Dallo schermo una voce metallica risuona e non ha niente di umano. È la statua di re Ghezo, a cui la regista francese di origini senegalesi Mati Diop, nel suo film Dahomey, dà voce (in lingua fon) per raccontare il rientro in patria di opere d’arte originarie del regno del Benin, oggi Dahomey, espropriate dalla Francia in un lontano 1892. Ancora un suono metallico e straniante, questa volta è la voce di una perfida potenza aliena, lo Zero, ossia una massa informe creata digitalmente per il film L’Empire di Bruno Dumont. Altra voce, questa volta quella ancora più improbabile di un ippopotamo morto trent’anni fa, ma che parla ben tre lingue (afrikaans, mbukushu e spagnolo), nel film Pepe del giovane regista Nelson Carlo de Los Santos Arias, originario della Repubblica Dominicana.
Sembra di parlare di Sanremo – e durante la visione del film italiano Gloria! il dubbio è stato quasi, ahimè, confermato! – e invece stiamo parlando di un festival di cinema. Voci che non solo parlano ma, a quanto pare conquistano, visto che questi tre film hanno vinto i maggiori premi del festival: a Dahomey è stato assegnato l’Orso d’oro, L’Empire si è aggiudicato l’Orso d’argento - premio della giuria, e Pepe ha conseguito nientemeno che l’Orso d’argento per la miglior regia.
Tre voci quindi mai esistite se non nella mente dei loro creatori. Ciò che affascina e stupisce è che questi suoni fantastici vengono inseriti in una rappresentazione della realtà che vuole essere il più vicino possibile al linguaggio documentario, quindi realistica. Ed è proprio qui che i nostri tre film vincitori superano la definizione di genere. Non ci sono dubbi che il cinema vive il suo apice in forza di ciò che è reale, ma anche di fantasia e immaginazione. Dopotutto, agli albori della storia del cinema, le costruzioni fantastiche di Georges Méliès sono nate quasi parallelamente (posteriori di solo un anno) alla realtà documentata nei fotogrammi dei fratelli Auguste e Louis Lumière. Ma può succedere immancabilmente come in questo festival che elementi dei due linguaggi, solitamente ‘antitetici’ e quindi usati separatamente, si incastrino fra loro per ‘far saltare’ il canone dei generi. Ci troviamo di fronte a documentari che utilizzano la chiave fantastica e film realistici, per non dire iperrealistici, che si servono della realtà virtuale. E guarda caso il personaggio più emblematico e buffonesco, il Belzebù di L’Empire, non sfigurerebbe fra le tante grottesche figure di maghi e diavoli che appaiono e scompaiono nei film di Méliès.
Lo stravolgimento e abbandono della ‘regola’ dei generi in questa Berlinale sembra non fermarsi alla realizzazione filmica. Basti pensare che la giuria ha premiato per il secondo anno di seguito con il premio per il miglior film, non un film (di finzione), ma un documentario. L’anno scorso era stato premiato Sull’Adamant (Sur l’Adamant, 2023) del documentarista francese Nicolas Philibert, per la sua puristica osservazione – poco montaggio, continuità temporale nelle sequenze – della vita comunitaria fra i pazienti del centro diurno di psichiatria parigina. Pure nella sezione Encounters (voluta da Carlo Chatrian) quest’anno ha vinto un documentario: il lunghissimo Direct Action (216 minuti) di Guillaume Cailleau e Ben Russell.
Ma torniamo ai film. Dahomey di Mati Diop documenta la restituzione nel 2021 di 26 tesori artistici (su un totale di 7000!) espropriati da truppe di soldati durante l’occupazione francese del Regno del Benin, ora Repubblica del Benin. La regista non si lascia andare a descrizioni estetiche sulle opere o a considerazioni storiche sul colonialismo, ma rimane piuttosto concisa – il film dura poco più di un’ora – e si limita a seguire le statue nel loro viaggio dal museo Quai Branly a Parigi fino al loro ritorno in patria, e a documentare la successiva discussione organizzata per i giovani studenti all’università di Abomey-Calavi. L’unica ‘interferenza’ stilistica di Diop sulle immagini è quella di dare coscienza all’enorme statua di legno di re Ghezo durante il viaggio. L’idea non è nuova. Già cinquant’anni fa un altro regista, Nii Kwate Owoo, aveva pensato di dar voce ai tesori africani nascosti nei magazzini del British Museum di Londra e ammirati solo da pochi esperti nel suo bellissimo cortometraggio You Hide Me (1970). Owoo, in bilico fra lo sperimentale e l’avanguardistico, aveva dato una vita propria alle opere, restituendo la magia, il sublime originale, che era stato ‘tolto’ loro allontanandole dal luogo d’origine. Il film, circolato spesso in canali non ufficiali, non ha purtroppo contribuito a migliorare la situazione e la maggior parte dei reperti rimane ancora oggi invisibile al vasto pubblico.
