Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.25 (2024), 191–206
ISSN 2280-9481

Quei quattro dischetti sfiatati. Laura Betti cantante e recording artist

Jacopo TomatisUniversità degli studi di Torino (Italy)

Jacopo Tomatis is a musicologist, music critic and musician; he is a research fellow at the University of Torino, where he teaches Popular music and Ethnomusicology. His main research interests are in Italian popular music from the 1920s to the present days, with particular reference to media, politics and cultural history. Among his publications: Storia culturale della canzone italiana (il Saggiatore 2019, Feltrinelli 2021 – winner of the international IASPM book prize in 2021), Nuovo Canzoniere Italiano’s Bella Ciao (Bloomsbury 33 1/3rpm series), and Bella ciao. Una canzone, uno spettacolo, un disco (il Saggiatore 2014). He is Principal Investigator of the research project Atlas of Antagonist Discography. Italy 1958-1980 (PRIN – Research Projects of National Relevance, funded by the European Union – NextGenerationEU), and President of the Italian branch of IASPM.

Ricevuto: 2024-01-29 – Versione revisionata: 2024-02-06 – Accettato: 2024-05-05 – Pubblicato: 2024-08-01

Quei quattro dischetti sfiatati. Laura Betti as a Singer and Recording Artist

Abstract

Laura Betti’s career as a recording artist covers the years from 1957 to 1965, and represents a unicum in the history of Italian popular music: for the participation of several famous writers in the composition of the lyrics; for the use of a ‘low’ medium such as the song in an ‘intellectual’ project; for the transgressive and provocative content of many songs; and for the distinctive features of Betti as a singer, in relation to her contemporary performers. The objective of the essay is to reconstruct Betti’s career as a recording artist, and situating it in relation to the cultural history of Italian canzone and the new aesthetics of song and voice that emerged in the years of the economic boom.

Keyword: Laura Betti; Italian Popular Music; Voice; Record Production; 1960s.

1 Introduzione: un “personaggino della café-society”

Laura Betti si prende la scena verso la fine de La dolce vita (1960), nella lunga sequenza dell’orgia: “Perché non fai lo spogliarello tu? Ah già, non puoi: hai il torace da intellettuale, non rendi”, dice a un Marcello Mastroianni già ubriaco. Quest’ultimo non ci sta, e poco dopo la insulta: “Senti tu. Tu che muori dalla voglia di fare l’amore con me, perché non trovi nessuno che venga sotto le tue lenzuola, e che ti sfoghi cantando in quei quattro dischetti sfiatati…”

La presenza di Laura Betti ne La dolce vita nel ruolo di sé stessa – onore che condivide con altre due star del momento, Adriano Celentano e Nico – è già di per sé indicativa del suo status di celebrità nella Roma dei tardi anni Cinquanta (Rimini 2021). Tullio Kezich – che ricorda di averla conosciuta proprio sul set de La dolce vita nel 1959 – confesserà, all’indomani dell’uscita del film, tutti i suoi pregiudizi nei confronti di quella che le sembrava essere una starletta di secondo piano, materiale appena buono per quelli che di lì a poco si sarebbero chiamati paparazzi.

Ero prevenuto contro la Betti, come tanti, e la sua presenza in quello squallido sabba mi parve una pennellata troppo realistica, un eccessivo scrupolo di verisimiglianza. Per me Laura Betti detta la Giaguara era un personaggino della café-society, una delle tante incoscienti che per avere il nome in un film di canzonette attraversano via Veneto in camicia da notte o entrano a cavallo al Café de Paris (AA.VV. 1960, alette di copertina).

Nel 1960 Betti è in effetti un personaggio conosciuto nei salotti della capitale, ma non necessariamente per meriti artistici. Come lei stessa ha ricordato, è più che altro assecondando i “vezzi dell’ambiente romano, votato spesso a forme di divismo ‘urlato’” (Rimini 2017: 1) che riesce, in questa fase, a farsi notare e imporsi addirittura come “regina dei rotocalchi” (Rimini 2021: 11). Ma al netto del “buttarsi dentro le fontane, andar sempre a via Veneto di notte” e “farsi schiaffeggiare da Tomas Milian”, che curriculum artistico può vantare Laura Betti, nel 1960?

Nel 1954 ha esordito nella rivista I saltimbanchi con Walter Chiari; ha poi preso parte ad alcuni radiodrammi e recitato in teatro (con Luchino Visconti) facendosi ricordare per il temperamento problematico (Rimini 2021: 20–21). Al cinema, fino a La dolce vita, ha avuto solo piccoli ruoli. Al netto della fama di “personaggino della café-society”, per il grande pubblico che la scopre sui rotocalchi rimangono appunto le canzoni: al momento della sua apparizione nel film di Federico Fellini ne ha già incise una quindicina, ed è certo significativo che Mastroianni la identifichi (anche, evidentemente, a beneficio di quello stesso pubblico) proprio come quella che si sfoga “cantando in quei quattro dischetti sfiatati”.

La dolce vita arriva nei cinema all’inizio di febbraio. Pochi giorni prima, il 27 gennaio 1960, al Teatro Gerolamo di Milano, Betti ha debuttato con lo spettacolo Giro a vuoto. Per molti di quelli che vedono al cinema Laura Betti è allora anche – se non soprattutto – una cantante: la “cantante degli intellettuali”, l’interprete di brani scritti da alcuni dei più noti scrittori dell’epoca – Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Mario Soldati, Giorgio Bassani, Ennio Flaiano, Camilla Cederna, Italo Calvino, Goffredo Parise – in un momento in cui, negli anni dell’esplosione dell’industria editoriale, quegli stessi scrittori e intellettuali si vanno affermando come divi, personaggi dei salotti mondani e oggetto essi stessi dell’interesse dei paparazzi.

Sul fronte degli studi sull’attore e sul divismo, l’esperienza di Laura Betti come interprete di canzoni sarebbe alla base della “vocazione metamorfica” di Betti, che si sublimerà poi nella sua carriera cinematografica (Rimini 2021: 24). La stessa liason con Pasolini ha fra i suoi primissimi e decisivi esiti proprio la produzione di testi da musicare da parte del poeta per la recente amica. Per quanto riguarda gli studi sulla popular music – in cui questo contributo si inscrive –, Giro a vuoto e i brani scritti per Laura Betti sono stati invece identificati come uno dei momenti fondativi di una nuova canzone in Italia, vera eccezione alla regola che voleva la musica del periodo ridotta a prodotto di consumo e priva di ambizioni “artistiche” (Tomatis 2019: 256, Borgna 1992: 270). Eccezione nell’eccezione, queste canzoni segnano anche uno dei rarissimi momenti di collaborazione continuativa fra scrittori di professione e musicisti per la produzione di brani in italiano. Tuttavia, i pochi che si sono occupati più nel dettaglio della Betti cantante lo hanno fatto senza parlare veramente delle canzoni (Fofi 2005) o focalizzandosi sul repertorio di Kurt Weill (Rizzuti 2022). Nessuno ha rivolto le proprie attenzioni ai dischi. Più in generale, solo in anni recenti nella letteratura italiana sul cinema e l’audiovisivo è emersa una specifica attenzione alla popular music e ai percorsi intermediali delle canzoni e dei divi (Locatelli, Mosconi 2021).

