1 Introduzione e nota metodologica
Che il giallo italiano rifletta i cambiamenti culturali del paese è opinione diffusa e condivisa. Considerato da alcuni come una “metafora della storia italiana nel Ventesimo secolo” (Curti 2022: 2) segnata da una serie di eventi traumatici e misteri mai risolti, il giallo, scrivono Mazzei e Valentini, è un “precipitato” delle trasformazioni sociali, capace di portarsi dietro “un’idea di Italia (non più solo azzurro mare, non più solo rosso pomodoro, tanto meno nero camicia fascista) che insieme la svecchia e la caratterizza” (2017: 11). In un crescendo di sesso e violenza, infatti, le storie del giallo raccontano, a partire dal secondo dopoguerra, un’inedita liberalizzazione dei costumi e una società più disincantata verso le logiche del potere, anche grazie a un uso informato dei media e delle tecnologie, quelle dell’informazione, così come quelle della sorveglianza e del controllo.
I film prodotti dalla seconda metà del Novecento, infatti, registrano sia l’intensificazione su base tecnologica delle pratiche del controllo sociale, sia la crescente miniaturizzazione e domesticazione dei dispositivi tecnici e, di conseguenza, la familiarità degli italiani con macchine fotografiche, formato ridotto, registratori a nastro magnetico, impianti portatili di riproduzione musicale etc. Vere e proprie spie di un mutamento insieme tecnologico e socio-antropologico, da cui emerge una significativa convergenza tra pratiche culturali e immaginario cinematografico.
Date queste premesse, il giallo è qui affrontato come forma culturale e punto d’osservazione privilegiato per esplorare l’importanza dei dispositivi ottici e sonori nella messa in scena del crimine e dell’indagine, enfatizzando la ricorrenza di alcuni tropi audiovisivi nei vari filoni del giallo e “non solo in opere canonicamente raffigurate” come tali (Curti 2022: 9). Infatti, l’accezione di genere qui presa in considerazione è aperta e “anti-essenzialista”: i suoi “criteri di riconoscibilità […] sono eterogenei e complessi, sottoposti ad ampi margini di negoziazione”, dove “l’ibridazione e la contaminazione, lungi dall’essere l’eccezione, costituiscono piuttosto la regola” (Eugeni e Farinotti 2002: 139). Inoltre, tenendo conto della letteratura di riferimento sul genere, il corpus dei film analizzati si spinge ad abbracciare anche casi più recenti, così da offrire una visione più ampia, e informata dai coevi sviluppi dei surveillance studies, dell’evoluzione del rapporto tra cinema e sorveglianza.
Degli oggetti tecnici, che significano ben oltre la mera funzione d’uso, sono prese qui in considerazione le affordance e le “pratiche discorsive e corporee che li accompagnano” (Dalmasso 2023), quindi la gestualità e i processi cognitivi, i comportamenti e le relazioni che essi abilitano. Pertanto, lungi da voler applicare qualsivoglia forma di determinismo tecnologico o sociologico (Ortoleva 2008), ci concentreremo sui loro significati tecno-culturali, considerando quello tra tecnica e società come un rapporto aperto.
Dopo un secondo paragrafo metodologico che richiama la cornice interpretativa del surveillance studies, l’analisi procede articolandosi in due sezioni, focalizzate rispettivamente sui dispositivi della visione e dell’ascolto e organizzate in ordine cronologico per evidenziare le trasformazioni sia delle tecniche e delle pratiche, sia dei modi del racconto audiovisivo: ciascuna si soffermerà su singoli episodi ritenuti significativi, al fine di illuminare la complessa e ampia fenomenologia del genere attraverso le sue mutazioni.
1.1 Cinema e sorveglianza
Fin dalla sua genesi, il medium filmico ha condiviso una pluralità di fondamenti con le pratiche della sorveglianza. Entrambi, infatti, “si basano su apparati di registrazione (ottica e sonora) e istituiscono situazioni in cui una parte guarda (o ascolta) mentre l’altra è guardata (o ascoltata)” (Kammerer 2012: 101). In particolare, sorveglianza e cinema giallo si presentano come intrinsecamente affini, tanto che, parafrasando Stewart, si può pensare alla detection come una funzione della sorveglianza e, viceversa, alla sorveglianza come una modalità della detection (2015: 7).
Tuttavia, è solo negli ultimi anni che la letteratura scientifica ha cominciato ad approfondire i modi attraverso cui il cinema mette in scena regimi e dispositivi tecnici propri del controllo audiovisivo; un’attenzione coincisa, in primo luogo, con il “recente incremento […] di narrazioni focalizzate e strutturate dalle tecnologie della sorveglianza” (Zimmer 2011: 427). In aggiunta, come sostiene Wise (2016), questo rinnovato interesse è dovuto principalmente a due fattori:
Il primo è che la sorveglianza è molto più presente nella nostra cultura dopo l’11 settembre e il secondo è che identifichiamo alcuni eventi e pratiche contemporanee come sorveglianza, ma non usiamo la medesima etichetta […] per indicare pratiche precedenti. In altre parole, la sorveglianza come viene intesa oggi è un concetto relativamente recente. (2016: 4).
Se inizialmente la riflessione si è orientata per lo più verso pellicole statunitensi, identificando in una serie di strategie discorsivo-figurative e sottogeneri cinematografici (Kammerer 2004; Lefait 2013; Zimmer 2015) dei veri e propri modelli – capaci di illustrare le peculiarità dei sistemi di controllo e dei soggetti implicati1 –, solo negli ultimi anni si è rivolta anche verso altre cinematografie, ad esempio quelle asiatiche (Fang 2017). Di conseguenza, l’interesse odierno ha prodotto una – sebbene ancora parziale – rilettura del medium filmico in accordo con gli strumenti e le categorie interpretative dei surveillance studies (Lyon 2007), disciplina che considera la sorveglianza tanto nel suo “aspetto visuale e panottico” quanto nelle “manifestazioni di un controllo informatico […] che accorpa vari dati relativi ai soggetti sociali” (Eugeni 2023: 194–5).