Lo stesso destino è toccato alla più famosa produzione francese Statues Also Die (Les statues meurent aussi), un film del 1953 diretto da Alain Resnais, Chris Marker e Ghislain Cloquet, che nonostante i suoi meriti artistici, riconosciuti con il Prix Jean-Vigo, è stata censurata per ben undici anni a causa della sua posizione anticolonialista. Per questo motivo, andando a toccare una piaga ancora aperta in tutte le ex potenze coloniali, Dahomey è un film importante e nonostante la sua brevità, o proprio grazie a questa, un manifesto, una lettera aperta alla restituzione di beni trafugati. Vedremo nei prossimi mesi se l’Orso d’oro contribuirà a portare Dahomey nelle sale dei cinema italiani e a riaccendere la discussione su questo tema certamente molto complesso e controverso che, anche in Italia, volutamente si evita di affrontare.
Come dicevamo, il film Pepe di Nelson Carlo de Los Santos Arias, è allo stesso modo difficilmente classificabile perché, come Dahomey, supera i generi o, se vogliamo, li somma in sé. In Pepe troviamo se non tutto, comunque molto. La storia di partenza è un episodio storico: Pablo Escobar il boss della mafia colombiana porta tre ippopotami in Colombia. Nel 2009 uno di questi viene allontanato dal branco e si trasferisce su un nuovo territorio lungo il Rio Maddalena, andando a scombinarne l’intero ecosistema. Di conseguenza, anche la pesca locale, fonte di sostentamento degli abitanti della zona, ne è danneggiata. Pepe verrà soppresso e passerà alla storia come il primo e ultimo ippopotamo ucciso in terra colombiana. Naturalmente la storia di Pepe, paradigmatico esempio di migrazione forzata, è il punto di partenza per una riflessione sulla dimensione colonialista del mondo in cui tutt’ora viviamo. Le oniriche sequenze di panorami africani dell’inizio lasciano il posto a episodi reali – o talvolta ricostruiti – sulla comunità di pescatori messa in agitazione dalla comparsa di un ‘mostro’ sconosciuto che vive nelle acque del fiume Maddalena.
Se i primi due film, come abbiamo accennato, superano il concetto di documentario, altri film in concorso amano invece la classica interpretazione dei generi. Uno in particolare gioca, anzi, addirittura si diverte a satireggiare il genere di fantascienza, e lo fa con intento prettamente provocatorio. Stiamo parlando di The Empire (L’Empire) di Bruno Dumont, una parodia di Guerre stellari (Star Wars, 1977) ambientata nell’idilliaca cittadina di Audresselles, vicino a Calais, nel Nord della Francia. In questo paradiso balneare estivo sta per aver luogo un grande scontro intergalattico fra le forze dell’Oscuro Male, lo Zero, e l’impero del Bene, l’Uno, rappresentato da un grande occhio. La guerra-farsa di L’Empire è una metafora di tutte le guerre terrestri, ma nasconde anche una critica a tutti i Credo ideologici, tanto politici (una versione spaziale della Reggia di Caserta serve da dimora a Belzebù, ma contemporaneamente viene eletta a simbolo del potere politico dell’impero del Male), quanto religiosi (l’astronave dell’impero del Bene ha le sembianze della chiesa di Saint-Chapelle a Parigi). Inoltre, Dumont non dimentica di mettere in scena il conflitto più antico del mondo, nato dalle differenze di genere fra uomo e donna, e che – basso istinto primordiale – contagia pure gli alieni e li conduce alla distruzione reciproca.
