1 Introduzione
“Non so bene come abbia fatto, ma è sempre stata l’arte, per prima, a modificare il nostro modo di pensare, di vedere, di sentire, prima ancora, certe volte cento anni prima, che si riuscisse a capire che bisogno c’era”: con questa frase Umberto Eco (1962: s.p.) chiudeva il saggio all’interno del catalogo della mostra itinerante Arte Programmata ordinata nel 1962 dalla società Olivetti e allestita la prima volta nello showroom della Galleria Vittorio Emanuele II a Milano.1
Gli artisti attorno ai quali si concentra il discorso di Eco sono coloro che, proprio in quegli anni, stando alla sua lettura, iniziano a indagare il rapporto dialettico tra “caso e programma”, innestando le loro ricerche nel solco del dibattito sulla rivoluzione informatica. Una delle componenti peculiari dei lavori di questi artisti è quella di essere cinetici o ottico-dinamici, quindi in movimento reale o virtuale e, soprattutto, di prestarsi all’imprevedibile intervento del fruitore, chiamato a interagire con essi e manipolarli.
Tali prerogative sono ormai note ed esemplificate dalle molteplici declinazioni con cui si fa riferimento alle sperimentazioni di questi “operatori cinevisuali”2 che rientrano nel movimento internazionale dell’Arte Cinetica, Optical o Programmata.3
Questo rapporto sinestetico tra l’osservatore e l’opera implica, pertanto, una visione diretta, soprattutto quando la volontà dell’artista è quella di sollecitare lo sguardo attraverso il movimento illusorio o reale, talvolta generato dallo stesso spostamento dell’osservatore (Popper 1975; 1997).
Sulla base di tali premesse, il presente articolo propone una riflessione su una problematica che, a prima vista, sembra essere passata sottotraccia ma che si è costantemente posta di fronte agli operatori cinevisuali: riuscire a comunicare la componente cinetica o ottico-dinamica dei loro oggetti al di fuori del convenzionale contesto espositivo.
In questa prospettiva, si è individuato un graduale avvicinamento degli artisti “programmati” ai media audiovisivi che per certi aspetti non sembra indicare una reale adesione al mezzo ma che, d’altro canto, si fa misura di un interessante campo di indagine per le loro ricerche.
Sulla scorta dell’analisi sistematica condotta dalla scrivente negli archivi di riferimento del Gruppo N4 (Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi e Manfredo Massironi), si intendono tracciare alcuni episodi di “sconfinamento” nell’uso dell’immagine in movimento da parte del collettivo padovano.
L’interesse degli artisti cinetici per la tecnologia è già entrato nell’attenzione della storiografia, di cui in via preliminare si ricordano tre momenti di messa a fuoco che hanno contribuito ad attrezzare metodologicamente il presente contributo.
Ipotizzando una “genealogia delle installazioni video” in Italia, Valentina Valentini ha riconosciuto, in alcune sperimentazioni di “cinema espanso” fuori dallo schermo, validi elementi per tracciare una pre-storia delle installazioni video (Valentini 2019: 34-52; 2022: 69-82). Intorno agli anni Sessanta, proprio in quelle zone d’interferenza fra performance art e arte degli ambienti si possono infatti scorgere gli esiti più evidenti di una rielaborazione del concetto di tempo e spazio dell’opera.
Valentini propone così un repertorio di esperienze indicative di tale tangenza, includendo, tra le altre, la realizzazione di ambienti cinetici ad opera di artisti come Marinella Pirelli o Davide Boriani e Gianni Colombo del Gruppo T.5
Le loro installazioni derivano non solo dalla presa di coscienza delle potenzialità che può assumere l’espansione dell’opera nel tempo e nello spazio circostante ma anche dalla sperimentazione del mezzo tecnologico, che diventa per questi artisti oggetto privilegiato di studi e ricerche.
A porre l’accento su questo aspetto è Silvia Bordini che, a partire dall’influenza teorica di Lucio Fontana sulla generazione di artisti successiva, individua nella complessità e nella frammentarietà delle ricerche dei primi anni Sessanta alcuni elementi strutturali per saggiare il terreno della videoarte. In particolare, scrive Bordini (2006: 7):
gli stimoli delle sue [Lucio Fontana] ipotesi sul rapporto tra arte e tecnologie trovano spazio piuttosto negli sviluppi di pratiche di tipo ambientale e percettivo, come quelle, tra le altre, dell’arte cinetica, le cui ricerche sul movimento reale o virtuale di dipinti, oggetti e installazioni, fondamentalmente relazionati all’osservatore, fanno parte senza dubbio del terreno di coltura da cui emerge la videoarte.
L’interazione con lo spettatore auspicata dalle ricerche cinetiche è il fattore determinante per instaurare un dialogo con le nuove tecnologie, tanto da convincere Bordini a sostenere che “coinvolgimento e partecipazione sono le parole d’ordine che, almeno ai suoi inizi, la videoarte condivide con l’arte cinetica, con l’happening, con la performance, con Fluxus” (Bordini 1995: 27).
In questo dialogo a più voci tra immagine in movimento e arte cinetica, occorre inserire anche il linguaggio cinematografico, decifrato in quest’ottica nella recente mostra Le diable au corps. Quand l’Op Art électrise le cinéma organizzata nel 2019 presso il Musée d’Art Moderne et d’Art Contemporain (Mamac) di Nice (Guenin and Mari 2019). Proponendo un’importante ricognizione sul legame tra cinema e arte cinetica, la rassegna ha indagato la corrispondenza tra le due arti con un taglio innovativo e da una prospettiva internazionale. Hélène Guénin e Pauline Mari, curatrici della mostra, hanno selezionato una trentina di film che mostrano questa commistione di linguaggi attraverso l’incursione di motivi geometrici e luminescenti nel mondo del cinema, della moda e del consumo di massa.
La lunga schiera di cineasti presentati in questa esposizione comprendeva gli italiani Michelangelo Antonioni, Mario Bava ed Elio Petri ma anche gli artisti Marina Apollonio, Gianni Colombo, Grazia Varisco e lo scenografo Piero Poletto; non si segnala, invece, la presenza del Gruppo N.
