1 Introduzione: le “concordanze discordanti” del personaggio tra genere e autorialità
Modificando la provocazione di Orio Caldiron (1999: 183) che invita a considerare Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970) come il “remake – stravolto, virato, destrutturato” di Un maledetto imbroglio (Pietro Germi, 1959), il presente contributo suggerisce di allargare l’analisi delle traiettorie sincroniche e diacroniche, oltre che geografiche, del giallo italiano concentrandosi su Il bivio (1951) di Fernando Cerchio1 come antecedente del film di Petri e sulla sceneggiatura “Investigation” (1986), scritta da Paul Schrader per un annunciato remake americano di Indagine da parte della Cannon Films, conservata nel Fondo Pirro (Cineteca di Bologna) insieme a numerosi soggetti dello scrittore italiano per serializzare il personaggio dell’Assassino che aveva creato con Petri. Analizzando le “concordanze discordanti” (Ricoeur 2020 e 2009) del personaggio dell’uomo di legge al di sopra di ogni sospetto, vogliamo recuperare gli anni Cinquanta come momento fondante del giallo italiano e, contemporaneamente, evidenziare un modello italiano per una produzione americana in un genere solitamente considerato subito dalla nostra cinematografia e di cui, anche recentemente, si è arrivati a negare, o a limitare in modo cronologicamente significativo, l’esistenza (Casadio 2002; La Torre Giordano 2022). Il presente contributo si situa, quindi, all’interno della riconsiderazione critica della produzione cinematografica italiana degli anni Cinquanta non semplicemente “in via negationis” (Noto 2011: 11). Recuperare un film come Il bivio, ormai dimenticato e visionabile solo grazie alla copia conservata presso la Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia - Cineteca Nazionale di Roma, e accostarlo ad un film molto più conosciuto, tardo e di reputazione autoriale come Indagine di Petri significa anche riflettere sulle appropriazioni italiane delle narrazioni gialle, noir e poliziesche, generalmente concepite come eminentemente di derivazione anglo-americana, e inserirsi nel progetto più ampio di “rendere conto pienamente del portato estetico e socio-culturale dell’iconografia noir in Italia” (Marmo 2018: 119). Seguendo le traiettorie degli studi di Louis Bayman (2014), Denis Broe (2014), Lorenzo Marmo (2018), Andrew Spicer (2007), Mary P. Wood (2005, 2007), considereremo il noir non come un genere esclusivamente americano, ma come “a discursive construction, that was, from its beginning, transcultural, an idea that the French projected onto American cinema that the Americans later adopted and then re-exported” (Spicer 2007: 17).
Aldo Marchi (Raf Vallone), protagonista de Il bivio, vice-commissario primo della classe del suo corso e contemporaneamente capo di una banda di criminali nella Torino del secondo dopoguerra, è un personaggio che anticipa il cittadino al di sopra di ogni sospetto del film di Petri e del suo co-sceneggiatore Ugo Pirro, che, come documentato dal suo archivio, tenterà, a più riprese, di riutilizzare il personaggio in progetti successivi. Attraverso una dialettica di ripetizione e cambiamento, Marchi si sviluppa nell’Assassino di Indagine, e, a sua volta, nel suo alter ego americano Jude Mazzo di “Investigation”. Vogliamo indagare le morfologie del film giallo italiano – la capacità del genere di declinare le sue forme attraverso appunto ripetizione e cambiamento – rispetto alla formazione dell’identità di un personaggio diventato simbolo della capacità di un certo cinema d’autore di interpellare i meccanismi del potere, storicizzandone l’origine non solo negli anni Settanta del cinema civile, del doppio Stato e di Piazza Fontana (Minuz 2011: 51-62), ma anche nella stessa narrazione di genere degli anni Cinquanta, e cogliendone, successivamente, la tentata proiezione verso l’estero. In che modo Il bivio anticipa la riflessione sull’autorità e sul potere di Indagine? Quali caratteristiche – insospettabilità, paranoia, regressione all’infanzia, repressione del dissenso e della verità per la rispettabilità delle istituzioni – sono incarnate da Aldo Marchi, dall’Assassino e da Jude Mazzo? Quali elementi comuni emergono dalle vicende censorie dei film di Cerchio e Petri? Quali percorsi all’interno del Fondo di Ugo Pirro mettono in evidenza il tentativo di elaborare in modo seriale il personaggio dell’Assassino e di esportarlo verso Hollywood?
Nel rispondere a queste domande, faremo riferimento ai citati film di Cerchio e Petri, ma anche a trattamenti, sceneggiature e appunti che testimoniano i diversi stadi di elaborazione di Il bivio e di Indagine, e documentano inoltre scene, quando non interi progetti, come nel caso del remake americano di Indagine, che sono rimasti, per citare l’espressione di Mariapia Comand (2006: 9), “sulla carta”2. Un senso di provvisorietà e di aleatorietà caratterizza questo materiale che non è stato trasposto dalla carta alla celluloide, non trovando posto nei film finiti. Tuttavia, questi documenti sono “già una storia, … già una trama, … già un tema: scelti e fissati tra tutti i possibili”, gesti fondativi che trasformano il mondo reale “in possibilità cinematografica” (Comand 2006: 9).
