Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.25 (2024), 145–154
ISSN 2280-9481

Killing Me Softly. Le rappresentazioni del corpo della donna-vittima nelle trasposizioni filmiche e televisive della cronaca nera in Italia

Arianna VergariLink Campus University (Italy)

Arianna Vergari is a Research Fellow at Link Campus University of Rome, where she teaches “Audiovisual Production”. She also teaches “Screenwriting” at the University of Teramo. As member of the research project PRIN 2020 “The Atlas of Italian ‘Giallo’: Media History and Popular Culture (1954-2020)” she is working on the representation of female characters in crime narratives within television and cinema. Her other research areas include documentary cinema with a focus on experimental and avant-garde forms, film theory and analysis. She has published articles in academic journals including Imago, SigMa, and Fata Morgana and has participated in various national and international conferences. She also works as a filmmaker and visual education operator in schools.

Ricevuto: 2024-04-14 – Versione revisionata: 2024-06-07 – Accettato: 2024-06-07 – Pubblicato: 2024-08-01

Killig Me Softly: Representations of the Female Victim’s Body in Italian Crime Film and Television

Abstract

The essay examines the socio-cultural theoretical implications of representations of the female victim’s body in the Italian media, with a particular focus on film and television adaptations of true crime events. It begins by analyzing the role of the female corpse as a sensational and hermeneutic body, a powerful site of signification that embraces and destabilizes certain sexual and cultural norms. Despite the increasing presence of female detectives, the examined adaptations often uphold a traditional focus on male heroism. As a result, they perpetuate to varying degrees fetishistic paradigms where the female body is dismembered and subsequently disappears, reflecting a desire to dominate and neutralize the perceived threats posed by sexual difference and abjection. The essay identifies recurring themes such as the disappearance of young women, the feminine blaming, and the institutional distrust fueled by complex legal procedures that obscure clarity and ontological certainty. These themes help to outline interpretative trajectories and trends common to these media representations. The essay concludes with a call for further reflection on narratives that strive to subvert the traditional, monolithic, and Oedipal frameworks.

Keyword: Victim; Female Corpse; Abject Body; Missing Girl; Crime News.

Ringraziamenti

Questo articolo è il prodotto delle ricerche condotte nell’ambito del progetto PRIN 2020 “Atlante del giallo. Storia dei media e cultura popolare in Italia (1954-2020)”, finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca.

1 Un cadavere sensazionale ed ermeneutico

Se solitamente l’affermazione del genere poliziesco è stata rintracciata, non senza problematicità e con l’arbitrarietà propria di ogni momento “fondativo” (Allan et. al. 2020: 2-3) nella pubblicazione de I delitti della Rue Morgue (The Murders in the Rue Morgue, 1841) di Edgar Allan Poe, forse con meno enfasi si è posta in risalto una genealogia della figura della vittima, che proprio in Poe appare con quei tratti che inaugurano un sentiero intricato e complesso nella storia culturale della crime fiction. I tratti sono quelli di un corpo femminile mutilato, in verità in questo caso due cadaveri di donna, quello di Madame L’Espanaye “la cui gola era stata tagliata così profondamente che quando si tentò di sollevare il cadavere la testa si staccò” (Poe 2007[1841]: 29) e quello della figlia, con il volto segnato da “numerosi, profondi graffi e […] sulla gola i lividi e i segni molto evidenti lasciati da unghie, quasi che la poveretta fosse rimasta vittima di uno strangolamento” (Ivi: 28-29). Questi resoconti, nell’universo narrativo di Poe, appaiono sull'edizione della sera della Gazette des Tribunaux in un articolo dal titolo “Sensazionali delitti”. Il sensazionalismo commerciale, uno dei topoi della modernità urbana di fine Ottocento, trovava nei giornali dell’epoca un’enfasi costruita attorno all’idea che le metropoli fossero minacciate da “pericoli incontrollabili, quasi soprannaturali” (Singer 2002: 81). Il sensazionale, però, non si lega solo alla visione del corpo femminile vivo o morto, nei termini del suo significato più ovvio che riconduce a una morbosità voyeuristica, ma apre la strada per un ripensamento delle costruzioni culturali che di volta in volta hanno definito il genere crime stesso (Ascari 2007). Dunque, recuperare il sostrato sensazionale che è stato a lungo negato a favore di “un’investigazione razionale e scientifica attraverso enigmi essenzialmente asettici” (Ivi: 9) comporta anche uno sbiadimento dei rigidi binarismi che associano il maschile alla razionalità e il femminile alla sfera del sovrannaturale o della follia.1 In questa direzione, il sensazionale, nella sua eccedenza all’interno di narrazioni più o meno canoniche, nel suo sfuggire a spiegazioni razionali, richiede “un processo di indagine aperto alle categorie culturalmente femminili dell'inspiegabile, del caotico e del corporeo” (Plain 2020: 102). Per questo, un focus sulla vittima donna, a partire dalle implicazioni di un corpo morto che nella sua eccessiva evidenza paradossalmente sfugge ad una visibilità totale (Bronfen 1992: 3) diventa un campo privilegiato per indagare alcune tensioni profonde che investono il giallo, spostando il vero enigma dalla sfera diegetica a quella simbolica. Il cadavere femminile, così, tutt’altro che inerte e passivo, si pone come corpo ermeneutico in grado di accogliere e insieme destabilizzare i meccanismi veicolati da determinate norme sessuali e culturali.

