Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.25 (2024), 83–98
ISSN 2280-9481

Alla ricerca di un volto per il crimine nell’Italia anni Settanta. Echi intermediali e transnazionali nel giallo televisivo di Piero Chiara: I giovedì della signora Giulia (1970)

Paola ValentiniUniversity of Turin (Italy)

Paola Valentini is Full Professor of Film Studies and Media Studies at University of Turin (IT). Her researches are focused both on television (leading attention to historic, cultural and philological analysis of television texts) and on cinema, particularly on Italian cinema and sound film and interactions between cinema, TV, radio, discography, new media. Her field of research is popular genres (expecially crime and sci-fi) in cinema and TV production and intermediality between 30s and 70s. She wrote Il suono nel cinema. Storia, teoria e tecniche (2006), Presenze sonore. Il passaggio al cinema sonoro in Italia tra cinema e radio (2007), Televisione e gioco. Quiz e società italiana (2013), Divi allo specchio. Intrecci tra televisione e cinema nell’Italia del dopoguerra (2021). She edited Giallo italiano. Il giallo e il cinema in Italia (1910-1972) / ‘Giallo’ and the Cinema in Italy (1910-1972) with Luca Mazzei (special issue of «Bianco e nero», 2017) and Cinema italiano: tecniche e pratiche (special issue of «Quaderni del CSCI. Rivista annuale di cinema italiano», 2017) with Federico Pierotti and Federico Vitella.

Ricevuto: 2024-05-07 – Versione revisionata: 2024-06-10 – Accettato: 2024-06-12 – Pubblicato: 2024-08-01

Seeking a Face for Crime in 1970s Italy. Intermedia and Transnational Echoes in Piero Chiara’s TV Crime: I giovedì della signora Giulia (1970)

Abstract

Focusing in particular on the TV crime I giovedì della signora Giulia (1970, 5 episodes) based on the novel by Piero Chiara (published in 1970, close to the television version, but in 28 episodes as early as 1962 in a Swiss daily newspaper), the essay will examine the dense network of relations and cross-references of this Chiara’s work on TV with publishing and cinema, with news and information (starting with the presence of the famous detective Tom Ponzi in the cast). It will be shown not only on a thematic level but also on a visual level and in its ideational and productive dimension, how once again, in this glimpse of the new decade, the detective story (especially on television) is capable of sedimenting and becoming a filter of cultural and visual anxieties and challenges.

Keyword: Italian TV; TV Crime; Piero Chiara; Intermediality; Detective.

Ringraziamenti

Questo articolo è il prodotto delle ricerche condotte nell’ambito del progetto PRIN 2020 “Atlante del giallo. Storia dei media e cultura popolare in Italia (1954-2020)”, finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Si ringraziano sentitamente il personale della Biblioteca “Luigi Chiarini” del CSC, gli eredi di Piero Chiara, la curatrice dell’Archivio Piero Chiara di Luino, dott. Tiziana Zanetti, e Franca Boldrini per la disponibilità e il supporto dato nelle ricerche.

Piero Chiara vanta una lunga frequentazione mediale, che lo vede nel corso degli anni Settanta e Ottanta al centro di una fitta rete di intrecci intermediali. È oggetto di riflessione la sua dimestichezza anche con la scrittura della sceneggiatura o il suo ruolo in un certo cinema e su una distintiva composizione dell’uomo italiano sullo schermo (Roncoroni e Gervasini 2008).

Tuttavia, la produzione televisiva rimane in grande parte trascurata e vista in una dimensione ancillare nei confronti del grande schermo: un’ipotesi contraddetta dallo stesso Piero Chiara che nel piccolo schermo televisivo vedeva piuttosto il luogo della assenza di distanza, di un’efficacia sul pubblico e forse anche di una verità che per prima colpiva la sua attenzione, fino a fare quasi della televisione “il mezzo migliore che si possa offrire al narratore” che lo mette “a diretto contatto con il pubblico ideale dei suoi lettori […] che ha quasi di fronte idealmente”1. Al di là della visione apparentemente un po’ naïf agli occhi odierni, non c’è dubbio che questa evocata comunicazione, diretta e così allargata, che ispira Chiara, mostri un autore al centro di quell’attenzione tardiva ma finale nei confronti del piccolo schermo ampiamente condivisa da molti intellettuali nei primi anni Settanta, catturati dalle sue potenzialità creative e anche politiche. Tale sensibilità al medium elettronico sembra ridimensionare quella troppo scontata maggiore ispirazione nei confronti del cinema che – sempre nell’intervista del 1971 – per Chiara “è un mezzo che tutti i narratori più o meno hanno affrontato in questi anni e che ho affrontato anche io con buona disposizione d’animo”: un cauto coinvolgimento rispetto all’entusiastica adesione alla televisione che mostra la necessità di rovesciare una consolidata storiografia sui media con la sua perdurante scarsa attenzione tanto al ruolo centrale delle sperimentazioni televisive quanto poi in particolare al periodo considerato, gli anni Settanta, troppo spesso visti nell’ottica distorta dell’involuzione, della degenerazione o della transitorietà tra monopolio e televisioni commerciali2.

Soprattutto, non è stato sufficientemente messo in risalto il modo in cui la matrice di questi intensi scambi mediali è per Piero Chiara proprio il crimine e gli interrogativi che esso suscita. Il giallo è dispositivo intermediale di questa comunicazione diretta; è attraverso il mistero che si realizza quella circolazione di temi e figure che è in grado di incontrare e di creare un contatto con un lettore e telespettatore che sta attuando i primi passi in quella migrazione tra media che si imporrà definitivamente con l’era dell’abbondanza a partire dal decennio successivo. Perdura l’impressione che nella storiografia l’elemento giallo-poliziesco sfugga all’analisi o venga tollerato come ospite talvolta poco gradito invece che come leva centrale, a favore di altri aspetti, che corrono talvolta il rischio di suonare retrivi, ancorati a un po’ sterili riflessioni sul paesaggio e sul ritratto di provincia, sull’erotismo e sul grottesco, sull’autobiografismo e sulla crisi del mondo borghese.

Accantonata viceversa certa presa di distanza dal giallo, talvolta operata da Chiara stesso e certo non rara tra gli autori aperti ai generi, I giovedì della signora Giulia (1970) messo in onda nel 1970 in cinque puntate, nella sua genesi e nella rete di rimandi che svela, nonché nell’(utopica) costruzione di questa relazione interattiva con pubblico, ne è forse l’esempio più eclatante,

Io ho fatto una piccola parte [d’attore] – e più piccola ne I giovedì della signora Giulia un pochino più larga in Venga a prendere il caffè… da noi – perché ero lì […]. Il regista non posso neanche sognare di farlo, ma mi incuriosisce il lavoro e sto alle spalle del regista, il quale per sua benevolenza magari mi interroga o mi chiede un parere e mi pare di dare un po’ una mano alla nascita del racconto cinematografico. E quando mi sento proporre di inserirmi, per quella decimale di ambizione che è in ogni uomo vero accetto, così come forse i pittori di una volta in un angolo, fra i donatori o gli astanti del dipinto, mettevano anche la propria faccia […] e allora l’artigiano, vero, che avendo messo in piedi tutta questa costruzione, vuole anche mettere il suo nome sulla pietra, come facevano gli antichi magistri, io metto, così, questa specie di firma in un angolo che è la mia apparizione cauta, modesta3.

Protagonista seppur rapido in due episodi (nei panni del Pretore) di I giovedì della signora Giulia, dall’angolo del piccolo schermo Piero Chiara non firma solo le immagini che scorrono sul rettangolo schermico ma guarda da creatore negli occhi il suo pubblico. Si fa traccia mediale e metadiscorsiva e punto d’aggancio delle migrazioni del pubblico, che da autore autenticamente ‘popolare’ interroga e chiama in causa con una parziale rottura della già fragile cornice cognitiva della narrazione televisiva di detection (e non solo), mostrando la potenziale unframedness (Riva et al. 2003, Pinotti 2020) delle immagini televisive.

Il contributo prenderà dunque in esame la centralità del frame del giallo nella produzione iniziale di Chiara e nel clima culturale del periodo, mostrando come lungi dal trattarsi di pura materia di logiche adattive e transcodificative, I giovedì della signora Giulia si pone al centro di una fitta rete di intrecci mediali, rivelando anche uno spaccato dell’industria creativa e del crogiolo sociale e culturale del periodo. Lavorare sul giallo nel passaggio tra gli anni Sessanta e Settanta si offre come un vero e proprio laboratorio in cui i testi televisivi, in particolare, obbligano ad uscire da un’asfittica logica autoriale e da mere considerazioni in termini di adattamento, per mostrare processi creativi singolari e anche specifici luoghi di riscrittura e di rilettura della realtà, prime tappe di uscita dalla pura logica dell’enigma per sondare il racconto poliziesco come “una sorta di strumento suppletivo della memoria e del disvelamento delle disfunzioni del sistema politico e sociale” (Milanesi 2009: 16).

