Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.25 (2024), 37–48
ISSN 2280-9481

La legge è uguale per tutte? Un’analisi della figura della detective in Il processo (2019), Circeo (2022) e La legge di Lidia Poët (2023-)

Sofia TorreUniversità degli Studi Dell’Aquila (Italy)

Sofia Torre is a PhD candidate at the University of L’Aquila, with a thesis titled Spanking cinema: Representation of Motherhood and the Issue of Aging. Her research interests include porn studies, gender studies, and feminist studies. Her contributions and essays have appeared in “Cinema e Storia”, “Altre Modernità”, “Whatever”, and “Porn Studies”.

Ricevuto: 2024-02-01 – Versione revisionata: 2024-06-03 – Accettato: 2024-06-12 – Pubblicato: 2024-08-01

Her Own Personal Law: A Detective Analysis Between Il processo (2019), Circeo (2022) and La legge di Lidia Poët (2023–)

Abstract

My paper aims to analyze the figure of the detective as a site of visual, political and social tension within a comparison of the main female character in three different Italian legal dramas: Il processo (2019); Circeo (2022) and La legge di Lidia Poët (2023). The analysis of the procedural framework in which three women are portrayed in dialogue with the Law is working to build a discourse aimed to overturning a traditionally male sphere and power and an idea of passivity generally associated with women. Sexuality, which is intended as a discourse able to generating speculative views on reality, operates as a mechanism triggering the staging of the pursuit of Justice. While La legge di Lidia Poët proposes a storyline with a empowered female character, Il processo and Circeo envision the development of the detective character trying to subvert the traditional female’s victim status.

Keyword: Detective; Romantic Drama; Law; Feminist Studies; Law Period Drama.

1 Introduzione

Nel contesto italiano, all’interno delle rappresentazioni seriali della donna avvocata o detective, la professione giuridica si inserisce caratterizzandosi tanto come indicatore di differenza e di emancipazione quanto in qualità di spia della presenza di un coefficiente di devianza rispetto alla norma di genere. L’esercizio della agency femminista sul corpo, che si traduce in una capacità di gestione e di analisi che pone la protagonista che la esercita su un piano di superiorità morale e intellettuale rispetto agli altri personaggi femminili, prevede una sovrapposizione semantica tra il concetto di autodeterminazione e quello di intuito, tradizionalmente associato ai detective maschili. Il presente contributo si propone di analizzare la figura della detective, intesa come luogo di tensioni visuali, politiche e sociali, all’interno di una comparazione della caratterizzazione delle protagoniste di tre diverse messe in scena di giallo italiano: Il processo (2019), Circeo (2022) e La legge di Lidia Poët (2023-). L’analisi della cornice processuale in cui vengono ritratte tre diverse figure di donne impegnate in un dialogo con il potere giudiziario e sociale funzionerà come officina della costruzione di un discorso atto a rovesciare un esercizio di potere tradizionalmente maschile e un’idea di passività generalmente associata alla femminilità. Il discorso di genere, inserito all’interno di trame incentrate sul doppio piacere scopofiliaco dell’aula di tribunale e del pubblico domestico, pagante, verrà utilizzato come lente metodologica per indagare i cambiamenti sociali e politici fondamentali che hanno attraversato il nostro Paese in tre diversi momenti storici, originando fratture e cambiamenti di costume destinati ad impattare in terreni di incontro fra la dinamica propria dei media e quella di altri consumi (Ortoleva 2008). La rappresentazione della sessualità, intesa come discorso in grado di generare sguardi speculativi sulla realtà e di trasformarla, traccia una linea interpretativa all’interno del meccanismo di ricerca della giustizia, personale e collettiva. Se La legge di Lidia Poët propone una narrazione di empowerment femminile all’interno di un racconto di formazione che reitera dinamiche di genere di tipo tradizionale, Il processo e Circeo prevedono lo sviluppo del personaggio della detective in un’ottica in grado di sovvertire il tradizionale status di vittima femminile dello slasher e dell’horror movie (Clover 1992) proponendone ritratti ad alto tasso di personalizzazione, in cui la ricerca della verità giudiziaria è intrinsecamente connessa alla messa in discussione di concetti impossibili da trascendere per il soggetto femminile come la costruzione della coppia eterosessuale e la maternità. La cornice metodologica che si intende adottare è di tipo interdisciplinare, con un approccio che mescola feminist studies, analisi del film e gender studies.

2 La solitudine dell’eccezione femminista

La prima stagione di La legge di Lidia Poët esordisce su Netflix il 15 febbraio 2023, riscuotendo un ampio successo in termini di pubblico e di critica.1 La miniserie in costume, composta di sei puntate, porta sulla scena una particolare ibridazione di linguaggi cinematografici, delineandosi come un law period drama che intreccia al genere giallo elementi di romantic drama in costume e che riverbera proprio nel personaggio di Lidia Poët alcune preoccupazioni espresse nel dibattito storiografico sulle conseguenze della messa in scena televisiva del passato. Il dibattito, che riguarda la questione dell’accuratezza e dell’attendibilità delle opere in costume, vede scontrarsi due posizioni contrastanti e risulta particolarmente rilevante in un momento in cui piattaforme come Netflix offrono un ventaglio di scelta di period drama abbastanza ampio da influire sull’immaginario collettivo e da inserirsi nel dibattito sulla ridefinizione della rappresentazione delle donne all’interno della sfera pubblica. Se da un lato, in virtù della permeabilità della sfera dell’intrattenimento e della propensione del pubblico ad apprendere gli eventi storici anche tramite i prodotti di fiction, studiosi come Louis Gottschalk (1969: 30) affermano la necessità di un esercizio di controllo e di revisione da parte degli esperti, dall’altro esponenti della sponda opposta, fra cui Maureen Ogle (1999: 37) e Robert Toplin (2003: 79-80), sottolineano come la storia non sia altro che una ricostruzione di eventi e che dunque, a livello tecnico, possa essere catalogabile come fiction (Menis 2023: 322) e fruita come tale. La riscrittura della storia e la sua resa narrativa, in questo frangente, si rivelano utili a riflettere sulla posizione delle donne nella società di fine Ottocento a cui la legge impediva di praticare la professione forense (Menis 2023: 322). Nelle intenzioni dei suoi ideatori, La legge di Lidia Poët funziona come occasione per portare sulla scena un tentativo di smantellare il patriarcato attraverso la rappresentazione televisiva: i media rivestono un ruolo importante nella creazione e nei cambiamenti del clima culturale e sociale (Williams 2008: 10). Inoltre, le rappresentazioni cinematografiche della storia, tra le quali è possibile annoverare anche il law period drama di Matteo Rovere, mirano ad affrontare i problemi contemporanei e tendono a farsi specchio sociale dell'attualità piuttosto che come documento storico (Toplin 2003: 80).