Prima di approfondire alcuni casi studio di serie TV e film tratti dalla cronaca nera italiana, evidenziando delle ricorrenze intersezionali alla luce della componente perturbante di un reale mediato che molto ha a che fare con alcune pratiche di consumo popolare, vale la pena definire brevemente alcune traiettorie teoriche che aiutano a porre il corpo della vittima come un luogo di significazione molto potente.

Come ben illustrato da Megan Hoffman, il corpo, specialmente quello coinvolto in un crimine, “è inevitabilmente carico di significati legati ai codici sociali e alla loro trasgressione” (2016: 157). È interessante come nella maggior parte delle narrazioni la risoluzione della storia, e di conseguenza il ripristino dell’ordine, coincida proprio con il nascondimento del corpo: il seppellimento del cadavere, un gesto letterale ma anche più spesso metaforico, può avvenire solo nel momento in cui il mistero viene risolto e l’assassino catturato. Fino a quel punto, il cadavere, specialmente quello femminile, si pone non solo come oggetto da indagare, ma anche come un punto di irrisolvibile frattura. Nel suo essere ancora esposto dopo la morte, il cadavere, “in una relazione scomoda tra l'identificabile e il non identificabile, tra il comprensibile e l'incomprensibile” (Peach 2006: 61), complica qualsiasi facile apprensione del senso, iniettando in continuazione in un tessuto investigativo logico l’aleatorietà della contingenza dell’esistenza umana. Dunque, la vittima subisce in ogni caso un processo di doppia scomparsa, con l’annientamento violento del crimine prima e con la cancellazione del corpo materiale dopo, entrambi attuati solitamente da un uomo, l’assassino e l’investigatore. Questo processo richiama in qualche modo un’articolazione feticistica vecchia quanto il cinema, basata sul piacere di smembrare il corpo femminile e farlo sparire: Georges Méliès, in molti dei suoi trick film, non solo esercita un potere facendo apparire e scomparire oggetti e corpi, ma “l'impulso principale dietro la manipolazione del corpo da parte di Méliès è, ancora una volta, la necessità di dominare la minaccia della differenza posta dalla forma femminile nuda” (Williams 1986[1981]: 523). Potrebbe apparire un resoconto azzardato, ma Escamotage d’une dame chez Robert-Houdin (t. l.: Sparizione di una signora al teatro Robert-Houdin, 1896) condensa il meccanismo di ripetizione in atto in molte narrazioni crime con vittime donne: il mago copre la donna con un pezzo di stoffa. Al sollevamento della stoffa la donna è sparita, e poco dopo al suo posto appare uno scheletro. Come nota Lucy Fisher (1979: 30-32) l’archetipo dell’uomo che compie prodigi sul soggetto femminile – che Méliès eredita dal teatro di magia – evidenzia una pratica di smaterializzazione del femminile che in un certo senso incarna la nozione di Simone de Beauvoir (2016 [1949]) della donna come “Altro”, come mistero insondabile. Questo potere, però, non è solo il sintomo di un piacere di puro dominio, quanto, continua Fisher, l’esorcizzazione di ansie e paure che la donna, e la sua carnalità, esercitano sull’uomo (1979: 33-34). Dunque, risulta evidente quanto, richiamando paradigmi che si reiterano da tempo, anche nella riformulazione del genere poliziesco – chiaramente nelle narrazioni più convenzionali in cui l’assassino e il detective continuano a essere uomini – il corpo femminile della vittima diventa “un’arena neutra in cui risolvere i problemi maschili” (Bolin 2018: 16). Questa dinamica di smembramento e dissoluzione pone il cadavere della donna in una zona liminale di forte ambiguità, come sito sia di un’indagine maschile, ma anche come punto cieco di trasgressione:

il cadavere incarna un'ambiguità culturalmente inassimilabile e un eccesso problematico che sfida i codici di rappresentazione linguistica e testuale; di conseguenza, viene consegnato ai margini, portato via nelle pagine iniziali e tradotto al sicuro in simbolo. Detective, poliziotti e patologi esaminano il cadavere come testo, alla ricerca di indizi che facilitino la lettura del crimine, mentre la realtà materiale del cadavere si decompone sotto la loro indifferenza narrativa (Plain 2001: 12).