Tali studi costituiscono un punto di partenza imprescindibile, cui va nondimeno annessa l’esperienza del Gruppo N, il cui avvicinamento all’immagine in movimento si configura come un campo d’indagine senz’altro inesplorato e che può quindi fornire un ulteriore tassello per la ricostruzione di questa storia.
2 Trasmettere l’idea di movimento con la fotografia
Scandagliando la documentazione prodotta dal Gruppo N a partire dal 1960 emerge l’urgenza, sempre più crescente, di superare il limite della fotografia che non garantiva un’adeguata lettura del carattere mutevole dei loro oggetti ottico-cinetici o programmati.
È sorprendente come, ogniqualvolta venga richiesto ai cinque artisti di spedire documentazione fotografica delle loro opere, essi siano costretti a segnalare la scarsa qualità delle riproduzioni degli oggetti, che nella maggior parte dei casi necessitano di essere supportate da descrizioni, schizzi o progetti.
Già nel 1961, in occasione del Premio Lissone – una delle prime manifestazioni a cui partecipa il Gruppo N dopo la sua formazione – Manfredo Massironi avverte l’esigenza di scusarsi con l’allora Segretario del concorso Guido Le Noci per l’inadeguatezza delle immagini spedite:
[…] inviamo una documentazione fotografica di alcuni nostri lavori. Vi è da tener presente che non sempre la fotografia riesce a rendere il senso delle nostre cose, in quanto la fotografia rende evidente una sola delle possibilità visive che intervengono ad ogni mutamento del punto di vista (Massironi 1961).
E ancora, l’anno successivo, nel tentativo di mostrare il funzionamento di un’opera luminosa attraverso una serie di fotografie, Massironi scrive a Giorgio Soavi, responsabile dell’Ufficio Ricerche Pubblicità della Olivetti:
Egregio Sig. Soavi, Le invio le fotografie del nuovo oggetto, non sono venute molto bene, ma il tempo non mi ha permesso di ottenere risultati migliori, le unisco anche alcuni negativi […]. Il titolo dell’oggetto è: Fotoriflessione dinamica. La descrizione: fra degli specchi semitrasparenti sono poste 9 lampadine. Il movimento degli specchi determina il moltiplicarsi e lo stratificarsi in posizioni diverse dei filamenti incandescenti (Massironi 1962).
Da queste testimonianze emerge che la fotografia si configuri per il Gruppo N esclusivamente come uno strumento funzionale a verificare il punto di vista migliore per presentare i propri lavori, soprattutto in vista della pubblicazione di un eventuale catalogo. Infatti, la frontalità dell’immagine e la mancanza di movimento hanno portato il collettivo a escludere l’impiego della fotografia come linguaggio espressivo, eccetto che per poche eccezioni.6
Il problema di come rendere coerente una rappresentazione di questi lavori viene sollevato senza mezzi termini da Davide Banzato nel 1988, in occasione della mostra Antologica di Alberto Biasi organizzata al Museo Civico agli Eremitani a Padova:
per ben comprendere questo tipo di arte è indispensabile il diretto approccio alle opere, non mediato dalla fotografia in quanto, trattandosi di lavori normalmente etichettati come “arte cinetica”, questa ne dà solo un’immagine parziale, offrendo solo una veduta tra le svariate possibili e non permettendo di percepire il percorso interno, la ‘storia’ che ognuno di questi oggetti racchiude in sé (Banzato 1988: 6).
Tra gli espedienti utilizzati per superare questo limite è rilevante quello adottato ancora nel 1962 per la grafica del catalogo della mostra Arte Programmata (Munari and Soavi 1962) e che propone la successione di più scatti di Ugo Mulas della stessa opera al fine di rendere l’idea di movimento o variazione, altrimenti impossibile mediante la consueta immagine fissa dell’oggetto.
3 Spettacolari visioni di Bruno Munari
Una figura chiave all’interno della rete di relazioni che il Gruppo N ha intessuto nei primi anni Sessanta è certamente Bruno Munari, che per la natura intermediale dei suoi lavori è forse colui che ha inciso maggiormente nell’evoluzione delle ricerche del sodalizio padovano.
L’incontro avviene nel febbraio 1961, quando il collettivo organizza una mostra di Munari presso il proprio Studio N7 in cui espone una serie di lavori dell’artista milanese tra cui oggetti di design, libri e Sculture da viaggio (Fig. 1).
Affascinati dal pensiero munariano e dalla sua visione “democratica” dell’arte, gli N colgono tra l’altro l’opportunità di presentare al pubblico le Proiezioni, che nel cartoncino di invito della mostra vengono descritte così:
1953: prime ‘proiezioni dirette’: piccoli collages di materia plastica trasparente e colorata. nel 1954 esegue le ‘proiezioni a luce polarizzata’, dove, per mezzo della decomposizione della luce spettrale, la proiezione si colora e cambia con la semplice rotazione del filtro polarizzante. queste proiezioni sono state presentate nei musei e nelle gallerie di diversi paesi. nel 1958 Munari ha esposto a Milano una serie di sculture articolate riprodotte in materiali diversi.8
Esposte per la prima volta a Milano nel 1953 presso lo Studio B 24, le Proiezioni dirette sono realizzate “[…] con materiali vari, trasparenti, semitrasparenti e opachi violentemente colorati o a colori delicatissimi, con materie plastiche tagliate strappate bruciate graffiate liquefatte polverizzate, con tessuti animali e vegetali, con fibre artificiali con soluzioni chimiche […]”.9 Tale operazione non può che ricordare le prime sperimentazioni di “film dipinti” (1910-1912) dei fratelli Corradini, Arnaldo Ginna e Bruno Corra, considerati pionieri della pittura cinematografica per aver teorizzato l’intervento diretto del colore sulla pellicola attraverso configurazioni astratte.
Stimabili tra le innovazioni che meglio rispecchiano il carattere sperimentale di Munari, queste opere possiedono la peculiarità di essere “dirette”, ossia di rappresentare la proiezione di sé stesse – nella dimensione desiderata – senza alcuna mediazione.
Recentemente, Pierpaolo Antonello ha sottolineato come le Proiezioni dirette di Munari siano state concepite “come una sperimentazione per destrutturare i principi della pittura sulla tela, verso una sua integrazione e amplificazione di carattere cinematografico” (Antonello 2023: 21). Come un bricoleur, Munari assembla in questi lavori materiali diversi, aprendo l’opera a una dimensione ambientale (della proiezione), in grado di integrarne lo spazio con quello del fruitore.