Pur non essendo in presenza di una vera e propria narrazione seriale, in quanto i capitoli che prenderemo in esame non sono concepiti come parte di un’architettura comune, ma da persone diverse in momenti storici diversi, i testi qui analizzati condividono un personaggio di colpevole al di sopra di ogni sospetto, incarnazione della stessa aporia generica su cui si fonda il giallo italiano: l’impossibilità di arrivare ad un colpevole certo o a una soluzione che soddisfi un’idea di giustizia e verità, un approdo che contraddistingue già molta della produzione gialla degli anni Cinquanta, solitamente ignorata nei decenni successivi, e che costituirà un paradigma per il futuro cinema d’inchiesta italiano (Mancino 2008 e 2012)3. Per la nostra indagine sui cittadini al di sopra di ogni sospetto, osserveremo quei frammenti narrativi rilevanti per ricostruire la storia del personaggio, quei “tratti connotativi” che servono a far “‘emergere’ il personaggio dallo sfondo diegetico della narrazione” (Casoli 2021: 108). Aldo Marchi, l’Assassino, Jude Mazzo e i protagonisti dei progetti di Ugo Pirro per un successivo sfruttamento seriale dell’Assassino, costruiscono una “dialettica tra l’istanza della concordanza e quella della discordanza” (Braga 2003: 135). Accostando un’opera dalla consolidata reputazione autoriale come Indagine a due progetti dichiaratamente di genere come Il bivio e la sceneggiatura di Schrader per una casa di produzione americana come la Cannon specializzata in film di alto impatto commerciale, vogliamo, inoltre, evidenziare la possibilità di recuperare quel percorso “verso il basso” suggerito da Claudio Bisoni (2011: 15) nella sua monografia su Indagine, non solo per un confronto “con la successiva produzione di genere”, ma anche con quella precedente e per espandere geograficamente i termini del confronto oltre i confini nazionali.
2 Il bivio e il giallo oltre l’ordinaria amministrazione del genere
Recuperare Il bivio e la tradizione gialla italiana degli anni Cinquanta per il successivo sviluppo autoriale del genere significa problematizzare l’assunto critico secondo cui “il cinema italiano non ha una tradizione di film gialli come la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, forse perché in Italia manca questo tipo di letteratura” (Casadio 2002: 7). Orio Caldiron (1999) e, più recentemente, Antonio La Torre Giordano (2022) e Roberto Curti (2022) hanno dedicato contributi importanti alla produzione gialla italiana degli anni Cinquanta, sia letteraria che cinematografica e televisiva, riscoprendola dall’oblio critico a cui è stata confinata. Purtroppo, tale produzione viene però trattata come uno stadio acerbo nel processo di maturazione in genere criticamente adulto del giallo italiano, negandone la riconoscibilità. Tuttavia, se, seguendo l’approccio suggerito da Rick Altman (1999), consideriamo il genere non come mera tassonomia ordinatoria, ma come risultato di negoziazioni tra discorsi estetici, produttivi e sociali, risulta chiaro che, negli anni Cinquanta, le case di produzione, la critica cinematografica, i procedimenti istituzionali preposti al controllo della produzione culturale, come la revisione preventiva presso la Direzione Generale dello Spettacolo, e, ovviamente, gli stessi spettatori, riconoscevano l’esistenza di film gialli, polizieschi e “thrilling” italiani, spesso anche in termini di confronto con la produzione anglo-americana e francese. A seconda dei diversi ruoli nell’industria culturale, questi diversi soggetti mettevano in produzione film, li giudicavano, ne vagliavano la rispondenza alla morale e ne fruivano in quanto appartenenti ad uno specifico genere che viene definito “giallo”, “nero”, “poliziesco”, “verista”, talvolta anche combinando insieme questi termini.
Senza farci prendere dalla stessa necessità che caratterizza molta della critica di trovare il primo film giallo italiano, appare importante sottolineare la rilevanza de Il bivio di Fernando Cerchio per i successivi sviluppi del genere, particolarmente per quel rovesciamento paradossale del meccanismo del giallo che porta il colpevole ad essere noto al pubblico sin dall’inizio, ma, in quanto responsabile dell’indagine, a non essere pubblicamente scoperto al termine della diegesi. Inoltre, pur non essendo narrato attraverso la struttura a flashback tipica del genere, il film opera quel raddoppio dell’indagine che Julien Oreste (2014) ha individuato come caratteristica del giallo italiano degli anni Settanta. È infatti chiaro fin dall’inizio che Aldo Marchi fa il doppio gioco: diventa vice-commissario, ma mantiene ancora i legami con il suo passato criminale e gli viene affidata proprio l’inchiesta su una serie di furti ai trasporti valori di cui la sua banda di rapinatori è responsabile, grazie alle informazioni che lui stesso fornisce. Su questa indagine se ne innesta una seconda, collegata alla misteriosa morte della moglie di una delle guardie della scorta al trasporto valori ingiustamente arrestata, su cui Marchi vuole fare luce perché se ne ritiene in qualche modo responsabile, rifiutando la spiegazione del suicidio che diversi indizi sembrano avvallare. Questa seconda indagine è improntata più al modello del whodunit tradizionale in quanto lo spettatore non conosce l’identità dell’assassino e la scopre solo verso la fine del film, insieme allo stesso Marchi. L’indagine sull’omicidio della donna serve anche a far nascere in Marchi una crisi di coscienza per la sua attività criminale che si materializza nei dialoghi con il suo superiore Lubiani (Charles Vanel) in una dialettica, a tratti surreale, tra la volontà di autodenunciarsi e l’istinto di farla franca. Il sacrificio finale di Marchi permette di arrestare la sua banda e di far liberare la donna che ama, Giovanna (Claudine Dupuis), che è stata sequestrata dai suoi ex complici e utilizzata per continuare ad estorcere informazioni ad Aldo sui trasporti valori quando i suoi scrupoli di coscienza l’avevano indotto a interrompere il passaggio di informazioni4.