2 Giovani, belle e morte: l’addomesticazione dell’abietto in alcuni crime contemporanei basati su “storie vere”

A fronte di una proliferazione di personaggi femminili nel ruolo di detective, presenti negli ultimi dieci anni in Italia specialmente nei prodotti seriali (D’Amelio e Re 2023; 2021), le trasposizioni televisive e cinematografiche di fatti di cronaca con vittime donne, con pochissime eccezioni, mantengono una configurazione molto tradizionale, imperniata sull’eroismo maschile.

Consapevoli della forte eterogeneità dei casi che verranno presi in esame, che si differenziano sia per contesti produttivi e distributivi che per format narrativi e cornici storico-culturali, più che eseguire una mappatura dettagliata o un’analisi specifica di ogni film o serie TV, di seguito verranno delineate delle traiettorie interpretative, delle linee di tendenza che accomunano queste esperienze. Si può partire proprio dal riconoscimento di alcuni tratti condivisi, primo fra tutti il carattere profondamente intermediale che investe il processo di trasposizione di alcune vicende che per la loro complessità, soprattutto giudiziaria, hanno alimentato numerosi dibattiti, curiosità e rimediazioni, per l’appunto. Gli omicidi di Elisa Claps, Simonetta Cesaroni, Meredith Kercher o Yara Gambirasio hanno in primo luogo popolato il palinsesto televisivo italiano attraverso servizi di telegiornali, approfondimenti e programmi specializzati, per poi ricevere nuovamente attenzione, anche a distanza di molti anni, tramite documentari, film, serie TV e podcast. Questa distensione temporale rispecchia in un certo senso lo sviluppo diacronico delle indagini e dei processi, complicati casi giudiziari spesso costellati da depistaggi, omertà, errori valutativi, che alimentano delle narrazioni caratterizzate da “un’attitudine inquisitoria nei confronti del crimine”, con un’enfasi “sull’elemento della detection […] sulla risoluzione del mistero e, quindi, sull’individuazione del colpevole” (Scomazzon 2021: 224).

Vale la pena soffermarsi anche su un altro elemento fortemente indicativo, ovvero la giovane età delle vittime in relazione al modo in cui ci vengono presentate nelle trasposizioni in esame. Nella miniserie Rai Per Elisa - Il caso Claps (2023) diretta da Marco Pontecorvo, viene messo subito in risalto il corpo seminudo, sebbene ancora adolescente, della vittima sedicenne. Proprio nell’incipit della prima puntata, infatti, Elisa si reca in spiaggia col fratello. Una volta toltasi i vestiti, rimanendo in costume, delle soggettive restituiscono una chiara visione morbosa del corpo della giovane donna, visione che si rivela subito appartenere al personaggio di Danilo Restivo, l’assassino. È interessante notare come nell’arco dei primi dieci minuti Elisa venga impigliata in una triangolazione maschile che oppone in maniera dicotomica l’interesse deviato di Danilo alle figure amorevoli del fratello e del padre. Il terzo personaggio che ci viene presentato, infatti, è proprio quello del padre, usato per veicolare un’informazione che potrebbe sembrare accessoria ma in realtà rivela, come vedremo meglio a breve, una colpevolizzazione inconscia ricorrente in questa tipologia di narrazioni e legata a una volontà di emancipazione della donna. In questa scena Elisa confessa il desiderio di studiare medicina e andare via da Potenza, manifestando dunque un’ambizione che la caratterizza subito come una ragazza risoluta e coraggiosa. Una simile dinamica può essere ritrovata nella presentazione della diciottenne Pia Rontini, una delle vittime del mostro di Firenze, nella miniserie del 2009 Il mostro di Firenze, trasmessa su Fox Crime e diretta da Antonello Grimaldi. Qui, la volontà di appellarsi a delle configurazioni tradizionali privilegiando la storia di una giovane vittima donna in relazione all’impeto investigativo del padre è ancora più marcata, dal momento che le vittime dei sette omicidi commessi fra il 1974 e il 1985 erano sempre coppie uomo-donna. Nel racconto televisivo la trasgressione femminile viene subito enunciata in maniera anche abbastanza didascalica poiché strutturata in rapporto alla visione paterna che fatica a riconoscere l’identità della figlia come donna, ovvero non più come bambina. Alla difficile accettazione di una maturità di tipo sentimentale-sessuale della ragazza, nella seconda puntata si aggiunge il tassello dell’autoaffermazione personale, con Pia che esprime il desiderio di seguire un corso di cucina in Danimarca perché, come dice lei stessa alla madre, “voglio vedere se me la cavo da sola, voglio imparare un mestiere”. Anche in questo caso, l’intraprendenza della giovane donna è evidente e Pia, una volta tornata dalla Danimarca, riesce a procurarsi un lavoretto estivo in un bar. In maniera molto prevedibile, questa escalation di autonomia non potrà che avere un esito tragico. Un elemento distintivo di questo racconto è che la colpevolizzazione del femminile viene raddoppiata. La sera dell’omicidio, infatti, è la madre a incitare la figlia ad uscire, quando invece la ragazza era propensa ad andare a dormire poiché stanca. Nei primi due episodi la contrapposizione manichea tra madre e padre è molto netta, e all’eccessivo moralismo protettivo della figura maschile viene contrapposto invece l’atteggiamento fortemente permissivo della figura femminile. L’omicidio di Pia, così, dà implicitamente ragione alle preoccupazioni del padre nel lasciare troppe libertà alla figlia, e colpevolizza di conseguenza la madre. Più sottilmente, si aggiunge anche un ulteriore elemento di “cancellazione” del femminile, dal momento che nel terzo episodio, con il ritrovamento del cadavere di Pia – e significativamente proprio sul luogo del delitto –, la procuratrice Silvia della Monica, interpretata da Nicole Grimaudo, e dunque “protagonista investigatrice” dei primi due episodi, chiede di essere esonerata dal caso, lasciando spazio al trio maschile che porterà avanti le indagini da lì in poi. È chiaro allora come, nonostante la giovane età, non viene del tutto sconfessata quella sorta di “criminalizzazione” della vittima che in qualche modo sembra essere punita poiché “ha trasgredito alcuni confini ideologici e socio-geografici” (Peach 2006: 64). La presentazione filmica e televisiva di queste giovani donne, infatti, indugia spesso su elementi sentimentali, soffermandosi sul modo in cui iniziano ad affacciarsi all’età adulta attraverso i primi interessi amorosi. Anche la trasposizione della vicenda di Simonetta Cesaroni nel film TV diretto da Roberto Faenza, Il delitto di via Poma (2011), presenta alcune somiglianze con i casi sopra citati, sebbene Simonetta avesse qualche anno in più rispetto alle altre giovani vittime. Simonetta, come Elisa, ci viene presentata per la prima volta in costume, fotografata dal fidanzato, rievocando in realtà un’immagine che venne resa nota dalla stampa dell’epoca. Le principali testate, infatti, dal Corriere della sera alla Stampa, usarono la foto di Simonetta in costume bianco per annunciare in maniera sensazionalistica la morte della ragazza. Quindi, nel film di Faenza, la prima apparizione di Simonetta è già un’immagine di morte, un simulacro che rivela la sessualizzazione di un corpo e già di un cadavere, un meccanismo di feticizzazione retroattiva, dove la feticizzazione del corpo senza vita può essere intesa come “un’imposizione di una fantasia erotica sul cadavere che si basa sulla consapevolezza di un grado di umanità, anche se non riflette in alcun modo la realtà” (Miller 2018: 91).