Il carattere “cinematografico” di queste proiezioni ha indotto Matilde Nardelli a reputarle “the first moving-image installations in art-exhibition history, anticipating the turn toward the projected and cinematic image in art which, while at its peak in the last couple of decades, begins to unfold in the course of the 1960s” (Nardelli 2017: 273).
Le componenti sperimentali e immersive di questo tipo di produzioni di Munari, come anche la loro dimensione ludica e performativa, sono solo alcuni degli elementi apprezzati dal Gruppo N, che ritrova nella semplicità e nell’economicità di queste opere un’affinità con il proprio modus operandi.
Anche le Proiezioni a luce polarizzata, databili a partire dal 1954 avranno una ricaduta nell’indagine lumino-cinetica del Gruppo N, se pensiamo ai Light Prisms di Biasi, realizzati a partire dal 1962.
In questo caso Munari utilizza un filtro polarizzante per rendere dinamici i colori e ricreare lo stesso processo di scomposizione della luce che si genera attraverso un prisma di cristallo. Tali creazioni si contraddistinguono per la proiezione di composizioni (e colori) mobili, dinamiche, in grado di giocare e combinarsi tra loro (Munari [1966] 2022: 211): «ogni composizione può avere tutti i colori e tutte le intonazioni ruotando uno dei polaroid: può avere colori leggeri o intensissimi» (Munari 1961: 289).
Il Gruppo N ha modo di conoscere e apprendere il meccanismo delle Proiezioni a luce polarizzata durante una iniziativa che lo stesso collettivo organizza al Teatro Ruzante di Padova il 10 febbraio 1961 – la sera precedente all’inaugurazione della mostra presso lo Studio N – in collaborazione con il Centro Universitario Cinematografico.10 Entrando in contatto con un contesto “estraneo”, di impronta performativa – che il poliedrico Munari destreggiava già da tempo con disinvoltura – gli artisti padovani si occupano infatti della dimostrazione al pubblico di queste spettacolari visioni, commentate per l’occasione dallo stesso Munari, all’interno di una vera e propria operazione didattico-performativa:
[Bruno Munari] ha proiettato delle diapositive in bianco ottenendo sullo schermo rappresentazioni colorate. Non è manipolazione alchimistica ma ingegnosa applicazione del principio newtoniano del prisma. Bruno Munari distende, con opportuna varietà e determinate striature, pezzetti di cellofane e di mica sul quadratino di vetro; ruotando poi lentamente un raggio di luce polarizzata il colore primitivo si anima, trasformandosi nel suo complementare. Dinamismo del colore che inverte quello ottenuto nel cinematografo dove un raggio fisso proietta una sequenza di immagini (Algi 1961).
La possibilità di creare immagini e forme in movimento con la sola luce, di per sé effimera e “immateriale”, viene recepita immediatamente da questi artisti che iniziano a concepire l’ipotesi di poter misurare i loro lavori con lo spazio circostante. Alcuni progetti del Gruppo N di questi anni, come ad esempio Proiezione di luce e ombra (1961) o il primo prototipo del Light Prisms (1962) di Biasi, ricercano il coinvolgimento mentale e fisico-percettivo del visitatore e costituiscono un esempio significativo di quelli che poi verranno definiti “ambienti praticabili e cinetici”.
In questi esempi riportati, la misurazione dello spazio, riempito di sola luce, è strettamente legata al cinetismo (o alla percezione di movimento) e all’esperienza polisensoriale del pubblico, che percepisce l’ambiente in continua mutazione, attivando uno sguardo prolungato nel tempo.
4 Arte Programmata e The Responsive Eye: due set imperdibili
In territorio italiano, il laboratorio della mostra Arte Programmata del 1962 promossa dalla società Olivetti e organizzata da Bruno Munari e Giorgio Soavi si configura come un caso di studio emblematico per comprendere l’indispensabilità della componente “dinamica” dei lavori degli artisti coinvolti, secondo cui il cinetismo è uno “strumento – e non il fine – di quell’‘oggettivizzazione’ della percezione estetica che è il vero scopo di questa tendenza” (Meneguzzo 2000: 16).
Da semplice “spettatore”, il destinatario dell’opera diventa infatti “osservatore”,11 configurandosi talvolta come “co-produttore o partecipante” (Bishop 2012: 2) secondo una concezione democratica dell’arte, fortemente condivisa da questi artisti che mirano al raggiungimento di una suddivisione equa, tra operatore e pubblico, del processo creativo (Caplan 2022: 37-38).
Questi elementi, fondamentali per un’analisi delle ricerche degli artisti italiani presenti nella mostra Arte Programmata, sono visibili distintamente nell’omonimo film realizzato in occasione dell’inaugurazione dell’esposizione e in cui, per la prima volta, le opere di Bruno Munari, di Enzo Mari e dei gruppi N e T vengono filmate da una cinepresa che è in grado di documentarne il cinetismo o la percezione del movimento in base allo spostamento del fruitore.
Tale approccio è certamente da collegare a quel “magna di sperimentazioni linguistiche” che Silvia Bordini (1995: 13) ha rintracciato nel complesso delle ricerche condotte proprio nel corso degli anni Sessanta in cui
L’opera esprime un’irresistibile tendenza a non identificarsi più con un oggetto ma con un’azione-reazione nello spazio e nel tempo, con il comportamento dell’artista come dello spettatore. La tecnica tradizionale è rifiutata a favore della sperimentazione di nuovi mezzi che possono ormai includere qualsiasi cosa e qualsiasi linguaggio (frammenti, corpo, paesaggio, luce, spazio, elettricità…) sul filo di un’incessante ricerca che mette in discussione non solo il concetto di arte e di tecnica ma anche quello di modernità e progresso, portando alle discontinuità del postmoderno (Bordini 1995: 13).
Insieme a pochi altri film dell’epoca, Arte Programmata rappresenta uno dei primi esperimenti cinematografici “in cui è intrinseco il legame genealogico tra l’arte programmata e l’immagine in movimento, sia essa del film d’artista o, di lì a poco, della videoarte” (Bartorelli 2022: 412).