1 Il laboratorio del giallo: risonanze intermediali e transnazionali negli esordi di Piero Chiara

Se ci fosse qualche dubbio che il giallo si lega a Piero Chiara in maniera tutt’altro che fortuita e occasionale, andrebbe ricordato che I giovedì della signora Giulia si colloca tra le prime produzioni in prosa di Piero Chiara, nonostante la fortunata pubblicazione per Mondadori avvenga solo nel 1970. Appare infatti in ventotto puntate su Il Corriere del Ticino tra il 2 febbraio e il 23 marzo 1962, dove l’autore si firma con lo pseudonimo di Nik Inghirami.

Non si tratta di un’opera spuria, come talvolta si riscontra nella critica, né solo dettata da logiche di convenienza. Chiara è un poeta apprezzato, un intellettuale affermato, un critico e un collaboratore riconosciuto di una serie di quotidiani in particolare ticinesi – Il Giornale del popolo di Lugano, Il Corriere del Ticino, Illustrazione ticinese, Libera stampa e altri – che documentano la sua ricorrente presenza nella vita culturale svizzera, che offrono suoi interventi firmati per esteso certo non divulgativi, sulle pagine di critica letteraria e di arte e spettacolo. Opta per lo pseudonimo Inghirami per diffusa consuetudine del tempo, tra l’eredità dei letterati esuli (Paganini 2004) e la prassi della letteratura di genere, ma non per questo senza convinzione o in modo estemporaneo.

Innanzitutto, come Federico Roncoroni, che a lungo affiancò Chiara nella sua attività, ha ricostruito sulla base di una serie di documenti inediti, custoditi nel proprio archivio privato, Chiara lavora simultaneamente in quello scorcio di fine anni Sessanta su più opere il cui fil rouge è proprio il giallo: oltre alle diverse redazioni di I giovedì della signora Giulia, si dedica a un proseguimento delle avventure del commissario Sciancalepre, Due ipotesi per la scomparsa del prof. Tagliaferri, alla prima stesura di Gli assassini sono in aula – base per il successivo Saluti notturni da Passo della Cisa (1987) –, fino alla vicenda di contrabbando narrata nel dattiloscritto La farina del diavolo 4.

Soprattutto, la definizione data da Chiara a questo tipo di scritti, quali canovacci o pre-sceneggiature, non è affatto sminuente; non solo il mistero è luogo centrale di ricerca sulla scrittura, nell’opera di un autore “che dà l’impressione di credere ancora, senza alcun dubbio e la benché minima perplessità, al fatto narrativo” (Romagnoli 1968), ma primario è anche il dialogo intermediale e la destinazione audiovisiva quale elemento centrale del fare poetico, che lo vede ad esempio già nel 1957 esaltare l’opera di Mario Soldati “scrittore così pronto a sorprendere con l’inesauribile freschezza del suo ingegno, che si avvale del film o della televisione come del racconto o del romanzo per estrinsecare tutta la sostanza umana di cui è impregnato, e forse ossessionato” (Chiara 1958: 8). Giornalista, poi assiduo partecipe alle trasmissioni radiofoniche e infine anche innovatore della parola via etere, Chiara si era già cimentato nel 1961 nel raccontare a puntate Le confessioni di un italiano (1867) di Ippolito Nievo agli ascoltatori di RSI, soppiantando il modello della riduzione per radio con un’innovativa formula di novellizzazione. E all’origine di I giovedì della signora Giulia e delle altre prime produzioni vi è l’esplicito invito a collaborare che era stato rivolto allo scrittore nel settembre 1965 dalla Rai, per intercessione dell’amico Angelo Romanò, di recente approdato dal Terzo programma radiofonico alla direzione del Secondo canale televisivo (Roncoroni 2008: 34). Il giallo, dunque, è matrice dell’apertura a inedite modalità creative e a una decisa e continua volontà di cogliere la sfida dell’intermedialità, tra feuilleton e romanzo, tra soggetti radiofonici e produzioni televisive, in un autore che pur poteva già vantare grandi successi come Il piatto piange (1962) e La spartizione e un solido rapporto con un editore di spicco come Mondadori.

Infine, il giallo non è momento di divertissement irrelato ma la sua genesi si colloca al centro di un fitto dialogo e di una rete di influssi e relazioni, reali o in absentia. ‘All’italiana’ non va inteso certo come degenerazione ma nemmeno come à la manière de: segna innanzitutto un confronto su un terreno comune e su problematiche affini di un nutrito gruppo di scrittori e intellettuali. Non è dunque questione di strategie narrative (a partire dal finale irrisolto) o di manierismi (la collocazione puntuale in province o sfondi italiani inediti) quanto una rielaborazione comune di temi e motivi, alcuni profondamente radicati nelle tradizioni filosofiche e letterarie italiane (il pirandellismo innanzitutto), altri legati a una situazione storico sociale che è all’origine e si alimenta di immagini e narrazioni, in una parola all’Italia dei misteri, per fare il verso a una fortunata e pionieristica trasmissione televisiva di Enzo Biagi del 19705.

La dimensione ampia e collettiva di questo fenomeno meriterebbe un’indagine in profondità, ma si può almeno documentare il caso di Piero Chiara, con l’ampia rete di dialoghi e confronti reali o potenziali di cui si alimenta e che contribuiscono a rivitalizzare anche I giovedì della signora Giulia. Innanzitutto Gadda, con cui questo progetto ha legami diretti. Il rapporto di Piero Chiara con Gadda è in realtà ben più radicato che non solo quello del comune finale irrisolto – e per questo, secondo alcuni, all’italiana – che caratterizza i loro delitti. Infatti, nel 1957 Chiara di contro a “un’Italia [in cui] è mancata, e manca tutt’ora, una società da rappresentare ed a cui rivolgersi” (Chiara 1958: 2), esalta accanto a La ciociara (1957) di Alberto Moravia Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) di Gadda del quale loda proprio il suo essere, non solo a causa della lunga gestazione, “un’opera dunque che è vissuta con l’Autore, e si è andata lentamente riempiendo, sia dal punto di vista linguistico che da quello del racconto, della forza viva di un artista continuamente attivo sulla sua pagina e dentro di essa, come un fermento modificatore che mai non cessa di sviluppare o avviluppare forme e significati” (Chiara 1958: 4). Entusiasta evidentemente, prima ancora che dell’opera letteraria in sé, di quel “nesso vitale della sua narrazione” (Chiara 1958: 5), decide di intervistare per la RSI lo schivo scrittore e si reca a Roma a trovarlo6, grazie all’intercessione del comune amico Giovanni Battista Bernardi collaboratore come Chiara dell’avventura del radiofonico L’Approdo (1945-1977). Il trait d’ union è dunque fin da subito il mondo mediale e l’intervista, prima pubblicata poi trasmessa dalla radio svizzera, è l’occasione per entrare in meccanismi non solo di critica letteraria (come le considerazioni sulla lingua) ma anche in termini di pubblico e della possibilità di soddisfare con un secondo volume la voglia di proseguire il giallo e apportare “un arricchimento, uno sviluppo, una conclusione” al Pasticciaccio (Roncoroni 2011-12: 33).

Com'è bella Lugano, amici! lo vengo dal nostro inverno prezioso di miseria e di gelo, l’Italia, che ha soltanto il fiato della sua speranza a riscaldarla. […] Ora mi sembra, ed è, che su questa terra l’Italia prolunghi il proprio volto, si ricomponga e riposi nella vostra concordia, nella vostra umanità generosa e pudica. Ed io italiano mi ritrovo in una mia casa appena più accogliente, tra le stesse facce, le stesse voci fraterne (Pratolini 1963).

Così aveva scritto Vasco Pratolini nel gennaio 1947 agli “amici ticinesi” l’indomani della vincita con Cronache di poveri amanti (allora inedito) del neonato ticinese Premio Libera Stampa, promosso tra gli altri da Vittorio Sereni – “premio d’oltre confine che non è un premio ma un’apertura, un versante, un’aria, un motivo, una riproposta”7 – ben noto al caro amico Piero Chiara. Quel Sereni che tornava a inizio anni Sessanta nella Svizzera italiana, chiamato per una serie di trasmissioni radiofoniche, confermandola un punto di snodo centrale, ben oltre la fase del confino, nella cultura italiana e nel giallo.