In Italia, salvo rare eccezioni (Cesaro 2022), questo approccio rimane ancora marginale,2 tanto che tuttora manca uno studio volto a indagare le differenti declinazioni della sorveglianza all’interno della cinematografia nostrana. Eppure, come sostiene Turner (1998), la cultura popolare, in particolare il cinema di finzione, riveste una funzione decisiva nel promuovere e normalizzare le tecniche, i dispositivi e i regimi del controllo:
Un gran numero di pellicole che si confrontano con la pratica oppure con l’impiego delle tecnologie della sorveglianza vedono un’opportunità sia per celebrarne gli elementi spettacolari sia per integrarne l’uso come meccanismo narrativo al fine di stimolare la suspense e […] la violenza. (1998: 94, enfasi aggiunta)
Date queste premesse, questo lavoro compie una ricognizione preliminare del complesso rapporto tra le modalità della detection e le pratiche della sorveglianza, nonché tra il cinema giallo e l’uso dei dispositivi di registrazione e riproduzione del suono e dell’immagine.
2 Dispositivi ottici
In questa prima parte sono analizzati diversi casi che mostrano il passaggio da una fase storica in cui le tecniche, gli strumenti della sorveglianza e del controllo biopolitico sono appannaggio di un potere centralizzato, a una fase in cui tali dispositivi cominciano a circolare in maniera capillare nel tessuto sociale: una trasformazione che si ripercuote sulla stessa rappresentazione degli oggetti tecnici, che guadagnano una rilevanza sempre maggiore nella costruzione visiva e narrativa del testo filmico.
2.1 I mille occhi del potere
Una prima funzione dei dispositivi ottici sembra riprendere l’idea foucaultiana della sorveglianza e della disciplina (Foucault 1976) e, in particolare, il passaggio “dal panopticon al ‘panoptismo’, ovvero da una forma di punizione indirizzata a coloro che hanno infranto la legge a una forma di controllo sociale imposta su tutti coloro che potrebbero violarla” (Staples 2014: 34).
Se si considera la cinematografia italiana degli anni di piombo, troviamo diverse opere che pongono in essere questa trasformazione: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e Todo Modo (1976) di Elio Petri, Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi, E tanta paura (1976) di Paolo Cavara, ad esempio, esibiscono una serie di apparati audiovisivi adottati per sorvegliare i cittadini – o gli stessi rappresentanti del potere – in maniera sempre più tentacolare e massificata. Queste pellicole tendono a delineare una sorveglianza piramidale: ai vertici, la supremazia scopica di coloro che detengono l’armamentario tecnologico; alla base, una moltitudine di individui-oggetto di uno sguardo totalizzante. Viene quindi presentata quella che Marx (1988) definisce maximum security society, la cui caratteristica dominante è la fusione tra le tradizionali forze di polizia e le nuove procedure votate alla raccolta di dati e informazioni; una società in cui “le barriere che un tempo proteggevano la nostra sfera privata sono state erose o annientate da nuove tecnologie, nuovi modi di vivere e nuove minacce. Questa società si affida sempre più al sospetto categorico, al dossieraggio […] e all’ingegneria del controllo” (Marx 2016: 4).
Si tenga presente, inoltre, che i prodromi di questo connubio sono già rintracciabili in alcuni film antecedenti. In Un maledetto imbroglio (1959) di Pietro Germi e A ciascuno il suo (1967) di Elio Petri, ad esempio, ritroviamo due scene analoghe e relative a una cerimonia funebre registrata in segreto dalle forze dell’ordine. Nel primo, assistiamo alla proiezione del girato all’interno del commissariato mentre, nel secondo, una coppia di agenti filma e commenta gesti e movenze delle persone presenti alle esequie. Si tratta di brevi sequenze in cui l’occhio dello strumento esibisce la sua predisposizione a catturare anche i minimi dettagli, presumendo una visione in differita suscettibile di rivelare indizi utili alla risoluzione del caso; è questa una forma di sorveglianza indirizzata verso individui ed eventi specifici, in cui le immagini sono usate per tentare di sciogliere l’enigma.
È però con l’intensificarsi della strategia della tensione che i dispositivi audiovisivi rivelano i loro tratti più dispotici e invasivi. In Cadaveri eccellenti, ad esempio, Rosi tratteggia un’architettura panoptista di matrice orwelliana: un nugolo di prospettive differenti (fig. 1) indispensabili nell’allestire un monitoraggio sempre più profondo e meticoloso (Lynch 2022: 35). Le attrezzature tecnologiche caratterizzano gli apparati di uno stato autocratico, ora in grado di penetrare nella sfera privata del cittadino – mero oggetto dello sguardo scrutatore di un potere segreto e repressivo – approntando un controllo continuo e capillare. Tuttavia, le immagini prodotte da questi dispositivi rivestono un ruolo marginale nel film. Ne intravediamo per brevi istanti alcuni frammenti: scontri di piazza esaminati sugli schermi dagli operatori di polizia oppure il pedinamento dei presunti sovversivi. Nel primo caso, le immagini, incorniciate all’interno dei monitor, appaiono come scenografia connotante il grande occhio nascosto degli apparati di sicurezza; nel secondo, invece, arrivano a coincidere con i bordi dello schermo e mettono in evidenza l’idea di un controllo mirato, dove contatti sociali e spostamenti non possono sfuggire a un regime di sorveglianza che fagocita l’individuo.
Anche E tanta paura di Paolo Cavara mostra la corrispondenza tra l’esercizio del potere e il possesso di apparecchiature ultramoderne. In questo caso, a detenere la tecnologia non è lo Stato, bensì un’agenzia investigativa privata, che diventa un immenso archivio di materiale compromettente a uso e consumo del suo capo supremo, il beffardo signor Riccio (E. Wallach) il quale, in un dialogo con l’ispettore Lomenzo (M. Placido), afferma sardonico: “ma la mia attività ve ne ha fatto di comodo […] Quante volte lo Stato ha attinto […] dalle mie efficientissime apparecchiature elettroniche, apparecchi che sarebbero venuti a costare allo Stato quanto tutto il bilancio del corpo di polizia e dell’arma dei carabinieri per tutto un anno intero”. La presenza di numerosi monitor enfatizza l’idea di un occhio vorace e implacabile; questi, infatti, gli consentono di osservare, registrare e catalogare qualsivoglia circostanza avvenga all’interno dell’edificio: in primis, i colloqui tra il suo personale investigativo e i facoltosi clienti. Cavara dipinge un’organizzazione parallela a quella governativa, efficiente e moderna, a cui fa da contraltare la caotica centrale di polizia, delineando, attraverso il ricorso a un registro decisamente grottesco, un sistema di potere in cui “il dominio sulle vite degli altri è, paradossalmente, garantito dalla sicurezza […] e dalla visione […] di tutto ciò che avviene nella vita di ogni individuo” (Fogliato 2016: 201–2).