Con il documentario di questa mostra, prodotto dalla Direzione Pubblicità e Stampa Olivetti e ideato da Munari insieme alla regia di Enzo Monachesi e alla sceneggiatura di Marcello Piccardo, inizia l’attività cinematografica dello Studio di Monte Olimpino, vicino Como, fucina di film sperimentali realizzati con l’intento di offrire una “possibilità di comunicazione visiva” (Munari [1971] 2008: 95) attraverso un cinema di ricerca.12
Il carattere cinetico e interattivo delle opere di Munari, di Enzo Mari, del Gruppo T di Milano e del Gruppo N di Padova è forse la ragione che induce Munari a prevedere una visione dell’esposizione anche attraverso l’immagine in movimento. Infatti, mentre la staticità della fotografia avrebbe compromesso la lettura degli oggetti esposti, il film sarebbe riuscito a “riprodurre i cinetismi dell’arte programmata, preclusi invece alla fotografia” (Bartorelli 2022: 412).
Quel che emerge dalle scene girate durante l’inaugurazione della mostra allo showroom Olivetti di Milano è la presenza di un pubblico estremamente attivo, impegnato a osservare le opere e ad interagire con esse.13
Dopo averci introdotto nel laboratorio degli artisti, la macchina da presa di Monachesi ci offre una panoramica della Galleria Vittorio Emanuele II per poi “insinuarsi” (Alicata 2022: 15) nella sala espositiva affollata di visitatori; da qui le riprese sono tutte studiate per registrare l’interazione tra pubblico e oggetti.
Come rileva Lindsay Caplan (2022: 57-61) nella sua analisi del film, ci sono da un lato persone che osservano ipnotizzate il percorso del liquido colorato attraverso i sottili tubi di plastica dei Percorsi fluidi orizzontali di Giovanni Anceschi, dall’altro, invece, alcuni visitatori che seguono con lo sguardo la limatura di ferro della Superficie magnetica di Davide Boriani, mentre un’altra scena ci mostra un solitario spettatore seduto in una stanza buia che osserva le proiezioni luminose emesse dall’Opera n. 649 di Enzo Mari.
Tali accorgimenti servono agli autori per trasmettere l’idea di movimento, reale o puramente percettivo, mettendo in evidenza il tratto distintivo dell’arte programmata: la variazione imprevedibile delle immagini conseguente all’intervento (o spostamento) dell’uomo.
Emblematica è la scena in cui una bambina alza lo sguardo verso le Nove sfere in colonna di Bruno Munari, interrogandosi probabilmente sul loro continuo roteare su stesse, o ancora quella in cui una visitatrice interviene direttamente con una mano sul Rilievo ottico dinamico di Alberto Biasi variando la direzione delle asticelle dell’opera e riconfigurandone così l’aspetto originario.
È evidente, quindi, che “[…] the specific articulation of the exhibition on film highlights how the programmed mode of production can instigate audience participation” (Caplan 2022: 58-59).
Rendere decifrabile questa componente interattiva diventa una sfida anche per Alberto Caldana,14 regista e scenografo di origine vicentina che visita la mostra nell’ottobre 1962, quando Arte Programmata fa tappa nel negozio Olivetti in via del Tritone a Roma.
Come vedremo, l’intenzione di Caldana di girare un documentario sulle opere e sugli artisti coinvolti resterà soltanto un’idea mai realizzata ma è interessante leggere le sue parole destinate a Massironi:
Gentile Sig. Massironi, […] sono intervenuto all’inaugurazione della Mostra d’Arte Programmata alla Olivetti di Roma e, veramente colpito e affascinato dalle opere esposte, ho subito pensato alla possibilità di realizzare un documentario cinematografico su quegli oggetti e sui loro autori. Quella sera stessa ho esposto brevemente la mia idea (del resto non nuova) al dottor Musatti e al prof. Munari, ottenendone un’adesione di massima, che si è andata perfezionando in occasione di un successivo incontro questa volta milanese, durante il quale ho avuto modo di conoscere alcuni suoi colleghi del gruppo “T” di Milano (Caldana 1962a).15
Il documentario cinematografico sembra essere, ancora una volta, la soluzione più idonea per attestare il funzionamento di questi oggetti sperimentali. Tuttavia, l’operazione di Caldana non riesce a realizzarsi, come apprendiamo da un telegramma che informa dell’interruzione del progetto a causa del budget limitato a disposizione del regista, insufficiente per sostenere le spese di trasferta delle riprese (Caldana 1962b).
Tali episodi non sono certamente “casi isolati” ma testimoniano l’esistenza di una tendenza che riconosce l’efficacia degli strumenti audiovisivi per documentare mostre allestite con opere sperimentali.16
Seguendo il Gruppo N nel corso delle sue esperienze espositive, si può prendere in considerazione un’altra mostra decisiva in cui viene condotta la stessa operazione: l’esposizione internazionale The Responsive Eye che riunisce nel 1965, al MoMA di New York, oltre centoventi lavori dell’arte ottica, cinetica e programmata (Seitz 1965).
La mostra newyorkese si preannuncia dirompente, sostenuta da un lato dalla stampa e dall’altro dalle ultime tendenze del mondo della moda, che attinge a piene mani al repertorio della cosiddetta “Op Art”. Ma il successo di questa manifestazione è testimoniato in modo particolare dall’attenzione che le riserva la nota emittente televisiva CBS (Columbia Broadcasting System), che le dedica un servizio presentato dal giornalista statunitense Mike Wallace.17
Nonostante delle opere del Gruppo N apparse nel filmato si riconosca soltanto la Visual Dynamics del 1963 di Toni Costa, si può azzardare un parallelismo con Arte Programmata di Munari e Piccardo, trovando due analogie con il documentario di Monte Olimpino che consistono nelle inquadrature dei visitatori intenti a studiare le opere e nella musica sperimentale, affidata in questo caso al batterista jazz Specs Powell, mentre nel film italiano a Luciano Berio. Tuttavia, come sottolinea Caplan, “the film for The Responsive Eye is more narrative than demonstrative, relying on talking heads more than footage of the works” (Caplan 2022: 75).
Per il pubblico newyorkese la mostra The Responsive Eye si rivela un tripudio di sensazioni, tra meraviglia e disorientamento per gli effetti ottico-dinamici degli oggetti esposti. Ma come comunicare, al di fuori di quelle sale espositive, la percezione di vertigine e cinetismo?