Il film di Cerchio è stato incluso da Raymond Borde e Étienne Chaumeton nel capitolo “Influences” del loro storico volume Panorama du film noir américain (1955: 153) e pubblicizzato dalla produzione, con alte aspettative, come il primo film italiano in grado di porsi “all’altezza delle pellicole americane” in una materia come quella gialla e poliziesca “in cui la nostra cinematografia non si è ancora affermata come in altri paesi” (Fig. 1).
L’albo pubblicitario inserisce Il bivio in un discorso di genere, mettendo in evidenza anche le “credenziali gialle” della produzione Rovere e dell’attore Charles Vanel, entrambi associati al successo di In nome della legge (Pietro Germi, 1949), “forse il primo giallo italiano”, e avvertendo che “non usa, nemmeno fra amici, raccontare le trame dei polizieschi e dei gialli”. Allo stesso tempo, gli spettatori sono informati che Il bivio non è un giallo di “ordinaria amministrazione”, ma punta a rappresentare “la freddezza dell’uomo moderno” e “il dilemma di un criminale”. Le definizioni di genere date dalla stampa, sia dai quotidiani che dalle riviste di cinema, all’uscita nelle sale fanno ricorso indifferentemente alle etichette di “giallo”, “poliziesco”, “gangsteristico”, “film nero”, “thrilling”, a volte anche combinate insieme: “giallo-poliziesco” (Cinema 1952), “gangster-poliziesco” (Hollywood 1952 e Settimo Giorno 1952). Paolo Jacchia in un reportage su Filmcritica sulle Giornate del Film Italiano da Knokke-Le Zoute nel settembre 1951 lo definisce, in anticipo su Borde e Chaumeton ma con una caratterizzazione negativa, come esempio delle influenze più deleterie del “film giallo nero hollywoodiano” sulla nostra cinematografia. Anche le pubblicità che compaiono sui quotidiani mettono in risalto questa discendenza, sfruttando un’iconografia noir e hard-boiled di derivazione americana (Figg. 2 e 3).
3 Indagini su cittadini al di sopra di ogni sospetto
Vogliamo suggerire un percorso che modifichi le traiettorie sincroniche e diacroniche del giallo italiano, facendo anche ricorso al trattamento e alla sceneggiatura originale del film di Cerchio (che identificheremo d’ora in avanti rispettivamente SNCF 3 e SNCF4, con le collocazioni con cui sono conservati presso il fondo del regista presso la Bibliomediateca “M. Gromo” di Torino), visto il travagliato percorso di censura del film. Evidenziandone “il legame tra neorealismo, mélo e noir”, Il bivio è stato considerato parte di “quei titoli che portano il neorealismo italiano non verso il rosa ma verso il giallo” (Morreale 2011: 123), nessuno dei quali “è del resto compiutamente risolto né sul piano della rappresentazione, né su quello della definizione del genere” (Caldiron 1999: 163). Seguendo una prospettiva diacronica, invece, il protagonista Aldo Marchi è stato considerato un anticipatore di quei “superpoliziotti” che popoleranno i film gialli italiani degli anni Settanta (Casadio 2002:85). Al contrario, vogliamo considerare Il bivio come un film risolto, i cui aspetti più moderni lo mettono in relazione con una delle produzioni ritenute più autoriali del giallo italiano, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.