L’esperienza di Laura Betti come cantante ha senza dubbio avuto il teatro come suo spazio di elezione, e molte delle ‘sue’ canzoni sono evidentemente concepite, in primis, per essere portate su un palcoscenico. Ciononostante, la produzione di dischi di canzoni ‘intelligenti’ anticipa cronologicamente la produzione di spettacoli teatrali e deve essere contestualizzata nel quadro di un generale rinnovamento dell’industria musicale italiana, del gusto e delle estetiche della canzone negli anni del boom economico.

2 Laura Betti recording artist

Una ricerca su Laura Betti come artista discografica si scontra da subito con la scarsa reperibilità e dispersione dei materiali e la sostanziale esiguità degli stessi. Nella sua intera carriera, Betti ha pubblicato non più di una quindicina di 45 giri a suo nome, un solo 33 giri di canzoni originali (cointestato con l’orchestra di Piero Umiliani) e due LP dedicati a Kurt Weill (si veda la discografia). Esistono i testi a stampa di una cinquantina di canzoni scritte appositamente per lei da scrittori e intellettuali in particolari per due spettacoli teatrali: Giro a vuoto del 1960 (AA.VV. 1960), di cui si ebbero tre edizioni, e Potentissima signora del 1964 (AA.VV. 1965). Tuttavia, meno della metà di queste canzoni sono state incise; di molte delle restanti, la parte musicale risulta perduta. Quelle che sono state registrate hanno comunque goduto di scarsa circolazione: impossibili da trasmettere in tv e in radio per i loro contenuti – troppo trasgressivi o comunque di scarso appeal per il mainstream –, diffuse su dischi spesso già in origine segnati da una circolazione limitata, esse non sono mai state ristampate dopo gli anni sessanta né su vinile né su cd, e sono tornate parzialmente disponibili solo negli ultimi anni grazie a YouTube e a Spotify.

La prima apparizione di Laura Betti nella discografia italiana risale al settembre 1957. Un trafiletto del “Notiziario Rca” sulla rivista Musica e dischi (1957) la presenta come “un nome nuovo” nell’ambito della “musica leggera”. Il disco che dovrebbe lanciarla è un EP 45 giri che contiene quattro canzoni francesi suonate dall’orchestra di Franco Giordano. Sul lato A compaiono “Tout l’amour que j’ai”, che era stata registrata da Mouloudji nella prima metà del decennio, e “Miarka” di Joseph Kosma su testo firmato da Jean Renoir, incisa da Juliette Greco per il film di quest’ultimo Eliana e gli uomini (Elena et les Hommes, 1956). Sul lato B ci sono invece due brani della coppia Aznavour-Bécaud, risalenti a qualche anno prima e già incisi da entrambi: “Je veux te dire adieu”, anche nel repertorio di Patachou, e “Donne-moi”, in Italia registrata nello stesso 1957 da Jula De Palma. Sempre nel 1957 esce anche un altro singolo, con “Les pantoufles à papà” di Claude Nougaro (dal repertorio di Jean Constantin) e “L’attesa (Forever Lonely)”, dal film di Steno Femmina tre volte (1957).

Fig. 1: Copertina di Tout l’amour che j’ai.

È un momento decisivo per le sorti dell’industria musicale nazionale. L’anno successivo vedrà il definitivo boom del microsolco in vinile: nel 1958 la produzione è triplicata, anche grazie al successo di “Nel blu dipinto di blu” di Domenico Modugno a Sanremo che segna la simbolica fine di una stagione della “musica leggera”, avviata con la radiofonia e l’avvento del cinema sonoro in epoca fascista, segnata dalla standardizzazione stilistica e ideologica (Tomatis 2019: 138). Nello stesso anno a Milano viene fondata la Dischi Ricordi, che di lì a poco concorrerà con la RCA – con cui Betti è sotto contratto in questi primi anni – per l’egemonia sul nascente mercato della musica giovanile. Entro la fine del 1958 esordiscono su 45 giri, fra gli altri, Mina, Adriano Celentano, Giorgio Gaber, Ornella Vanoni e Milva; l’anno dopo si aggiungono al rinnovato panorama della canzone Umberto Bindi, Gino Paoli, Luigi Tenco, Maria Monti, Sergio Endrigo, Enzo Jannacci.

Nel 1957 il disco a 45 giri (soprattutto EP) è però un formato ancora relativamente poco diffuso rispetto al 78 giri in gommalacca, e anche la scelta di registrare canzoni francesi conferma che il target di Betti è il pubblico borghese e colto, che si è già dotato dei nuovi giradischi per microsolco e che ha nella chanson d’oltralpe e nel jazz i propri ascolti distintivi. È proprio attraverso le canzoni francesi – spesso musicate dai poeti, come nel caso di molto del repertorio di Juliette Gréco, da cui Betti pesca – che si avvia in Italia l’immaginazione di una ‘nuova’ canzone in grado di superare i modelli stereotipati in voga fin dagli anni del Fascismo e di delinearsi come possibile spazio di espressione artistica.

All’inizio del 1958, nelle stesse settimane in cui Modugno trionfa al Festival con “Volare” (essa stessa riconosciuta dalla stampa dell’epoca come una canzone di gusto “francese”; Tomatis 2019: 155) Betti pubblica un secondo extended playing a 45 giri. Il pubblico di riferimento rimane lo stesso, ma la scelta del repertorio opera un salto non scontato: le canzoni sono scritte, per quanto riguarda i testi, da alcuni uomini di teatro piuttosto noti come Vittorio Gassman (“La commedia è finita”, in verità poco più di una bozza, con musica di Fiorenzo Carpi),1 Alberto Bonucci (la “La canzone del giramondo”, ancora di Carpi) e Vittorio Caprioli (“Una venere ottimista”, musica di Gianni Ferrio). A questi tre titoli si aggiunge “La canzone del tempo”, con testo firmato (almeno ufficialmente) da Piero Umiliani, che arrangia e suona con la sua orchestra in tutti i brani. I quattro sono anche raffigurati in foto sul retro della copertina, a dimostrazione che la loro presenza come autori di ‘canzonette’ era tutto fuorché scontata, e che è anche il loro nome a dover ‘vendere il disco’.

Fig. 2: Copertina del secondo EP di Laura Betti.

È in questo passaggio che Laura Betti, agendo sulla scena mondana romana, comincia a coinvolgere scrittori di fama perché le forniscano i testi di nuove canzoni in italiano, e compositori perché li mettano in musica. Il primo esito è raccolto ancora in un EP, registrato nel febbraio del 1959 e intitolato Quattro canzoni con Laura Betti. Viene pubblicato all’inizio dell’anno dalla Jolly, etichetta del gruppo SAAR di Walter Guertler che ha da poco lanciato la moda degli urlatori (Tomatis 2019: 160) e che negli stessi mesi sta costruendo il successo di Adriano Celentano. La copertina indica ancora gli autori dei testi, che sono Alberto Moravia (“Amare vuol dire mentire”, musica di Fiorenzo Carpi), Mario Soldati (“I Hate Rome”, musica di Piero Umiliani), William Demby (“Satellite”, sempre musica di Umiliani) e di nuovo Vittorio Caprioli (“Lucciola”, musica di Gianni Ferrio). Il libretto interno presente in alcune edizioni, oltre a riportare le parole delle canzoni (cosa rara per l’epoca) e – ancora – le foto degli autori, include un breve testo che chiarisce il senso e le ambizioni dell’operazione.