2.2 Dietro la recita del quotidiano
All’inizio degli anni Ottanta, la sorveglianza, almeno quella della rappresentazione filmica, lascia le stanze segrete del potere per calarsi nella dimensione quotidiana. Un segnale di questa metamorfosi è offerto da Alberto Sordi in Io so che tu sai che io so (1982) che, a cavallo tra commedia e dramma familiare, ricorre a una serie di topoi tipici del giallo. A causa di uno scambio di persona, la moglie (M. Vitti) di un impiegato di banca viene seguita e filmata da un investigatore; dopo una serie di peripezie, il marito (A. Sordi) entra in possesso del girato e ne scopre così il contenuto. In questo caso, la tecnologia non pertiene più a differenti configurazioni, pubbliche o private, di potere, ma a una sgangherata agenzia investigativa; oggetto dello sguardo non è più la massa della società civile, bensì l’inconfessato di un’ordinaria famiglia della media borghesia romana.
A differenza di Rosi e Cavara, i filmati che mostrano il pedinamento assumono un ruolo primario che si dipana nel corso delle quattro sessioni di proiezione in cui il marito ne appura il contenuto. Il dispositivo sorvegliante, infatti, entra letteralmente in scena, ponendosi altresì come protesi capace di disvelare una serie di problematiche familiari (come la tossicodipendenza della figlia e il tradimento della moglie). La macchina da presa maneggiata dal detective dichiara la sua opera di mediazione al punto che, nel momento in cui riprende la donna pranzare con l’amante del marito, l’uomo appare riflesso nella vetrata del locale (fig. 2). Le riprese, inoltre, hanno caratteristiche distintive quali la monocromia, l’invariabilità del punto di vista e i tremolii tipici della camera a mano; marche espressive interpretabili come “un indicatore di veridicità perché segnala determinate condizioni di produzione. La convergenza tra un contenuto estemporaneo e un’immagine non manipolata determina un pervasivo senso di realtà” (West 2005: 85). Infatti, le registrazioni sembrano evocare gli stilemi tipici del documentario di osservazione (Nichols 2014) dove la macchina da presa riesce a cogliere la vita sul fatto, senza alcuna ingerenza da parte del detective-cineasta.
Grazie all’innesto di questi brevi filmati, Io so che tu sai che io so (1982) si trasforma in una sorta di matrioska al cui interno coabitano linguaggi differenti. A livello visivo, infatti, il film gioca sull’accostamento e l’attrito fra due differenti registri: da un lato l’immagine cinematografica tradizionale, dall’altro il formato ridotto. La prima ci presenta lo spettacolo tragicomico interpretato dai due coniugi: Vitti finge di non sapere che il compagno si è impossessato del girato, mentre Sordi vuol far credere che il suo mutato atteggiamento non derivi da ciò che ha visto. Marito e moglie inscenano una recita in cui “viene offerta un’impressione idealizzata attraverso l’accentuazione di certi fatti e l’occultamento di altri” (Goffman 1969: 77). Al contrario, i film realizzati dall’investigatore riescono a catturare schegge e frammenti di autenticità che si celano dietro le apparenze, il retroscena come “il luogo dove l’impressione della rappresentazione stessa è scientemente e sistematicamente negata” (Goffman: 133).
Sintomatiche sono poi le modalità di visione del materiale. Nella casa di campagna, infatti, Sordi dispone di un proiettore 16mm e di uno schermo. Possiamo dunque ipotizzare che l’uomo sia un videoamatore e la cascina un vero e proprio spazio di consumo dei filmini di famiglia. Si sviluppa così una sorta di collasso dell’immaginario, laddove il focolare domestico si converte in sala di controllo, postazione della fruizione-spettacolo di una sorveglianza intima e individuale, assai differente dalla fascinazione tecnologica per le stanze del potere tratteggiate da Rosi e Cavara. Del resto, le stesse riprese dell’agenzia investigativa riecheggiano la grammatica visiva degli home movies in cui le prerogative estetiche assumono un’importanza secondaria; ciò che conta è la registrazione dell’evento (Zimmermann 1988: 23).
Inoltre, l’apparato di controllo assume qui una valenza catartica: emotivamente coinvolto, il marito osserva i gesti, le azioni e la condotta della moglie, tanto che alla fine, malgrado i numerosi ostacoli, le divergenze vengono superate. È questo un aspetto ricorrente nelle pellicole che affrontano la sorveglianza da una prospettiva individuale (Wise 2016): il voyeur trova riscatto nella condivisione del suo sapere con l’altro cosicché la distanza tra colui che osserva e l’oggetto del suo sguardo viene azzerata. Come risultato, la scopofilia si trasforma, paradossalmente, in strumento capace di correggere i difetti e avviare una metamorfosi positiva del personaggio.
2.3 Sorveglianza “dal basso” e pratiche amatoriali
Nei paragrafi precedenti, ci siamo confrontati con due regimi della sorveglianza in cui, malgrado alcune variazioni, i personaggi agiscono per lo più in una condizione di passività: sono oggetto dello sguardo di apparati governativi e agenzie investigative, oppure semplici voyeur che, per un caso fortuito, entrano in possesso di materiale compromettente. Con l’avvento del Ventunesimo secolo, la situazione muta radicalmente: alla rivoluzione digitale si accompagna la proliferazione di dispositivi ottici via via più economici e performanti. In questo modo, le tecniche del controllo finiscono inevitabilmente per combinarsi con le pratiche amatoriali, configurando quella che Staples definisce a culture of voyeurs (2014: 76-81) in cui, attraverso le immagini, monitoriamo tanto noi stessi quanto gli altri. Di conseguenza, la rivoluzione tecnico-visuale degli ultimi vent’anni ha fatto sì che “gli strumenti della sorveglianza, in passato ritenuti principalmente l’ambito degli investigatori privati, della polizia e delle agenzie di sicurezza, ora si muovano liberamente attraverso diversi media per finire nelle mani delle persone comuni” (Lyon 2020: 44).