Riprodotta sui giornali in occasione dell’edizione 1963 del premio, questa dichiarazione in forma di lettera riporta a un ulteriore elemento che meriterebbe ben altro approfondimento e che si offre come un ingrediente decisivo in questo ‘laboratorio del giallo’: il peso di quell’area italofona evidentemente ricca di libertà, di scambio, di più semplice esercizio di un diverso modo di intendere l’impegno letterario, di un dialogo mediale con un sistema editoriale e radiotelevisivo libero e sperimentale come quello elvetico della RSI (Valsangiacomo 2016). Un luogo in cui – forse non a caso – non è trascurabile che il giallo italiano abbia (ri)trovato la sua voce, la sua lingua e un vero territorio italiano: a pochi chilometri dalla Luino di Chiara, territorio già svizzero secondo lo stesso autore, il Canton Ticino era la patria eletta dal primo dopoguerra da Franco Cannarozzo (ossia il più noto Franco Enna), chiamato proprio da Piero Pellegrini, direttore di Libera Stampa (e insieme a Sereni e Gianfranco Contini ispiratore dell’omonimo premio), al quale aveva inviato un romanzo da pubblicare a puntate. Nella costruzione di una “ideale geografia dove si trovano tutti i luoghi immaginari nei qua­li si svolge la favola della vita”, come scriveva Piero Chiara di Luino in Il piatto piange, il giallo italiano di Enna nel clima ticinese aveva cercato le sue prime sedi editoriali (la pionieristica Tell di Lugano), la sua forte spinta alla sua diffusione sul territorio italiano (Enna fu direttore dell’ufficio stampa dei periodici Mondadori con un ruolo centrale accanto ad Alberto Tedeschi nella promozione della collana gialla), la sua osmosi con l’attività radiofonica e televisiva con RSI e TSI, e aveva finalmente trovato una delle sue più vive voci, con una produzione tra le più prolifiche, di forte dialogo coi media, di superamento dei confini del tradizionale giallo a enigma, di esplorazione del territorio italiano dell’immaginario, che sarebbe stato di impatto centrale sul giallo moderno – siciliano e non solo –, a partire dall’opera del conterraneo Andrea Camilleri.

Il giallo italiano (ri)nasce nel dopoguerra in un reale e ideale territorio di confine, centrale in virtù della sua spiccata natura intermediale e cruciale nella dimensione transnazionale per l’individuazione di una italianità non certo cartolinesca e turistica ma in grado di fare della Sicilia o di Roma, delle sponde dei laghi o di Milano un nuovo e credibile territorio dell’immaginario del mistero.

2 Un giallo per la televisione italiana: I giovedì della signora Giulia

La produzione di I giovedì della signora Giulia si colloca in un clima culturale in cui Chiara, dopo gli anni dell’esilio svizzero, respirava ancora in quei territori la italica “partecipazione, un’intima fusione con la passione della libertà e con la nostalgia della patria” (Chiara 1964) ed è dunque del tutto fuori luogo l’ipotesi di una improvvisazione o di una fase futilmente evasiva. È evidente a questo punto che la stessa definizione di pre-sceneggiatura usata dall’autore, piuttosto che il carattere imperfetto, rende il senso di un lavoro in progresso, in cui confrontarsi con le nuove sfide della scrittura. Quest’opera di Chiara offre l’occasione non tanto per una riflessione di genetica testuale, quanto per mettere a nudo una particolare creatività intermediale, le sue dimensioni transnazionali, un suo certo carattere collettivamente vissuto e condiviso e infine anche la coscienza di un’era e di un vissuto italiano.

Non va dimenticato che la stessa predilezione per la tematica dell’inchiesta non può non essere ricondotta a tensioni comuni che percorrono il periodo. L’opera di Chiara dialoga con la sua attività in Cancelleria e non è diversa l’ascendenza dello stesso Pasticciaccio o l’analogo debito di Franco Enna verso i fatti di cronaca, spesso riportati ai racconti delle indagini del padre come maresciallo dei Carabinieri. Una vicinanza ai codici del reale e una contaminazione di scrittura – i verbali di cancelleria, le denunce dei carabinieri, ecc. – che non hanno precedenti solo nella letteratura poliziesca internazionale ma che ancora caratterizzano la spiccata dimensione intermediale di quei decenni, che aveva trovato ad esempio metafora nel quotidiano La Notte, tra fotogiornalismo, fotonotizie, cronache e scoop con la contestuale pubblicazioni di documenti ‘reali’.

Da questo punto di vista una dimensione centrale in I giovedì della signora Giulia non è tanto data dall’impossibilità della giustizia, tipica delle narrative moderne come l’inapplicabilità della pena, quanto dal tema della scomparsa, del rapimento di una persona e più radicalmente della sottrazione o della sopravvivenza solo come effigie e immagine magari stampata sui rotocalchi. Chiara stesso ha voluto esplicitare come spunto di cronaca all’origine del suo racconto, il caso Bebawi (Chiara 1970, Castagnola 2007): se tuttavia la vicenda di infedeltà coniugale del 1960 con la sua ambientazione altolocata, l’internazionalità, i vizi e gli sfizi del jet set, si collocava in pieno clima da dolcevita, alla fine degli anni Sessanta l’atmosfera è del tutto diversa e, come si diceva, la stagione della versione romanzata e televisiva è piuttosto quella dei misteri, quella della paranoia e persino dell’occulto e dell’impenetrabilità delle dinamiche umane e sociali (in I giovedì della signora Giulia accennata in quel pendolo esoterico con cui il marito si aggira per il giardino cercando il cadavere o forse solo i gioielli della moglie).

Non si può non pensare che tutto il 1969 è impegnato sulle pagine dei giornali da un ossessivo storytelling su persone scomparse e rapimenti e in particolare su due vicende che segnano uno spartiacque nel vissuto giudiziario: a gennaio il rapimento e l’uccisione di un bambino di 12 anni, Ernesto Lavorini, a Viareggio, mentre l’estate del 1969 chiudeva con la tragica conclusione del ‘giallo di Villafranca’ e il finale ritrovamento in un cubicolo, morta da sole poche ore, della tredicenne Maria Teresa Novara, rapida e seviziata fin dal dicembre 1968. Mentre si predisponevano le battute della sceneggiatura, quando avevano inizio sopralluoghi e riprese di I giovedì della signora Giulia, i giornali italiani ma di fatto tutti i media intessevano una narrazione continua di queste vicende che, trattando per la prima volta di minori, escludevano all’epoca immediatamente ogni triangolo amoroso o stuzzicante bagarre coniugale. Il mistero si alimentava del dialogo con le narrazioni hard-boiled sulle signore scomparse – da The Maltese Falcon (1929) di Dashiell Hammett a The Lady in the Lake (1943) di Raymond Chandler –, ma in modo anche più forte con i resoconti giornalistici e scandalistici. E infine si traduceva in quei mesi nelle novellizzazioni puntuali e seriali del paginone settimanale “Giallo del sabato” di Giorgio Scerbanenco per Stampa sera di Alberto Ronchey, inaugurato proprio domenica 19 gennaio 1969 dal racconto del caso della tredicenne scomparsa (Scerbanenco 1969). È un ulteriore dato non solo delle possibili nuove fonti per la redazione di I giovedì della signora Giulia, ma della fucina di questi misteri, che ne conferma la spiccata intermedialità (il racconto era accompagnato da un ricco apparato illustrativo di vignette e fotografie) e la natura transnazionale, non solo e non tanto per l’origine ucraina del suo autore quanto ancora una volta per la sua presenza in terra Svizzera. Amico stretto di quel don Felice Menghini, attorno al quale ripararono tutta una nutrita fila di intellettuali all’epoca del confino postbellico (Martinoni 2007, Paganini 2007), tra i quali Piero Chiara, Franco Enna, Arturo Lanocita, Scerbanenco appartiene perfettamente a quel clima transnazionale non solo di scrittori ma appunto di ‘giallisti’ italiani.

Difficile non credere che una certa esasperazione negativa o comunque cinica nei personaggi televisivi ‘di Chiara’ non rifletta questo clima psicologico e sociale che attraversa coi misteri d’Italia molti media: così l’ingegnere Fumagalli diventa il cinico architetto cacciatore di eredità (Umberto Ceriani), e il commissario (Tom Ponzi) – sedotto nel romanzo tanto dal brillante avvocato Esengrini quanto dalla bella moglie, e mediatore con la figlia della riappacificazione paterna –, appare qui sempre un po’ assente, distaccato e di fatto anempatico, ben diverso dal personaggio letterario cui, quasi in soggettiva libera indiretta, Piero Chiara affidava la sensualità del ricordo mentre in treno “pareva cercare, su quell’imbottitura tante volte premuta dalle morbide forme della signora Giulia, il segreto della sua scomparsa”.