Laura Betti è un po’ in polemica con la canzone italiana tradizionale, soprattutto il suo malumore lo si scopre verso i parolieri: ed afferma che le canzoni-fumetto, dalle rime sciocche non la interessano e che “preferisce andare in tram ma cantare canzoni serie”. Canzoni i cui testi, soprattutto, si avvicinino ad un tessuto più artistico, ad un contenuto poetico aderente ad una certa realtà. Queste quattro canzoni nuove che potremmo definire “canzoni d’amore senza amore” trattano temi inconsueti ed intelligenti, e nascono da un fruttuoso incontro con personalità della letteratura, del cinema, del teatro e della poesia: il Parnaso italiano si fa musicare, ed il tentativo di modificare l’architettura tradizionale della canzone italiana è evidente e, ci auguriamo, proficuo e promettente. (S.B. 1959)

Una riflessione simile si ritrova anche sulle pagine di Musica e dischi dell’aprile 1959, dove Laura Betty (sic) è presentata dalla sua nuova casa discografica come “la più intellettuale tra le nostre attrici e cantanti di avanguardia” (Musica e dischi 1959).

Fig. 3: Copertina di Quattro canzoni con Laura Betti.

La collaborazione con gli scrittori viene messa a punto nel corso del 1959 in vista di uno spettacolo teatrale di canzoni, nello stile di un cabaret che in Italia, in quel momento, non è particolarmente diffuso (Eco 1963, Crivelli 1963). Giro a vuoto, diretto da Filippo Crivelli, va in scena per la prima volta il 27 gennaio 1960 al Teatro Gerolamo di Milano, che Paolo Grassi aveva riaperto nel 1958 e dove in quegli anni erano regolarmente ospitati spettacoli di interpreti di canzoni e cantautori (Sala 2015): proprio lì avevano debuttato, da un progetto di Giorgio Strehler, le Canzoni della malavita internazionale di Ornella Vanoni. Il 31 marzo al Teatro Valle si tiene la prima romana; nell’occasione Betti presenta un programma di 22 brani originali, tutti a firma di noti autori e raccolti in un libretto tirato in 1000 copie (AA.VV. 1960). In settembre, un allegato al fascicolo documenta l’aggiunta di altre otto canzoni in vista della seconda edizione dello spettacolo, che il 3 ottobre è al Festival della Musica di Venezia.

Fig. 4: Copertina del libretto di Giro a vuoto (AA.VV. 1960).

Intanto, nell’aprile del 19602 Betti è tornata in studio per registrare alcune canzoni di Giro a vuoto. A quell’anno si può datare un EP Jolly che contiene “Quella cosa in Lombardia” della coppia Fortini-Carpi (che occupa l’intero lato a) e sul lato B “Piero” (Patti-Umiliani) e “Io son’ una” (Mauri-Nebbia). Solo nel maggio del 1961 sembra invece essere messo sul mercato il primo LP a nome Laura Betti, cointestato con l’orchestra di Piero Umiliani (Musica e Dischi 1961). Contiene dieci brani della prima edizione di Giro a vuoto, più altri due non inclusi nel libretto dello spettacolo: “Non so spiegarmelo” di Patti-Umiliani e “Vera signora” di Mauri-Carpi. È di fatto una raccolta: negli stessi mesi tutte le canzoni vengono pubblicate anche su 45 giri, per un totale di altre quattro uscite, complice un momento particolarmente vivace del mercato discografico.

Fig. 5: Copertina dell’LP di Laura Betti con l’Orchestra di Piero Umiliani.

È ragionevole che l’iper-produzione sia legata alla crescente fama di Betti, ora diva pienamente intermediale. Dopo il successo de La dolce vita, fra il dicembre del 1960 e l’inizio del 1961 la cantante-attrice è infatti in televisione per lo sceneggiato Tutto da rifare pover’uomo, diretto da Eros Macchi, dove interpreta una cantastorie in coppia con Paolo Poli. Sulla scia della messa in onda, in marzo – dunque prima del lancio dell’LP – viene pubblicato un singolo cointestato ai due, con due canzoni della coppia Macchi-Carpi: “Ballata dell’uomo ricco” e “Ballata del pover’uomo”. La collaborazione viene replicata in dicembre con la diffusione di due 33 giri di piccolo formato, uno intestato a Poli e uno a Betti, venduti anche in abbinamento in una confezione speciale (l’etichetta è Carosello). Poli, non avendo a disposizione un suo repertorio, registra alcune canzoni popolari toscane anticipando il boom del folk revival di poco successivo.3 Betti incide invece altre cinque canzoni dalle prime due edizioni di Giro a vuoto.

Fig. 6: Pagina promozionale su Musica e dischi, 1961.

Nel 1962 escono altri tre EP a nome Betti. Due sono pubblicati in Francia, dove nel frattempo Giro a vuoto è arrivato nel dicembre del 1961: contengono otto canzoni tradotte in francese, due delle quali mai incise in italiano (“Maria il tatuaggio” di Mauri-Nebbia e “Ballata del suicidio” di Pasolini-Fusco, entrambe da Giro a vuoto 2). Uno – l’ultimo per la Jolly – contiene invece quattro brani scritti da Dario Fo e Fiorenzo Carpi per il film collettivo Cronache del ’22 (1961).

Fig. 7: Copertina di Cronache del ’22.

Nel 1963 arriva in teatro la terza edizione di Giro a vuoto, abbinata a un omaggio a Kurt Weill, in febbraio al Teatro delle Arti di Roma. L’interesse di Betti per il compositore tedesco (già nel 1961 era stata Anna I nei Sette peccati capitali alla Filarmonica di Roma, in coppia con Carla Fracci) si concretizza in due album antologici pubblicati da Ricordi, in cui la cantante è insieme all’orchestra diretta da Bruno Maderna (Rizzuti 2022). Nell’occasione, anche Massimo Mila la consacra come interprete brechtiana, lodandone le capacità di “canzonettista” nel “talento filologico” e nel “rispetto della parola” che manca a molti interpreti classicamente formati (Mila 1963).

Per quanto riguarda le canzoni in italiano, la produzione di dischi invece si blocca, nonostante Betti debutti con una nuova produzione – Potentissima signora, con la regia di Mario Missiroli – nel dicembre del 1964 (AA.VV. 1965). Solo nel 1965 un 33 giri di piccolo formato per la collana Cabaret all’italiana, curata da Filippo Crivelli per I Dischi del Sole, raccoglie un frammento di monologo e alcune canzoni da quello spettacolo, fra cui la parodia di Brecht-Weill “M’hai scocciata, Johnny”, con testo italiano di Billa Billa (ovvero Billa Zanuso).4 Dopo questa uscita, la carriera di Laura Betti come artista discografica può dirsi conclusa.