Riconosciuto dalle recensioni del tempo come “cerniera nella produzione cinematografica torinese” tra impegno e cassetta per fare finalmente film polizieschi “sul piano della corrente produzione americana” (Avanti! 1951), Il bivio crea, attraverso il personaggio del commissario Aldo Marchi, la maschera del cittadino al di sopra di ogni sospetto che il film di Petri e Pirro riprenderà, evidenziandone maggiormente il lato repressivo e sessuale, già comunque allusivamente presente nel personaggio del film di Cerchio. “Essere smascherati per essere liberati” è la frase con cui Roberto De Gaetano riassume “il progetto paradossale che accompagna le azioni e i gesti dell’ispettore di polizia di Indagine” che, dopo aver ucciso l’amante, dissemina indizi “per dimostrare la sua insospettabilità” ma, contemporaneamente, “per essere riconosciuto nella sua colpevolezza” (1999: 87, corsivo nel testo). Lo stesso progetto paradossale caratterizza Aldo Marchi: davanti al cadavere della moglie di una delle tre guardie arrestate ingiustamente per il furto commesso dalla sua banda, Aldo, come l’Assassino che ritorna sul luogo del delitto insieme a Biglia, “impallidisce, suda freddo: sembra che lo prenda un malessere, un capogiro, ha bisogno di appoggiarsi a qualcosa, si sente svenire” (SNCF 3: 14). Da questo momento, provare che la donna non si è suicidata ma è stata uccisa, diventa per Aldo un’ossessione che equivale a cercare un modo per incolparsi delle rapine. Come per l’Assassino, l’indagine sulla morte della donna diventa anche, e soprattutto, un’indagine su di sé. Lo stesso Lubiani
incoraggia Aldo a pensare alla cosa, a iniziare – segretamente, perché se si venisse a sapere li prenderebbero tutti per matti – una indagine. E in questa indagine Aldo si butta con tutte le sue forze: non si tratta tanto di scoprire un assassino quanto di raggiugere la liberazione da un incubo che pesa sulla propria coscienza (SNCF 3: 15).
Un’indagine, parola chiave nel film di Cerchio come in quello di Petri, che inizia a rivelare la scissione di Aldo tanto da destare “molto interesse da parte del dott. Lubiani che vuole studiare a fondo”
il tipo di Aldo, tutto il suo modo di comportarsi, le sue reazioni a volte strane […]. “Potresti essere un magnifico delinquente, per certi lati del carattere” gli dice “ma per certi altri sei negato”. E il discorso cade sulla delinquenza, sulla mentalità del delinquente. Le idee di Aldo sono strane, strane particolarmente da parte di uno che fa il poliziotto (SNCF 3: 20).
Poliziotto e delinquente coesistono nella stessa persona e sono lo specchio l’uno dell’altro, come nell’Assassino di Petri e Pirro. Certo, a differenza del protagonista di Indagine5, Marchi inizialmente lascia indizi per sviare le indagini più che per provare la sua colpevolezza, ma questo secondo aspetto emerge progressivamente con l’avanzare dell’indagine, quasi a diventare una scommessa e un gioco intellettuale con Lubiani. Accusato dal commissario di essere l’organizzatore delle rapine ai trasporti valori, Marchi decide di “giocare tutto, con un po’ di sarcasmo” e chiede di essere arrestato (SNCF 4: 339). “Vedi”, gli risponde Lubiani, “non è che io ti trattenga … sei tu che rimani” (SNCF 4: 340). I due si incamminano poi verso l’ufficio di Lubiani “quasi come tra amici che vanno a braccetto, la cosa richiama l’idea dell’arresto”, varcando il portone della Questura, “un buco nero che sta per inghiottirli” (Ibidem). Come in Indagine, la progressiva paranoia del protagonista si riflette anche nella surreale percezione dello spazio in cui si muove: dai locali del commissariato “pieni di ombre e di silenzio” (SNCF 3: 13), salvo i rintocchi di un vecchio pendolo, alla bottega dell’impagliatore di uccelli dove si svolgono le riunioni della banda criminale. Nel caso del film di Cerchio, questa progressiva paranoia del protagonista è anche funzionale allo sviluppo di un’estetica noir, con l’uso di chiaroscuri e inquadrature oblique che catturano solo parzialmente i luoghi dell’azione determinando un’illeggibilità dello spazio e un’ambiguità morale a cui lo spettatore è reso più prossimo.
Inoltre, con il progredire di quella indagine in cui Aldo “si era buttato con tanto entusiasmo”, il vice-commissario/bandito si “sente […] oppresso più che mai” (SNCF 3: 24) e “recita” adesso di fronte agli uomini della sua stessa banda: “vuol farsi vedere sicuro e freddo, come sempre. Farà veder loro come si fa un colpo veramente perfetto” (SNCF 3: 28). Come l’Assassino di Petri e Pirro, Marchi si mette progressivamente nella posizione del “prigioniero” (SNCF 3: 30 e 31) e della “vittima” (SNCF 3: 28), sia della propria banda che del suo superiore Lubiani, provandone un piacere sadomasochistico: “prova quasi gusto a esserlo, un gusto un po’ sadico, frammisto a rabbia” (Ibidem). Quando il capo gli propone di guidare la scorta supplementare al trasporto valori che sarà oggetto della rapina della sua banda, “ad Aldo, per un attimo, sembra di essere smascherato: perché proprio a lui Lubiani fa questa domanda?” (SNCF 3: 29). Nella sceneggiatura e nel film effettivamente girato, i ruoli sono invertiti, quasi a sottolinearne la complementarietà (suggerita anche da alcune inquadrature in cui i volti di Marchi e Lubiani compaiono nello specchio del bar vicino la Questura): non è più Lubiani ad insistere perché Marchi sia il capo della scorta, ma è lo stesso Aldo a offrirsi per questo ruolo, che invece il capo decide di affidare a Sani. Anche in questo caso, la mossa di Marchi può essere letta in modo duplice: vuole essere in una posizione tale da assicurare ai compagni il successo della rapina o ha intenzione di ostacolarli veramente e evitare il coinvolgimento di colleghi poliziotti in conflitti potenzialmente pericolosi?