Se non fonte del romanzo, Chiara doveva sapere certo che sul mistero di Giulia Esengrini queste scomparse narrate dai giornali sarebbero state ben vive, in quel dialogo che si prefiggeva di costruire con il proprio pubblico. E di più, riflette senza dubbio questo clima mediale la tipologia di sottrazione della figura femminile di Giulia: fin da subito assente, mai veramente data e che non si impone per la diversa immagine di chi l’ha conosciuta, come nel romanzo, quanto piuttosto proprio per l’abisso o per così dire il buco nero che ha preso il suo posto. Giulia cessa del tutto di esistere, negando quelle analessi preziose nel romanzo, anche solo nei ricordi della sua “floridezza lombarda” e nelle ricostruzioni delle sue azioni, e di lei si afferra solo il nome nel titolo e qualche ciocca di capelli nella cisterna in cui è ritrovata morta. Tra la Giovanna di L’avventura (1960) di Antonioni e le figure televisive scomparse di Paura per Janet (1963) o Dov’è Anna (1976) di Schivazzappa– nonché potenzialmente il citato soggetto Due ipotesi per la scomparsa del Prof. Tagliaferri –, Giulia Esengrini non lascia di sé nessuna effigie (giusto una fotografia indecifrabile che lo spettatore intravvede in un rapporto di polizia), non è rievocata nemmeno in un ritratto misterioso o nella sua essenza impenetrabile quanto soprattutto viene sottratta all’immagine. È luogo di negazione di un vedere. Aspetto che sicuramente costituisce uno degli elementi più forti nel sottrarre la conclusione alla vicenda: l’ordine non si può nemmeno ricomporre nel ricordo, come tradizionalmente avveniva attraverso i codici del melodramma, nessun flashback visivo o verbale e nessun oggetto feticcio, come qui potrebbero essere i gioielli anch’essi sottratti alla possibilità di essere catturati e trattenuti dallo sguardo. Rimane il vuoto, l’assenza e dunque la radicale insignificanza che apre solo sull’oscurità.

Invece il giallo ha funzionato anche nel Varesotto, E s’è capito che avrebbe funzionato sin dall’esordio: un esordio a tempi larghi, sornione, astuto, che descriveva con tocchi non banali un preciso ambiente di provincia e vi collocava un’atmosfera di attesa e di sottile sospetto, e personaggi fortemente ambigui (Buzzolan 1970a).

I giovedì della signora Giulia raccoglie consenso di critica e pubblico. Se “ha funzionato” è perché questo giallo televisivo si offre come grande momento laboratoriale e fucina di un nuovo immaginario e spinge a ritornare sull’omonimo romanzo non alla ricerca di una ‘maniera’ italiana o sulle tracce di una singolarità autoriale, quanto cercando di seguire almeno alcune delle linee culturali e intermediali che si dipanano dal suo intreccio poliziesco e che testimoniano il momento di grande sperimentazione.

L’opera di Chiara viene prima di tutto girata in pellicola e a colori, elemento che apre di per sé molte chiavi di lettura. Innanzitutto, un grande numero di paesi europei aveva ormai pienamente completato la transizione alla televisione a colori, là dove invece l’Italia dava già prova di padronanza tecnologica ma ‘preferiva’ che il segnale arrivasse nelle case ancora in bianco e nero (Valentini 2015). Dal 7 al 15 febbraio 1970 si erano svolti i Mondiali di sci in Val Gardena e la Rai aveva fornito a tutti i paesi delle immagini a colori in sistema PAL di altissima qualità, ma al momento di essere ‘istradato’ sui vari trasmettitori nazionali, il segnale video era stato soggetto al cosiddetto color-killer e trasmesso privo della ‘banda’ di colore (Baldo 1970). Il plauso per la performance televisiva italiana era stato entusiasta e globale e I giovedì della signora Giulia viene con grande probabilità pensato subito per quella dimensione internazionale della televisione che al sorgere degli anni Settanta sembra aprire nuovi fiorenti mercati alla Rai: “Un po’ d’Italia in tutto il mondo” si annunciava nel presentare la programmazione di contenuti televisivi (Serego 1970) e in Francia, Germania, e naturalmente nella Svizzera italiana, che già avevano apprezzato la kermesse sciistica e in cui il TV color domestico era la quotidianità, l’adattamento televisivo a colori da Chiara sarebbe stato l’unico modo per proporre come all’avanguardia un prodotto televisivo italiano che era già in grado di dialogare con il clima internazionale8.

Strettamente connessa è anche la complessa dimensione delle relazioni tra cinema e televisione di cui quest’opera reca traccia. L’internazionalizzazione della Rai, di cui si diceva, si traduce dalla metà degli anni Sessanta anche nel suo ingresso come attore centrale della produzione cinematografica; nel 1970 appare chiaro non solo che “la televisione, prima di tutto, produceva per sé stessa cercando di alimentare un palinsesto in crescita al livello qualitativo più alto possibile”, come ha dichiarato proprio Angelo Romanò, vicino, come si è detto, a Chiara e dirigente dell’allora divisione Spettacolo (Pinto et al. 1988: 37). Negli stessi mesi di I giovedì della signora Giulia escono anche nuovi investimenti sul cinema come I clowns (1970) di Federico Fellini e La strategia del ragno (1970) di Bernardo Bertolucci, in sala e nei festival, a colori, e in bianco e nero sul piccolo schermo, aprendo a un mercato internazionale che si prendeva consapevolezza potesse trasformare radicalmente l’intera filosofia produttiva e editoriale della Rai. Lo sceneggiato, ‘originale’ come inizia ad essere chiamato sulla spinta di questa sperimentazione innescata dal cinema, che porta anche alla ricerca di soggetti inediti e di nuove sfide culturali e tecnologiche e all’abbandono del progetto pedagogico di divulgazione letteraria promosso da Ettore Bernabei9, è l’area più permeabile a questo dialogo intermediale. Prodotto da Pietro Germi, di cui viene a più riprese documentata la dimensione di forte presenza e partecipazione al progetto, a partire dalla scelta del regista di cui si dirà, I giovedì della signora Giulia rivela un ricco intreccio di maestranze televisive e di professionalità cinematografiche e specificamente legate all’opera di Germi e alla sua visione del giallo, come la musica di Carlo Rustichelli e la presenza stessa di Claudio Gora, che il pubblico aveva già potuto apprezzare in Un maledetto imbroglio (1959). Inoltre, non si può escludere che la stessa realizzazione a colori fosse stata pensata ipotizzando un ciclo di vita anche cinematografico per l’opera, come diverrà prassi in molte produzioni seriali a più forte vocazione televisiva, anch’esse quasi simultaneamente presenti sul piccolo schermo in bianco e nero e in sala a colori, da Le avventure di Pinocchio (1972) di Comencini a La porta sul buio (1975) di Dario Argento. Anche in questo caso l’opera televisiva di Chiara svela la sua natura di esperimento che getta ponti verso nuove fasi ideative e creative.

Da ultimo singolari e per nulla scontati sono gli stessi rapporti tra televisione e editoria, che stanno, se non modificando le loro coordinate, per lo meno acquisendo maggiore consapevolezza e testando nuove strategie intermediali di supporto e valorizzazione. In un clima di crisi di idee, in cui la vera e propria caccia all’ultimo romanzo da trasporre sullo schermo si alterna viceversa alla corsa alla ristampa, per assecondare e cavalcare il successo in sala o in TV – strategia ampiamente praticata ad esempio in quei giorni per le nuove edizioni di La spartizione di Chiara e per la promozione della versione cinematografica Venga a prendere il caffè… da noi (1970) di Alberto Lattuada – l’assenza sulla stampa di pubblicità del romanzo di prossima uscita nonché la mancanza di riferimento nei titoli di testa televisivi (“Soggetto di Piero Chiara”) compongono un quadro anomalo. La definizione usata dall’autore di “pre-sceneggiatura” appare assecondare il tentativo di mostrare l’originalità letteraria dei nuovi sceneggiati televisivi, la capacità di attivare nuove forme di scrittura, mentre viceversa – pur consapevoli certamente dell’impatto delle immagini in movimento sulla ristampe dei romanzi –, la stampa Mondadori di I giovedì della signora Giulia punta piuttosto, verrebbe da dire, sull’espansione transmediale: “Un giallo di Chiara” scritto sulla striscetta, come suggerisce di inserire Oreste del Buono all’editore10, qualcosa nuovo e diverso (finale compreso) eppure strettamente connesso alla versione televisiva di cui è più gemmazione che derivazione.

Molti ulteriori aspetti ci sarebbero dunque da esaminare; si destinerà tuttavia un ultimo sguardo all’industria creativa che vive attorno a questa produzione televisiva e in particolare ad alcune riflessioni attorno alla scelta degli attori e del regista.