Soffermandoci un attimo su questi tre esempi, possiamo rilevare una specificità legata a una leggera rivisitazione del paradigma che Alice Bolin in ambito americano ha definito “Dead Girl Show” (Bolin 2014, 2018), secondo cui le serie che aderiscono a questo modello iniziano proprio con la scoperta del corpo assassinato di una giovane donna. In effetti sia I segreti di Twin Peaks (Twin Peaks, 1990-1991) – che Bolin identifica come capostipite del “genere” – sia una delle sue più recenti “discendenze”, ovvero True Detective (2014-), e nello specifico la prima stagione, pongono il ritrovamento del cadavere femminile come primo e principale avvenimento della narrazione. Nei casi italiani invece presi in esame, a cui possiamo aggiungere anche il film Yara (2021),2 la vittima viene sempre prima ritratta in vita, presentata attraverso delle strategie retorico-formali atte a predisporre un sostrato melodrammatico e fortemente emotivo. Da un lato, infatti, il dare voce alle vittime preserva un grado di umanità, annientata altrimenti dall’efferatezza dei crimini, restituendo anche una certa conoscibilità alla donna uccisa, mettendo dunque in discussione “l’inaccessibilità della vittima come soggetto” (Close 2018: 6).3 Ma soprattutto in presenza di vittime così giovani, questo meccanismo, che alla fine risulta una sorta di mascheramento, non fa che smuovere non solo la pietas dello spettatore, ma soprattutto quello del personaggio che conduce le indagini, finendo così per rinforzare, come vedremo a breve, l’eroismo maschile. Prima di entrare nel merito di questa dinamica, potrebbe essere proficuo, però, spostare per un attimo l’enfasi dalla commozione sapientemente progettata nella sequenza “presentazioni di vittime innocenti-delitto”, in direzione di un fattore che ritorna spesso e si pone proprio a metà di questa successione melodrammatica: la scomparsa. Data la giovane età delle vittime, infatti, prima del ritrovamento del cadavere, viene narrato il momento in cui le ragazze tardano ad arrivare a casa, diventano irreperibili e introvabili, quindi scompaiono, destando i primi sospetti e gettando familiari e amici in ore di angoscia e timore. Ritardare il momento della scoperta del corpo morto non risponde solo a una mera aderenza al fatto di cronaca, o a una spettacolarizzazione pubblica del dolore e quindi ad una celebrazione sensazionalistica del “trauma del ‘peggior incubo di ogni genitore’” (Stillman 2007: 492), ma è una dilatazione attraverso cui viene mitigata l’abiezione implicita nella mostrazione del cadavere. Molti resoconti teorici che hanno analizzato il ruolo del cadavere nelle rappresentazioni crime ritornano sempre a Julia Kristeva e alla sua nozione di “abietto”. Per la studiosa, proprio il cadavere costituirebbe “il colmo dell’abiezione” (Kristeva 1981 [1980]: 6):