4 Confessare la propria innocenza
Il tentativo di adattare i modelli polizieschi americani alla nostra realtà nazionale da parte del film di Cerchio si avvaleva della sceneggiatura di Leo Benvenuti, Corrado Pavolini, Giuseppe Mangione, Aldo Bizzarri e del Questore Calogero Marrocco, già capo della Squadra Mobile di Roma. La collaborazione di Marrocco veniva citata da diverse recensioni come garanzia di autenticità contro le pericolose forzature del genere e come rassicurazione nei confronti delle perplessità della censura6: “Il questore Calogero Marrocco, già capo della squadra mobile di Roma,” si legge nell’articolo dell’Europeo del 20 maggio 1951, “ha dovuto combattere una dura battaglia per convincere i censori a dare il nulla osta per la programmazione della pellicola”. Effettivamente, il giudizio conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi CF 1030) del soggetto e della sceneggiatura nella fase di revisione preventiva della Direzione Generale dello Spettacolo per la certificazione della nazionalità italiana (e il conseguente sblocco degli aiuti statali alla produzione previsti dalla legislazione in vigore al tempo) non diede luogo a rilievi significativi, tranne per due scene: una in cui il vice-commissario Sani “intreccia un’occasionale relazione con una ragazza facile” e una in cui “un onorevole viene sorpreso tremante e atterrito in una pensione equivoca” (CF 1030). La valutazione preventiva è, anzi, sostanzialmente positiva, definendo Il bivio un “lavoro a sfondo poliziesco che, con molta umanità, si sforza di rappresentare quel caratteristico mondo che si muove attorno agli uffici della Mobile” e che “potrà interessare spettacolarmente per la particolare situazione che prospetta” (CF 1030). Dialoghi e sceneggiatura venivano giudicati come “accurati”. Nemmeno l’appunto sul personaggio di Marchi “non altrettanto spettacolarmente definito” quanto la descrizione del mondo della Mobile, con il sospetto che la sua scelta finale per il bene fosse dovuta, “più che ad un ravvedimento di coscienza, al fatale epilogo di una vita sballata fin dal principio” (CF1030), portava il revisore ministeriale a formulare riserve. In questa ambiguità nell’identità di Aldo Marchi, la revisione preventiva coglieva, non sappiamo quanto consapevolmente, uno degli elementi di modernità del film di Cerchio, che non uscì comunque completamente indenne da questa prima fase di revisione amministrativa: fu, infatti, negata la possibilità di coproduzione francese in quanto la richiesta era stata formulata dopo l’inizio delle riprese.
I problemi del film erano destinati ad aumentare una volta terminato: la commissione di revisione definitiva che, come attestato nel suo verbale del 27 febbraio 1951 consultabile online sul sito Cine Censura7, stabilì alcuni tagli più consistenti (uno dei quali anche con l’obiettivo di non mostrare i metodi troppo sbrigativi della polizia che non erano stati oggetto di rilievo nella revisione preventiva), registrando una posizione particolarmente negativa da parte del rappresentante del Ministero dell’Interno. Quest’ultimo espresse perplessità per la rappresentazione inerme degli agenti di polizia in occasione dell’ultima rapina al treno valori in cui sono visti prima giocare a carte e, successivamente, vengono disarmati dai malviventi. Nonostante gli altri due membri della commissione non avessero condiviso questa posizione, trovando la scena pienamente giustificata dalla trama del film, il Ministero degli Interni ricorse in appello ponendo, come si legge sempre nel già citato fascicolo del film su Cine Censura, “una questione di principio” e invocando l’intervento dello stesso Sottosegretario Andreotti che presiedette, infatti, la commissione di revisione cinematografica di II grado il 4 marzo 1951, in una proiezione, data l’urgenza, irritualmente tenuta la domenica. Il risultato fu un compromesso: rimase la scena della partita a carte, mentre venne quasi interamente soppressa la sequenza del disarmo delle guardie ad opera dei malviventi e si formulò un generico richiamo a eliminare “le scene che possono essere di scuola e di incentivo al delitto”.
L’attenzione della censura e del Ministero dell’Interno non giovarono certo alla distribuzione del film, che fu frammentaria e non uniforme. Inoltre, nella “questione di principio” non è difficile leggere un’irritazione generale per la rappresentazione delle forze dell’ordine, a cominciare dal personaggio principale. Inizialmente programmato nel maggio 1951 a Torino, ritroviamo Il bivio a Milano solo nell’estate dell’anno successivo con un commento significativo di Vittorio Bonicelli sulla rivista Tempo (1952: 20). Intitolato inequivocabilmente “Congiura contro un film”, l’articolo non lascia spazio a dubbi fin dall’inizio:
Proiettare un film adesso in una grande città significa ammazzarlo: specialmente quando la grande città è Milano. È quanto sta accadendo al film di Ferdinando Cerchio Il bivio. Fortunatamente, mi dicono, Il bivio è già stato presentato da tempo in altre città di provincia italiane. Quando e dove non so. Tutto è avvenuto clandestinamente. Ma anche questo è un modo di boicottare una pellicola. Ho udito anche parlare di un “lungo” blocco della censura.