Si pensi, ad esempio, a Circuito chiuso (2013) di Giorgio Amato, dove due studenti universitari nascondono cinque videocamere nell’abitazione di un uomo sospettato di aver rapito una loro amica. In questo caso, il dispositivo ottico si configura sia come apparato di sorveglianza sia come supporto cognitivo utile a risolvere il caso. Difatti, i sistemi CCTV (closed-circuit television) registrano qualsiasi evento o circostanza in maniera continuativa (Lefait 2013) e la messa in scena è filtrata unicamente dalle immagini catturate dalle camere nascoste, mentre il materiale raccolto dalla coppia viene esibito come reperto indiziario: una visione a posteriori in cui alle riprese sono sovraimpresse infografiche sui personaggi e alcuni oggetti (fig. 3). Le videocamere, inoltre, non trasmettono live, bensì registrano su hard-disk e i due complici non osservano in diretta ciò che avviene all’interno della casa: si produce così uno scarto cognitivo tra gli elementi noti ai personaggi e allo spettatore, uno squilibrio informativo che genera tensione, preludio all’esplosione di una violenza brutale (Turner 1998: 96-7). In aggiunta, malgrado questa visibilità panottica a cui è sottoposto, e dopo aver ucciso uno dei protagonisti, l’uomo riesce a fuggire e la sua identità rimane ignota.
Se stilisticamente l’opera di Amato si presenta come un canonico mocku-horror realizzato con la tecnica del found footage (Formenti 2013), la sorveglianza funge da mero stratagemma per creare suspence. D’altra parte, le videocamere nascoste trasfigurano l’abitazione dell’assassino in un “grande fratello” dell’orrore, riproducendo quell’impotenza dello sguardo che Hart individua, ad esempio, nella serie Paranormal Activity (2007-2021), della quale Circuito Chiuso è chiaramente debitore. A questo proposito, lo stesso Hart afferma come in Paranormal Activity “i filmati sono sempre visionati dopo lo svolgersi dei fatti […] non c’è nessun agente umano associato a quello sguardo in grado di intervenire” (Hart 2019: 76). Il dispositivo, che dovrebbe marcare la supremazia scopica dei protagonisti, finisce invece col testimoniare la loro vulnerabilità. La visibilità totale diventa spettacolo di sangue e di morte, senza alcuna possibilità di intervento.
Una prospettiva differente di questa sorveglianza “dal basso” è offerta da L’uomo privato (2007) di Emidio Greco. Il film narra le vicissitudini di un freddo e altolocato professore universitario (T. Ragno) che rimane coinvolto nel suicidio di un suo studente. Dopo essere stato interrogato dalla polizia, l’uomo riceve via posta un DVD. Sul disco, sono copiati diversi filmati che lo ritraggono nella sua quotidianità: eventi o episodi che abbiamo osservato nel corso del film vengono riproposti – tanto a noi quanto al personaggio – da una prospettiva differente (fig. 4). Il professore scopre così di essere stato a lungo spiato proprio dallo studente suicida.
Il film di Greco è significativo per almeno due ragioni. Innanzitutto, assistiamo a un’inversione dei ruoli, dove colui che all’apparenza è più forte si ritrova vittima dello sguardo del più debole; uno sguardo spettrale, perché esercitato da un morto, senza scopo né giustificazione, ma capace di lacerare quelle barriere che il protagonista ha eretto verso l’esterno. Le riprese, infatti, mostrano al professore un punto di vista inedito sul suo modo di rapportarsi con l’ambiente e le persone che lo circondano. Le immagini finiscono così con l’assumere una valenza epistemica: se da un lato testimoniano l’erosione di una privacy gelosamente custodita, dall’altra divengono uno strumento di introspezione in cui l’individuo può, forse per la prima volta, osservarsi dall’esterno.
2.4 Mascheramento e dissimulazione
Talvolta, può accadere che i dispositivi non vengano sfruttati per le loro capacità di vigilanza e controllo visuale ma, piuttosto, come strumenti in grado di depistare. In questo scenario, l’immagine è un elemento teso a fuorviare tanto i personaggi quanto lo spettatore. A questo proposito, rileviamo come il rapporto tra le tecniche di sorveglianza e il cinema narrativo “sia segnato da un significativo spostamento teorico, ovvero il passaggio dalla sorveglianza come osservazione registrata alla sorveglianza come trasmissione in tempo reale” (Levin 2002: 585). È proprio sullo scarto tra la dimensione temporale passata e quella presente, “in diretta”, che giocano alcuni film.
Un esempio di questa strategia è presente ne Il cartaio (2004) di Dario Argento. Un serial killer rapisce in successione una serie di ragazze per poi sfidare la polizia a videopoker: in palio, la vita della giovane vittima. Il duello tra le forze dell’ordine e il misterioso assassino si svolge in rete, sugli schermi dei numerosi computer presenti nel commissariato. Argento utilizza tutta una serie di tecnologie e canali di comunicazione allora all’avanguardia: la chat room come mezzo di conversazione tra l’ispettore Mari (S. Rocca) e il maniaco; la webcam che, durante le partite a carte, trasmette il primo piano delle ragazze; i software per rintracciare la location dalla quale il killer si connette; una piattaforma online che ospita le partite a videopoker. Nel twist finale, si scopre che il maniaco è un detective esperto di sistemi informatici e che le partite non sono avvenute dal vivo; si tratta, invece, di registrazioni: in questo modo, l’assassino ha la possibilità di crearsi un alibi, sfruttando il suo vantaggio competitivo e, al contempo, di sviare le indagini.
Come sostiene Cooper (2012), Il cartaio sembra muoversi secondo la doppia logica della rimediazione (Grusin e Bolter 1999): da una parte, l’ipermediazione – ovvero la proliferazione di media differenti all’interno dell’immagine – è data dalla coesistenza sullo schermo del computer di numerose interfacce quali, ad esempio, lo streaming della webcam e il portale dove si svolge la partita a carte (fig. 5); dall’altra, l’immediatezza – vale a dire il tentativo di cancellare l’atto di mediazione – si manifesta nell’impressione che ciò che accade sullo schermo stia avvenendo “dal vivo” e, perciò, nell’illusione che gli agenti possano esercitare una qualsivoglia forma di intervento e controllo sugli avvenimenti. I dispositivi tecnici esibiti ne Il cartaio (2004) sono infatti associati alla dimensione presente, “in diretta”, dei fatti, la cui supposta veridicità sembra essere “garantita dal fatto che sta accadendo nel tempo reale e quindi – in virtù delle sue condizioni tecniche di produzione – si suppone che non sia suscettibile di manipolazioni” (Levin: 592).