Un aspetto interessante dal punto di vista storico e sociale risiede proprio nel personaggio di Lidia Poët, realmente esistita e storicamente collocabile: si tratta infatti della prima avvocata italiana, regolarmente iscritta all’Ordine degli Avvocati di Torino, almeno fino alla revoca da parte della Corte di Cassazione, avvenuta nel 1883. Proprio la revoca dell’iscrizione crea nel primo episodio da innesto narrativo e porta la protagonista a risolvere misteri e delitti per provare ai colleghi uomini la propria capacità professionale e parità intellettuale, qualità che la mascolinizzano e le conferiscono uno status di eccezionalità rispetto alle altre donne, a cui risulta gerarchicamente superiore in virtù della sua emancipazione. La professione di avvocato funziona come indicatore di differenza ed emancipazione nei confronti delle altre donne, in particolare con la cognata Teresa, che proprio in virtù della sua esclusiva dedizione all’educazione della figlia Marianna finisce per non risultarne meritevole delle sue confidenze e della sua stima della figlia, che le preferisce la giovane e indipendente zia.

Il suo status morale superiore viene sottolineato in primis dall’elemento paratestuale del titolo della serie. Il termine “legge” si riferisce contemporaneamente tanto all’esercizio giuridico quanto alla risposta morale all’imperativo della giustizia, con un riferimento implicito al mito di Antigone e alla figura dell’eroina in grado di imporre un nuovo paradigma di agency femminista in aperta opposizione allo stato di passività tradizionalmente associato alle donne (Rawlinson 2014: 102). Inoltre, come sottolineano le panoramiche sull'abitazione del fratello e i dettagli sui suoi abiti e gioielli, la superiorità di Lidia Poët risulta riscontrabile anche in termini di classe sociale, posizionata a un livello molto più alto di quello che pertiene alla maggior parte dei personaggi femminili (prostitute, lavandaie, operaie) che compaiono nella narrazione. Come scrive Catherine Margaret Haworth nella sua ricerca dottorale sul rapporto fra colonna sonora ed agency della figura della detective, i personaggi investigativi che vengono rappresentati più frequentemente nel giallo e nel noir, come i membri della polizia, tendono a vedere le proprie situazioni personali di privilegio economico e culturale riflettersi nella loro capacità di agency (2010: 128) e, nel caso di Lidia Poët, di empowerment. Nonostante Lidia Poët non sia istituzionalmente autorizzata a difendere i suoi clienti in un’aula di tribunale, la sua intelligenza e cultura personale le permettono di intrecciare con essi contatti e relazioni umane più profonde e intime di quanto sia in grado di fare il fratello, l’avvocato regolarmente iscritto all’Ordine e ufficialmente dedito ai casi. Visivamente enfatizzato da primi piani sul suo viso e dai campi e controcampi che lavorano per creare una contrapposizione con i personaggi maschili, il suo stato di eccezionalità in termini di ruoli di genere in tribunale, nell’ufficio del procuratore e nelle stanze degli interrogatori sottolinea l’individualizzazione della sua competenza giuridica, l’elemento fondamentale della caratterizzazione di Poët. Quando assiste a un processo, che, in virtù della sua funzione pubblica, comprende un pubblico misto, maschile e femminile, il legame particolare di Lidia con la giustizia viene evidenziato sintatticamente tramite una vasta selezione di primi piani sulla sua espressione partecipe. Per attribuire un senso allo spettacolo di un diverso periodo storico e suscitare il piacere scopofiliaco nel pubblico, la serie punta alla creazione di un’atmosfera di familiarità (Menis 2023: 323), utilizzando simboli ed elementi paratestuali che pertengono al contesto contemporaneo, tra cui il linguaggio (gergo adolescenziale, turpiloquio) e, in una prospettiva intermediale (Bertoloni 2020: 123), la colonna sonora. In questo frangente, risulta interessante sottolineare come la scelta del brano di chiusura del sesto e ultimo episodio di La legge di Lidia Poët, “King” di Florence and the Machine, descritta dall’artista come una canzone sulla femminilità e il sovvertimento delle aspettative sociali che gravano sulle donne, funzioni come motore per l’identificazione della spettatrice.2 La colonna sonora, che lavora per orientare l'attenzione del pubblico dalla questione collettiva dell'accesso alle donne alle professioni giuridiche alle vicende umane della detective, enfatizza ulteriormente l’evoluzione di un sottogenere che punta a rendere la storia sempre più attraente, fruibile e pop, in particolare quando esplicitamente diretta a un pubblico femminile (Davisson e Hunting 2023: 8). Nel giallo, la figura del detective accede alla scena del crimine e ai sospettati, trovandosi in condizione di compiere esercizi di agency (un concetto evidenziato dalle parole di “King”) tale da rafforzarne la presa e l'influenza sul pubblico. Il legame tra l’episodio e la canzone è sia industriale che contenutistico, poiché entrambi i prodotti possono sfruttare la reciproca popolarità e pubblicità (Bertoni 2020: 123). Inoltre, sebbene la scena di chiusura di La legge di Lidia Poët risulti fruibile e godibile anche senza conoscere le parole della canzone, la scelta ha l'effetto di rafforzarne il significato, grazie al suo status di oggetto intermediale e di unità narrativa (Sibilla 2018: 114) dotato della funzione narratologica tipica delle forme estetiche di carattere non musicale. Se il soundtrack è utile a istituire un legame personale fra il personaggio di Lidia e il pubblico, il linguaggio e, in particolare, il suo utilizzo di parolacce e di slang, delinea tramite il suo stile giovane (Simonetti 2018: 324) il pubblico di destinazione ideale a cui rivolgersi dall’interno. Inoltre, esattamente come avviene in romantic period drama distribuiti da Netflix come, ad esempio, Bridgerton (2020-), il piacere privato dei personaggi femminili viene reso uno spettacolo erotico appannaggio dell’audience femminile (Davisson e Hunting 2023: 8), di cui cerca di incontrare il gusto attraverso la costruzione di un female gaze.