Il tema della censura, o quanto meno la difficoltà di spiegare il ritardo nell’uscita del film, compare in molte altre recensioni critiche del tempo. Particolarmente documentato è il già citato pezzo comparso su L’Europeo, il cui autore sembra aver avuto accesso ai giudizi di revisione preventiva e definitiva, in quanto cita precisamente le scene e le frasi incriminate e aggiunge a commento: “molti passaggi di questa pellicola non sono piaciuti ai funzionari dell’Interno chiamati a vedere sullo schermo l’immagine di sé stessi”.
I giudizi dei procedimenti di revisione preventiva e di nulla osta definitivo di Il bivio e Indagine riflettono i cambiamenti intervenuti nell’istituzione della censura nel nostro paese nei vent’anni che intercorrono tra le rispettive produzioni8. Mentre gli autori de Il bivio dichiarano di voler fare un film in cui sia esaltato “il coraggio e lo spirito di sacrificio dei funzionari della Squadra Mobile che, per quattro soldi di stipendio, mettono in gioco posizione, tempo, cervello e a volte anche la vita” (CF 1030), il Ministero degli Interni vi coglie quasi un vilipendio delle istituzioni. Petri, al contrario, sostiene di aver voluto fare con Indagine “un film contro la polizia” per descrivere “il meccanismo che garantisce l’immunità ai servitori del potere” (Rossi 2022: 91). L’intento polemico e la connessione con l’attualità non sfuggono al lettore della revisione preventiva della sceneggiatura, una pratica che rimaneva ancora in atto, ma che, rispetto agli anni di produzione de Il bivio, aveva ormai le armi spuntate dopo l’avvento dei governi di centrosinistra. Come sintetizza Tomaso Subini (2021: 102), nel 1962, ancor prima dell’ingresso organico del PSI nella compagine governativa, la nuova formula politica “significherà la riforma della legge sulla censura e la fine del rigido controllo sulla produzione” che i governi a guida democristiana avevano saldamente esercitato dalla vittoria elettorale del 1948. Il revisore individua chiaramente il genere del film, “uno schema giallo giuocato a carte scoperte”, e ne mette in rilievo il legame con l’attualità: “La vicenda sembra parafrasare, accentuandone gli estremi e il decorso, recenti avvenimenti verificatisi nell’ambito della polizia o, quantomeno, prendere da tali avvenimenti lo spunto per costruire una storia” di carattere psicologico e di costume, “attuata con esiti dimostrativi” (CF 5821). Proprio da questa doppia natura di “racconto poliziesco” e di “storia che persegue una determinata … tesi”, derivano le maggiori preoccupazioni del revisore che sembrano, tuttavia, vertere più sulla riuscita “di genere” del film che non sulle implicazioni polemiche. In particolare, la conclusione, oggetto di più cambiamenti e ripensamenti come lo stesso Pirro ha raccontato (2001: 63), lasciava perplesso il revisore in quanto non scaturisce, come ci si aspetterebbe da un poliziesco, dalle “fasi conclusive dell’intreccio”, ma viene addirittura “adombrata fino dalle prime battute del copione” (CF 5821).
A film concluso, la commissione di revisione di primo grado nel suo verbale su Indagine, seppur confuso e grammaticalmente traballante, ritiene
che il film stesso vuole esprimere prendendo lo spunto dalla anormalità di un funzionario di polizia (infantilismo sessuale) dominato dalle arti di una donna sadica che lo sollecita e lo offende e lo spinge quindi al delitto, esprimendo [sic!] in definitiva l’esaltazione dell’uomo d’ordine democratico che alla stessa [sic!] si sottomette, conscio della sua colpevolezza.9
Per la commissione di revisione, il personaggio dell’Assassino sarebbe, quindi, un uomo d’ordine democratico che a tale ordine si sottomette conscio della sua colpevolezza. Tuttavia, per le “sequenze erotiche con accenni anche a scene sadiche e con linguaggio anche spinto”, venne imposto il divieto ai minori di 14 anni. Su questa stessa linea, paradossalmente, si muove anche una delle tre ipotesi interpretative della famosa recensione di Oreste del Buono, quella “pessimista”, secondo cui Petri “evita l’urto con la realtà nazionale, smarrendosi nella confusa evocazione delle avventure di un pazzo” (del Buono 1979: 126). Dal momento che “gli unici a non sfigurare completamente sono i poliziotti” e che il protagonista ha il merito di costringere al trionfo della verità, siamo di fronte all’ “esaltazione della coscienza poliziesca” (Ibidem). Lo stesso Pirro ha descritto il film in modo contraddittorio, arrivando ad affermare che “fa un ritratto di una professione difficile, che fa il ritratto di un’epoca, non è un film di denuncia contro la polizia ma ci è venuto così” (Latronico 2007: 52). Più ricettivo verso gli intenti critici del regista sembra essere il parere attraverso cui il Sostituto Procuratore di Milano chiese al giudice istruttore di non procedere ad azione penale contro il film in quanto “opera di fantasia” che svolge “a livello artistico elevato un esame critico delle possibili deviazioni del potere e che si risolve in un solenne ammonimento per tutti” (Minuz 2011: 56, corsivo nel testo)10.