3 La canzone degli intellettuali

L’intera carriera su disco di Laura Betti si sviluppa dunque fra il 1957 e il 1965 e si sovrappone quasi perfettamente agli anni del miracolo economico. Sul fronte delle pratiche musicali, il passaggio di decennio si accompagna ad alcune novità sostanziali: la possibilità di accedere a supporti registrati a basso costo (i dischi in vinile) prelude allo sviluppo anche in Italia di un mercato musicale orientato ai giovani; allo stesso tempo, contribuisce a sfidare il monopolio dell’ascolto esercitato dalla radio pubblica e facilita la diffusione di repertori alternativi a quelli ‘ufficiali’. L’ambizione di riformare la canzone italiana a partire dai contenuti e dalla qualità dei testi emerge, negli ambienti intellettuali di sinistra, in stretto rapporto con l’espansione dell’industria musicale e con un tardivo recupero delle istanze neorealiste del dopoguerra, che non avevano fino a quel momento riguardato la popular music (Tomatis 2019: 211, 236). Nel 1955 Cesare Zavattini aveva teorizzato la necessità di una “canzone neorealista” dalle pagine di Cinema nuovo (ibid.: 238). L’anno dopo Avanguardia, la rivista della Federazione giovanile comunista italiana diretta da Gianni Rodari, aveva lanciato un appello perché i poeti si dedicassero alla scrittura di “canzonette”, ospitando fra l’altro un intervento di Pasolini sul tema (ibid.: 155).

È però solo nel 1958 che si avvia il primo progetto continuativo che ambisce a rompere apertamente con il modello sanremese per produrre brani che affrontino il racconto della realtà. Il Cantacronache, fondato a Torino alla fine del 1957, debutta su disco nella primavera di quell’anno e coinvolge da subito due intellettuali come Italo Calvino e Franco Fortini, che collaboreranno anche con Laura Betti nei due anni successivi. La cronologia de Il Cantacronache è dunque all’incirca sovrapponibile a quella del progetto di canzoni ‘d’autore’ di Betti, che anzi sarebbe di poco precedente. Entrambe le operazioni hanno come primi esiti pubblici la produzione di dischi. Entrambe pongono gli ‘argomenti d’amore’ (da trattarsi, come cantava Fausto Amodei ne “Il ratto della chitarra”, “senza far sottintesi”) e le tematiche realiste al centro del proprio progetto di innovazione della canzone; Betti ebbe anche con Il Cantacronache un incontro “brevissimo e burrascoso” (Straniero 1965). La differenza fondamentale fra le due esperienze riguarda la dimensione politica: se nel progetto dei torinesi la scelta della forma canzone è legata alle sue potenzialità di comunicazione – la canzone è cioè un mezzo, più che un fine in sé – Betti sembra invece ambire a una dimensione più genericamente letteraria e di provocazione. Per il pubblico degli anni Cinquanta–Sessanta, tuttavia, gli esiti non sono poi così distanti. Ha scritto Umberto Eco (1963) in uno dei primi tentativi di fare un punto sul fermento di quegli anni: “Le canzoni di Laura Betti non erano impegnate in senso politico, erano solo oltraggiose. Ma in una situazione come quella della cultura italiana l’oltraggio aveva già un valore ideologico”.

Nella ricezione dell’epoca l’operazione che più comunemente viene accostata a quella di Betti è il ciclo delle canzoni della malavita registrate e portate a teatro da Ornella Vanoni a partire dal 1958 su impulso di Giorgio Strehler, e pubblicate da Ricordi nello stesso anno. Prima della sua consacrazione come “la cantante della dolce vita”, in uno dei primi lunghi servizi giornalistici a lei dedicati come cantante, nell’ottobre del 1959, Betti è in effetti presentata come un’alternativa “proletaria” a Ornella Vanoni (Maurizi 1959). Si tratta di un meccanismo tipico della stampa dell’epoca, che puntava a fomentare rivalità più o meno immaginarie fra i diversi divi (celebre, poco dopo, sarà quella fra Mina e Milva). I punti in comune fra le due, comunque, non mancano. Entrambe si dedicano a repertori pensati il teatro, nel quadro di un più ampio progetto di adattare per l’Italia il modello del cabaret (Eco 1963, Crivelli 1963), ma che vengono diffusi innanzitutto su disco. In entrambi i casi si tratta di progetti di appropriazione e adattamento di un genere ‘popolare’ (la canzone) da parte degli intellettuali, che costringono tanto Betti quanto Vanoni nel ruolo di “cantante per ‘élites’” (Severi 1960: 90). Se Vanoni, grazie all’ampliamento del proprio repertorio, all’investimento della Dischi Ricordi e alla partecipazione al Festival di Sanremo si emancipa rapidamente da questa parte, l’accusa di essere un prodotto snob e (diremmo oggi) ‘radical chic’ è invece da subito una costante negli articoli dedicati a Betti.

È nata così la contro-canzone o canzone intellettuale, che manda in visibilio piccole platee formate da giornalisti, scrittori, pittori e svariate principesse del ‘generone’ patrizio italiano, nonché attori e attrici di prosa, registi famosi e no, e i soliti invertiti d'ambo i sessi (Severi 1960: 90).

È più o meno la stessa critica, piuttosto appuntita, che a Betti rivolge da sinistra un intellettuale molto interessato alla canzone come Umberto Simonetta5 (1962: 37):

[Betti] appartiene a quella categoria di attori che si presentano al pubblico strizzando l’occhio, con l’aria di dire, conniventemente: “Badate signori miei che io sono una persona intelligente e vi racconterò cose intelligenti: se siete intelligenti anche voi… ci siamo capiti? intesi?”.

Le canzoni di Laura Betti sono dunque diverse sia dal Cantacronache, sia dalle Canzoni della mala, sia da altri progetti vicini al cabaret che in quegli anni animano l’ambiente milanese, come ad esempio lo spettacolo Milanin Milanon o le canzoni di Giorgio Gaber, Maria Monti, Enzo Jannacci, Dario Fo, Nanni Svampa, I Gufi, Paolo Poli… Anche quando non riprendono direttamente materiali dei repertori popolari urbani o contadini, l’invenzione di questi e altri autori punta comunque a una (re)immaginazione del ‘popolare’ in chiave intellettuale che prelude al boom del folk revival in quegli stessi ambienti. Lo stesso Filippo Crivelli, dopo la regia di Giro a vuoto, nel 1962 si occupa di Milanin Milanon, incentrato sul repertorio in dialetto milanese, e dello spettacolo che lancia il folk revival in Italia, Bella ciao, che debutta nel 1964 al Festival dei Due Mondi di Spoleto (Tomatis 2024). Con l’eccezione delle canzoni scritte per lei da Pier Paolo Pasolini in romanesco e di poche altre, la ricerca di un (neo)realismo popolare non sembra però essere fra gli obiettivi degli autori coinvolti da Betti. Pur nella varietà delle firme e degli stili, che rendono qui impossibile un’analisi dettagliata, la maggior parte dei brani rivela piuttosto un’origine salottiera e di divertissement; in molti casi è facile identificare un generico tentativo di èpater les bourgeois spingendo sul tasto della trasgressione, ma sempre in un contesto colto e parlando a un pubblico in grado di cogliere determinati riferimenti e ammiccamenti: “Ho letto con ritardo Lolita e il Gattopardo/così passai l’estate tra speranze infondate” (“Sublime indecisione”, Flaiano–Carpi).

