Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.25 (2024), 227–229
ISSN 2280-9481

“Attanti” intermediali. Jennifer Malvezzi, Flora Pitrolo (a cura di), Taroni-Cividin. Performance, Video, Expanded Cinema (1977–1984), Silvana Editoriale, Milano 2023

Carolina GuasinaIndipendent Researcher (Italy)

Pubblicato: 2024-08-01

Il volume bilingue (ita/eng) Taroni-Cividin. Performance, Video, Expanded Cinema (1977–1984), curato da Jennifer Malvezzi e Flora Pitrolo, rappresenta il primo tentativo di sistematizzazione dell’operato del duo artistico milanese composto da Roberto Taroni e Luisa Cividin: coppia di artisti, performer, registi o, come Taroni stesso riferisce, “attanti”, la cui attività congiunta si colloca tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli Ottanta, quando il duo si divise.

Il testo nasce da un progetto ideato da Malvezzi e Pitrolo e coordinato da Simone Venturini (DIUM Università degli Studi di Udine) che è risultato tra i vincitori della X edizione di Italian Council forte anche del partenariato di eccellenza composto da istituzioni europee e nordamericane: l’Eye Filmmuseum di Amsterdam, il Franklin Furnace Archive (New York), la LADA Live Art Development Agency di Londra, Il Museo del Novecento di Milano, il FilmForum organizzato dall’Università di Udine, e altre.

Il progetto si basa sull’archivio di Taroni-Cividin conservato da Roberto Taroni a Milano, il cui recupero si è tradotto nella digitalizzazione di fotografie scattate durante le operazioni del duo da parte di importanti autori (tra i quali Fabrizio Garghetti, Silvia Lelli, Gianni Melotti, Charles Picq) e nella preservazione e accesso digitale del corpus filmico Taroni-Cividin da parte del laboratorio “La Camera Ottica” https://dium.uniud.it/it/dium/locali-e-strutture/laboratori/la-camera-ottica/ dell’ateneo di Udine.

Il volume si fonda su un progetto scientifico e editoriale stratificato e arricchito da una corposa base di materiali e documenti d’archivio e di nuovi contributi. Esso è composto da tre parti: la prima, che segue l’introduzione del coordinatore del progetto e di Malvezzi e Pitrolo, è intitolata New Studies/WritiNuovi studi. Al suo interno, gli interventi delle due curatrici e di Caterina Iaquinta, i cui obiettivi riguardano l’individuazione delle tre principali direttrici interpretative dell’opera di Taroni-Cividin, dal teatro mancato, al dispositivo cinematografico espanso, all’arte contemporanea tout court. Queste tre linee riprendono e decisamente superano i punti di vista della critica che ha tentato in quegli anni di trovare lo specifico delle attività artistiche di Taroni-Cividin, spesso sfiorandone la natura senza coglierne il centro. Alle interpretazioni di allora si sostituiscono qui nuovi sguardi e nuove prospettive epistemologiche, allineate alle più recenti rielaborazioni teorico-scientifiche.

La seconda parte, Writings/Scritture, recupera i testi teorici scritti da Taroni-Cividin a cavallo tra le due decadi, nei quali si scorgono linee programmatiche, intenti e sfumature di senso, con scorci sulla situazione culturale nella quale il duo ha operato. Questi testi fondamentali aiutano a ricostruire contesti, poetiche e modus operandi, così come le fotografie e i disegni preparatori delle performance, anch’essi inclusi nel ricco apparto iconografico che accompagna i testi e che diviene testo esso stesso. In questa direzione, la sezione Appendices/Apparati, curata da Giulia Govi Cavani, fornisce gli strumenti per comprendere e collocare nella storia il lavoro del duo, grazie a una lunga e precisa lista commentata di performance, film, video e premi della coppia.