3 Finti gialli e veri detective

Il piatto piange, pubblicato da Mondadori nel 1962, aveva non solo registrato un grande successo ma anche consolidato la sempre più ingombrante e potenzialmente sviante fama di scrittore erotico di Piero Chiara. Nel 1973, nel ripubblicare l’opera prima per la collana Oscar in occasione della sua realizzazione cinematografica, Mondadori si discosta dalla spoglia grafica della collana “Il tornasole” diretta da Vittorio Sereni; viene inserita in copertina un’illustrazione (Sieste estivale o Femme couchée di Dominique Peyrronet, 1933) che mostra una donna lascivamente adagiata su un sofà svestita e a seno nudo, e si aggiungono le frasi di lancio “Avventure boccaccesche | giocatori forsennati | ozi logoranti | nel delirio della provincia”. È forse questa la ragione dell’orientamento su un regista come Paolo Nuzzi per il progetto televisivo di I giovedì della signora Giulia.

Tuttavia, che Nuzzi sia imposto dalla Rai e sostituito poi con Massimo Scaglione (regista a contratto presso la sede di Torino), per diretto intervento di Pietro Germi11, mostra ancora una volta la complessità del quadro di riferimento culturale e produttivo sotteso. Forte dell’apprendistato con Federico Fellini, di cui era stato assistente in numerosi film, da La strada (1954) fino a La Dolce vita (1960), e dell’esperienza con Cesare Zavattini, per il quale aveva preso parte al film-progetto I misteri di Roma (1963), Paolo Nuzzi apparteneva a quella fucina di solidi talenti registici che la Rai inizia ad attrae alla metà degli Settanta, orientata verso una produzione di qualità che, ancora una volta, non di rado è sinonimo in quegli anni di impronta cinematografica, come Olmi, Bellocchio, Faenza, Schivazappa. Nuzzi però è anche indizio di una volontà di attrarre verso il piccolo schermo il mondo giovanile. Spesso presentato anche sulle pagine di Radiocorriere TV insieme a quegli esponenti di una visione più dinamica dell’immagine in movimento, negli anni immediatamente precedenti alla realizzazione di I giovedì della signora Giulia, Paolo Nuzzi si era distinto per inchieste e indagini televisive sui giovani, all’interno di rubriche di grande successo e ascolto, come Cordialmente (1964-67), dove Enza Sampò rispondeva alle lettere e richieste dei telespettatori, così come in programmi innovativi e sperimentali come Vivere insieme (1962-1970), che sperimentava la forma breve dell’originale televisivo accompagnata dal dibattito in studio, o Giovani (1967-68), a cura di Andrea Barbato e Gian Paolo Cresci, con docu-serie ante litteram, fino ai filmati di Europa giovani (1968), in cui “il rapporto tra padri e figli è ovviamente uno dei temi ricorrenti dell’inchiesta, concordemente suggerito dagli esperti e tra i più richiesti dai futuri telespettatori, secondo un sondaggio preventivo svolto dal Servizio Opinioni della Rai” (Rispoli 1968). Un regista, dunque, che pare apparire quasi il volto giovane della Rai negli ultimi anni di crisi prima del crollo del monopolio.

Nuzzi, infine, era anche l’autore di Ecco il finimondo (1964) della Documento Film s.r.l. di Gianni Hecht Lucari, una delle nuove case di produzione più attive e di maggiore qualità nate nel dopoguerra sulla spinta degli incentivi della cosiddetta Legge di sostegno andreottiana del 1949. Il mondo movie di Nuzzi si ritrova al centro di una aggressiva politica censoria, “film documentario di attualità sul progresso scientifico e sul tecnicismo considerati quali elementi che influenzano profondamente la condizione umana nel mondo attuale”, come recitava la Descrizione del soggetto presentata al Ministero, viene bocciato in quanto “la Commissione di revisione cinematografica, a maggioranza, esprime parere contrario alla proiezione in pubblico perché ritiene che le sequenze del parto, dell’operazione al naso, del ristorante e nudo, della psicopatia sessuale, sono offensive della moralità e del buon costume anche sotto l’aspetto sessuale” che sarà poi modificato con nuovo pronunciamento: “La Commissione riscontrando nel film alcune scene (operazione al cuore, parto, scene erotiche ed espressioni di deviazioni sessuali) controindicate alla sensibilità dei minori, stabilisce che alla proiezione non possano assistere i minori degli anni diciotto” (3 novembre 1964)12. Sono riconoscibili le dinamiche proprie di molte produzioni dell’epoca, tra exploitation (nella Domanda di revisione i titoli o trailer del film recitano: “SPEAKER: Dopo il parto indolore, il parto con ipnosi! Un film imprevedibile, sconcertante, affascinante! Quello che non avete mai visto, quello che non osate pensare di vedere!” e ancora “Il grande nemico, il sesso. Servito freddo, nei ristoranti, a prezzo fisso!”) e la domesticazione nell’indagine di costume e nella ricerca scientifica della “sfera degli squilibri e delle alterazioni che si riscontrano in una società in transizione come l’attuale”, come tenta di opporre il produttore del film. Tuttavia, il giudizio finale è lapidario: “sotto pretesto documentaristico, si rivela un particolare compiacimento nel mettere in evidenza scene raccapriccianti (parti, operazioni chirurgiche raffigurate con particolare insistenza), nel rappresentare nudi volgari, nel riprodurre scene erotiche, come quella della misurazione di reazioni sessuali, e di anomalia sessuale come quelle di feticismo e di sadismo”.

Nonostante o forse proprio a causa della presenza nel film quale esperto di un sessuologo controverso come Luigi De Marchi, autore in quegli stessi mesi del battagliero Repressione sessuale e oppressione sociale (1964), la sessualità, dunque, è al centro dell’opera prima di Nuzzi e della sua visione. È un dato che certo non poteva essere ignoto ai sempre vigili custodi del piccolo schermo, particolarmente in una situazione in qualche modo coercitiva da parte della attenta dirigenza romana quale viene descritta sul set (Scaglione 2004: 99); e non può non suonare come possibile linea di lettura dell’operazione produttiva di I giovedì della signora Giulia. La scelta da parte dell’azienda di Paolo Nuzzi è se non altro spia della volontà di uscire dalla regia televisiva di mestiere per uno stile cinematografico più provocatorio, di parlare il linguaggio dei giovani e attrarne il pubblico verso il piccolo schermo, di presentare una rigorosa inchiesta sull’inquietante condizione umana della civiltà attuale – per parafrasare le parole usate per Ecco il finimondo dalla produzione –, in particolare domesticando quella tematica della sessualità potenzialmente presente nel manoscritto di Chiara. Non è ricostruibile fino a che punto Nuzzi sia stato presente sul set, ma sicuramente è chiaro a un certo punto che l’operazione sia apparsa in qualche misura eccessiva, o in anticipo sui tempi: potrà trovare realizzazione finale solo in un contesto radicalmente mutato, non solo del cinema ma anche dei media, con una Rai ormai al centro della battaglia dell’emittenza locale e privata. Sorta di progetto specchio, infatti, nel 1974 il film Il piatto piange tratto dall’omonimo romanzo di Chiara e diretto da Nuzzi, è prodotto pienamente cinematografico e internazionale, patron Leo Pescarolo per la Euro International Film, e non a caso si traduce in una dimensione più grottesca e in esplicite e audaci scene di sesso dirette da Paolo Nuzzi, che anche dopo i richiesti tagli da parte della Commissione di revisione, “lasciano poco spazio all’immaginazione, e in questo senso vanno invece contro la filosofia di Chiara, convinto che l’occhio di uno scrittore (e per estensione di un regista) si debba fermare un attimo prima” (Gervasini 2008: 109-110).

Pur allontanato molto rapidamente dal set, rimangono tracce evidenti di questo taglio, incarnato da Nuzzi e riversato nella sceneggiatura, condotta insieme agli amici Marco Zavattini e Ottavio Jemma13. In controluce la serie evidenzia in modo molto chiaro il desiderio di dialogo con il pubblico giovanile, di propensione a nuovi codici di realismo fotografici ma anche narrativi, di provocazione visiva, di respiro internazionale, che sembra davvero configurare I giovedì della signora Giulia non tanto come la ricerca di un nuovo Maigret o di un più moderno Nero Wolfe, come spesso è stata interpretata, ma piuttosto quanto quasi un finto giallo che offra con le sue licenze un territorio libero e disinibito e la possibilità di giocare su nuovi territori visivi ed espressivi. Ne è un esempio la figura dell’architetto (Umberto Ceriani) così diversa dal sobrio e un po’ ritroso ingegnere del romanzo: immobiliarista senza scrupoli, amante della bella vita (non il circolo velico ma il motoscafo su cui sfrecciare attraverso il lago), Carlo Fumagalli connota con certa aggressività anche sessuale la sua relazione con Emilia (Martine Brochard), figlia della precedente amante, e al matrimonio d’amore, opposto a quello di convenienza della madre Giulia nel romanzo, subentra una relazione morbosa se non quasi, in qualche misura, incestuosa. Piuttosto che la sonnacchiosa provincia scossa dai brividi pruriginosi della tentazione erotica emerge quella “periferia milanese” come sempre Fumagalli descrive il lago all’amico investitore, civiltà attuale squilibrata e deviata fatta di status symbol (l’immancabile Citroen DS “squalo” degli amici o la Mini Cooper della ragazza), di vacui riti (la festa in villa e l’immancabile filmino del matrimonio di sapore pubblicitario da vedere con gli amici) e infine devianze (il finto strangolamento, tra gesto erotico e aggressione, di Fumagalli alla moglie in camera da letto appena arrivati alla villa dopo le nozze).