Possiamo cogliere simili ambiguità anche rispetto alla dichiarata esaltazione della Mobile nel film di Cerchio. Natalie Heys Cerchio (2004: 19), nipote del regista, scrive nella sua tesi di laurea che Il bivio era stato concepito come “critica alla corruzione latente che, nel dopo guerra, fa irruzione in tutti i corpi del governo, prima fra tutte la Polizia”. Certo, non c’è la stessa enfasi sulla brutalità degli interrogatori che caratterizzano Indagine, ma i metodi della Mobile sono piuttosto sbrigativi: lo stesso vice-commissario Sani, solitamente affabile e giocherellone, nell’interrogatorio delle guardie ingiustamente accusate della prima rapina mostra “rabbia” (SNFC 4: 98), “alzando il tono della voce, martellando […] senza sosta” (100), sembra “quasi cattivo” e un piccolo scrupolo di umanità gli viene solo “come prendendo un attimo di riposo, come in una pausa della sua attività professionale […] Ma subito si riprende, ridiventa poliziotto” (101, mio corsivo). L’interrogato “è come una povera bestia condotta al macello” (103). Marchi non prende parte in prima persona agli interrogatori, almeno inizialmente, ma “con una freddezza assoluta, egli assiste al perfetto realizzarsi del proprio piano” (99), sul suo volto e nei suoi occhi “sembra quasi delinearsi un sorriso”: “il suo piano è stato perfetto” (100). Inoltre, come l’Assassino, Marchi diventa presto consapevole della quantità di schedari a disposizione della polizia, tanto che, anche dopo che ha distrutto i cartellini segnaletici dei membri della banda, riflette: “Non che così risultino ‘puliti’, in troppi altri schedari sono ancora le loro fotografie e le loro impronte, ma almeno in quello più a portata di mano essi non esistono più” (SNCF 3: 12).
Lo stesso sacrificio finale di Marchi, proprio dopo che Lubiani gli ha rappresentato la pericolosità dello scandalo della scoperta del suo doppio gioco per la polizia, può essere letto come un estremo insabbiamento della verità: il suo onore e quello della Polizia sono salvi, tanto che, sia il trattamento che la sceneggiatura, si concludono con le parole di Lubiani, tagliate dalla versione finale del film girato, ma mantenute, con diciture leggermente diverse, nella novellizzazione per Novelle Film (Tavalda 1950: 4) e nel cineromanzo Chérie Roto-Film (1954: 60, Fig. 4): “Abbiamo perso uno dei nostri uomini migliori” (SNCF 3: 36; 4: 279).
È questa, esplicita la sceneggiatura, la spiegazione “immediata, quasi solenne” che Lubiani sceglie di (non) dare ai “funzionari perplessi, consci di un qualche cosa di grave che aleggia intorno alla morte di Aldo” e che “fissano il Capo cercando in lui la spiegazione” (SNCF 4: 278-79). Una morte che equivale ad una confessione di innocenza. La stessa soluzione era stata pensata inizialmente per il finale di Indagine, come rivela il trattamento, narrato in prima persona e conservato nella cartella 31.0311 (p. 75) del Fondo Pirro, in cui l’Assassino progetta di farsi saltare in aria, all’ombra del Vaticano (“dalla finestra vedo la cupola di San Pietro”), con tritolo trovato nel doppio fondo della lavastoviglie di Augusta. Come prima del finale poi effettivamente girato, al Dottore “vengono in mente frammenti di codici, formule di giuramento, perfino brani della Bibbia e degli Evangeli, mischiati con titoli di giornali” sul suo eroico gesto. Le sue parole finali possono leggersi anche a commento della morte di Aldo Marchi: “Morirò nell’adempimento del mio dovere. Da solo, ho scovato un deposito di munizioni. Forse mi daranno una medaglia. L’autorità è salva”11.
5 Serializzare l’Assassino: verso Hollywood e ritorno
Nelle stesse cartelle dei materiali di Indagine, il Fondo Pirro presso la Biblioteca “Renzo Renzi” della Cineteca di Bologna conserva anche una sceneggiatura di Paul Schrader, intitolata “Investigation” (43bis.0473) e datata dicembre 1986, per un progettato remake americano del film di Petri e Pirro. La Cannon di Golan aveva iniziato a pubblicizzare il film, che avrebbe dovuto essere diretto da Andrej Konchalovskij con Al Pacino come protagonista, già nel 1986, ma il progetto non arrivò mai alla fase delle riprese, probabilmente per dissidi tra Pacino e la produzione, e, successivamente, per il fallimento della Cannon12.
Alla sceneggiatura è anche acclusa una lettera dello sceneggiatore italiano al regista (Fig. 5). Evidentemente consultato per un parere, Pirro scrive a Konchalovskij, chiamato confidenzialmente Andron, nel febbraio 1987, trovando che l’“ottimo Schrader” abbia fatto un “ottimo lavoro” e che il copione sia “ottimo”, forse con anche troppo rispetto per l’originale. Un uso ridondante del vocabolo “ottimo”, che, insieme a quella annotazione sul troppo rispetto dell’originale, quasi ci mette sulla pista di indagine e del sospetto che lo sceneggiatore italiano avesse colto tutte le “concordanze discordanti” tra Indagine e “Investigation”, un incontro ideologicamente “incoerente” per citare l’espressione con cui Robin Wood (1986: 46) ha caratterizzato anche alcune opere di Schrader, tra cui Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976).