È la morte che infesta la vita. Abietto. È un rigetto da cui non ci si separa, da cui non ci si protegge come si farebbe con un oggetto. Estraneità immaginaria e minaccia reale, ci chiama e finisce con l'inghiottirci. Non è l'assenza di pulizia o di salute a rendere abietto ma quel che turba un'identità, un sistema, un ordine. Quel che non rispetta i limiti, i posti, le regole. L'intermedio, l'ambiguo, il misto. Il traditore, il bugiardo, il criminale con la coscienza pulita, lo stupratore senza vergogna, l'assassino che dice di salvare… Ogni crimine in quanto segnala la fragilità della legge è abietto, ma il crimine premeditato, l'assassinio subdolo, la vendetta ipocrita lo sono ancora di più perché accrescono l'esibizione della fragilità legale (Ibidem).

La sparizione momentanea si pone allora come transizione in cui il cadavere inizia a manifestarsi solo come minaccia non ancora concretizzata, come un fantasma smaterializzato che anticipa, dunque, e prepara il momento dell’effettivo ritrovamento. Prima ancora di delegare al corpo morto la funzione di un riscontro oggettivo della scomparsa definitiva della vittima, con tutto il portato perturbante delineato brevemente nel primo paragrafo, il momento della sparizione distende allora quella frattura di senso apportata dal cadavere. Questa distensione non è solo temporale, non si tratta solo di ritardare l’inevitabile, ma vi è implicato anche un certo piacere che in qualche modo condensa in una forma più accettabile quel desiderio di vedere la donna sparire, un desiderio ambiguo che invade la cultura occidentale e che addirittura rievoca la dinamica di apparizione-sparizione del gioco del fort-da descritto da Sigmund Freud4 e di conseguenza della madre (Beckman 2003). Chiaramente la sparizione, anche quando non è momentanea, funziona come catalizzatore di un interesse viscerale, soprattutto nel caso in cui le missing girls siano giovani, belle, bianche e spesso di classe medio o alta. Basti pensare ad uno dei casi di scomparsa più eclatanti in Italia, soprattutto per le infinite speculazioni che ha generato e che ancora continua a generare, quello di Emanuela Orlandi, tornato alla ribalta con la recente serie Netflix Vatican Girl (2022).

È interessante notare, infine, che anche quando il topos della scomparsa non viene rappresentato esplicitamente, permane sempre nella narrazione un dettaglio che rimanda ad una volontà di “oscurare” il femminile. Nella miniserie Ultima pallottola (2003), diretta da Michele Soavi e trasmessa per la prima volta nel 2003 su Canale 5, non solo vengono privilegiate le vittime donne, su cui si focalizza il racconto, ma viene aggiunto un elemento esoterico agli omicidi di Donato Bilancia, che, oltre ad essere passato alla storia come il “killer delle prostitute”, uccise in realtà anche molti uomini, per un totale di 20 persone tra il 1997 e il 1998. Nella miniserie le vittime vengono tutte ritrovate con il volto coperto, elemento che viene interpretato dal Capitano Stefano Riccardi come un “rituale” e che reintroduce quindi una spettacolarizzazione, un sensazionalismo legato a un elemento irrazionale che ancora una volta si lega al corpo femminile e alla sua scomparsa. Nel primo episodio, il ripescaggio della seconda vittima reitera ancora una volta la dinamica sparizione-apparizione: a metà tra uno spettacolo circense e un mattatoio, il corpo morto della donna appare magicamente dalla profondità del mare, tirato su da una grossa catena legata ai piedi della donna, prima parte del corpo che riaffiora dall’acqua. Il cadavere, così, sospeso in aria, tra l’animalesco e l’eclatante, diventa uno spettacolo che suscita lo sdegno di un solo personaggio, quello femminile, la procuratrice Landolfi, che infatti distoglie lo sguardo, chiedendo al Capitano se non ci fosse un modo più rispettoso di recuperare il corpo. Il capitano, continuando a fissare la scena, chiosa senza troppe spiegazioni “No, non c’era”.