Sempre di ‘voci’, sebbene nel senso più ampio del termine, si parla anche in altre opere presentate in concorso. Nella coproduzione internazionale Another End, film di fantascienza dell’italiano Piero Messina, è l’anima del proprio caro quella che parla in un corpo estraneo ma prestato a fare da tramite fra il mondo dei defunti e il mondo dei vivi. Nel tunisino Who Do I Belong To (Mé el Ain) di Meryam Joobeur, i sogni della protagonista Aïcha (Salha Nasraoui), alla quale l’ISIS ha portato via due figli, sono visitati da voci e visioni che le rendono la vita quotidiana sempre più difficile. I confini fra realtà e sogno si fondono. La chiave di lettura del film passa dal naturalismo di partenza ad un realismo magico che rende impossibile per noi spettatori riconoscere i confini fra realtà e incubo. Infine, ancora una voce, quella della coscienza – e soprattutto l’amore per il comunista Hans Coppi – è quella che convince l’antifascista Hilde Coppi, in From Hilde, With Love (In Liebe, eure Hilde) di Andreas Dresen, a fare attivismo politico all’interno del gruppo definito con un certo disprezzo dalla Gestapo ’Die rote Kapelle’.
Nella ricostruzione storica The Devil’s Bath (Des Teufels Bad), per la regia di Veronika Franz e Severin Fiala, vincitore del premio per la straordinaria fotografia del cameraman austriaco Martin Gschlacht, trovano posto rumori, sussurri, e ancora, anche qui voci, che eludono la realtà documentata. Questa rivisitazione del genere dell’Heimat Film, si basa su documenti storici, protocolli di processi a donne che hanno compiuto il ripugnante crimine dell’infanticidio in Austria intorno al 1750. La protagonista Agnes (Anja Plaschg) si rifugia in un mondo fatto di spiriti e credenze, alienandosi dalla realtà a lei avversa in cui si trova a vivere con la famiglia del marito. Le voci che la inducono a compiere l’efferato omicidio sono tutte create nella sua testa. Un’altra opera in costume, pure basata su una buona ricerca storica di partenza, è la commedia d’esordio Gloria! della cantante italiana Margherita Vicario. La giovane regista reinventa la scena musicale veneziana d’inizi Ottocento e se la immagina più vicina alla canzone pop odierna che non alla situazione reale delle orfane e degli istituti di carità veneziani del tempo, dove ancora trionfava una più tradizionale musica sacra. Vicario osa un’operazione abbastanza delicata che non convince completamente nella realizzazione finale e che lascia alquanto perplessi.
Torniamo all’oggi con l’indipendente film americano A Different Man di Aaron Schimberg, premio per il miglior attore a Sebastian Stan. Questo dramma contemporaneo, in tempi in cui la codificazione di nuovi canoni di bellezza non accenna a venir meno, è una rivisitazione in chiave moderna della fiaba di La bella e la bestia. Qui la trasformazione del ‘brutto’ – e la mente, alla vista di alcune scene dove la figura umana viene stravolta dagli specchi, corre irrimediabilmente all’arte di Francis Bacon – in ‘bello’, se inizialmente riconduce sì il protagonista alla tanto bramata normalità, diventa poi perdita e annullamento della propria identità; il brutto, inteso come ‘forma rara’, fuori dalla norma, si trasforma in qualità eccentrica che espone ed eleva alla popolarità.
Il premio per la miglior sceneggiatura gratifica le tre lunghe ore di Dying (Sterben) di Matthias Glasner. Qui il regista tedesco prende spunto dalle sue recenti perdite familiari per raccontare il diverso rapportarsi con la morte dei membri della famiglia Lunies. Pur non volendo contestare il prestigioso premio, il film avrebbe potuto essere accorciato di almeno uno (il secondo) dei tre capitoli e avrebbe comunque funzionato narrativamente bene. Sicuramente la prima parte, culminante nell’inteso dialogo liberatorio fra la madre malata Lissy (Corinna Harfouch) e il figlio Tom (Lars Eidinger), ricordando confessioni intime di vaga ispirazione bergmaniana, ha ben meritato il riconoscimento della giuria. Fra le opere vincitrici A Traveler’s Needs (Yeohaengjaui pilyo), del multi-premiato regista sudcoreano Hong Sangsoo, si aggiudica l’Orso d’argento – gran premio della giuria, per un racconto in tre episodi basato sulla figura di Iris, interpretata da un’impudente Isabelle Hupper. Iris è una donna di mezza età che vive alla giornata, dando delle poco didattiche lezioni di francese. Le due parti iniziali del film confluiscono e si integrano nella terza e finale, la più lunga e completa, dove veniamo a sapere qualcosa di più sulla situazione in cui Iris vive. La forma filmica rispecchia non solo l’essenzialità, ma anche la struttura poetica di un haiku.