L’intero progetto, in sostanza, è ‘oltraggioso’ e trasgressivo perché oltraggiosa e trasgressiva è Laura Betti, e le canzoni sono spesso concepite per avere come protagonista – come io cantante – proprio il personaggio-Betti. Che è dunque insieme costruito da Betti stessa a livello intermediale – fra il cinema, il teatro, i rotocalchi, i dischi – e per lei scritto dai ‘suoi’ scrittori attraverso i testi delle canzoni.

4 Scrivere (per) Laura Betti

Già nel primo EP di canzoni originali scritte per lei, nel 1958, almeno un brano va chiaramente in questa direzione: si tratta di “Una venere ottimista” di Caprioli–Ferrio, in cui l’io narrante della canzone elenca con ironia una sequenza di amanti da Grand Hotel – fra i Carpazi, la Cina, Liverpool e Varese – ciascuno dei quali, con i propri regali, ha contribuito alla sua ricchezza. La protagonista conclude: “dall’elenco capirete a prima vista / perché sono nell’amore un’ottimista […] / Non mi resta che aumentare il capitale.”

Intorno a temi analoghi (la ricerca di un amante da parte di un personaggio femminile) e con simile costruzione retorica (una narrazione in prima persona, da parte di un personaggio femminile e disinibito) si sviluppa, nell’EP successivo (del 1959), “I Hate Rome” di Mario Soldati e Piero Umiliani. In “Lucciola” (Caprioli–Ferrio) l’io narrante della canzone è invece una prostituta di nome Rita.

Nelle successive canzoni scritte per Giro a vuoto viene introdotta più esplicitamente – ed è una novità non da poco, per il 1960 – la dimensione sessuale. Molti dei brani dello spettacolo in effetti parlano di sesso, o vi alludono più o meno esplicitamente. Diversi adottano, come “Una venere ottimista”, il tòpos del ‘catalogo’ degli amanti, una strategia che nello stesso 1960 si ritrova nel primo singolo di buon successo di Maria Monti, “Zitella cha cha cha” (Tomatis 2019: 199–200). “Piero” è la più esplicita e la più ironica in tal senso: la protagonista della canzone, che parla come in tutti i brani in prima persona, finisce “a letto” con Carlo “in un albergo a Mantova”, con Nino “in un motel, vicino a un paesetto” e addirittura “sul divano d’ingresso” con “il radiotecnico che venne una mattina per aggiustar le valvole”. In tutto questo, Piero, amante cornuto e personaggio eponimo della canzone, non riesce a farsi una ragione dell’infedeltà della sua fidanzata. Che spiega: “Son tutte cose futili / che passano e poi tornano /di cui io mi dimentico / perché il mio amore, il mio amore vero / è sempre stato Piero.”

Altri esempi di canzoni strutturate su un ‘catalogo’ di trasgressioni sono “Seguendo la flotta” (Arbasino–Carpi); “Incontro milanese” (Gino Negri; in questo caso gli amanti sono: “un Teddy al numero dieci di Via Mac Mahon”, “un intellettuale su una seggiola dura alla casa della cultura”, “un industriale illuminato con panfilo privato e relazioni umane con il proletariato”); “Social Climber” (Cederna-Carpi); e “Io son’una” (Mauri-Nebbia), che batte ripetutamente sul tasto della provocazione scioccante e quasi masochistica: “I balilla m’han violato sui tamburi […] / Sopra un carro insieme a cinque o sei mignotte / in guardina è uscito pus dalle ossa rotta.”

Un caso particolare di catalogo è la surreale “Soltanto gli occhi”, in cui a essere elencate sono le parti del corpo consumate (letteralmente) dall’amante della protagonista, un cannibale (“che si chiamava Annibale”): l’unico organo risparmiato dalla fantasia sessual-gastronomica di Gino Negri sono, appunto, gli occhi. Un simile gioco masochistico-ironico si ritrova anche in “La prima volta” (Fo–Carpi): “Fammi ancora un livido sul femore / un violetto livido d’amore / che voglio ricordar dei baci tuoi l’amor / di quando al primo valzer / tu mi stringesti al cuore / e mi sfasciasti un rene nel renversé.”

Se le canzoni ironiche e surreali abbondano, non mancano però quelle ‘serie’, che si muovono fra registri diversi. Quelle di Pier Paolo Pasolini, ad esempio, oscillano fra un realismo patetico (“Cristo al Mandrione”) e uno di taglio più espressionistico, come nel caso di “Valzer della toppa” e “Macrì Teresa, detta Pazzia”, dove Betti dà voce – ancora – a una prostituta: “Me do a la vita da più de n’anno / che artro ancora voj sapé? / So’ disgraziata ma ci ho un ragazzo / che sarvognuno pare un re. / Je passo er grano… Embeh, è così / che vòi da me?”.

“Quella cosa in Lombardia” di Franco Fortini e Fiorenzo Carpi, il brano più riuscito del repertorio di Laura Betti e vero manifesto di come parlare di sesso e di amore in forma di canzone, punta invece su una forma di realismo più quotidiana ed esistenzialista, assimilabile per atmosfere a quella messa in scena negli stessi anni dai cantautori Ricordi:

Certo è amore anche la fretta tutta fibbie, lacci e brividi
nella nebbia gelata e sull’erbetta
un occhio alla lambretta, l’orecchio a quei rintocchi
che suonano da un borgo la novena, e una radio lontana
che alle nostre due vite dà i risultati
delle ultime partite.

Sottratta tanto al registro ironico quanto a quello patetico o espressionistico di molti dei brani citati, la dichiarazione del desiderio sessuale femminile – la stessa normalità della constatazione che tale desiderio esiste – raggiunge per bocca di Laura Betti una potenza mai raggiunta prima nella canzone italiana (e, in verità, raramente toccata anche dopo): “Caro, dove si andrà – diciamo così – a fare all’amore? / non ho detto a passeggiare, e nemmeno a scambiarsi qualche bacio / dico proprio quella cosa che tu sai, e che a te piace, credo, quanto a me.”

Due canzoni, infine, tematizzano direttamente ed esplicitamente lo stesso personaggio–Betti per come era noto al pubblico. Mai registrate, sono poste in chiusura di Giro a vuoto: “Giro a vuoto” di Fabio Mauri e Tony Lenzi è un ritratto della Betti come “donna maschio mondana”, personaggio pubblico nella Roma della dolce vita: “Sono nata freudiana / raffinata, inumana / ciò non toglie che adoro / esser nata di toro/ sono attrice sciantosa / donna maschio mondana / santa, zia, generosa / sana, pura e puttana.”