Lungi dall’essere indizio di discontinuità e di incoerenze che permarrebbero nella agitata produzione di I giovedì della signora Giulia è proprio la diversità di tono e visiva scelta per gli episodi, che spiazza e stupisce già la critica del tempo, a essere uno dei suoi elementi di novità e di provocazione visiva: ai continui colpi di scena narrativi si associa una scrittura visiva che oppone costantemente una scena all’altra e un episodio all’altro per costruzione temporale, resa visuale, centralità di un determinato personaggio, opponendo di volta in volta codici e registri visivi da melodramma (i piani sequenza e la profondità di campo nei corridoi della villa nel primo episodio) e da giallo all’italiana (l’illuminazione, le luci colorate e la composizione visiva del parco notturno alla Bava o Margheriti nel secondo episodio), da telefilm (l’iniziale riassunto delle puntate precedenti in particolare con Sciancalepre che parla guardando in macchina nel primo episodio), da film d’avventura o pubblicitario (i fermo immagine e le riprese aeree sulla vita spensierata dei giovani sposi nel terzo episodio) e da film d’inchiesta (le angolazioni esasperate e la statica immobilità del quadro nell’inquisitoria finale che impegna tutto il quinto episodio).

Allo stesso modo, il Filmgiornale d’attualità Radar del 28 agosto 1969 (n. 299) debutta sulle immagini della Mostra del cinema veneziana di quei giorni, la prima non a caso dopo l’era ‘laica’ di Luigi Chiarini, riassumendo i termini del dibattito sulla crisi del cinema italiano e la forte polemica di Franco Zeffirelli contro l’abbassamento artistico e lo scivolamento da erotismo a pornografia del cinema italiano. Senza ironia, il commento oppone però la vitalità del cinema italiano, esaltandone la crescita produttiva e i molti film in cantiere, proprio a partire dalle riprese di I giovedì della signora Giulia. Qui sul set di Varese, in quel “Nord diventato di moda nei film di produzione italiana”, come glossa la voce fuori campo, sono mostrati gli attori, il regista Massimo Scaglione e il direttore della fotografia Giuseppe Aquari dietro la macchina da presa. Cinema, dunque, rimarcato dall’indugiare su Claudio Gora e dal rimando al produttore Pietro Germi, senza nessun cenno né alla dimensione seriale della produzione né tanto meno alla sua destinazione televisiva. Di più, il lungo commento entra nei dettagli della vicenda della scomparsa, delle investigazioni del detective, del mistero da sciogliere e dell’indagine psicologica sui personaggi, quasi una vera e propria promozione stampa, per poi passare alle altre pellicole di cui viene lodata la sperimentazione e le giovani interpreti (Le altre [1969] di Alex Fallay, alias Renzo Maietto), la maestria del grande regista Alberto Lattuada, delle dive e divi (Martinelli, Ferzetti) di L’amica (1969) e infine l’internazionalità delle produzioni e l’attrattiva di vicende e luoghi italiani per grandi interpreti internazionali e platee di tutto il mondo in Il Vespaio ­– poi intitolato I lupi attaccano in branco (Hornets’ Nest, 1970) – di Franco Cirino, con Rock Hudson. La produzione televisiva viene dunque presentata come pienamente cinematografica, in un’immagine estremamente eterogenea dei quadri produttivi del cinema e anche in un’ambigua dimensione femminile, presente non solo nei film selezionati e nelle interpreti ma anche nel fatto che, partito dalle preoccupazioni sul decadimento di costumi, il cinegiornale accosta di fatto I giovedì della signora Giulia a Le altre, un film di fatto a forte carica erotica e a L’amica, percorso da scene intime e da una tensione sensuale che fece scattare il divieto di 14 anni.

Per quanto attento alla psicologia dei personaggi, mai scontata e banale, come sottolineano molte critiche dell’epoca, I giovedì della signora Giulia, “partito con le premesse di un giallo ‘non giallo’, […] ha saputo mantenere sino alla fine il clima del sospetto: chi è l’assassino della signora Giulia?” (Appiotti 1970). Altissimo nei gradimenti, ottiene il più ampio plauso nel pubblico adulto, e soprattutto tra i giovani, notoriamente refrattari al piccolo schermo – ­“La TV non vale niente” (Buzzolan 1970c: 8) 14 – proprio per la loro predilezione innanzitutto per “i gialli, le avventure e le vicende drammatiche” (Servizio opinioni Rai 1974: 16).

Piero Chiara partecipa pienamente, come si è già detto, a queste nuove sfide attorno a I giovedì della signora Giulia. Le diverse fasi di stesura del soggetto, dalla pubblicazione a puntate alle bozze del romanzo, mostrano che l’“avvincente vicenda imperniata sulla misteriosa scomparsa della moglie di un valente penalista di una non nominata cittadina della vicina Lombardia”, come era stata lanciata dalle pagine di Il Corriere del Ticino15, sposta ben presto il suo baricentro, non solo riguardo la conclusione ultima delle vicenda – accantonando l’idea della confessione finale di Demetrio, il segretario-giardiniere di Esengrini – e l’aggiornamento temporale – dal 1955 al 1965 del romanzo finale16. Lo studio comparato nell’Archivio Piero Chiara mostra una progressiva accentuazione di questo aspetto già negli interventi sul testo del suo autore, che meticolosamente opera, dettagliando le prove e le circostanze, al fine di rendere più evidente lo scioglimento dell’intreccio: il bottone che dimostra lo spostamento del cadavere, le caratteristiche della cisterna e il suo essere occultata alla vista, il brandello di stoffa sono le novità più rilevanti su cui Chiara agisce potenziando l’intreccio mistery17. Tuttavia la centralità del detective, il commissario Sciancalepre ­– “come l’Ingravallo di Gadda da una parte e il Maigret di Simenon dall’altra, con i quali condivide spesso gli umori e una sorta di fatalismo nei confronti dell’esistenza” (Crovi 2020: 56) – e l’efficacia della sua azione investigativa, che scioglie l’intreccio ad enigma finale (il ritorno a casa di Giulia alla sera, l’uccisione e l’occultamento del suo cadavere nella cisterna), per quanto senza la certezza della colpa (divisa tra la gelosia e avidità di Esengrini o l’ossessione erotica di Demetrio), non deve trarre in inganno. Anche in questo caso il lavoro sulla versione televisiva svela qualche dinamica più profonda non solo nel testo ma anche nei meccanismi produttivi sottesi.

4 Misteri italiani e suspense cosmica

L’esordio dello sceneggiato televisivo rivela un evidente rovesciamento prospettico rispetto al testo narrativo, che attribuiva subito al commissario un ruolo centrale:

Il dottor Corrado Sciancalepre arrivò nel tuo ufficio verso mezzogiorno. Era stato in Pretura a deporre come testimone in un processo di furto che l'anno prima l'aveva preoccupato a lungo, Partito da un debole indizio era riuscito a scoprire gli autori e a recuperare la refurtiva. Dotato di quel fiuto particolare che sublima i poliziotti siciliani, e di una speciale forma mentale che la rendeva capace di immedesimarsi nella personalità del delinquente, il dottor Sciancalepre aveva raccolto molti successi.

I giovedì della signora Giulia vede immediatamente Sciancalepre quale protagonista indiscusso della storia: la cosa risaltava con anche maggiore evidenza nel feuilleton per il quotidiano svizzero, dove tutta la prima puntata era interamente costruita attorno alla figura del commissario e si concludeva con grande unità di tempo a fine giornata, quando, sorpreso dalla visita di Esengrini nel suo ufficio, del tutto anomala per una persona del suo rango, alla notizia della fuga della moglie, lo seguiva infine davanti al portone della sua abitazione dove si accingevano a entrare in chiusura di puntata. Il prologo della serie televisiva pone invece subito l’accento su Esengrini (il protagonista Claudio Gora) e sulla sua capacità dialettica nell’esporre i fatti alla Corte e in particolare al Pretore (Piero Chiara) durante un processo. Sciancalepre è di fatto introdotto come semplice spettatore, uno tra il pubblico seduto in aula, se non fosse per le sembianze così famose all’epoca: quelle del corpulento detective privato Tom Ponzi. La dialettica dei due personaggi appare in ogni caso complessa e differente e ancora una volta obbliga a recuperare il clima dell’epoca.