A mani vuote se ne escono altri notevoli contributi del Festival, quali l’iraniano My favourite Cake (Keyke mahboobe man) dei registi Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha. Il dramma cinematografico, arricchito di un leggero tocco di umorismo nero, indaga nella triste solitudine a cui sono costretti molti iraniani, specie se donne e vedove in età matura, come la protagonista Mahin (Lily Farhadpour) a causa delle restrizioni vigenti e dei controlli ossessivi, nonché eccessivi, della polizia morale. Lo stesso eccessivo controllo dell’autorità iraniana che ha rifiutato il visto ai due registi per presenziare alla premiere del loro film a Berlino. Anche l’avvincente e ben scritto Sons (Vogter) dello svedese Gustav Möller, non è stato preso in considerazione dalla giuria. Qui la guardia carceraria Eva si trova di fronte, nella prigione di massima sicurezza dove presta servizio, nientemeno che l’assassino del proprio figlio. Ne nasce un rapporto di malata dipendenza da parte di uno e di masochistico piacere da parte di Eva, la quale abusa inevitabilmente della situazione per vendicarsi.
Forse il film che nella struttura formale rimane più legato al genere del documentario è Architecton del regista russo trapiantato a Berlino Victor Kossakovsky. Eppure, anche qui, nonostante le sequenze ‘classiche’, dove l’architetto e paesaggista italiano Michele de Lucchi dispiega le sue teorie, le grandiose immagini di distruzione, riprese dal drone nella bombardata Ucraina o nelle città terremotate in Turchia, nascono da una estetica più vicina alle arti visive che non dalla volontà di documentare la devastazione. Come se non bastasse, le magnifiche sequenze rallentate di esplosioni di rocce ricordano le esperienze sensoriali ed immersive dei video creati, grazie all’aiuto dell’IA, dall’artista mediale Refik Anadol.
La sperimentazione, non solo sui generi cinematografici, ma anche sulle forme narrative convenzionali, che, come abbiamo visto, ha interessato gran parte delle opere in concorso, ha accompagnato pure la selezione dei circa venti film presentati nella sezione retrospettiva. L’idea di partenza, di (ri)proporre la visione di un cinema tedesco alternativo, indipendente e meno noto del periodo fra il 1960 e il 2000, si è ben inserita nella linea generale di questa edizione del festival, l’ultimo presieduto dal duo Rissenbeek-Chatrian. I nomi di registi tedeschi come Ulrich Schamoni, Hellmuth Costard, Roland Klick, Elfi Mikesch e Frank Vogel non dicono probabilmente molto al vasto pubblico internazionale, mentre sono noti a chi negli anni passati ha frequentato i vari festival europei che prediligono il cinema lontano dal mainstream. Versioni restaurate dei loro film sono oggi conservate nell’archivio della Stiftung Deutsche Kinemathek, organizzatrice della retrospettiva.
Se teniamo conto che l’evento berlinese attende una nuova direttrice per l’anno a venire, l’americana Tricia Tuttle, possiamo interpretare questa edizione come un momento di ridefinizione e di passaggio. Nonostante la mancanza di film veramente notevoli (il giudizio della critica è stato particolarmente negativo), la Berlinale dimostra di avere ancora voglia di reinventarsi e di continuare ad interessarsi a sempre e ancora possibili nuovi linguaggi cinematografici. In base a queste considerazioni non si può non riconoscerle la capacità di saper portare l’attenzione su visioni alternative di cinema, che possono anche non piacere, ma rimangono fondamentali per la produzione indipendente, in un più ampio contesto cinematografico internazionale.