Il giornalista John Canaday sul The New York Times segnala questa criticità e commenta che l’impossibilità di documentare le opere optical mediante la fotografia risieda proprio nell’integrazione di questo nuovo tipo di arte con le moderne tecnologie, più idonee invece a tale compito:
The trouble with optical art of this kind (and also its joyous relief) is that it cannot very well be photographed, and that a scientist is as good a commentator on it as an art critic, or a better one. […] It is impossible to photograph any satisfactory way a work of art that exists only in its shifting aspect as your physical relationship to it is shifted. […] Having said already that these objects cannot be captured by a photograph (although they could be by a movie camera – in itself a comment on their integration with modern invention), the best that can be done here is to show an example that falls between the new idea of constantly shifting perceptions and the old idea of static design (Canaday 1965).
Cavalcando l’onda del successo op, l’anno successivo il regista Brian De Palma, allora all’esordio della sua carriera, celebra la mostra con il mediometraggio The Responsive Eye.18
Le riprese del documentario vengono girate durante l’allestimento e l’inaugurazione, in una vivace alternanza di interviste, inquadrature fisse e in movimento che enfatizzano gli effetti percettivi creati dalle opere esposte. Offrendo un’eccezionale istantanea dell’atmosfera e della partecipazione attiva di artisti, studiosi e visitatori di questa mostra, De Palma interroga esperti come il curatore William Seitz, lo psicologo Rudolf Arnheim, gli artisti David Hockney e Jeffrey Steele e tanti altri. Anche in questo caso l’unica opera del Gruppo N riconoscibile è quella di Costa, indubbiamente la più rappresentativa del collettivo padovano tra quelle presentate nella mostra newyorkese. A supplire all’assenza della componente musicale è il brusio delle voci del pubblico, che intervistato in alcune scene da De Palma concorre a rendere ancora più coinvolgente la visione del film attraverso descrizioni “a caldo” di impressioni e sensazioni provocate dall’esposizione.
Molto interessanti sono le scene che mettono a confronto la texture optical degli abiti di alcuni visitatori e le opere, come quella in cui una donna, inquadrata dall’alto verso il basso, mostra scarpe, calze e un vestito totalmente decorati con linee bianche e nere che creano un effetto intenzionalmente vertiginoso (Fig. 2).
5 Un’opera per la Magneti Marelli
L’episodio più rappresentativo in questa ricostruzione che, in prima battuta, si propone di individuare i casi in cui il Gruppo N si è confrontato con lo schermo, risale al 1964. Quell’anno, infatti, la fabbrica italiana Magneti Marelli, su suggerimento di Bruno Munari, commissiona al gruppo padovano un’opera che fosse in grado di dimostrare il funzionamento della televisione a circuito chiuso a colori.
Specializzata nella produzione di sistemi ad alta tecnologia, da oltre vent’anni la Magneti Marelli stava lavorando nel campo dei mezzi audiovisivi e alla 42a Fiera di Milano lo stand milanese avrebbe presentato per la prima volta in Italia – da quanto leggiamo dalla dichiarazione in Conferenza Stampa del Presidente Bruno Antonio Quintavalle – la trasmissione di una televisione a circuito chiuso a colori destinata a un “pubblico estremamente vasto” (Appunti sulla conferenza stampa 1964: 10) e non più solamente all’industria e alle aziende.
In sostanza, al Gruppo N viene richiesto di realizzare un oggetto colorato e in costante movimento ma che, allo stesso tempo, non provochi la sovrapposizione dei colori durante la trasmissione. Da questi parametri nasce Strutturazione cinetica (o dinamica), costituita da un pannello sul quale ruotano, mossi da elettromotori, diciannove dischi dipinti (Fig. 3).
La vicenda di quest’opera ci interessa per dimostrare come il Gruppo N abbia dovuto programmare un lavoro immaginandolo per una visione attraverso lo schermo.
Nei giorni della Fiera Campionaria di Milano, due monitor, uno a colori e l’altro in bianco e nero, hanno infatti trasmesso il segnale proveniente da una telecamera Magneti Marelli puntata sulla Strutturazione cinetica, come è evidente in alcune fotografie dell’epoca (Fig. 4).
In particolare, una fotografia posseduta dall’Archivio Storico della Fondazione Fiera di Milano ci mostra l’allestimento del padiglione Marelli adibito come un vero e proprio studio televisivo, dove l’opera del Gruppo N occupa il centro della sala (Fig. 5).
I dischi bicolori secondo il simbolo del Tao, ruotando in moto eccentrico e cambiando ininterrottamente la loro posizione, avevano così risolto il problema della variazione cromatica:
Il colore non doveva mai rimanere nello stesso punto sullo schermo, per più di un certo numero di secondi, perché altrimenti avrebbe prodotto la persistenza dell’immagine con effetti di sfarfallio. Nella rotazione eccentrica dei diciannove dischi bicolori, mossi da un elettromotore posto sul retro, il colore in ogni punto varia in pochi secondi, senza che si verifichi mai il sovrapporsi di una cromia (Antologica Alberto Biasi 1988: 50).
La dimostrazione messa a punto sui due schermi alla Fiera di Milano non può essere considerata come un esempio di “arte in tv”,19 perché né Strutturazione cinetica era stata concepita come opera d’arte né i monitor avevano lo scopo di intrattenere un pubblico o veicolare un contenuto.
Ciò che interessa è piuttosto l’idea di concepire il piccolo schermo come luogo di indagine e sperimentazione, nel quale gli artisti padovani possono assistere alla smaterializzazione del loro oggetto nello spazio, per di più nel corso delle prime “prove tecniche di trasmissione a colori”.
In realtà, pur avendo ideato una valida soluzione, il Gruppo N non valuta adeguatamente il materiale da utilizzare per i dischi che, realizzati in ottone, non riescono a garantire una fluida rotazione neppure il giorno dell’inaugurazione. Intervenuti più volte sull’oggetto, gli operatori della Magneti Marelli sono costretti a rimandare indietro l’opera “in quanto la costruzione veramente rudimentale dei suoi cinematismi provoca continui arresti di gruppi di dischi che, oltre a togliere al tutto la necessaria efficacia, ne impedisce l’uso” (Magneti Marelli 1964).