Nel 1975 il saggio di Laura Mulvey “Visual Pleasure and Narrative Cinema” catalizza le considerazioni sulla differenza sessuale e il concetto stesso di spettatorialità come fenomeno culturalmente maschile. La struttura dei concetti psicoanalitici (voyeurismo, castrazione, feticismo) e la loro articolazione all’interno delle categorie estetiche della narrativa e dello spettacolo hanno contribuito alla proliferazione di ripensamenti e discorsi sulla spettatorialità che, nella Feminist Film Theory, nasce da un’assenza femminile. La cornice freudiana adottata da Mulvey nella comprensione della differenza sessuale è stata successivamente percepita come totalizzante, oppressiva e claustrofobica (Bergstom e Doane 1989: 8). In particolare, se la teoria di Mulvey prevede una comprensione del piacere quale concetto negativo, connotato dal punto di vista di genere, un segno della complicità del soggetto con un sistema di potere oppressivo e ingiusto, per studiose come Lesley Stern (1988­: 118) questo termine è diventato una bandiera sotto la quale offrire la promessa di un'emancipazione visiva delle donne. Grazie alle conquiste degli anni Settanta e Ottanta, il femminismo è divenuto una parte integrante di qualsiasi critica storica e teorica della rappresentazione, finendo per ispirare uno standard estetico nelle forme del piacere concesse alle donne e un conflitto fra la dimensione privata e quella pubblica.

I romantic drama di Netflix mirano a connettersi alle spettatrici tramite scene di sesso sensuali e moderne, che in La legge di Lidia Poët vengono utilizzate metaforicamente per mostrare le opinioni liberali della protagonista sul ruolo delle donne nella società e nel mondo del lavoro (Menis 2023: 323). La scena di apertura della serie prevede un primo piano sul viso della protagonista, impegnata a ricevere sesso orale da un secondo personaggio, rispetto al quale viene sottolineata la sua agency, traducibile nella messa in scena di una profonda conoscenza di sé e della consapevolezza sessuale necessaria ad esprimere il proprio desiderio. Come avviene nei romanzi rosa (Williams 2008: 8), anche nei romantic drama televisivi la tensione erotica accompagna una narrazione drammatica. L'esibizione di empowerment, soddisfazione e controllo durante le scene di intimità viene enfatizzata dalla conformazione del piacere mostrato, che tende ad evitare gli orgasmi penetrativi e concentrarsi su pratiche che circoscrivono il piacere femminile, in maniera speculare a quanto avviene in Bridgerton, in cui la regista Cheryl Dunye afferma l’intenzione di mostrare la prospettiva delle donne (Davisson e Hunting, 2023: 10). La particolare commistione tra immagine cinematografica e rappresentazione del corpo femminile dimostra la diversità fra il regime scopico maschile e quello femminile. Janice Radway (1982: 137) sottolinea come il genere romantico venga spesso deriso dagli osservatori esterni e ignorato dalla critica in virtù della sua facile catalogazione come espressione pornografica per donne. Il senso di colpa delle donne deriva da una combinazione di fattori, come l'abbandono ad un piacere contemporaneamente femminile e popolare e, dunque, socialmente svalutato e colpevolizzato come un rifiuto di doveri domestici come la maternità e i lavori domestici per impegnarsi con intrattenimenti legati alla cultura popolare, nominati in virtù di questa considerazione guilty pleasures. Hannah McCann e Catherine Roach (2020) sostengono che la classificazione dei romanzi rosa come materiale pornografico si traduce in un esercizio di potere e di controllo sulla sessualità femminile, che si legge nel tentativo di provocare la vergogna e la repressione delle donne. Affermando che la narrativa romantica popolare riguarda il sesso, anche quando apparentemente non è circoscritta a questa sfera, McCann e Roach sottolineano quanto il piacere femminile si caratterizzi come una fondamentale preoccupazione di genere. In letteratura, l'apparente opacità del materiale consumato dal pubblico femminile ha storicamente consentito la presenza di contenuti potenzialmente inappropriati e sovversivi e la mancanza di controllo pubblico. Gli adattamenti cinematografici e televisivi, con i riflettori e le norme annesse, hanno ridotto in parte quella libertà. Linda Williams (2008: 64) contrappone le rappresentazioni sessuali letterarie, emerse negli anni Venti, a quelle sullo schermo, che sembrano esperire una lunga adolescenza prima di diventare, alla fine degli anni Settanta, quasi “inevitabili”. Rappresentare l’erotismo su uno schermo significa assecondare la tendenza di una maggiore immaginazione grafica della sessualità (Williams 2008: 2). A differenza della violenza, che è sempre oggetto di finzione, il sesso si biforca in due forme radicalmente diverse: l’hardcore, che prevede rappresentazioni esplicite e reali e il softcore, basato sulla simulazione. Linda Williams, contrapponendo le rappresentazioni sessuali nei romanzi a quelle sullo schermo, sottolinea come i film abbiano vissuto una “lunga adolescenza” lottando contro l'esplicitazione sessuale abbracciata dalla letteratura (2008: 62). I sistemi di rating televisivi e la necessità sociale e culturale di differenziare i prodotti di intrattenimento mainstream dalla pornografia per ragioni distributive sono state ragioni storiche di confini più precisi nei media cinematografici, che hanno ereditato una teoria dell’immagine che non concepisce i ruoli di genere al di fuori delle specifiche sessuali storicamente connotate. Come dimostrano la commercializzazione e la diffusione della rappresentazione del piacere femminile nei prodotti mainstream, il successo dell'istituzionalizzazione della critica femminista ha finito per condurre a una perdita di senso delle strategie di resistenza messe in atto, cristallizzando il ruolo della spettatrice in un repertorio tropico restrittivo e prevedibile (Stern 1988: 118), in cui la visibilità è legata a un ideale sessuale fondato sulla correttezza della rappresentazione. Secondo Menis, visto il mancato raggiungimento di una moderna percezione culturale delle norme sessuali, libera da pregiudizi e stereotipi, la scelta di portare in scena la doppia vita sessuale di Lidia, vissuta con i personaggi di Andrea e Jacopo senza vincoli matrimoniali, si rivela poco lusinghiera nei confronti del personaggio. La scelta di inserire nella narrazione la rappresentazione esplicite della sessualità e dei desideri anticonformistici di Poët piuttosto che operare un focus sulla sua lotta contro la misoginia e la disuguaglianza, rivela la volontà produttiva di concentrarsi su un unico personaggio, rendendola un’antieroina in virtù del suo coraggio e della sua devianza dalla norma. Questa scelta narrativa, che mira a individualizzare il principio identificativo, è un elemento finzionale, lontano dalla verità storica e biografica di Poët che dichiara in una lettera a un conoscente come la stima ottenuta dai colleghi fosse il risultato del rispetto delle norme sociali e, particolarmente, a quella di non presenziare mai a un incontro con un uomo senza chaperon (Menis 2023: 323).