“Laura Betti” di Giorgio Bassani e Gino Negri, che segue in scaletta, propone invece un ironico rovesciamento di quello stesso tipo sociale, proponendo una Laura Betti ‘imborghesita’.

Mi sono innamorata anch’io. E di chi?
Di un tipo su per giù della mia età.
E vorrei tanto portarmelo su con me
e sposarmelo. Non sarei più
Laura Betti, s’intende, ma quella là
che una volta andò via dalla città,
e poi tornò, sposata, con quel brunetto
che in sé sarà, magari, niente male.
Ma la fa stare, ‘sorbole!’, a Casalecchio
in due stanze: cucina e matrimoniale!

La formula di Giro a vuoto è aggiornata per lo spettacolo che ne rappresenta il seguito: Potentissima signora, atto unico con la regia di Marco Missiroli che debutta al Teatro della Ribalta di Bologna il 5 dicembre 1964. Nell’occasione ai brani cantati, sempre firmati da scrittori noti, si alternano monologhi, dialoghi e varie azioni sceniche (AA.VV. 1965) mentre si perde la struttura da “spettacolo di canzoni” (Crivelli 1963). Pur nei diversi stili e nelle molte ispirazioni, ulteriormente ‘espanse’ e complicate dalle parti recitate, anche per molte di queste canzoni il filo conduttore sembra essere la partecipazione alla costruzione – alla scrittura – del personaggio intermediale Betti. Una specie di gioco collettivo fra scrittori, che supporta e continuamente reinventa quella identificazione fra “vita privata e mostro di palcoscenico” di cui parlava già Eco (1963: 30). Cifra originale dell’intero ciclo di canzoni registrate da Laura Betti e portate sul palco, questo complesso rapporto fra la ‘vera’ Laura Betti e il personaggio ‘Laura Betti’ passa necessariamente attraverso la voce.

5 Cantare Laura Betti

La sistematica ambizione all’anticonformismo che attraversa i testi scritti per Laura Betti non sembra riguardare anche le scelte musicali. La grammatica armonica, ritmica e timbrica delle big band jazz rappresenta il minimo comune denominatore di quasi tutte le canzoni, anche in virtù del coinvolgimento di Umiliani come direttore d’orchestra, e al netto delle idiosincrasie dei singoli compositori (ad esempio, Fiorenzo Carpi sfrutta spesso un immaginario più popolaresco e ritmi ternari). I tentativi di superare quel modello si ritrovano, piuttosto, in una diffusa tendenza al pastiche di stili. Una delle soluzioni adottate dai compositori (e/o da Umiliani come arrangiatore: difficile riconoscere la paternità di queste trovate) è infatti quella di spezzare il flusso dei brani con improvvisi cambiamenti di ritmo e di atmosfera. È una mossa funzionale anche a movimentare le canzoni e a dargli una struttura, in assenza di testi che seguono la forma-canzone e la metrica canoniche.6 In “I Hate Rome”, ad esempio, Umiliani passa da una sognante introduzione di arpa a un blues, e infine a una rumba. In “Quella cosa in Lombardia”, Carpi alterna una strofa a tempo di valzer con un ritornello shuffle in 4/4, dove le trombe con sordina sostituiscono la fisarmonica.

La propensione al pastiche si rispecchia nelle scelte vocali di Laura Betti, che attraverso registri interpretativi diversi dà forma alla struttura delle canzoni e, allo stesso tempo, costruisce i personaggi che le popolano. In questo, la Betti artista discografica sembra riprodurre la Betti interprete teatrale, che sul palcoscenico prende quasi esclusivamente su di sé l’incombenza di gestire il ritmo dello spettacolo, in quello che Filippo Crivelli (1963) definiva “fregolismo psicologico” e Fedele D’Amico (1960) “vocazione istrionica”. In effetti, limitandosi all’ascolto delle canzoni registrate e paragonandole alla produzione discografica coeva – sia delle interpreti femminili di formazione teatrale, sia dei cantautori, sia nel campo della nascente canzone politica – quello che colpisce è la varietà di registri e voci diverse adottate da Betti, a volte anche nello stesso brano. Si va dal patetico (“Cristo al Mandrione” di Pasolini) allo stile da café chantant leggero (i birignao insistiti di “Seguendo la flotta”), dalla parodia della vocalità ‘all’italiana’ (“Cocco di mamma”) a quella brechtiana (che emerge esplicitamente in “Mi hai scocciata, Johnny”). La voce di Betti sa farsi piccola e sfumare nel recitativo (ad esempio in alcuni passaggi del ritornello di “Quella cosa in Lombardia”) oppure sovrastare la big band in potenza (in “Valzer della toppa”).

La vocalità e le strategie performative di Betti vanno comprese in relazione con la più generale ristrutturazione delle estetiche della voce nell’Italia dei tardi Cinquanta. Una nuova generazione di performer sta in quegli anni rompendo drasticamente con modelli vocali impostati e lirici della canzone all’italiana, alla ricerca di vocalità più spontanee e consapevoli degli esempi forniti dal teatro e/o alla canzone americana e francese. Betti, come molte cantanti italiane (su tutte Mina, di tredici anni più giovane), si è formata sui dischi jazz d’importazione: Walter Chiari l’avrebbe ‘scoperta’ alle prese con una cover di “Black Coffee”, dal repertorio di Sarah Vaughan (Maurizi 1959). I suoi modelli vanno ricercati in quell’ambito, oltre che nelle cantanti francesi dal cui repertorio pesca i suoi primi numeri (e che a loro volta guardavano agli Stati Uniti) e nel teatro musicale di Bertolt Brecht, le cui canzoni interpretate da Lotte Lenya e Ernst Busch rappresentavano un imprescindibile modello per i giovani intellettuali italiani interessati alla canzone. Pur abbeverandosi a tutte queste fonti, Betti non sembra prediligerne nessuna, né sembra interessata a sviluppare più di tanto un ‘suo’ modo di cantare. Al contrario, si serve dei diversi stili, anche ibridandoli, a seconda della necessità della canzone.

La prima documentazione su disco della voce di Betti risale, come detto, al 1957: la cantante ha trent’anni (per quanto pubblicamente ne dichiari dieci di meno) e mostra un controllo già piuttosto maturo sui propri mezzi vocali (in verità, pare più sicura alle prese con il francese che non nelle prime prove in italiano). Tuttavia, è chiaro che la sua non è una voce ‘educata’ a cantare. Fino a quel momento la sua formazione è stata innanzitutto attoriale, e al contrario delle cantanti di ‘musica leggera’ sue contemporanee le sue performance hanno come primo obiettivo quello di valorizzare il testo, modellando la voce e l’interpretazione sulle necessità dello stesso. È una considerazione che ce la fa accostare al primo Domenico Modugno, anche lui attore di formazione (era stato allievo del Centro sperimentale di cinematografia) e anche lui in grado, negli stessi anni, di muoversi con disinvoltura fra diversi registri. Per questi ‘attori-cantanti’ – il termine era in uso sulle riviste per parlare tanto di Betti quanto di Modugno – la ‘bella voce’ non rappresentava un fine in sé. È un passaggio decisivo nella storia della canzone italiana, che prelude al successo dei cantautori a partire dal 1960.