3 Eroismo paternalista e corpo materno: un finale aperto

A circa metà de Il mostro di Firenze (1986), film diretto da Cesare Ferrario e incentrato sul tentativo di uno scrittore, Andrea Akerman, di terminare un libro che possa restituire un ritratto del serial killer, c’è una sequenza dalla valenza metafilmica che ben si presta a introdurre questa sezione. Il protagonista, che in maniera non convenzionale assume la funzione di detective, si interroga sulle dinamiche che portano un uomo a diventare un mostro, sul “groviglio di emozioni represse che gli suscitano il desiderio di uccidere”. La compagna e giornalista gli fa notare due cose: la somiglianza tra lui e il ritratto abbozzato dell’assassino e il fatto che in questa ricerca ossessiva in realtà si ritrova con nient’altro che un “fantasma”. Lo scrittore replica allora di esserne consapevole, e anzi di voler conoscere proprio quel fantasma. Viene suggerita così implicitamente un’identificazione tra il protagonista che investiga e l’assassino, entrambi inseguono un fantasma, una fantasia. Di fatto, nei casi in cui la vittima è una donna, sia l’assassino che il detective – con l’aggiunta dell’anatomopatologo – si confrontano col doppio enigma della femminilità e della morte, nei termini di un corpo inteso come testo da smembrare e decifrare.

Nelle narrazioni dei casi sopracitati, le giovani vittime diventano un espediente per glorificare gli sforzi investigativi di personaggi maschili dipinti con tratti eroici e resilienti, padri e fratelli con saldi principi morali, il cui dolore della scomparsa della figlia o della sorella diventa l’occasione per un ritratto delle soggettività maschili e della loro ricerca. Sono figure rassicuranti non solo perché, come sottolinea Sue Turnbull “la presenza dell’eroe garantisce la certezza di una formula, di una specifica cornice estetica all’interno della quale lo spettatore si sente al sicuro di fronte a eventi che, in altri contesti, gli risulterebbero disturbanti” (2019 [2014]: 143). In questo caso sono figure rassicuranti anche perché promettono una risoluzione dando a garanzia un sentimento di affetto e compassione. Infatti, sia nel caso di Elisa Claps che di Pia Rontini, gli eroi maschili non sono detective professionisti, ma diventano quasi dei martiri sacrificando la propria vita in virtù del legame familiare e affettivo che li univa alle vittime. Anche nel caso del Delitto di via Poma (2011), il fittizio ispettore Niccolò Montella venendo continuamente sminuito sul piano lavorativo – con il suo superiore che gli ripete di continuo che non diventerà mai Commissario –, porta avanti la ricerca dell’assassino non tanto appellandosi al ruolo istituzionale che ricopre, quanto a un ruolo “paterno”, a un coinvolgimento emotivo. In questo modo, simili personaggi confermano un altro tratto comune che serve anche a innalzarli come paladini solitari: tutti nutrono una più o meno velata sfiducia nelle istituzioni – persino una figura “interna” come l’Ispettore Montella si oppone ai metodi d’indagine e alle soluzioni sbrigative dei suoi colleghi.

Questo distacco narrativo e simbolico risponde in realtà anche a uno scetticismo diffuso in Italia “verso la capacità delle istituzioni della legge, dell’ordine e della giustizia di assolvere ai loro compiti” (Buonanno 2012: 104). Una sfiducia sostenuta ed implementata in maniera esponenziale dalla complessità delle vicende giudiziarie che negano ogni forma di chiarezza e univocità ontologica, in un intrico che confonde informazione e intrattenimento mediale, dove diventa necessario, come spiega Stefano Nazzi nell’intro del suo podcast Indagini5 (2022-) dipanare quel meccanismo per cui “le indagini hanno influenzato la reazione dei media e della società, e […] i media e la società hanno influenzato le indagini”. Alla luce di questo intreccio si può comprendere anche il fascino lugubre di narrazioni che spesso non hanno una risoluzione, trattandosi di casi tuttora irrisolti. Come già metteva in luce Alessandro Perissinotto nel 2008, infatti, nella “cultura del dubbio, di cui il giallo si fa interprete”, l’appagamento non deriva solo dalla punizione del crimine e del criminale, quanto dal desiderio di “verità”, dal desiderio di “un mondo che non ci costringa al dubbio perenne, al continuo scavo sotto la crosta di un’apparenza potenzialmente menzognera” (2008: 73). In un certo senso, possiamo ritrovare in questo anelito nostalgico quella “passione per il reale” nella società postmoderna (Badiou 2006 [2005]), nell’interpretazione che ne dà Slavoj Žižek come “passione fasulla”, laddove la “ricerca disperata del Reale al di là delle apparenze era lo stratagemma definitivo per evitare un confronto con il Reale.” (2022 [2006]: 36) Per questo, la ripetizione ossessiva del crimine, e il conseguente interesse di spettatori famelici che sembra essersi rinnovato negli ultimi anni proprio grazie al true crime, risponde anche alla necessità – in termini lacaniani – di schermare il reale come traumatico. Allora, se un qualche tipo di verità risiede in una “schermatura” traumatica o abietta, questa a sua volta non può che trovare la sua massima incarnazione nel cadavere.