Per giustificare l’impegno di Lidia Poët come assistente legale presso lo studio del fratello e il suo status di protagonista in un settore professionale prettamente maschile, la storyline di Netflix costruisce nel personaggio di Enrico Poët un antieroe moralmente ambiguo, fornito di tratti caratteriali deboli e devoto ai costumi morali e civili del suo tempo, in aperto contrasto con la modernità, l’anticonformismo e la libertà esibita dalla sorella. Il fratello di Lidia, interpretato da Pier Luigi Pasino, inizialmente caratterizzato come antagonista ideale finisce per rappresenta la figura dell’alleato nelle battaglie femministe di Lidia, enfatizzandone la centralità e l’innato senso di giustizia. La figura della detective/avvocata viene così investita della capacità di rappresentare le donne in generale e circondata da un’aura femminista, che si traduce nella costante prova di possedere agency e autorità narrativa e professionale. Ad esempio, Poët rivela le sue competenze di avvocata mostrandosi sempre più aggiornata dei colleghi maschi sulle metodologie, la deontologia e le innovazioni, come la scoperta delle impronte digitali.3 La cornice femminista ha radici biografiche, relative all'impegno attivo della vera Lidia Poët in numerose cause sociali. Laureata nel 1881 con uno studio sulla condizione femminile, Poët si è battuta per il miglioramento delle condizioni carcerarie e per la possibilità di fornire un'educazione ai detenuti. Attraverso Lidia Poët si esprime la soggettività femminista ideale, che lotta per un cambiamento sociale abbastanza pregnante da circoscrivere anche la liberazione sessuale. Il desiderio spettatoriale, nella teoria cinematografica contemporanea, viene generalmente delineato come voyeuristico o come feticistico, orientato a osservare e a possedere gli elementi di oscenità e proibizione incarnati dal corpo femminile. L’immagine della donna, in questo senso, è utile a orientare i limiti dello sguardo verso la desiderabilità. Per usare le parole di Mary Ann Doane e di Janet Bergstrom (1989: 11), la bellezza femminile funge da pratica di inquadratura, illuminazione, movimento e angolazione della videocamera. Per attirare lo sguardo e creare il piacere scopofiliaco del pubblico, la serie fornisce indizi simbolici e metaforici contemporanei in grado di suscitare un senso di familiarità e di predisporre una distanza nei confronti di una messa in scena erotica e narrativa storicamente discordante. Il tentativo di portare sulla scena il female gaze si traduce in una netta distinzione fra lo sguardo di Lidia e quello del fratello, cristallizzato in una rappresentazione eterosessuale monogama tradizionale. Il focus sul piacere di Lidia sottolinea il tentativo di rendere il desiderio femminile naturale e manifesto. La rappresentazione del piacere sessuale femminile è scandita da regole precise e disciplinata da standard rigidi, che prevedono incontri erotici brevi, gentili e fondati su pratiche che hanno al centro il piacere femminile. Se apparentemente l’implicazione del female gaze in La legge di Lidia Poët prevede scelte rappresentative adattate al desiderio femminile, l’inserimento di una narrazione romantica e della maggiore gradualità e soddisfazione dell’eros a essa connesso, rivelano una messa in scena tradizionale della sessualità. Sebbene la serie sembri professare la possibilità della conservazione di una patina trasgressiva, esemplificata dai rapporti sessuali svincolati dai vincoli matrimoniali che la protagonista intrattiene con Andrea, un personaggio con cui non intrattiene alcuna relazione ufficiale, la progressione erotica e il crescendo di vicinanza emotiva e sentimentale con Jacopo finiscono per confermare la convinzione dell’esistenza di una natura del desiderio femminile (Downing 2013: 97) come indissolubilmente legata alla possibilità del matrimonio e della creazione di una famiglia. Nel corso dei sei episodi la discrasia tra la sessualità investita di aspettative romantiche e caratterizzata da un incremento graduale che Lidia si ritrova a vivere con il cognato viene contrapposta, anche visivamente, a quella occasionale e clandestina consumata con Andrea e, soprattutto, a quella praticata dalle donne appartenenti a un ceto sociale inferiore. Questa differenza risulta particolarmente evidente nel quinto episodio, che vede parte della sua ambientazione in una casa di tolleranza, in cui gli uomini praticano una sessualità perversa, punitiva, umiliante e reificante per le donne coinvolte, che sottolinea la libertà di quella di Lidia e diviene un elemento fondamentale per la sua caratterizzazione come eroina femminista.