Nella pubblicistica dell’epoca è facile imbattersi in descrizioni della voce di Betti che – esattamente come avveniva per Modugno, e come avverrà di lì a poco per i primi cantautori e per gli urlatori – ne rilevano il carattere antitradizionale. Ad esempio, suggerendo che non stia veramente cantando: Silvio D’Amico, ricorda Betti in un’intervista dell’epoca, avrebbe ad esempio affermato a più riprese: “Questa ragazza non canta, recita” (Maurizi 1959); la stessa Betti, secondo l’autore dell’articolo, avrebbe da principio recitato “le sue canzoni, perché sosteneva, e sostiene ancora, che non basta cantarle” (l’autore chiosa ironicamente: “Purtroppo bisognerebbe anche venderle”; ibid.). Altrove, si legge che “la sua voce, senza essere propriamente voce, ma piuttosto un sussurro, è giusta” (Severi 1960: 90). Essa ha, naturalmente, una componente di classe: è una voce che “piace alle duchesse e agli intellettuali” (ibid.), anche perché assomiglia di più alle voci francesi o americane, ascolti distintivi di quel milieu, che non a quelle italiane che passavano in Rai. Dunque, quella di Betti è una voce anticonformista in primo luogo perché sovverte le prassi performative della canzone ‘all’italiana’ tradizionale: non è impostata, è attenta a valorizzare il testo. Non è necessariamente ‘perfetta’, ma è ‘giusta’.

L’aspetto più originale sembra risiedere allora nel complesso legame semiotico che, attraverso la voce, viene a instaurarsi fra la ‘vera’ Laura Betti, il personaggio pubblico ‘Laura Betti’ e il personaggio che interpreta nelle sue canzoni (ovvero, l’io narrante-cantante, diverso in ogni brano). Philip Auslander, riprendendo il concetto di personage di David Graver (2003) – ovvero la ‘presenza’ dell’attore come personaggio pubblico, che è distinta dal personaggio che interpreta e che orienta l’interpretazione della performance – ha riconosciuto l’importanza di osservare anche nella musica quel “fenomeno liminale che media fra la persona reale e il personaggio” (Auslander 2006: 102). Questa liminalità, almeno per quanto riguarda le canzoni, è in carico alla voce (Sala 2016). Sala parla, a proposito, di vocis personae come della “autorappresentazione, non sempre intenzionale, del performer”, il “personaggio espresso dalla/presente nella sua voce” (ibid.). Nel caso delle canzoni per Laura Betti – nel loro divenire a tutti gli effetti di Laura Betti – questa autorappresentazione va calata, ancora, nel contesto dell’epoca, alle soglie di una generale ristrutturazione della canzone dal punto di vista ‘semiotico’ che riguarda soprattutto i cantautori. Ovvero, la costruzione dell’idea che il cantautore – interpretando brani scritti da sé – canti parlando di sé stesso.

Le tracce della ricezione di Laura Betti come diva intermediale ci suggeriscono come al pubblico fosse piuttosto chiara l’identificazione fra la ‘vita privata’ della cantante e il “mostro di palcoscenico” (Eco 1963: 30). Come si è visto, alcune canzoni di Giro a vuoto hanno come protagonista ‘Laura Betti’, e se nella prima parte dello spettacolo la cantante-attrice indossava un tailleur nero, nella seconda lo abbandonava per “una calzamaglia e un pullover nero”, che “sarebbero diventati la sua divisa” (Crivelli 1963) e che già all’epoca la identificano come personaggio, stilizzata in forma di icona: basta guardare l’illustrazione che campeggia sul libretto dello spettacolo (AA.VV. 1960), poi ripresa anche su alcuni dischi. Quando, negli stessi mesi di Giro a vuoto, appare nel ruolo di sé stessa ne La dolce vita, Betti “salda la postura espressiva alla persona, generando la scintilla che la porterà a indagare e a contraddire il rapporto fra verità e finzione” (Rimini 2017: 4) e di conseguenza a sviluppare il suo stile di recitazione. Nel caso delle canzoni, questa ‘saldatura’ è però particolarmente complessa da decostruire.

Nelle convenzioni che regolavano la fruizione della canzone italiana più tradizionale all’altezza degli anni cinquanta era piuttosto pacifico che l’io narrante-cantante non coincidesse con quello del ‘vero’ performer. Quando Nilla Pizzi diceva “io” nelle canzoni non stava veramente parlando di sé o rappresentando sé stessa attraverso un personaggio, ma piuttosto interpretava un ruolo convenzionale. Negli anni del boom questo meccanismo si inceppa grazie all’emergere della figura del cantautore e – più in generale – di nuovi divi che si identificano anche con la loro voce, unica e idiosincratica. Nella nuova canzone la vocis personae del cantautore – la ‘presenza’ del ‘vero’ Domenico Modugno, o del ‘vero’ Gino Paoli nelle loro performance registrate – condiziona nel profondo la ricezione delle loro canzoni, secondo un diverso tipo di “autenticazione” (Moore 2002) che è il cuore di una nuova estetica della canzone. Il cantautore canta le ‘sue’ canzoni, e per essere percepito come ‘vero’ deve mettere in scena sé stesso, senza filtri.

Nel caso delle canzoni di Laura Betti avviene qualcosa di simile. La cantante interpreta personaggi differenti, che addirittura parlano (cantano) in modo diverso l’uno dall’altro, ma allo stesso tempo è sempre sé stessa. O meglio: è sempre quella che noi percepiamo come la ‘vera’ Laura Betti, la cui distanza con il suo personaggio pubblico tende allo zero, come ne La dolce vita. Esattamente come quando si ascoltano i cantautori, quando Laura Betti dice “io” nelle canzoni, il pubblico tende a credere che quell’io possa essere veramente lei, anche quando è chiaro che sta interpretando un personaggio (ad esempio, una prostituta) che qualcuno ha scritto per lei, e nonostante muti continuamente voce e registro interpretativo. Come Fred Buscaglione, Betti porta in scena e sui dischi un personaggio da lei stessa costruito, e vi rimane fedele. Ma nel caso del ‘dritto di Chicago’ il gioco letterario e cinematografico è esposto: è chiaro che Buscaglione sta interpretando un tipo tratto dai film americani. Nel caso di Betti, quel ‘tipo’ è lei stessa – o meglio, ancora una volta, quella che il pubblico identifica con la ‘vera’ Laura Betti, e che gli autori delle canzoni hanno collettivamente contribuito a scrivere.

6 Conclusione: le canzoni di Laura Betti

Limitato nel tempo, di scarso successo commerciale, marginale rispetto alla sua attività di attrice, il percorso di Laura Betti come recording artist si staglia dunque come un unicum nelle vicende della canzone italiana, eccezione nell’eccezione per un genere che raramente fino a quel momento si era dedicato a soggetti ‘oltraggiosi’ e che mai aveva coinvolto ‘veri’ scrittori per scriverne. Trasgressione ulteriore, è una donna a cantare di sesso e di desiderio, ed è una donna a prendere su di sé l’agency dell’operazione, elemento che le è riconosciuto da tutti i commentatori dell’epoca: sebbene non ne sia autrice, le canzoni di Giro a vuoto e dei dischi sono a tutti gli effetti canzoni di Laura Betti. La loro esistenza non può prescindere dal personaggio-Betti: “è la forza del suo personaggio, re-inventato dagli amici scrittori, a risultare vincente, a imprimere un marchio unificante all’intera operazione” (Rimini 2021: 24).