Tenendo insieme questi ultimi elementi, ci è più chiaro come nei film e nelle serie TV prese in esame, la “sfiducia edipica nelle figure autoritarie maschili” tipica di molti “Dead Girl Show” (Bolin 2014) – sfiducia che dunque si localizza non solo nei confronti delle istituzioni, ma in parte anche negli stessi protagonisti “investigatori” che a volte non sono in grado di risolvere il caso – coincida con una regressione perversa, un allontanamento dalla legge del padre verso il corpo materno, che per Kristeva rappresenta l’origine dell’abiezione, poiché “l’abietto ci confronta, e questa volta nella nostra archeologia personale, con i nostri più antichi tentativi di distinguerci dall’entità materna prima ancora di ex-sistere al di fuori di essa grazie all’autonomia del linguaggio” (15). Dunque, come ben chiarisce Close, riprendendo alcune riflessioni di Elizabeth Gross (1990), la reiterazione di un’indagine compiuta su corpi femminili violentemente feriti, mutilati, deturpati, rivela simbolicamente il tentativo di neutralizzare la potenza del corporeo materno, di una spazio-tempo in cui il soggetto maschile non era ancora un soggetto:

Dopo aver letto un romanzo dopo l'altro e aver visto innumerevoli programmi televisivi e film in cui, quasi seguendo la stessa formula, serial killer e medici legali tradizionalmente maschi squarciano seni, vagine e uteri femminili, non ho trovato una spiegazione più profonda per l'infinita proliferazione della rabbia sadica e misogina nella narrativa popolare globale se non nell'intuizione di Kristeva sul legame tra la repulsione per i segni della differenza sessuale e un'abiezione che minaccia il soggetto maschile facendo riaffiorare quella conoscenza puntualmente rinnegata della propria origine corporea nel potere genitivo femminile (2018: 17).

4 Afterthoughts: conclusioni da cui ripartire

Come specificato più volte nel corso del saggio, l’attenzione si è focalizzata su narrazioni fortemente tradizionali con protagonisti uomini che compiono un’indagine a partire dal cadavere di una donna. Sebbene nel contesto italiano questa formula sia ancora molto diffusa, ci sono alcuni film e serie TV che iniziano a disinnescare trame edipiche e monolitiche, semplicemente con uno spostamento, ovvero con l’introduzione di una detective donna. Allora cosa rimane di tutto il percorso sopra delineato se a indagare su un corpo femminile non è più un uomo ma una donna? Cambia realmente qualcosa?

Quest’ultimo paragrafo non conterrà la risposta a queste domande, che necessitano senz’altro di ulteriori approfondimenti e analisi, ma sicuramente possiamo tentare di evidenziare qualche elemento a partire da due esempi interessanti: il già citato Yara, sull’omicidio della tredicenne Yara Gambirasio e Circeo (2022), miniserie incentrata su Donatella Colasanti, vittima sopravvissuta al “massacro” del 1975. Nel primo caso la protagonista è la PM Letizia Ruggeri, nel secondo caso invece un personaggio fittizio, l’avvocata Teresa Capogrossi.

In Yara, fino a metà film, l’indagine non è incentrata sul corpo morto, dal momento che vengono raccontati i mesi della scomparsa prima di ritrovare il cadavere: ad essere scandagliato ed esaminato, così, è il diario della giovane vittima, la cui voce ritorna per tutto il film. Questa strategia, sicuramente retorica e sentimentale, tenta di preservare in qualche modo la soggettività della ragazza, e se da un lato potrebbe essere intesa come una declinazione differente di un esame autoptico, altrettanto invasivo e morboso, dall’altro il coinvolgimento emotivo della PM che lo legge mitiga in qualche modo l’operazione di investigazione, dunque allontanandosi dalla freddezza delle tecniche mediche e scientifiche. Nel momento in cui viene però ritrovato il cadavere, una scena viene dedicata alla descrizione dettagliata delle ferite inflitte al corpo, sempre attraverso la mediazione della donna che le riassume a voce. Probabilmente in questo film, il tentativo di ripercorrere in maniera lineare e didascalica le varie fasi della vicenda, ha tolto molto complessità ai personaggi. È interessante notare, ad esempio, come vengano riproposti alcuni stereotipi, presenti anche negli eroi maschili, per cui la protagonista, nonostante dei tratti duri, viene caratterizzata da una sensibilità affettiva, dall’essere madre nello specifico, ruolo che sembra quasi giustificare il suo operato, ribadendo delle formule in atto anche in molte altre serie TV con detective donne, in cui “i valori del maternage intervengono insomma a stemperare la durezza delle tough girls” (Giomi 2012: 74). Addirittura una sequenza fa rivivere a Letizia proprio la stessa paura sperimentata dalla madre di Yara che non vede tornare la figlia, un’identificazione che viene confermata dal finale del film che si chiude con lo sguardo tra le due donne nell’aula del tribunale dopo la condanna di Bossetti. Tra stereotipi e innovazioni, sicuramente possiamo intravedere il tentativo timido di tracciare nuove genealogie dello sguardo femminile.