La centralità di Esengrini e la scelta di Claudio Gora è naturalmente in linea con la produzione di qualità che la televisione si propone, chiamando un interprete di straordinaria capacità che stava dando già prova di altrettanta fama in una straordinaria attività televisiva (Bispuri 2013). E tuttavia non si può al tempo stesso dimenticare che Claudio Gora era stato l’interprete di Un maledetto imbroglio, e i panni ambigui del Remo Banducci, le sordide trame da lui intessute nella versione cinematografica del Pasticciaccio di Germi, non possono non riecheggiare fin da questa prima pomposa arringa e rendere la sua psicologia scostante e impenetrabile così come quando – non certo disperato come nel romanzo ma distaccato, freddo e autoritario – fa chiamare Sciancalepre alla villa, per mostrargli le prove evidenti della fuga della moglie e la sua decisione a muoversi per abbandono del tetto coniugale. Infine, Gora era anche personaggio domestico e di notevole popolarità, il protagonista di quella costruzione mediale di grande efficacia che fu per una stagione “La famiglia Gora”. Le pubblicità della Cinzano che trionfano nelle affissioni, negli annunci pubblicitari e infine nel Carosello, ma che di lì si irradiano nei resoconti e servizi fotografici dei rotocalchi, mostrano la famiglia felice, i miti della festa e dei brindisi, la bellezza e l’eleganza della moglie Marina Berti, i molti figli. E infine, Gora è il celebre genitore del nuovo divo televisivo Andrea Giordana (Gora più Berti, come dice Radiocorriere TV nel presentare il giovane attore), reduce dall’enorme successo di Il conte di Montecristo (1966), alimentato anche da questa factory attoriale della fine degli anni Sessanta. Tra famiglia e merce, tra cinema d’arte e pubblicità, tra divo e star domestica, prima ancora che per la sua straordinaria interpretazione, mai monotona e sempre sorprendete, Gora riscrive radicalmente la figura di Esengrini, dandole una straordinaria complessità fin da subito ‘visiva’.

Tuttavia, nonostante l’ingresso quasi in sordina di Sciancalepre, sono in molti a sottolineare che “questo primo tentativo di ‘giallo all’italiana’” ha “nel poliziotto privato Tom Ponzi l’elemento di maggior interesse” (Buzzolan 1970d: 7). È però un enigma che sembra più gioco di distrazione che meccanismo in grado di ripristinare l’ordine.

Ascoltato con apprensione il telegiornale quasi tutto dedicato all’Apollo 13, la gente s’è consolata e rinfrancata con I giovedì della signora Giulia. Ci sarebbe da osservare che il film a puntate prodotto da Germi e realizzato da Scaglione e Nuzzi è un giallo; e che contiene un dramma in teoria atroce, quello di una povera signora di provincia — adultera, d’accordo, ma non per questo meritevole di tanta crudeltà — che viene strangolata e sotterrata, e ritrovata, in quale stato è facile immaginare, un anno dopo. Un dramma raccapricciante, a pensarci. Ma la storia è gialla. Quindi falsa, ossia congegnata ad arte per pungolare la curiosità. Quindi distensiva, e piacevole. E lo spettatore evade dall’ansia che gli è stata procurata dalle notizie circa la sorte degli astronauti lambiccandosi il cervello sul come e da chi è stata trucidata la meschina. (Buzzolan 1970e: 7)

Dunque un finto giallo che si risolverà insieme a quei giorni di “suspense cosmica” (Buzzolan 1970b); un quasi giallo in sintonia con un’era di incertezza radicale in cui ricercare (ma forse invano) nei media un principio razionale: siano gli occhi di “spettatori sul Pacifico” (Buzzolan 1970f: 9) pronti ad assistere alle straordinarie riprese e all’happy end di quella capsula dell’Apollo 13, che rientra portando in salvo finalmente il suo equipaggio, o il pubblico che ammira le perizie del commissario Sciancalepre nel recuperare una camicetta, che faccia crollare gli alibi sull’ultima volta in cui è stata vista viva la signora Giulia. Salvo poi, con doppio finale, dover accettare quanto almeno due, se non tutti – tra i quali lo stesso spettatore che ha spiato in queste vite – siano colpevoli.

Molto ci sarebbe dire sulla singolarità di questa scelta di programmazione che decide di sfrattare per la prima volta o quasi il varietà televisivo dal suo regno, per offrire l’ultima puntata di un giallo proprio quello stesso sabato 18 aprile 1970. Complice certo lo straordinario successo crescente di I giovedì della signora Giulia, che almeno dalla terza puntata vince anche le ultime resistenze e scetticismi e conquista il ragguardevole indice di gradimento di 80 punti, 85 per la figura di Tom Ponzi. Non è però sufficiente a spiegare questa infrazione a un vero canone del palinsesto, se non ricorrendo a quella complessità della trasmissione, che fin qui si è tratteggiata, che vede finalmente dialogare tra loro non solo autorialità e popolarità, localismo e internazionalizzazione, cinema e tv ma, ancora una volta, ‘realtà’ e finzione. Il falso giallo, che distrae dalle vicende reali ma con interpreti ‘veri’ con cui lo spettatore ha dimestichezza quotidiana. Non la festa del varietà ma la narrazione e la costruzione del quotidiano. Sia appunto – per riprendere lo straordinario titolo di Ugo Buzzolan – la suspence cosmica, del teatro dello spazio o della rete di finzioni fuori e dentro lo schermo.

Non a caso, sulla lucidità del detective, di contro all’opacità della realtà italiana, irrompe a ciel sereno lo scandalo delle intercettazioni, quella sorta di Watergate italiano, tra Roma e Milano, che culmina il 9 marzo 1973 con la scoperta di microspie sulla linea telefonica del Quirinale e su quelle del Comune e del Palazzo di giustizia di Milano e che porta all’arresto dell’ex dirigente della CriminalPol del Ministero degli Interni, Walter Beneforti, e appunto del detective privato Tom Ponzi. Improvvisamente la sua popolarità straordinaria, fino a quel momento messa in discussione solo da pretese invidie di colleghi e forze dell’ordine, è travolta dalle fondamenta e la mitica figura apostrofata da tanti titoli di giornali come “Sherlock Holmes all’italiana”, spesso esaltata per le sue perizie nei tribunali o gli interventi blitz in scandali privati ed emergenze della società civile, cede il passo a una ben diversa immagine, come il titolo lapidario di L’Unità del 24 marzo 1973: “In galera con il fascista Tom Ponzi gli specialisti delle intercettazioni” (Strambaci 1973a: 5). I due mesi di carcere e l’esilio all’estero, pur non arrestando di fatto la sua eredità nel mondo delle investigazioni, vedono il crollo di quell’immagine glamour esterofila, “Pinkerton italiano” (Strambaci 1973b: 5), ben diversa da quella del detective locale italiota squattrinato che – non a caso con tiepida per non dire ostile reazione di critica e pubblico televisivo – F.B.I. Francesco Bertolazzi Investigatore (1970), “gracile gracile, con una malcelata stanchezza, aveva tentato di portare sul piccolo schermo” (Buzzolan 1970g: 6), proprio qualche giorno dopo il commissario Sciancalepre. L’idea di Age e Scarpelli e la pur ottima interpretazione di Ugo Tognazzi non erano riuscite ad appassionare il pubblico sul tirare a campare di un ‘finto’ detective, improvvisato, schiacciato da pregiudizi, sussidi mancati e difficoltà del vivere quotidiano, tra goffi travestimenti, difficoltà economiche e isolamento sociale. L’immagine superomistica, il mito mediale cresciuto attorno a peeping Tom, come era stato ribattezzato all’estero, alimentato da fotogiornalismo e media e vero simbolo dei miti aspirazionali dell’Italia del boom anni Sessanta, rimarrà irrecuperabile, come ben sintetizza nei titoli La Notte, quando annuncia nel 1982 il suo finale rientro in Italia: “Ha venduto due ville e una casa, uno yacht, la ‘Ferrari’ e la ‘Rolls’. Torna dopo sei anni Tom Ponzi, detective da romanzo” (De Ferdinando 1982: 7).