Fallita la messa in funzione della prima versione di Strutturazione cinetica, ne viene rifatta totalmente un’altra da Biasi e Massironi con sfondo nero e sfere in PVC. Questa seconda variante è presentata lo stesso anno alla XXXII Biennale Internazionale di Venezia, dimostrando come quell’oggetto, considerato funzionale solo alla telecamera, all’interno di un circuito artistico potesse assumere un altro significato. Interessante è l’appellativo di “quadro mobile” dato all’opera da Dino Buzzati (1964) per spiegare ai lettori de La Domenica del Corriere la componente cinetica dell’oggetto, raffigurato in una fotografia sul rotocalco italiano (Fig. 6).
6 Cinema e televisione
La capacità del cinema di sublimare i giochi visivi e creare atmosfere suggestive è stata compresa da molti cineasti attivi negli stessi anni in cui si assisteva all’ascesa della cosiddetta Op Art. Numerose sono le loro collaborazioni con gli artisti, spesso assunti per svolgere compiti che competono alle professioni della cinematografia come la creazione di costumi, l’illuminazione della scena o l’allestimento di ambientazioni.
Tra i tanti, uno dei registi che ha saputo integrare al meglio arte e cinema è Henri-Georges Clouzot che, dopo il successo del documentario Il mistero Picasso (Le Mystère Picasso, 1956), si cimenta nella realizzazione di L’Enfer (t.l.: L’inferno, 1964), film incompiuto ma che rimane uno dei tentativi più noti di interferenza tra arte ottico-cinetica e cinema mainstream.20
L’interesse di Clouzot per le ricerche di questi artisti sperimentali emerge soprattutto dopo la sua visita alla mostra Nouvelle Tendance – recherche continuelle organizzata nel 1964 presso il Pavillon de Marsan del Palais du Louvre al Musée des Arts Décoratifs di Parigi.
Coordinata dal Groupe de Recherche d’Art Visuel, l’esposizione ospita opere degli artisti appartenenti al gruppo internazionale delle Nove tendencije (Rubino 2021), tra le cui fila è presente anche il Gruppo N.
In una lettera conservata nell’Archivio Storico Alberto Biasi, gli artisti francesi Joël Stein e Yvaral (Vasarely) comunicano ai colleghi padovani l’intenzione di Clouzot di girare delle riprese nelle sale del museo parigino per un suo film:
Le Metteur en Scène Henri-Georges Clouzot a été très intéressé par notre exposition au Musée des Arts Décoratifs à Paris. Il envisage de tourner un documentaire sur l’instabilité visuelle, dans lequel les travaux présentés à notre exposition tiendraient une place importante, ce qui serait, pour tous les auteurs des œuvres exposées, d’un intérêt évident (Stein e Vasarely 1964).
Nel film incompiuto L’Enfer (t.l.: L’inferno, 1964) si possono così riconoscere le riprese girate all’interno del Musée des Arts Décoratifs tra le opere Continuel-lumière di Le Parc, Struttura acentrica di Colombo, Polyèdre di Stein, Tableau focus di Gerstner, Instabilité di Yvaral, oltre a lavori di Uecker, von Graevenitz, Alviani, Wilding, Biasi e Costa che vengono ingranditi o distorti per giocare con i loro effetti moiré.
In Italia, una dinamica simile si verifica tra il regista romano Elio Petri e il Gruppo N: invitato dal collega Franco Rossi a visitare la mostra Perpetuum Mobile allestita nell’aprile 1965 presso la Galleria L’Obelisco di Roma, Petri rimane affascinato da quelle geometrie modulari e dalle illusioni visive generate dalle opere esposte. Dopo aver rintracciato Davide Boriani tramite il gallerista Gaspero del Corso, il regista chiede così all’artista milanese di aiutarlo nella realizzazione delle ambientazioni in “stile Op” del suo nuovo film La decima vittima (1965), i cui protagonisti, Ursula Andress e Marcello Mastroianni, vivono una Roma immaginaria degli anni Duemila.
Come spiega la studiosa Pauline Mari (2018: 202), il coinvolgimento del Gruppo N si deve quindi a Davide Boriani che, assieme allo scenografo Piero Poletto, aveva chiesto ad Alberto Biasi e a Edoardo Landi il permesso di realizzare l’ingrandimento della loro opera del 1964 intitolata Serigrafia S1 per fare da sfondo alla scena girata nella sala con il pianoforte, generando l’illusione di figurazioni circolari date dall’alternarsi dei quadrati negativo-positivo dell’opera21 (Fig. 7).
Lo stesso pannello adoperato ne La decima vittima (1965) sembra essere stato riutilizzato in televisione non molto tempo dopo, nell’undicesima puntata del programma Studio Uno (1961-1966) del 23 aprile 1966: in apertura alla trasmissione, davanti a un’enorme gigantografia della Serigrafia S1 di Biasi e Landi, l’allora giovanissima Rita Pavone si esibisce nel suo energico Geghegé (1961), cantato e ballato insieme a un nutrito corpo di ballo.22 Sulle note di uno dei brani più popolari dell’epoca, il motivo a scacchiera ideato dal Gruppo N viene così celebrato da una coreografia ritmata ed eseguita da un gruppo di abili ballerini e dalla stessa Rita vestita, come tutti loro, rigorosamente con abiti bianchi e neri.
Dopo questi episodi, il rischio che l’arte programmata e cinetica venisse fagocitata dalla società dei consumi – pericolo già ventilato dopo la mostra newyorkese The Responsive Eye – diventa ormai realtà per gli artisti appartenenti a questa tendenza che, per la maggior parte, prendono le distanze dai media audiovisivi aderendo a questi mezzi solo in casi circostanziali.
Ad esempio, nel 1966, alcuni anni dopo lo scioglimento del sodalizio padovano, Alberto Biasi e Manfredo Massironi firmano un’importante collaborazione, poco nota, per la realizzazione della prima sigla televisiva del programma Rai di divulgazione scientifica Orizzonti della scienza e della tecnica (1966-1973) a cura di Giulio Macchi.23 Il presentatore, sostenendo un solido dialogo con l’arte contemporanea, chiama anche Mario Ceroli, Gino Marotta e Tano Festa per l’allestimento delle scenografie dei suoi programmi, secondo una collaborazione virtuosa tra artisti e televisione pubblica (Mari 2016a: 505).