Nel film di Argento, un ruolo centrale viene svolto dal computer, meta-medium in cui “la coesistenza di più finestre sovrapposte è un principio fondamentale dell’interfaccia” (Manovich 2002: 131). Lo stesso Manovich afferma che una delle funzioni peculiari dei media elettronici è la telepresenza, concetto che sottintende due scenari, ovvero “essere ‘presenti’ in un ambiente sintetico generato dal computer […] ed essere ‘presenti’ in un luogo fisico reale e remoto attraverso un’immagine video dal vivo” (2002: 211). Ne Il cartaio, questo dualismo si concretizza proprio sul monitor del computer dove, nel medesimo spaziotempo, osserviamo sia la partita a videopoker sia lo streaming della webcam che trasmette il supplizio delle vittime, la cui sopravvivenza è solo in apparenza legata alle azioni degli agenti; un accostamento che, in maniera equivoca, suggerisce una relazione di causalità e simultaneità che associa entrambe le situazioni incorniciate sullo schermo. Argento sembra allora mostrarci come questa supposta volontà di dominio si riveli talvolta nient’altro che una trappola alimentata dalla tecnologia stessa – d’altronde, ancora Manovich sottolinea come “non devo essere fisicamente presente in un determinato luogo per incidere sulla realtà […] Un termine più appropriato sarebbe teleazione, che implicherebbe agire a distanza, in tempo reale” (2002: 213, enfasi aggiunta); o, piuttosto, che questa tensione a padroneggiare gli eventi possa essere sfruttata, scompaginando i diversi piani temporali, come strategia tesa a dissimulare e ingannare.
3 I dispositivi sonori
Proseguendo sulla falsariga della tensione, riscontrata nell’uso dei dispositivi ottici tra dimensione pubblica e privata, sorveglianza e controllo “dall’alto” e “dal basso”, in questa seconda parte ci concentreremo sulle tecnologie sonore e le pratiche dell’ascolto, mettendo in rilievo come queste concorrano a qualificare le atmosfere e le scene del crimine e dell’indagine, spesso senza soluzione di continuità tra funzione protesica e riflessiva, potenziamento sensoriale del criminale o delle forze dell’ordine, e supporto cognitivo alla risoluzione del caso. Inoltre, un aspetto caratterizzante di questa analisi è la riconoscibilità dei singoli dispositivi, che spesso si danno come istanza visiva oltre che uditiva, fatto che ha consentito una connessione con i paratesti dell’epoca e la loro percezione sociale.
3.1 Il crimine prêt-à-porter
Tra gli anni Sessanta e Settanta, la domesticazione delle tecnologie – si pensi al boom dei registratori a nastro magnetico e dei dischi in vinile – trova riscontro nella rappresentazione schermica di un crimine che potremmo definire prêt-à-porter, così come nella democratizzazione della stessa sorveglianza (Ball, Haggerty e Lyon 2012: 3) e del controllo.
Ne La ragazza che sapeva troppo (1962), ad esempio, Mario Bava mette ripetutamente al centro della scena un registratore a nastro magnetico, o magnetofono, che fa la sua comparsa ogni volta che la storia sembra arrivare a uno snodo decisivo, per poi rivelarsi una trappola tesa dal colpevole a Nora (L. Roman), forma di controllo e, allo stesso tempo, di depistaggio delle indagini condotte dalla ragazza sulla misteriosa serie dei “delitti dell’alfabeto”. In particolare, il registratore riproduce una voce metallica, il cui genere rimane inizialmente ambiguo e non chiarito, né sul piano intradiegetico né su quello extradiegetico, e solo con lo scioglimento finale della trama sarà possibile ricondurla all’identità dell’assassina. La voce registrata si offre come il corrispettivo sonoro del suo punto di vista, ce ne restituisce il carattere e le intenzioni, ed è il sintomo della sua presenza incombente. Inoltre, “il registratore diventa un’arma accessoria per l’assassino, un modo per attirare qualcuno in una trappola mortale o per costruire un ambiente illusorio, ingannevole – o per prolungare brevemente la vita di una vittima” (Curti 2022: 77). La sua presenza si dà non solo come indizio e manifestazione sonora sineddotica dell’atto criminale, ma è uno strumento con cui l’assassino anticipa le mosse di Nora, e sembra suggerire che il delitto stesso è più facile da compiere, occultare o simulare: in uno prêt-à-porter.
Il dispositivo scelto da Bava, infatti, è un prodotto maneggevole e leggero della GBC – Gian Bruto Castelfranchi Electronic (azienda con diverse sedi in Italia e all’estero, tra Parigi, Londra e New York), rivestito in plastica e dotato di un moderno microfono con tubo di interferenza. Il volantino con cui la GBC si rivolge, fra i suoi potenziali acquirenti, a docenti, studenti e presidi (fig. 6) offre la misura dell’impatto di questi dispositivi sulla vita degli italiani: se preparare le lezioni e riascoltarle è, va da sé, l’uso più ovvio che se ne può fare, è significativo che l’azienda ne suggerisca l’uso anche al direttore per “seguire lo svolgimento delle lezioni come se fosse in aula”. La GBC, insomma, ne intuisce il potenziale anche sul piano del controllo sociale oltre che dell’efficientamento della forza lavoro, a dimostrazione della doppia vita degli oggetti tecnici: da una parte promessa di libertà e autonomia creativa, dall’altra strumenti di un controllo sociale sempre più esteso e capillare. Dispositivi del genere fanno la loro comparsa in diversi film tra gli anni Sessanta e Settanta, al centro di un gioco perverso e ambiguo tra verità e mistero, colpa e impunità. Si pensi al Grundig MIKI portatile nascosto in un cassetto dallo spregiudicato caporedattore (G. M. Volonté) di Sbatti il mostro in prima pagina (1972) di Marco Bellocchio – che registra senza consenso le dichiarazioni dei suoi intervistati, facendo del suo magnetofono uno strumento improprio d’indagine e, anche qui, di depistaggio.