“Nel ruolo del commissario Sciancalepre, un autentico investigatore: il noto Tom Ponzi, alto, grasso, enorme, calvo, lucido; che sia proprio un attore, è da discutere; che sia una ‘presenza’ di rilievo è impossibile negarlo” (Buzzulan 1970h: 6). Se il suo ruolo è centrale in I giovedì della signora Giulia non è certo per quel talento istrionico che Ponzi stesso sottolinea come una delle prerogative del bravo detective, non sfuggendo né ai critici né tanto meno allo spettatore il suo essere “legato e insicuro” (Vice 1970: 6) e una certa fissità e rigidità d’espressione che ne fanno appunto nemmeno reale funzione narrativa quanto appunto icona intermediale che dall’abito al fazzoletto nel taschino, dall’espressione un po’ sorniona all’imponente stazza, un po’ come il profilo di Hitchcock, si renda immediatamente riconoscibile. Tanto quanto – va detto – l’iconica immagine di Piero Chiara, sempre più spesso riconoscibile nei capelli canuti, gli occhiali, lo sguardo penetrante, dal retro di copertina dei suoi romanzi: così, nella citata pellicola di Lattuada, L’amica, Lisa Gastoni legge (o finge di farlo) La spartizione, nascondendo il viso dietro la copertina e la fotografia di Piero Chiara in quel romanzo di primo grandissimo successo che di lì a un anno Lattuada stesso avrebbe trasformato nel film Venga a prendere il caffè …da noi. Come in questa sequenza, in I giovedì della signora Giulia, tutto sembra guardare negli occhi lo spettatore, in un strano effetto illusorio che, come la stessa presenza di Piero Chiara sullo schermo, non è depotenziabile a pure gioco finzionale; la sua apparizione scenica apre lo sguardo su come il ‘laboratorio del giallo’, con le sue sfide visive, le sue provocazioni, la sua instabilità e sperimentazione, è infine nella televisione una zona di più autentica emersione della potenziale e radicale unframedness dell’immagine elettronica, dove “non è cioè più possibile fare un’operazione che, per quanto possa sembrare banale, è invece cruciale: focalizzare lo sguardo su ciò che immagine non è, sul fuori-immagine” (Pinotti 2021: 186).

Bibliografia

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  1. Intervista di Joyce Pattacini a Piero Chiara nella trasmissione televisiva Amichevolmente (RSI, 18 aprile 1971). https://www.rsi.ch/play/tv/-/video/piero-chiara-e-i-media-contemporanei?urn=urn:rsi:video:1853648.↩︎

  2. Duole constatare che nella attuale storiografia italiana perdura una visione ancillare della produzione di finzione televisiva prima del nuovo millennio; a parte Roberto Rossellini e Pier Paolo Pasolini e pochi altri casi, il dialogo con la televisione è spesso limitato a una pur preziosa ricognizione sulle occorrenze, valorizzate soprattutto come cartina di tornasole dell’esperienza cinematografica (Barbera 2004) e con nessuna considerazione per manifestazioni non certo secondarie come la pubblicità, i filmati documentari o d’inchiesta e la produzione seriale, tra le poche eccezioni Aprà 2003, Grasso and Trione 2017, Valentini 2023. In questo quadro, fatte salve sporadiche incursioni, sono in particolare gli anni Settanta a restare spesso al di fuori della ricerca sui testi, sulla programmazione e sulla cultura televisiva, e le isolate indagini sono soprattutto catalizzate dall’innegabile interesse per il grande cambiamento sociale, giuridico, politico e istituzionale dell’emittenza radiotelevisiva (Ortoleva 1995).↩︎

  3. Si rimanda sempre alla citata intervista di Joyce Pattacini a Piero Chiara, cfr. supra n. 1.↩︎

  4. Vd. “Nota al testo” di Federico Roncoroni in Roncoroni and Gervasini (2008: 33-35). Si tratta della nota esplicativa alla pubblicazione del testo inedito, di dodici pagine dattiloscritte, di Due ipotesi per la scomparsa del prof. Tagliaferri di Piero Chiara; la preziosa ricostruzione è stata operata da Roncoroni attraverso dattiloscritti, lettere e documenti conservati presso il proprio fondo privato Fondo Chiara, allo stato attuale non consultabili perché non confluiti negli archivi pubblici di Piero Chiara di Varese e di Luino. Si tratta di un testo destinato verosimilmente al cinema o alla televisione scritto da Chiara – secondo Roncoroni – tra il 1967 e il 1970, sostanzialmente un lavoro di rielaborazione in vista del romanzo e della versione televisiva di I giovedì della signora Giulia.↩︎

  5. I misteri d’Italia è stato un programma d’inchiesta in sette puntate andato in onda di sabato, in seconda serata, sul Programma nazionale nel giugno-luglio 1970; la trasmissione – a cura dei Servizi speciali del Telegiornale – prevedeva una serie di filmati alternati alle interviste di Enzo Biagi e agli esperti ospiti in studio. Tra gli argomenti – misteri non eclatanti ma dietro l’uscio e quotidiani come si proponeva il giornalista – la piaga dell’alcolismo o la credenza nei miracoli. La trasmissione si concluse alla settimana puntata con il tema della fuga dei minori e il celebre caso Lavorini e di Maria Teresa Novara di cui si parlerà oltre.↩︎

  6. Si veda il resoconto della visita a Gadda nel 1957, redatto dallo stesso Chiara negli anni Settanta e riprodotto in Federico Roncoroni (2011-12). Ricordo che Giovanni Battista Bernardi era anche l’autore della rubrica Notizie della radio (poi Notizie della radio e della televisione) sulla rivista L’Approdo e che ancora una volta è la radio la matrice di questo cenacolo culturale anche solo a distanza.↩︎

  7. Dichiarazione di Vittorio Sereni riportata in Bellinelli 1967: 52.↩︎

  8. Il regista Massimo Scaglione riferisce del successo di I giovedì della signora Giulia in Francia, Germania e persino Tunisia, ma non è stato possibile verificare questa informazione (Scaglione 2004: 105).↩︎

  9. Come già anticipato manca una ricostruzione completa sulla produzione di teleromanzi e sceneggiati Rai nell’era del monopolio TV, se si eccettua quanto presente nelle storie della televisione italiana e in particolare in Grasso 20002; il pionieristico lavoro di Oreste De Fornari (1990) rimane ad oggi l’unico contributo monografico sull’argomento, che tuttavia dedica alla fase degli anni Settanta solo poche pagine finali.↩︎

  10. Lettera di Oreste del Buono al dottor Spagnol con il parere circa la pubblicazione di I giovedì della signora Giulia per Mondadori; custodita nel fascicolo Piero Chiara presso l’Archivio storico Arnoldo Mondadori, è ora riprodotta in Novelli 2020: 134.↩︎

  11. Così ha raccontato Massimo Scaglione, aggiungendo dell’impegno da contratto a mantenere il massimo riserbo sulla sostituzione di Paolo Nuzzi nonché ad accettare che nei titoli la regia venisse attribuita ad entrambi (Scaglione 2004: 98-99). La scelta di Pietro Germi per Scaglione è confermata anche da alcuni quotidiani dell’epoca come g.b., “Germi ha scoperto la Bovary varesina.” La Stampa, 20 novembre 1969, p. 8.↩︎

  12. La pratica di richiesta del nulla osta per il film di Paolo Nuzzi, che si spinge fino agli anni Novanta quando è ripreso in esame su richiesta Mediaset, è ricostruita dai documenti recuperati dai progetti Italia Taglia e Cine censura, cui si fa riferimento qui e nelle successive citazioni, il cui iter e documentazione è resa disponibile online sui siti https://www.italiataglia.it/search/1944_2000 e https://cinecensura.com/sesso/ecco-il-finimondo/. Si tratta in particolare dei passaggi in Commissione di revisione di primo e secondo grado tra il settembre e il novembre del 1964, quando il film Il finimondo, cui viene negato il nulla osta, è ripresentato in nuova edizione e con il titolo Ecco il finimondo e ammesso alla proiezione pubblica ma con divieto ai minori di 18 anni.↩︎

  13. Se Scaglione, come detto, riferisce di un’unica scena girata da Nuzzi che viene poi allontanato rapidamente dal set da Germi, è indubbia la sua paternità della sceneggiatura che, come mostra la copia conservata presso la Biblioteca “Luigi Chiarini” del CSC, viene presentata a firma appunto di Nuzzi, Jemma e Zavattini alla Direzione generale dello spettacolo e approvata dalla Divisione V il 26 giugno 1969. La sceneggiatura presenta una serie di variazioni anche consistenti sulle quali è in corso la stesura di un saggio di prossima pubblicazione.↩︎

  14. Nell’articolo si riferiscono i risultati presso i giovani dell’inchiesta sul gradimento della televisione condotto dalla trasmissione Noi e gli altri.↩︎

  15. Inserto pubblicitario su I giovedì della signora Giulia (Il Corriere del Ticino, 27 gennaio 1962, p. 2).↩︎

  16. Si rimanda per questi aspetti alle ricerche di Guido Novelli in occasione delle edizioni critiche dei singoli romanzi e dell’opera completa di Piero Chiara per i Meridiani, nonché al citato suo volume (Novelli 2020).↩︎

  17. Nell’Archivio Piero Chiara di Luino sono presenti una serie di materiali relativi soprattutto alla stesura del romanzo nonché sei bozze dattiloscritte alcune con correzioni autografe di Chiara alle quali appunto si è fatto riferimento in questa rapida analisi.↩︎