La terza parte, intitolata Archive/Archivio, è costituita dai materiali provenienti da riviste e volumi del passato (articoli, interviste, saggi, ecc.). Un’intervista al duo realizzata dal critico teatrale Gianni Manzella alla fine degli anni Settanta, un testo orientativo sulle loro performance di Rossella Bonfiglioli, un approfondimento del critico d’arte Giorgio Verzotti e un corposo saggio di estetica di Georg Schwarzbauer (fino ad oggi inedito), forniscono al lettore la possibilità di conoscere le posizioni interpretative e i dibattitti culturali che hanno tentato di decifrare la natura intermediale e sfuggente del lavoro del duo.

L’operatività di Taroni e Cividin non si caratterizza per la chiarezza e intellegibilità d’intenti e di pratiche. A dispetto del titolo di una serie di performance chiamate As Diamond Clearness/Come chiarità di diamante (1981), la loro settennale carriera consta di continui Décalage (1981, titolo dell’ultimo loro ciclo di performance), ossia spostamenti, discordanze, nello spazio e nel tempo: come hanno spesso sostenuto loro stessi, il mancare il teatro (p. 29), l’uso promiscuo dei mezzi di produzione d’immagine, le manipolazioni delle immagini stesse e della loro proiezione – il ralenti, il time-lapse, il delay nella trasmissione video, la frammentazione del montaggio filmico, la proiezione su schermi di ghiaccio che si deformano sciogliendosi (Quasi allo stato di quiete, 1978) o su schermi che poi bruciano, scomparendo (As Diamond Clearness III del 1981, Tragica Sequenza del 1979), o sul mediante il corpo (Minima Ubiqua, 1979, Real Thing, 1979) – inverano la precisa volontà di compiere “un attentato alla comunicazione, basato sull’atto di inibire la percezione”. (p. 92)

L’avvicinamento laterale al teatro, o meglio – come sostiene Pitrolo – l’uso del teatro come metafora, come mezzo per ripensare il proprio approccio alle arti visive, consente a Taroni e Cividin di stabilire un clima di tensioni dialettiche. Il superamento o azzeramento della teatralità nell’approccio alla scena presente nelle performance colloca la loro operatività artistica in una congerie di sperimentazioni intermediali, espressione della condizione postmoderna e post-avanguardistica degli anni Settanta e Ottanta, nella quale performance art, videoarte e cinema espanso divengono sfaccettature di una comune tensione alla ricerca.

Se gli attori divengono attanti, ossia media (strumenti) che consentono lo svolgersi dell’evento nel dispositivo scenico, in antitesi rispetto alla drammatizzazione e all’epica del teatro classico, anche i vari media in uso durante le performance divengono dispositivi di una rappresentazione “paradigma dell’ultima forma di avanguardia possibile” (p. 88). Come spiega Malvezzi, in merito agli aspetti più cinematografici del corpus, le pratiche del duo sono esempi di Expanded Cinema, ossia dell’utilizzo promiscuo e contemporaneo di più media audiovisivi con intento anti-didattico, foriero di instabilità e di una nuova condizione di sensibilità nello spettatore. Per media non si intendono solamente gli strumenti fisici, come pellicola, nastri, schermi, oggetti in scena, ma soprattutto l’acquisizione di un modus operandi che modifica la percezione temporale e spaziale del pubblico: le operazioni di ralenti, time-lapse, le proiezioni differite, sovrapposte, ripetute (l’autocitazione è elemento cardine), così come l’uso del found footage – i mauvais movies di Man Ray rimessi in scena in Tragica Sequenza, Intervallo al Limehouse II (1979) e in Quasi allo stato di quiete / Viaggio per rimemorazione, o dei propri home movies privati - producono effetti destrutturanti, sia del tempo che dello spazio, e creano nuovi luoghi di senso.

La loro pratica intermediale comporta quindi l’eccesso: da un lato l’eccedenza dai bordi della scena e del quadro (“L’importante è andare ai bordi” p. 213), dall’altro l’accumulo, l’inesorabile ripetizione, grazie alla quale si è in grado di percepire il parziale, la rarefazione e, come sostiene Schwarzbauer, “la ripetizione di quanto è già stato spesso ripetuto, nell’atto del ripetere giunge a un’epifania del nuovo” (p. 224).