3.2 Le infrastrutture (sonore) del controllo biopolitico
In molti film accomunati dal cosiddetto “inchiestare zavattiniano” (Mancino 2012) dove è il cinema politico e di inchiesta a tingersi di giallo, i dispositivi sonori tendono a trasformarsi in vere e proprie infrastrutture del controllo biopolitico, apparati kafkiani al servizio di un’astratta democrazia nelle mani di funzionari eticamente discutibili.
In una società dove sorvegliare e confinare (Foucault 1976) non è più sufficiente, ma è necessario controllare in maniera diffusa e capillare (Deleuze 1990), registrare e archiviare qualsiasi tipo di informazione sul cittadino, finanche la voce nella sua doppia valenza, semantica e corporea, le distinzioni tra sovversivi e criminali, “sempre più si assottigliano” e “tendono addirittura a scomparire”, fa dire Elio Petri al “dottore” (ancora G. M. Volontè) di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto: “finiamo col somigliarci noi poliziotti coi delinquenti, nelle parole, nelle abitudini, certe volte persino nei gesti”. Grazie a un sofisticato e capillare sistema di intercettazioni telefoniche (fig. 7), il “dottore” – che ha ucciso la sua amante (F. Bolkan) – riesce a incriminare uno studente anarchico che, tuttavia, si rivela più sagace del poliziotto, tanto da causare un ribaltamento dei ruoli e portare così all’estremo la deformazione caricaturale dell’ambiguo rappresentante della legge. Al pari dell’atto criminale, l’uso dei dispositivi del controllo sonoro si offre altresì come meccanismo di compensazione sostitutiva di una mascolinità in crisi e dei suoi luoghi istituzionali – un aspetto ben presente in un certo cinema degli anni di piombo (O’Leary 2011) – , che tenta a tutti i costi di riaffermare il suo narcisistico controllo sull’altro: l’altro sesso o il dissidente politico.3
Se Petri inaugura il filone del cinema politico che usa la cronaca e i luoghi comuni, fisici e simbolici, del poliziottesco per denunciare gli abusi del potere, il già citato Cadaveri Eccellenti è forse il caso più esemplare di uso biopolitico e infrastrutturale dei dispositivi sonori, attributi di un’articolata iconografia, o sarebbe il caso di dire fonografia, della sorveglianza. Rosi mette in scena una società dove chi dovrebbe indagare finisce con l’essere controllato, spiato e pedinato. I dispositivi scelti dall’autore sono di gran lunga più avanzati di quelli incontrati sinora, certo non alla portata di tutti e frutto di un significativo sforzo economico dello Stato a tutela dei suoi segreti. In particolare, vediamo il magnetofono dell’americana Ampex, un’azienda specializzata in tecnologie audio molto sofisticate, e produttrice di macchine in grado di registrare fino a sedici tracce contemporaneamente, molto richieste dagli studi di registrazione in tutto il mondo, compreso quello di Fonologia Musicale della RAI – a ulteriore riprova del doppio uso, creativo e oppressivo, delle tecnologie qui analizzate.
3.3 Telefema e private ear
Accanto a questi nuovi dispositivi, rimane costante l’uso di oggetti tecnici più tradizionali come il telefono, di cui Valentini ha messo in evidenza la valenza performativa: la detection, afferma, “si nutre dell’interpretazione e la decodifica di suoni registrati e/o riprodotti, a partire dal telefono” (2011: 18). Quella che Chion ha definito telefema, ovvero “l’unità di conversazione telefonica” (2005: 265), si presenta, nella maggior parte dei casi, come la voce mediatizzata, distorta e indecifrabile, dell’assassino; un vero e proprio tropo del giallo: da I tre volti della paura (1963) di Mario Bava a L’uccello dalle piume di cristallo (1970) e Il gatto a nove code (1973) di Dario Argento, solo per citare i più noti.
Lucio Fulci è particolarmente attento alle capacità dei dispositivi di creare l’atmosfera e “l’esperienza sonora della paura” (Valentini 2011). Si pensi a Lo squartatore di New York (1982), dove il serial killer telefona ripetutamente alla polizia per annunciare il suo prossimo delitto (fig. 8) imitando il caratteristico eloquio di Paperino. Si tratta di una distorsione che accentua l’effetto straniante già prodotto dal carattere acusmatico della voce telefonica, e che ritorna in diversi momenti del film, ma inscritta in altri dispositivi: come quando una delle vittime registra i gemiti dei performer di uno spettacolo erotico dal vivo, per poi riascoltarli o farli ascoltare al marito come forma esclusiva di gioco erotico; oppure, come istanza più visiva che uditiva, quando il medico legale fa le sue autopsie sui corpi delle vittime indossando un iconico walkman.
Siamo ancora nel pieno della cosiddetta era magnetica della storia del suono che, grazie alle prime sperimentazioni di Sony e Panasonic, lascerà il passo a quella digitale solo alla fine degli anni Settanta. Tuttavia, le nuove tecnologie avranno bisogno di almeno un decennio prima di entrare nell’uso domestico e nell’immaginario collettivo: basti pensare che i primi CD compaiono già negli anni Ottanta, quando però è l’audiocassetta (messa per la prima volta in commercio nel 1965) a imporsi nel consumo di massa, soprattutto grazie all’invenzione del walkman (lanciato proprio dalla Sony nel 1979). Anche in questo caso, è sintomatico l’uso che il giallo fa di questi dispositivi, soprattutto nelle sue declinazioni horror, thriller e slasher, più popolari negli anni Ottanta, durante i quali, non a caso, si assiste alla perdita di interesse per il poliziottesco.
