, decadimento chimico-fisico. La parte conclusiva è dedicata al found footage nell’ambito della produzione filmica sperimentale e alle variabili del riuso delle pellicole di concerto con la più antica metafora delle rovine, intrecciate al concetto di memoria e alla pratica dell’archivio in modo quanto mai stimolante.
A mo’ di chiosa si torna al boxeur, perché è proprio da quella sequenza che è sorto Decasia, così come conferma lo stesso Morrison: “trovare il filmato del pugile è stato per me un momento fondamentale per capire cosa potesse essere il film” (p. 104), ed è in questa lotta leopardiana contro la forza incontrovertibile della Natura, già destinata a sfumare nell’oblio, che si può afferrare quell’attimo di eternità che Decasia sa esprimere.