3 La solitudine delle donne nel sistema patriarcale

Come avviene in La legge di Lidia Poët, anche la serie Circeo, distribuita da Paramount+, fa leva su una forbice di disparità economica e sociale tra la figura femminile dell'avvocata/detective Teresa Capogrossi, personaggio finzionale appartenente alla borghesia romana, e quella della vittima Donatella Colasanti, ispirata all'omonima sopravvissuta al massacro per creare un’aura di autorità e di giustizia inter partes intorno al racconto di un episodio giudiziario destinato a segnare la storia italiana. È il caso del “massacro del Circeo”, una vicenda su cui il panorama audiovisivo italiano è tornato a riflettere sul grande e sul piccolo schermo con i recenti La scuola cattolica (Stefano Mordini, 2021), tratto dall’omonimo romanzo di Edoardo Albinati, e Circeo di Andrea Molaioli, che riconfigura la percezione collettiva attorno a uno specifico ambito umano, socio-economico e geografico (Santandrea 2024: 203): quello di una Roma altoborghese sino a quel momento lontana dalle aule giudiziarie. Su questo evento, il crime italiano, e segnatamente quello romano, non manca di ragionare, producendo “forme immaginarie di spettacolarizzazione ed estetizzazione” (Gandini 2014: 10) di una violenza inedita. Con l’espressione “massacro del Circeo” si fa riferimento a un caso di cronaca avvenuto tra il 29 e il 30 settembre 1975, quando tre giovani romani di buona famiglia (Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido) adescano due ragazze di un quartiere popolare di Roma, Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, le conducono presso una villa sul monte Circeo dove le violentano e torturano fino ad uccidere Lopez. Colasanti riesce a salvarsi fingendosi morta e viene ritrovata il giorno successivo al massacro nel bagagliaio di una macchina in cui era stata rinchiusa assieme al cadavere dell’amica. L’avvenimento, che segna uno spartiacque nella comprensione del fenomeno sociale del femminicidio, impatta sull’opinione pubblica e divide le sensibilità politiche e culturali, provocando indignazione e interrogativi fra i maggiori intellettuali italiani. Se Italo Calvino, sul Corriere della sera, denuncia l’irresponsabilità sociale e la permissività assoluta grazie a cui l'ambiente e la mentalità borghese elaborano il massacro come un comportamento naturale, Pier Paolo Pasolini lo descrive come un dramma borghese su cui l’attenzione pubblica si focalizza per colpevolizzare prevedibilmente i delinquenti dei Parioli, privilegiandoli attraverso l’interesse collettivo e distogliendo l’attenzione pubblica dalla pervasività della corruzione morale e del vuoto valoriale prodotto da un nuovo modo di produzione (1976). Secondo Pasolini, i figli della borghesia romana neofascista godono di una posizione di privilegio rispetto ai loro coetanei meno abbienti e lo utilizzano per orientare il modello culturale giovanile verso una produzione di conoscenza votata alla distruzione dei modelli pluralistici e della cultura popolare precedente. Nel 1976, Roma si situa tra i principali contesti d’ambientazione in un ciclo filmico schiettamente urbano ed esplicitamente spazializzato (Santandrea 2024: 204) e inizia a essere rappresentata come una metropoli divisa da una barriera invisibile e invalicabile, a separare la parte abbiente da quella abitata dalle classi popolari. Tale schematica partizione tra ambienti umani, socio-economici e geografici, secondo Santandrea, è dovuta alla particolare tendenza di autori e produttori a mettere in scena, lo si accennava pocanzi, episodi di ordinaria ferocia e fatti di cronaca nera quasi in presa diretta. Nella teoria foucaultiana, la conoscenza si forma nei centri di potere di creazione dei discorsi e delle pratiche sociali, comportando l’istituzionalizzazione dei significati e di nuove discipline, che riverberano nel contesto sociale e influenzano la ricezione degli eventi storici (1976: 106). Attraverso l’ascesa di un nuovo movimento femminista in Italia, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, il “personale diventa politico” e l’autodeterminazione sessuale, intorno alla quale viene prodotta conoscenza, diventa, insieme ai diritti di maternità (Zambelli, Mainardi e Hajek 2018: 171) un obiettivo primario. La sessualità, tuttavia, continua a rimanere un argomento divisivo, a causa della coesistenza, all'interno del movimento, di atteggiamenti conservatori e di spinte verso l'emancipazione. Nel 1975, quando si compie il massacro del Circeo, mentre la presenza istituzionale della Chiesa continua ad essere più visibile e pervasiva di quanto avvenga in paesi ben più profondamente e interiormente segnati dalla cultura cattolica (Ortoleva 2009: 164), i movimenti femministi affrontando la contraddizione tra discorso pubblico e vissuto individuale delle donne. Come scrive Manuela Fraire (2005: 71), il momento storico compreso tra il 1975 e il 1977, caratterizzato dalla massima visibilità sulla scena pubblica, è segnato dalle difficoltà dovute alle prime crisi dei gruppi di autocoscienza e dall’emersione di conflitti e tensioni a proposito della questione relativa alla depenalizzazione dell’aborto. A livello internazionale, i movimenti femministi hanno prodotto l'entità più ampia di conoscenza a proposito della sofferenza e della violenza contro le donne, contribuendo significativamente a crearne e ampliarne il significato in aperta opposizione alla visione dominante dell'epoca. Nel ventesimo secolo questa produzione di conoscenza significa il sovvertimento della convinzione generalizzata della mancata produzione di traumi conseguenti all'abuso sessuale. In seguito agli eventi del 29 e 30 settembre 1975, i movimenti femministi italiani denunciano il clima di diffuso sessismo come origine del delitto, si costituiscono parte civile al processo e approfittano del caso per richiedere una riforma della normativa che regola la violenza sessuale, ancora definita nel Codice Rocco come reato contro la morale e non contro la persona, come ribadito nel corso della serie dalle attiviste. La rottura col sistema culturale patriarcale implica anche una rottura con l’intero sistema eterosessuale, dal mito della coppia all’oggettificazione e alla violenza maschile, per poter rimodellare i rapporti con gli uomini in profondità. Il tema del corpo, centrale nel dibattito femminista, funge da leitmotiv anche nella serie, collegando allo stupro e all’omicidio la progressiva riappropriazione, individuale e collettiva, sul piano processuale e movimentistico. La questione più controversa della narrazione dello stupro è il suo utilizzo per l'intrattenimento televisivo, per cui anche la sofferenza sessuale delle donne finisce per essere convertita in un prodotto di consumo a beneficio di un pubblico pagante. Se è vero che il tema dello stupro offre un'opportunità importante per lo studio del rapporto tra serialità televisiva e costruzione del genere (femminilità/mascolinità) attraverso la violenza, la scelta di Circeo è quella di eluderne la rappresentazione. La sopravvissuta, preservata dallo sguardo del pubblico durante la violenza, viene presentata come una testimone e non come una semplice vittima, trasponendo il dramma personale di Colasanti in un’opportunità collettiva per una riorganizzazione sociale femminista, sfidando la capacità empatica delle spettatrici. Nel primo episodio, la messa in scena del personaggio di Colasanti viene proposta attraverso campi e controcampi che la vedono sempre in compagnia di Lopez, tanto quando viene presentata al pubblico nel suo ambiente domestico quanto durante le sevizie che le due donne sono costrette ad aspettare chiuse nel bagno della villa. La sequenza, una breve alternanza di campi medi e di controcampi sugli aguzzini, è caratterizzata da colori freddi e scuri, come il bagno blu notte in cui sono rinchiuse le ragazze, dalla resa del movimento e della velocità. L'utilizzo del grandangolo serve a sottolineare il crescendo drammatico e la realtà che appare distorta come in un incubo. I corpi, coperti da asciugamani abbastanza ampi da nascondere le forme, non sono oggetto di desiderio maschile; al contrario, al momento del ritrovamento dei corpi, i visi tumefatti e sanguinanti sono oggetto di pena e partecipazione emotiva per la folla e, significativamente, anche per gli spettatori.