Il coinvolgimento di Biasi e Massironi non è però legato alla realizzazione di scenografie attraverso opere ambientali24 – sicuramente campo più affine alle ricerche dei due artisti – quanto piuttosto a un lavoro di matrice “cinematografica” che consiste nella creazione della sigla del programma televisivo.
Sulla base del progetto pubblicato all’interno della monografia sul Gruppo N a cura di Volker W. Feierabend (2009: 328) (Fig. 8), si è potuto procedere alla ricerca della sigla di Biasi e Massironi nell’archivio Teche Rai, individuandola nelle prime puntate andate in onda a partire dall’edizione 1966 (Previti 2023: 334-336).
Pur trattandosi di un “timido” avvicinamento al piccolo schermo, il prodotto finale risulta convincente: sulla musica del compositore Béla Bartók,25 i due autori si sono infatti cimentati nella sperimentazione dell’immagine in movimento attraverso la successione in dissolvenza dell’Uomo Vitruviano di Leonardo, del Modulor di Le Corbusier e della sezione aurea. Tale testimonianza visiva svela un aspetto delle ricerche di questi artisti assolutamente originale e poco conosciuto: trasparenze, animazioni di scritte e figure geometriche mostrano uno studio consapevole della programmazione dell’immagine in movimento, confermando che le sigle di apertura e chiusura dei programmi televisivi sono state spesso luogo di “interessanti sperimentazioni sulle possibilità espressive e comunicative dell’immagine in movimento”, frutto del rapporto “tra progetto grafico e medium tecnologico” (Mari 2016b: 68).
Anche se gli ex componenti del Gruppo N non procedono sostanzialmente oltre lo stadio embrionale di queste ricerche, va sottolineato che altri artisti della stessa tendenza operano invece con una maggior libertà espressiva che permette loro di confrontarsi con sicurezza con i media audiovisivi.
Basti pensare a Gianni Colombo che, traendo giovamento dalla sua esperienza di artista cinetico, opera nel campo della videoarte sulla scorta della lezione di Nam June Paik. Nel 1970 presenta al Museo Civico di Bologna, in occasione della Terza Biennale Internazionale della Giovane Pittura, Gennaio 70. Comportamenti, progetti, mediazioni, l’opera Vobulizzazione, lavoro in cui l’artista milanese interviene direttamente sul dispositivo, deformando il segnale per programmare immagini astratte e patterns geometrici (Barilli et al. 1970).
7 Appunti per un’arte attraverso il Reel
Indagati alcuni episodi di “sconfinamenti” dell’arte cinetica nell’immagine in movimento, occorre proporre un appunto conclusivo sulla modalità di fruizione di queste opere oggi.
Come si è detto, gli artisti cinevisuali dei primi anni Sessanta si sono scontrati con i limiti del proprio tempo che hanno spesso ostacolato la comunicazione delle loro istanze rivoluzionarie; in particolare, sono le opere dinamiche ad essere state maggiormente penalizzate per la loro stretta dipendenza dallo sguardo e dallo spostamento del fruitore. E ancor più complessa diventa la comprensione di quegli oggetti progettati per essere toccati o manipolati.
Le possibilità offerte dalla tecnologia del nuovo millennio – e in particolare degli ultimi anni – hanno contribuito notevolmente a rendere attuabile il rapporto partecipativo con l’opera anche attraverso lo schermo di uno smartphone. Basti pensare alle due piattaforme social più popolari al mondo, TikTok e Instagram, e al ruolo che queste hanno avuto nella proliferazione incontrollata di contenuti audiovisivi. Un filone interessante si può, così, rintracciare nella produzione dei brevi clip realizzati sulla piattaforma di video sharing cinese TikTok o nei cosiddetti Reels, nuova funzione di Instagram, che a partire dal novembre 2019 consente agli utenti di registrare brevi video, apponendo anche dei clip audio.
Consapevoli dell’unicità che comporti esperire l’opera fisicamente, non possiamo non riconoscere che grazie ai social media esista una nuova modalità di fruizione “a portata di mano” di tutti, in grado di ridefinire i concetti di interazione e condivisione, permettendo che l’esperienza visiva si compia anche virtualmente. Attraverso una fotocamera un utente può infatti girare brevi video “i quali con molta probabilità saranno prontamente caricati sui social network” (Pompa 2020: 59). Questa pratica, citando Chiara Pompa, attesta “la presenza e la partecipazione dello spettatore e, al contempo, di permettere che l’evento sia fruito, per mezzo di uno schermo – anche in questo caso con molta probabilità di uno smartphone – in tempo reale o in differita […]” (Pompa 2020: 59).
Molti musei, gallerie e istituzioni stanno approfittando sempre più delle potenzialità dei social media e delle nuove tecnologie digitali per proporre forme alternative di diffusione dei contenuti, al fine di trovare innovative strategie di partecipazione, interazione e condivisione volte ad avvicinare il pubblico.
In questa cultura che sostituisce lo spettatore con l’“interattore” (De Kerckhove 2014: 47), lo schermo si configura come uno spazio ibrido di veicolazione non solo di immagini ma anche di suggestioni visive. In tal senso, superando la fissità del medium fotografico, un’opera cinetica o ottico-dinamica può essere registrata nelle sue molteplici variazioni.
Illuminante, a questo punto, è un passo di Edgar Morin tratto da Lo spirito del tempo, pubblicato – e non è forse un caso – nel 1962:
Questa membrana invisibile ci isola e nello stesso tempo ci consente di vedere meglio e di sognare meglio, cioè anche di partecipare. In effetti, partecipando con gli occhi e con lo spirito, attraverso la trasparenza di uno schermo, l’impalpabilità di un’immagine, ci si spalanca l’infinito del cosmo reale e delle galassie immaginarie. Così, prendiamo parte a mondi a portata di mano, ma impossibili da raggiungere fisicamente. Così, lo spettacolo moderno è contemporaneamente la più grande presenza e la più grande assenza. È insufficienza, passività, erranza tele-visionaria e nello stesso tempo partecipazione alla molteplicità del reale e dell’immaginario (Morin [1962] 2017: 109).