Betti è allora un’interprete femminile che ci è difficile ricondurre al ruolo – profondamente imbricato in questioni di genere (Tomatis 2016) – che canonicamente riconosciamo alle ‘interpreti’ femminili. Non è una cantautrice, ma ‘possiede’ le ‘sue’ canzoni. È (o interpreta?) un personaggio – ‘Laura Betti’ – chiaramente riconoscibile dal pubblico, vestito sempre uguale ma che allo stesso tempo canta sempre in modo diverso, eppur con voce ‘giusta’ e personale… È forse per tutte queste ‘anomalie’ che la vicenda di Betti come artista discografica – che si è qui provato a ricostruire – è rimasta poco più di una nota a piè di pagina nella storia della canzone italiana.

Discografia

La datazione dei dischi è stata ricava incrociando i dati disponibili su Discogs.com, Discografia nazionale della canzone italiana (http://discografia.dds.it/) e le poche informazioni presenti in Virgolin 2005 con le uscite discografiche del mese della rivista Musica e dischi e (ove presenti) i numeri di matrice sui supporti originali. Non sono state incluse le partecipazioni di Laura Betti in dischi altrui o collettivi.

“Les pantoufles à papà” / “L’attesa”, Rca italiana N 0595, 45 giri, giugno 1957.

Tout l’amour que j’ai (“Mjarka” – “Tout l’amour que j’ai” / “Je veux te dire adieu” – “Donne-moi”), Rca italiana A72V 0110, 45 giri EP, 1957.

Laura Betti, Piero Umiliani e la sua orchestra, “La commedia è finita” – “La canzone del giramondo” / “La canzone del tempo” – “Una venere ottimista”, Rca italiana A72V 0220, 45 giri EP, febbraio 1958.

Quattro canzoni con Laura Betti (“Amare vuol dire mentire” – “I Hate Rome” / “Lucciola” – “Satellite”), Jolly EPJ 3000, 45 giri EP, febbraio 1959.

“Quella cosa in Lombardia” / “Piero” – “Io son’una”, Jolly EPJ 3004, 45 giri EP, 1960.

(Con Paolo Poli) “Ballata dell’uomo ricco” / “Ballata del pover’uomo”, Jolly J 20128, 45 giri, marzo 1961.

Laura Betti con l’Orchestra di Piero Umiliani (lato A: “Cocco di mamma”, “Piero”, “Valzer della toppa”, “Quella cosa in Lombardia”, “Io son’una”, “Macrì Teresa detta Pazzia”; lato B: “Venere tascabile”, “E invece no”, “Seguendo la flotta”, “Solamente gli occhi”, “Non so spiegarmelo”, “Vera signora”), Jolly LPJ 5020, LP 33 giri, maggio 1961 (la data di matrice è il 20 aprile 1960, il disco viene lanciato su Musica e dischi solo nel maggio 1961. Il disco è ristampato da Stella Records con numero di catalogo LPS 6058).

“Macrì Teresa detta Pazzia” / “Valzer della toppa” – “Cocco di mamma”, Jolly EPJ 3005, 45 giri EP, 1961.

“Venere tascabile” / “Vera signora” / “E invece no” / “Non so spiegarmelo”, Jolly EPJ 3006, 45 giri EP, giugno 1961.

“Venere tascabile” / “Seguendo la flotta”, Jolly J 20135, 45 giri, 1961.

“E invece no” / “Solamente gli occhi”, Jolly J 20136, 45 giri, 1961.

“La bambinona” – “Guglielmino” / “La bella Leontine” / “Io, Corpus Domini 1938” / “Mi butto!”, Carosello LC 4001, 33 giri 7 pollici, dicembre 1961.

Cronache del ’22 (“Nel ’22 sognavo già l’amore” – “Proprio oggi” / “Sulla strada che va a Reggio” – “La prima volta”), Jolly EPJ 3009, 45 giri EP, 1962 (matrice 26 gennaio 1962).

N.1 (“Je me jette” [“Mi butto!”] - “La parade du suicide” [“La ballata del suicidio”] / “Je hais Rome” [“I Hate Rome”] – “La belle Léontine” [“La bella Leontine”]), Orphée 150.018 B, 45 giri, 1962.

N.2 (“Je sais vivre” [“Io son’una”] – “Piero” / “Maria le Tatouage” [“Maria il tatuaggio”] / “Une vraie dame” [“Vera signora”]), Orphée 150.021 B, 45 giri EP, 1962.

Kurt Weill 1900-1933, cantato da Laura Betti, diretto da Bruno Maderna, presentato da Roberto Leydi, con la partecipazione di Vittorio De Sica, Ricordi SMRL 6031, LP 33 giri, 1963.

Kurt Weill 1933-1950, cantato da Laura Betti, diretto da Bruno Maderna, presentato da Roberto Leydi, Ricordi SMRL 6032, LP 33 giri, 1963.

Ordine & disordine (“Ai Brigoli di Casalecchio” - “M’hai scocciata, Johnny” / “Monologo della buca (dalla ‘Giovanna di Io’” – “Solitudine” – “Lamento del nord”), I Dischi del Sole DS 40, 33 giri 7 pollici, giugno 1965.

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  1. Qualche informazione sulla composizione della canzone, il cui testo sarebbe tratto da “Ornifle” di Jean Anouilh (de Angelis 2021), si trova in Fusco (1958).↩︎

  2. La data si ricava dalla matrice dell’LP Laura Betti con l’Orchestra di Piero Umiliani, che indica 26 aprile 1960.↩︎

  3. Ha spiegato lo stesso Poli in un’intervista: “E che ci potevo mettere? Che avevo io di repertorio? Laura aveva le canzoni scritte dagli intellettuali, non potevo mica metterci delle canzonettacce qualsiasi, mentre invece ritirar fuori le cose del popolo poteva in qualche modo sembrare un'operazione intellettuale.” (Ceri 2010: 65).↩︎

  4. Il brano “Ai Brigoli di Casalecchio” di Valentino Bucchi e Massimo Dursi non è invece incluso fra i testi dello spettacolo (AA.VV. 1965).↩︎

  5. Lo stesso Simonetta firmerà poi una canzone per Potentissima signora: “La raffinata” (AA. VV. 1965: 181-182).↩︎

  6. Ha ricordato Betti (Chiesi 2004): “Moravia non capiva nulla di metrica… […] Le difficoltà con la metrica di Moravia determinarono il coinvolgimento di musicisti contemporanei perché, se no, non se ne sarebbe venuti a capo”. Le difficoltà di Moravia con la metrica sono piuttosto evidenti alla lettura dei suoi testi (e forse anche per questo le canzoni scritte da lui non sono mai state registrate).↩︎