A mettere al centro della narrazione il corpo femminile collabora, in primo luogo, lo svolgimento del tema della violenza e dell’oggettificazione patriarcale, che vede intrecciarsi sfera privata (lo stupro di Lopez e Colasanti e l’omicidio di Lopez) e sfera pubblica, attraverso la messa in scena dei collettivi e delle sedute femministe che affrontano l’esercizio di potere nella dimensione domestica. L’esercizio dell’agency femminista sul corpo viene riassunto nel personaggio di Teresa Capogrossi, che rappresenta la sintesi delle avvocate femministe che hanno sostenuto Colasanti nel corso del processo, desessualizzata attraverso un abbigliamento sobrio e coprente e attraverso la messa in scena di un ruolo investigativo che lavora per rovesciare le tradizionali aspettative di genere. Se è vero, come affermano Valentina Re ed Elena D’Amelio, che anche nel contesto seriale contemporaneo persiste lo stereotipo dell’incompatibilità tra professione investigativa e realizzazione personale (2021), un cliché per le donne storicamente misurabile in rapporto all’inabilità di incarnare i ruoli socialmente prescritti ma percepiti come naturali di moglie e madre, la figura dell’avvocata protagonista di Circeo risalta per una caratterizzazione fondata sulla agency, sulla professionalità e sul controllo di sé. I primi piani sul suo viso e la scelta registica di evitare accuratamente ambiguità rappresentative rispetto alla messa in scena della violenza sessuale impediscono l’eroticizzazione dello stupro, che viene trattato come un dramma collettivo, vissuto dal collettivo delle donne che riempiono le inquadrature e le immagini del processo, occupando un minutaggio paragonabile a quello dedicato alle due protagoniste. Il tentativo di mettere in scena una narrazione dalla parte delle donne risulta evidente nella scelta di raccontare la discussione sulla sessualità e sulla violenza dentro e fuori dal dibattito femminista escludendo l’esibizione di nudità, come avviene in La scuola cattolica e di inquadrature orientate al grottesco erotico, presente, ad esempio, nella tradizione felliniana (Diaconescu-Blumenfeld, 1999: 389). Come dimostrano le critiche alle cineaste che non riescono a raggiungere obiettivi femministi (Ibidem), la trasformazione delle pratiche cinematografiche, tradizionalmente appannaggio degli uomini, è di per sé problematica. Giunte su quello che si rivelerà essere il luogo del delitto, Colasanti e Lopez ammirano il panorama dal giardino della villa al Circeo, riprese a figura intera e mai al centro della scena. Poiché, come ribadiscono i movimenti femministi (Creazzo, 2023), la violenza e l'odio contro le donne sono un fenomeno sistemico e scaturiscono contro le vittime ben prima del massacro, e la scelta registica vuole Circeo una serie con velleità femministe,4 la videocamera non indugia mai sulle parti del corpo eroticizzabili, nemmeno quando esplicitamente nominate da Izzo e Guido.

La precisa volontà di Circeo di portare sulla scena l’indipendenza e l’emancipazione femminile risulta particolarmente evidente nella caratterizzazione dell’avvocata Capogrossi, che ribadisce la sua scelta di vita femminista lasciando prevalere la propria autodeterminazione e l’appagamento professionale anche nelle sue scelte amorose. Come sottolinea Klein (1999: 226), sebbene una narrazione femminocentrica non necessiti obbligatoriamente di un’eroina femminista, non può evitare di intrecciare questioni di genere e, spesso, anche di razza e di classe, alla narrazione, per risultare in grado di contravvenire e decostruire le strutture tradizionali di dominio e protagonismo maschile. Se Capogrossi viene introdotta al pubblico come una femminista pratica e controcorrente, decisa a portare in tribunale e istituzionalizzare la lotta contro la violenza maschile più che a partecipare alle assemblee, a cui verrà introdotta solo grazie alla presenza di Tina Lagostena Bassi, (una delle vere avvocate che hanno difeso Colasanti), la sua solitudine, segnata dalla professionalità e dall’appartenenza sociale finisce per diventare uno strumento privato per l’emancipazione collettiva, specularmente a quanto avviene nella dimensione sentimentale. L’interesse romantico di Capogrossi, il fotografo Saverio Conti, viene introdotto al pubblico come un professionista meno affermato di lei e disposto al dialogo, all’ascolto delle donne e al sostegno della causa femminista e processuale dell’avvocata, in seguito al quale viene premiato e ricambiato sentimentalmente. Gli studi sulla crime fiction hanno dimostrato che le possibilità di avere una vita sentimentale appagante e di svolgere una professione investigativa sono tradizionalmente considerate come mutualmente esclusive (Re 2022).