In Circeo, invece, il cadavere scompare. E non scompare in virtù delle logiche di mascheramento sopra descritte, ma come strategia femminista che si distacca volontariamente dalla reiterazione della rappresentazione della violenza. Qui, infatti, il cambiamento non è dato solo dall’introduzione di una protagonista donna, ma anche dallo scostamento del racconto dal fatto di cronaca in sé – ovvero il rapimento, lo stupro e le torture di Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, culminate con l’omicidio di quest’ultima – verso il processo. Come dichiarato anche dall’ideatrice e sceneggiatrice della serie, Flaminia Gressi, l’obbiettivo era quello di lasciare i criminali sullo sfondo, dando risalto alla storia di Donatella, per restituirne tutta l’umanità complessa e inquieta, al di là dello stereotipo, spesso vittimista, della “sopravvissuta”.6 Questo cambiamento risulta lampante se accostiamo a Circeo quella che potrebbe essere la sua controparte maschile, ovvero La scuola cattolica (2021) di Stefano Mordini, tratto dall’omonimo romanzo di Edoardo Albinati (2016). Lungi dal voler dicotomizzare e quindi banalizzare le due narrazioni, che si pongono come testi complessi in grado di rielaborare da punti di vista differenti la stessa dolorosa vicenda, è abbastanza oggettiva la modalità attraverso cui il film, seguendo il romanzo, riflette quasi totalmente sulle soggettività maschili, sul sostrato di violenza neofascista di un periodo “cruciale della storia italiana che coincide con quella mutazione antropologica che lo stesso Pier Paolo Pasolini aveva identificato a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, mutazione relativa ai costumi, alla religione e alla relazione tra il maschile e il femminile” (Gasperina Geroni 2022: 12). I corpi nudi delle due ragazze seviziate nella lunga sequenza del “massacro”, rese un pezzo di carne, come afferma uno dei carnefici, si contrappone ai corpi rappresentati nella serie, che oltre ad essere coperti vengono mostrati solo velocemente nel primo episodio e più per chiarezza espositiva, essendo Circeo un prodotto Rai e dunque destinato a un grande pubblico. Il solo corpo che la serie tenta di mettere in scena è un corpo corale, collettivo, femminista, un corpo potente, ma non senza problematicità, che merita senza alcun dubbio una trattazione più approfondita.

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  1. La struttura sociale dicotomica che associa la razionalità alle persone di sesso maschile e la follia o l'isteria a quelle di sesso femminile è il risultato di secoli di teorie filosofiche – a partire da Aristotele e Platone – studi scientifici, per anni appannaggio di soli uomini – basti pensare anche alle tesi freudiane sul destino determinato dall’anatomia – e paradigmi culturali che hanno sistematicamente escluso le donne dalla sfera intellettuale. È interessante come questa struttura venga reiterata nel genere poliziesco, nel consolidamento della figura del detective-uomo che già nella ricostruzione di Kracauer (1926) appare come vera e propria personificazione della ratio. Recentemente, studiose come Dresner (2007) o Mizejewski (2004), solo per citarne alcune, hanno sviluppato delle traiettorie teoriche per approfondire e ripensare la detection femminile, alla luce delle norme di gender e di genere, includendo nelle loro analisi anche una disamina su stereotipi e paradigmi sociali e culturali legati alla contrapposizione tra maschile-intelletto-deduzione e femminile-intuito-corporeità.↩︎

  2. In realtà Yara si apre con il ritrovamento del cadavere, per poi però ritornare indietro con un flashback, al fine di presentare la vittima, procedimento quindi assimilabile agli altri casi italiani.↩︎

  3. Glen Close riprende qui un’idea di Joan Ramon (1997).↩︎

  4. Il fort-da, descritto da Freud in Al di là del principio di piacere (1920), consiste nel gioco attraverso cui il bambino lancia e poi recupera un rocchetto di legno, una sequenza ripetitiva che simbolizza l'assenza e il ritorno della madre, la sparizione e la sua ricomparsa. Questo gioco, così, riflette il tentativo del bambino di padroneggiare l'angoscia della separazione dalla figura materna.↩︎

  5. Il podcast di Nazzi racconta anche molte dei casi esaminati in questo saggio. L’obbiettivo del giornalista, come dichiara sempre nell’intro, è di mostrare “non tanto il fatto di cronaca in sé, il delitto in sé, bensì tutto quello che è successo dopo: le indagini giudiziarie e i processi, con le loro iniziative, le loro intuizioni e i loro errori”.↩︎

  6. Intervista non pubblicata e realizzata con finalità di ricerca da Valentina Re e Arianna Vergari nell’ambito del progetto PRIN 2020 “Atlante del giallo. Storia dei media e cultura popolare in Italia (1954-2020)”, https://atlantedelgiallo.unilink.it/.↩︎