Bibliografia
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La mostra verrà poi trasferita nelle sedi Olivetti di Roma e Venezia e allestita alla Galleria La Cavana di Trieste, a Düsseldorf, a Londra e in alcune città americane. Per una bibliografia di riferimento cfr. Meneguzzo (2000); Meneguzzo et al. (2012); Caplan (2022).↩︎
Gli artisti che lavorano in questa direzione preferiscono essere definiti “operatori” o “tecnici della visione” per sottolineare l’importanza del progetto e della rigorosa verifica cui sono sottoposte le loro opere.↩︎
Sulla presenza delle istanze ottico-cinetiche nella storia dell’arte segnaliamo il catalogo della recente mostra L’occhio in gioco. Percezione, impressioni e illusioni nell’arte (Barbero 2022).↩︎
Per una ricognizione sulla storia del Gruppo N cfr. Mussa 1976; Feierabend 2009; Bartorelli et al. 2022; Previti 2023.↩︎
Costituitosi a Milano nel 1959, il Gruppo T è formato da Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo e Gabriele Devecchi, ai quali si aggiunse poco dopo Grazia Varisco. Per il Gruppo T si veda Meloni 2004.↩︎
Si pensi ad esempio all’impiego della fotografia da parte di Alberto Biasi nell’opera Io sono (1973). Per un approfondimento si veda Stevanin 2016: 106-117.↩︎
Sul finire del 1960 il Gruppo N apre a Padova uno Studio-galleria nei locali precedentemente occupati da una casa chiusa, rinnovata e adibita per l’organizzazione di mostre, incontri e dibattiti. Con un intento “didattico” nei confronti della cittadinanza, questo luogo si pone come un canale di informazione alternativo a quello tradizionale, proponendo esposizioni di artisti internazionali e mostre “tematiche” di architettura, musica, urbanistica e poesia.↩︎
Invito della mostra di Bruno Munari, Padova, Studio Enne, 11-28 febbraio 1961.↩︎
Presentazione sul pieghevole della mostra Proiezioni Dirette, organizzata presso lo Studio B 24 di Milano il 13 ottobre 1953.↩︎
Il CUC (Centro Universitario Cinematografico) viene fondato a Padova nel 1946. Missione del CUC è quella di diffondere e accrescere l’interesse per la cultura cinematografica utilizzando gli strumenti audiovisivi a scopo educativo ed artistico.↩︎
“A differenza di spectare, la radice latina di ‘spettatore’, l’etimo di ‘osservare’ non significa letteralmente ‘guardare a’ […] la sua radice latina, observare, significa letteralmente ‘adeguarsi a’, conformarsi’ […]” (Crary 2013: 8).↩︎
Sullo Studio di Monte Olimpino si veda Piccardo 1992; Piccardo 2012: 87-90; Faccioli 2017: 183-190; Bartorelli 2022: 408-414; il sito http://nuke.monteolimpino.it/ (Ultima consultazione 08/04/2024).↩︎
Il film è accessibile online a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=iji_cT9L6RQ (Ultima consultazione 08/04/2024).↩︎
Dopo una laurea in Lettere all’Università di Padova con una tesi sul cinema, Caldana ha collaborato come redattore al Giornale di Vicenza ed è stato segretario di redazione della rivista Bianco e nero. Inizia l’attività di documentarista dal 1957.↩︎
Si ricorda che Riccardo Musatti (Roma 1920 – Milano 1965), citato in questa lettera, è stato militante nel Partito d’Azione, giornalista e storico dell’architettura moderna, nonché uno dei più stretti e fidati collaboratori di Adriano Olivetti. Fratello dello psicologo e psicoanalista Cesare Musatti, è stato allievo di Pietro Toesca, laureandosi in Storia dell’arte nel 1941.↩︎
Tra gli studi relativi al documentario d’arte cinematografico segnaliamo Hallas 2020; Villa 2022.↩︎
Gordon Hyatt (writer and producer), The Responsive Eye, Television Program (New York, CBS, Inc., 1965). Il servizio si può guardare – e ascoltare nella traduzione in lingua spagnola – al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=WFkzgi3EacI&list=PLbmKWQjCq-lxupIwcicJwdecYGt56GyL0&index=5 (Ultima consultazione 08/04/2024).↩︎
B. De Palma, The Responsive Eye, short movie, 30”, 26mm B/N, PAL, 1966. Per la visione del film: https://ubu.com/film/depalma_responsive.html (Ultima consultazione 08/04/2024).↩︎
Per l’argomento si vedano Senaldi 2009; Grasso, Trione 2014; Spampinato 2022.↩︎
Lo studio sul film L’Enfer (l.t.: L’inferno, 1964) in rapporto all’arte cinetica è stato condotto da Arnauld Pierre, che ha messo a confronto il film del 1964 con una seconda pellicola del regista, La Prigioniera (La Prisonnière, 1968). Nel contesto narrativo di questi film, la frenesia degli effetti visivi riflette la psicologia dei personaggi fino all’allucinazione (Pierre 2012: 44-71).↩︎
Davide Boriani colloca anche una riproduzione dello Schema luminoso variabile di Grazia Varisco all’interno della camera da letto di Caroline Meredith (Ursula Andress).↩︎
Per guardare l’esibizione si rimanda all’Archivio Teche Rai, a partire dal minuto 0:01:06 al 0:03:19 della puntata del 23 aprile 1966 (https://www.raiplay.it/video/2019/01/Studio-Uno---Puntata-del-23041966-ac60847b-c076-4474-9973-0b03fbb4f123.html).↩︎
Uno studio che si è occupato della collaborazione tra artisti e televisione pubblica in relazione alla figura di Giulio Macchi (1918 – 2009) è stato condotto da Chiara Mari (2016a: 503-519).↩︎
Nel 1967 il Gruppo N è presente alla mostra Lo spazio dell’immagine a Foligno con due opere ambientali: Spazio-Oggetto Ellebi o Spazio anamorfico di Alberto Biasi e Ambiente struttura S.C.S.C. di Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi e Manfredo Massironi.↩︎
Il brano, eseguito da Jack Brymer, Wilfrid Parry e Iris Loveridge, è contenuto nell’album Sonate pour deux pianos et percussion (1958).↩︎