Durante il processo, la videocamera non indugia sugli imputati ma restituisce istantanee della folla femminista accorsa a sostenere la vittima, mostrando come la rappresentazione non punti a indagare il legame psicologico tra il male e il suo agente, ma a esplorare la risposta femminista alla dimensione considerata privata che inizia a divenire pubblica, facendosi luogo di una riflessione pubblica sulla pervasività della violenza nelle istituzioni e nelle strutture sociali. Nonostante Colasanti venga rappresentata come una testimone della violenza sistemica che pervade la società e la cultura italiana, la sua biografia sembra incarnare il modello perfetto di vittima destinata alla follia omicida di Izzo, Ghira e Guido, a cui si contrappone tanto sulla linea del genere quanto su quella della classe sociale. In termini di narrazioni tradizionali sullo stupro, entrambe le vittime del Circeo sono situate in una posizione di fragilità economica, fisica e sociale che è parte di uno scenario in cui l'appartenenza femminile alla classe lavoratrice sembra consustanziale a una sessualità orientata alla fragilità, alla debolezza, alla passività e alla mancanza di agency (Kaya 2019: 183). La rappresentazione di un soggetto marginale che prevede una sovrapposizione tra la figura della vittima e quella del testimone costituisce la contrapposizione con la professionalità del personaggio di Capogrossi, che si inserisce in una dimensione relazionale con tutte le altre donne e si fa portavoce della loro rabbia. I campi sulla platea di donne che assistono al processo assegnano un ruolo alle donne come categoria sociale, rispondendo all’imperativo etico femminista del denunciare il silenziamento del soggetto femminile messo in atto per mezzo della violenza e del riassegnare, dove possibile, centralità alla vittima (Mandolini 2019: 172). La figura della detective proprio in virtù del lavoro processuale e di scavo nelle dinamiche del delitto riesce a rimanere ancorata agli eventi di violenza patriarcale intorno su cui si impernia la narrazione. Dal punto di vista sintattico, l’abbondanza di primi piani sul viso della protagonista e l’uso del grandangolo nelle scene rievocano la pratica di scavo interiore che era cifra costitutiva degli incontri di autocoscienza e ricreano la dinamica narrativa intersoggettiva centrale nelle sedute femministe, come quelle di Rivolta Femminile (Mandolini 2019: 173). Il femminismo si realizza nell’incontro tra presa di coscienza e vita, dove autocoscienza, separatismo e riconoscimento fra donne si caratterizzano come pratiche per spezzare la complicità con il piacere maschile. Come sottolineato dalla narrazione e dallo stretto rapporto con il dato di realtà, funzionale ad amplificare gli intenti di denuncia dell’opera, la vicenda giudiziaria segna un evento spartiacque nel cammino di emancipazione delle donne italiane, che in un crimine così agghiacciante trovano la forza per pretendere la revisione della legge sulla violenza sessuale.

4 Madri e giustizia: la solitudine del fallimento

La specificità dei femminismi degli anni Settanta e, come ricorda Luisa Passerini (2005: 2016), in particolare di quello italiano, si esprime nella centralità della dimensione corporea come tema e motore delle rivendicazioni politiche. Il corpo femminile, come fulcro di tensioni sociali e politiche, assume un significato collettivo per il movimento delle donne, che lo inserisce in pratiche discorsive, ad esempio l’autocoscienza, come forma di liberazione dalla mercificazione e dall’oggettificazione maschile. La dimensione collettiva della discussione sul corpo, scevro dalle divisioni di classe e dall’analisi dei conflitti interni al movimento produce la concezione di un soggetto in senso pieno (Passerini 200: 2017) destinata a scontrarsi con le crescenti complessità del contesto contemporaneo, in cui l’appartenenza e l’identità professionale risultano divisive tanto quanto il genere. La supposta inscindibilità tra dimensione pubblica e dimensione privata finisce per ripercuotersi sulla concezione della professionalità femminile: la serie televisiva Il processo decostruisce attraverso una narrazione fondata sull’ipotesi impossibile di coniugare personale e collettivo.

La rappresentazione della detective si inserisce nella narrazione giallistica coniugando nel discorso di genere la dimensione privata e quella pubblica. Analizzando la figura della detective di Hollywood, Kathleen Klein evidenzia la diffusione dell'investigatrice dilettante che indaga per interesse personale piuttosto che in qualità di professionista con una carriera. In virtù del suo dilettantismo, all'investigatrice sono concessi straordinari margini di errore, follia e fortuna nel risolvere un mistero. Dal momento che le sue ricerche vengono lette come un’intrusione momentanea nella sfera pubblica, il fallimento funziona da indicatore di ordine pubblico, una causalità in grado di ristabilire l’equilibrio tradizionale in termini di ruoli di genere. Al contrario, la procuratrice Elena Guerra si impegna nell'indagine come professione e si trova ad avere responsabilità professionali e morali nei confronti della vittima, dei suoi genitori e della magistratura. I suoi colleghi e sottoposti dispongono di un preciso standard con cui confrontarla: quello del padre, noto magistrato antimafia in pensione. Anche i tratti personali della protagonista sembrano aderire al profilo tradizionale dell’investigatore. Secondo Klein, nell’iconografia tradizionale il detective è un individuo solitario, progressivamente portato all’isolamento intellettuale e al cinismo, forzato al compromesso dalle circostanze nonostante la caratura morale e osteggiato (quando non apertamente impossibilitato) dalle responsabilità e conseguenze della sua stessa professione a mantenere legami affettivi stabili e soddisfacenti, dalle amicizie alle relazioni amorose, coniugali e famigliari (Klein 1988: 201), nonostante la trama venga spesso arricchita da episodi che ne mostrano l’intensa attività sessuale. La protagonista di Il processo si inserisce parzialmente in questo paradigma, rispecchiandone i valori (l’irreprensibilità lavorativa, la capacità di giudizio critico, l’abilità nel coniugare istinto e prove indiziarie) ma finendo per portare sulla scena le conseguenze nefaste dell’ossessione femminile per la giustizia e la verità. Come Antigone, che decide di seppellire i corpi del fratello Polinice nonostante il divieto del re di Tebe (Willner 2013: 59), Guerra risponde alla chiamata naturale della legge biologica, finendo per essere sollevata dall’incarico pubblico per aver contravvenuto alla legge. La sua vita sentimentale viene rappresentata come un elemento fallimentare, rivelandosi d’intralcio tanto al dibattito in aula quanto alla stessa appartenenza professionale di Guerra, che si trova a dover scegliere fra la sua carriera e il suo matrimonio e a dover considerare proprio la maternità, fino ad allora esclusa in quanto intralcio lavorativo, per rinsaldare il legame coniugale. Come dimostra l’impossibilità di trascendere il legame fra corpo femminile e maternità, la formula prevedibile del giallo porta in scena valutazioni di genere che rinforzano l’egemonia maschile, particolarmente evidenti nel tema del doppio, filo narrativo di Il processo, in cui il personaggio di Elena si contrappone tanto alla sua controparte maschile e processuale, Ruggero, l’avvocato della supposta colpevole Linda Monaco, quanto alla stessa Monaco imputata. Il parallelo con Ruggero, che coniuga l’aderenza alla caratterizzazione tradizionale con il paradigma del detective di successo, in aula e nella sua vita personale, serve a sottolineare ulteriormente le mancanze di Elena, il suo smarrimento e il progressivo fallimento. Se Ruggero viene introdotto al pubblico in movimento, alla guida di una costosa BMW che ne evidenzia lo status sociale e la mascolinità, Elena guida un’automobile modesta, appartenuta alla madre, che la rende inadeguata rispetto ai parametri della sua elegante classe d’appartenenza. Se la sicurezza di Ruggero viene sottolineata da primi piani sull’espressione tranquilla e decisa e da campi medi che lo vedono in controllo nell’aula del tribunale, Elena è spesso ripresa di spalle e a rallenty, con uno sfondo progressivamente sfocato che simboleggia la perdita di senno. Assumendo il comportamento maschile come norma, il genere definisce i suoi parametri per escludere i personaggi femminili, rifiutandoli prontamente in qualità di donne e di professioniste inadeguate (Klein 1988: 225) Se un giallo con una donna detective professionista è una contraddizione in termini (Klein 1988: 226), un legal drama incentrato su una madre che è costretta a intraprendere un percorso, dentro e fuori dal sé, per riconoscersi come tale, finisce per rinforzare le norme tradizionali di genere. Il parallelismo con Linda, che si oppone al ruolo materno di Elena attraverso l’azione opposta, quella di togliere la vita, sottolinea ulteriormente la solitudine della PM (pubblico ministero), che finisce per essere assimilabile alla sua antieroina. Mentre gli antieroi maschili sono solitamente violenti e posti come universali, le antieroine spesso esprimono disturbi mentali e vengono ridotte a categorie limitate, costruite secondo il paradigma dello strong female drama (Castellano e Meimarids 2020: 1496). Linda, per quanto inizialmente connotata come personaggio positivo nella sua ricerca della verità, viene sanzionata dalla narrazione, a causa del suo ruolo investigativo, che la cataloga come devianza, ribadendo che le donne che competono con gli uomini invadono una sfera maschile e, per questo motivo, non meritano il rispetto e la protezione sociale (Klein 1988: 225).