Si pensi a Il gatto nero (1982) di Lucio Fulci: dotato di poteri paranormali, il prof. Miles (P. Magee) è solito recarsi al cimitero per registrare le voci dei morti con un registratore portatile e decifrarle variando la velocità dei suoi apparecchi di riproduzione e diffusione, in primis un registratore a bobine TEAC X-10. Se qui il ricorso degli oggetti tecnici va già oltre un uso meramente domestico, ancora più sofisticate sono le pratiche sonore de La casa con la scala nel buio (1982) di Lamberto Bava, dove Bruno (A. Occhipinti) è un compositore intento a scrivere le musiche per un film horror (fig. 9) e alloggia in una villa che diventa teatro di diversi omicidi, tanto da costringerlo a trasformarsi in un private ear: un orecchio creativo al servizio della risoluzione del caso – proprio come John Travolta in Blow Out (1981) di Brian De Palma. È questa già una dichiarazione (metacinematografica) di intenti, da cui emerge l’importanza degli oggetti sonori nella costruzione e trasformazione del genere. L’apparecchiatura di Bruno – il marchio è il giapponese Akai, leader nella produzione di strumenti musicali elettronici – non solo concorre a connotare il film con il sound synth pop tipico degli anni Ottanta, ma diventa essa stessa scena del delitto, luogo fisico e simbolico della colpa, nonché arma e indizio: le bobine, infatti, ripetutamente manomesse dall’omicida, sono usate per strangolare una delle vittime, e allo stesso tempo contengono la chiave per la risoluzione del caso. È nella registrazione, infatti, che Bruno rileva le tracce sonore della presenza dell’assassino e del suo crimine, inciampando in una sorta di involontaria sorveglianza acustica.
3.4 Techno literacy e crimine come hackeraggio
Se negli anni Novanta il giallo letterario vive un momento di particolare fermento (Crovi 2006), lo stesso non si può dire per quello cinematografico, che non offre esempi significativi per la nostra ricerca. Si tratta senza dubbio di un momento di transizione per quanto riguarda gli equilibri tra vecchie e nuove case di produzione e distribuzione (Canova e Moccagatta 2023), ma anche per il panorama mediale in generale, ormai globale e caratterizzato da una senza precedenti “ubiquità e mobilità delle tecnologie di comunicazione” (Pasquali, Scifo e Vittadini 2019).
Se alla fine del decennio la cultura hacker e le estetiche del cyberpunk e del postumano entrano nell’immaginario comune, nel passaggio agli anni Duemila si affermano il Web 2.0 e la cosiddetta cultura della convergenza (Jenkins 2006, Zecca 2012) – supportata dalla metamorfosi dei telefoni cellulari, dall’ulteriore miniaturizzazione delle tecnologie di consumo e dalla moltiplicazione degli schermi. Tutto ciò non solo incide in maniera significativa sulla socialità e i processi di soggettivazione, ma anche sul crimine e la sua rappresentazione. In questo scenario, “il cinema italiano contemporaneo tenta la rinascita di altri generi come il poliziesco, il giallo, l’horror” (Farinotti, Gipponi e Moccagatta 2022: 169). Qui, in particolare, si assiste a un’intensificazione dell’ibridazione tra uso personale e disciplinare dei dispositivi sonori, che in alcuni casi, grazie a una digital e techno-literacy fuori dal comune, consente ad alcuni individui, cosiddetti nerd o smanettoni, di esercitare a loro volta forme di sorveglianza diffusa, spingendosi verso i territori della sorveglianza ubiqua (Andrejevic 2012) e partecipativa (Bruno 2012) o, ancora, della cosiddetta sousveillance (Mann, Nolan e Wellman 2002) o subveglianza (De Mauro 2006): risposte immunitarie al capitalismo della sorveglianza algoritmica e alla dataveillance (Eugeni 2023).
In altri, vediamo come sia l’infrastruttura mediale tutta che va a sollecitare l’ascolto a fini investigativi e/o forensi, mostrandone le potenzialità all’interno di ambienti mediali sempre più espansi. Almost Blue (2000) di Alex Infascelli, ad esempio, sfrutta le possibilità narrative legate alla dimensione dell’ascolto sulla scia della predilezione del giallo verso figure con menomazioni sensoriali e, nel caso specifico, non vedenti (Valentini 2011). L’unico accesso al mondo di Simone (C. Santamaria), un ragazzo cieco che vive confinato in casa, è il web: in una stanza piena di cavi LAN, immerso in un tipico soundscape domestico degli anni Novanta definito dal rumore del modem, Simone origlia le chat altrui (fig. 10), finché non finisce per ascoltare casualmente quella tra un omicida e la sua prossima vittima.4
Tuttavia, se l’ascolto dell’involontario testimone auricolare resta confinato nell’ambito delle pratiche mediali ludiche, più sistematico è l’ascolto di quelli che Haggerty (2012: 236) definisce information workers con riferimento alle forze dell’ordine, impegnate a raccogliere, analizzare e comunicare una vasta gamma di informazioni, a partire dalle classiche intercettazioni telefoniche sino ad arrivare a sistemi più evoluti di data collection and analysis. Se in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto queste appaiono come pratiche eccezionali e a dir poco futuribili, diventano ordinarie in film come A casa nostra (2006) di Francesca Comencini, Cha cha cha (2012) di Marco Risi e In ascolto (2006) di Giacomo Martelli. Nei primi due casi, chi viene ascoltato è ben consapevole di esserlo e mette in pratica una serie di strategie utili a restare nell’ombra. Nel terzo, invece, il controllo si estende fino al punto che il raggio d’azione delle intercettazioni telefoniche, supera i confini degli Stati e acquista una dimensione globale, tanto che il giallo assume i contorni e le atmosfere di una spy story che si intersecano con quelle dell’alpine noir. Qui, infatti, l’infrastruttura è controllata dalla NSA, la National Security Agency degli USA, “la più grande stazione d’ascolto del mondo” – che spia le conversazioni dei cittadini ben oltre i propri confini territoriali – cosa che il caso Edward Snowden ha dimostrato alquanto plausibile. La NSA sta sperimentando l’uso di tumbleweed, un nuovo software capace di intercettare e registrare qualsiasi conversazione che avvenga nei pressi di un telefono, anche se agganciato, e che usa i cellulari come “cimici ambulanti”, anche se spenti. Il giallo si innesca quando Francesca (M. Sansa) entra casualmente in possesso della valigetta con i programmi e i manuali per l’uso di tumbleweed e viene scambiata per una spia. Le vengono in soccorso James (M. Parks), un dipendente della NSA, e Gianni (A. Tidona) – un ex agente dei servizi segreti italiani, esperto di satelliti ed epitome del cosiddetto smanettone: nel garage ha una serie di apparecchiature impolverate ma capaci di remotare le antenne satellitari e di hackerare il sistema, il tutto da una stazione sul Monte Bianco (fig. 11). Grazie alle sue competenze Gianni riesce ad allestire un sistema di vera e propria contro-sorveglianza, che genera una paradossale sovrapposizione per cui le due parti riescono a entrare l’una nel sistema dell’altra e a spiarsi a vicenda.
Di conseguenza, quello che era un ascolto unidirezionale diventa bidirezionale o multi-direzionale, un aspetto che contraddistingue la cultura della sorveglianza del nuovo millennio, ovvero una distribuzione dell’atto del guardare, in questo caso dell’ascoltare, tra tutti gli attori sociali (Lyon 2018) – che si rafforza ulteriormente nelle forme della dataveillance.
In un film come Il talento del Calabrone (2020) di Giacomo Cimini, questa capacità di ribaltare l’asimmetria tra chi ascolta e chi è ascoltato, arriva a mettere in discussione la natura broadcasting della radio. Qui Carlo (S. Castellitto) chiama Radio 105 affermando di volersi suicidare facendo esplodere una bomba nel bagagliaio della sua auto mentre vaga per la città, prendendo così il controllo della trasmissione in diretta (fig. 12). Dall’analisi semantica delle sue frasi emerge che si tratta di una persona molto colta, professore di fisica, musicista raffinato ma, soprattutto, capace di andare ben oltre il normale uso del web 2.0 e di usare un virus informatico per provocare il blackout dell’intera città. In una società dove qualsiasi gesto o spostamento è costantemente registrato e archiviato, Carlo è capace di scomparire: le sue chiamate non sono rintracciabili perché il segnale si sposta di continuo; ma, soprattutto, è capace di usare un Software Voice over IP per mantenere l’anonimato durante la navigazione. Tuttavia, gli hacker che formano il nucleo operativo riescono a identificarlo proprio grazie al riconoscimento vocale di un video messo on line sul sito dell’università per cui lavora. Carlo non è visibile, ma udibile, e per questo comunque soggetto a identificazione.
4 Conclusioni
Questa ricognizione restituisce un panorama ampio e articolato di messe in scena del crimine e dell’indagine da cui emerge l’intima relazione tra questi e le pratiche della sorveglianza e del controllo sociale, le cui implicazioni politiche e tecno-culturali meriterebbero un’indagine certo più approfondita. Senza alcuna pretesa di esaustività, infatti, il saggio ha inteso suggerire una nuova pista di ricerca, articolando la riflessione sulla presenza dei dispositivi ottici e sonori nel cinema giallo attorno alla tensione tra forme della rappresentazione, della sorveglianza e della contro-sorveglianza, così ipotizzando alcuni dei possibili sviluppi.
In particolare, dall’analisi dei casi presi in considerazione emerge che se “alle pratiche visuali della sorveglianza concentrazionaria subentrano le tecnologie informatiche, capaci di assicurare nuove e invisibili forme di sorveglianza in campo aperto” (Eugeni 2023: 194), è altrettanto vero che molti dei film italiani citati non affrontano in maniera esplicita questo aspetto facendone il fulcro di una riflessione sul crimine. Il modello panottico, quindi, nelle sue successive e varie declinazioni, sembrerebbe dominare ancora gli schermi italiani. Tuttavia, allo stesso tempo, gli elementi emersi nella seconda parte del saggio, suggeriscono anche che tale modello non è più sufficiente a descrivere i sistemi di sorveglianza del mondo contemporaneo e, quantomeno, andrebbe integrato con un modello panacustico (Elmer e Neville 2021), ed entrambi, a loro volta, messi in dialogo con altre, spesso impercettibili, forme controllo.
A tal proposito, un aspetto sovente trascurato e citato da Foucault è che “Bentham nella sua prima versione del Panopticon aveva immaginato anche una sorveglianza acustica, per mezzo di tubi conducenti dalle celle alla torre centrale”, poi abbandonata “perché non poteva introdurre una dissimmetria e impedire ai prigionieri di sentire il sorvegliante, come il sorvegliante sentiva loro” (1993: 220). È questo un aneddoto che – come quegli indizi apparentemente irrilevanti che si rivelano, in ultima analisi, decisivi per la risoluzione del caso – sposta l’attenzione oltre le piste consolidate e chiama in causa nuove categorie interpretative per leggere gli sviluppi del cinema e i suoi rapporti con le tecnologie, specie quelle della sorveglianza.
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Albrechtslund (2008) evidenzia una serie di film – prevalentemente hollywoodiani – che hanno favorito la diffusione del concetto di sorveglianza nella cultura popolare: La finestra sul cortile (Rear Window, 1954), L’occhio che uccide (Peeping Tom, 1960), La conversazione (The Conversation, 1974), Nemico pubblico (Enemy of the State, 1998), Panic Room (2002). In aggiunta, Zimmer (2011) cita diversi film contemporanei, europei compresi: Strange Days (1995), Crimini invisibili (The End of Violence, 1997), Omicidio in diretta (Snake Eyes, 1998), Minority Report (2002), Niente da nascondere (Caché, 2005), Le vite degli altri (Das Leben der Anderen, 2006), tra gli altri.↩︎
La riflessione si è concentrata per lo più su singoli film. Un esempio è il documentario d’inchiesta 87 ore - Gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni (2015) di Costanza Quatriglio (Surace 2016: 185–95).↩︎
Fra le varie tecnologie a sua disposizione, il “dottore” ricorre anche a un pionieristico macchinario capace di processare e incrociare dati di vario tipo desunti dagli schedari della polizia – simile a quello de L’uccello dalle piume di cristallo (1970) di Dario Argento. Questa sorta di proto-sistema di intelligenza artificiale prefigura il paradigma della sorveglianza del nuovo millennio che “non si basa più sull'acquisizione di immagini e di suoni ma sulla cattura e l’analisi automatizzata mediante algoritmi di grandi quantità di dati” (Eugeni 2023: 191).↩︎
Nel film, inoltre, fa la sua comparsa anche l’UACV - l’Unità di Analisi del Crimine Violento nata nel 1994 che usa il SASC - Sistema per l’Analisi della Scena del Crimine, un software che aggrega dati di vario tipo su omicidi con caratteristiche simili, utilizzato dall’ispettrice di polizia Grazia Negro (L. Indovina). Un sistema ricorda molto da vicino quello, allora ancora futuribile, di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.↩︎