5 Conclusioni: dramma umano e solitudine investigativa femminile

Secondo Carol Clover, la cifra di una cultura improntata alla creazione di drammi giudiziari coincide con la linea tra i due principali modelli occidentali di ordinamento giudico, che differiscono per struttura e applicazione. A rendere i processi più appetibili per un pubblico televisivo e cinematografico sarebbe la presenza della giuria, più passibile di emotività e potenziale drammatico della freddezza e al tecnicismo del diritto codificato, in cui vige il vincolo della legge scritta e delle sue disposizioni. L'ordinamento giuridico italiano è strutturato su un modello da sempre denominato civil law, e si contrappone a quello tipico degli ordinamenti anglosassoni, chiamato common law. Con l’espressione common law si intende il sistema giuridico basato sulla prevalenza del diritto giurisprudenziale; quello di civil law è invece un sistema imperniato su codici e leggi di un Paese, che vede una contrapposizione tra il giudice e la legge, tra la giurisprudenza e la dottrina. Clover sottolinea l’importanza della fruibilità del dramma umano nella costruzione televisiva del legal drama, il cui potenziale non dipende dalla logica della colpa e della punizione, non più di quanto si leghi al diritto al senso lato e al concetto di giustizia. Secondo Foucault, la fascinazione spettacolare dei processi è legata alla pulsione alla disciplina, alla punizione e alla tortura, che si traduce nel piacere scopofiliaco legato alla ricezione dell’errore e della devianza.

Il dramma umano della procuratrice Elena Guerra è al centro della miniserie italiana Il processo, in cui il tema della maternità finisce per condizionare lo svolgimento dell’intero processo e della sua caratterizzazione professionale. La procuratrice risulta sempre più isolata in virtù della sovrapposizione delle sfere pubblica e privata, tra cui non riesce a scegliere. Tradita dai colleghi, abbandonata dal partner e incompresa dal padre, Guerra è scissa tra il suo dramma personale e l’incarico professionale a cui non riesce a rinunciare a causa di un aspetto della sua identità divenuto intrascendibile. Se Circeo coniuga nel discorso di genere la dimensione privata dell’avvocata, la sua crescita professionale e il suo ingresso in una sorellanza, e quella pubblica, unendo nel filo narrativo il dramma delle vittime e la difficile rinascita della sopravvissuta, Il processo segue la caduta della figura della procuratrice e il suo cambiamento di status da professionista rispettata a devianza. In maniera speculare rispetto a quanto avviene in La legge di Lidia Poët, che rappresenta però un esempio positivo, la protagonista femminile è scissa tra giustizia processuale e imperativo morale, finendo per incarnare l’incapacità di trovare un equilibrio e di colmare la sua solitudine.

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  1. Si veda a questo proposito A. Fontanarosa, Netflix, ‘La legge di Lidia Poët’ conquista il mondo: 85 milioni di ore viste nei primi 6 mesi del 2023’ La Repubblica, 12/12/2023 (ultima consultazione 15/01/2024). Tra le serie, i film e i documentari di maggior successo al mondo nei primi sei mesi del 2023, La legge di Lidia Poët registra la centotrentatreesima posizione, ponendosi, secondo il giornalista, come elemento simbolico di resistenza delle donne italiane a una stagione amara di femminicidi e disparità salariali.↩︎

  2. Come sottolinea Bertoni, il testo complesso di una canzone può articolarsi ispirandosi alla struttura di prodotti appartenenti ad altre sfere mediali, a un livello di intermedialità strutturale.↩︎

  3. Avvenuta, come afferma davanti a due avvocati con maggiore anzianità professionale e un giudice, nel 1893 e annunciata sulla rivista scientifica Nature.↩︎

  4. Come ribadisce Greta Scarano, che interpreta Teresa Capogrossi, intervistata da La Repubblica, sottolineando l’importanza di proclamarsi femministe.↩︎