Pur mantenendo una fedeltà strutturale alle singole scene, ai dialoghi e anche a singoli particolari di Indagine, Schrader trasporta la vicenda dalla Roma di inizio anni Settanta alla Washington del liberismo reaganiano, negoziando l’indagine sulle istituzioni e sulla paranoia del potere del modello italiano con il vangelo americano della mobilità sociale e l’inclinazione statunitense per la traduzione della teoria del complotto in un film d’azione. Al posto dell’anonimo Assassino della sceneggiatura di Petri e Pirro, il protagonista è Jude Mazzo, un procuratore distrettuale di umili origini italo-americane che diventa responsabile dell’unità nazionale anti-terrorismo, National Anti-Terrorist Agency (NATA), il giorno in cui uccide l’amante Karin Schriber, affascinante donna europea che ha una relazione anche con lo studente italiano ex brigatista Ria Maled. Jude non conserva quasi nulla dell’aspetto routinario dell’Assassino di Indagine che non diventa mai un carismatico leader per le masse: il personaggio di Jude compie, invece, una progressiva trasformazione che lo porta a diventare una personalità mediatica e un punto di riferimento per l’opinione pubblica da burocrate quale è nei flashback iniziali.
La stessa insistenza a descrivere Washington DC come una città sotto assedio (16) e gli Stati Uniti in generale sotto minaccia terroristica (17), con riferimenti molto più spettacolari rispetto alla bomba di Indagine, fanno emergere Mazzo come un eroe d’azione in lotta con i terroristi. Significativa a questo proposito la scena della bomba contro il quartier generale NATA, che, dal tombino di un luogo quasi sotterraneo del film italiano, diventa un’occasione spettacolare nel testo di Schrader (80-82). Mazzo può addirittura sperare di succedere a Reagan dopo la sua confessione di innocenza che, nel testo di Schrader, non è un sogno ma un singolo finale. Jude è ormai una personalità mediatica, definito dallo stesso presidente “An American hero”. Compare in televisione insieme a Phil Donahue nel suo storico show e sulla copertina di Time.
Tornando alla lettera di Pirro a Konchalovskij, il commento più significativo dello sceneggiatore italiano va a minare proprio la ragione per la quale Mazzo diventa un eroe. Secondo Pirro, la parte sul terrorismo merita infatti “una nuova riflessione” per migliorarne la credibilità:
Come a me appare, lontano dagli Stati Uniti, ho l’impressione che non sia sufficientemente chiaro e funzionale. Forse perché in Italia conosciamo bene il terrorismo; certo è che, per noi, il terrorismo in America ci appare improbabile. Ma forse voi lo sentite come un pericolo imminente e volete denunciarlo in anticipo. In ogni caso mi permetto di rivedere questa parte della screenplay (43bis.0473).
Purtroppo non c’è traccia di questo lavoro di revisione nelle carte del Fondo, ma è evidente che lo stesso Pirro abbia riflettuto su numerosi possibili sviluppi seriali del personaggio dell’Assassino. Nella cartella 43bis0472 intitolata “Indagine più che perfetta”, attaccata con una graffetta alla traduzione della sceneggiatura di Schrader citata nella lettera, c’è una scaletta di Pirro per un soggetto ambientato a New York, che, nella versione contenuta in 43 bis 0467, è datato 4 giugno 1985, mentre sul documento di cui ci stiamo occupando la scritta “Giugno 85” è cancellata e sostituita con “Ultima versione”. Gli elementi narrativi di partenza di questo soggetto hanno anche un’ambientazione italiana, “Alibi imperfetto”, risalente al 1977 e che è stato anche pubblicato, come ha notato Luca Peretti (2018), nel volume Sei soggetti per il cinema (1984). La relazione tra i due soggetti è esplicitata dallo stesso Pirro che, sul frontespizio di “Alibi imperfetto” contenuto nella cartella 43 bis 0474, scrive “Versione italiana di Indagine più che perfetta”.
In entrambe le ambientazioni, Falchi/Parker, un ex poliziotto diventato investigatore privato – nella versione italiana viene esplicitato il suo precedente incarico presso l’Ufficio Politico della Questura di Roma – viene ingaggiato da un misterioso uomo, Sales/Singer, perché conduca un’indagine su di lui in modo da procuragli sempre un alibi in tutti i momenti della giornata. Da subito, l’investigatore si convince della colpevolezza di Sales/Singer, iniziando una gara con sé stesso ma anche con il cliente, di cui diventa quasi un doppio, per provarne la colpevolezza: da ligio uomo di legge arriva anche a compiere atti criminali per incastrarlo. Entrambe le versioni condividono, quindi, un protagonista incline in modo paranoide al sospetto, anche di tipo sessuale, in quanto maniacalmente geloso della (ex) moglie. La storia italiana prende una direzione poliziesco-terroristica (il committente è effettivamente un brigatista) con vari elementi che vengono riutilizzati dalla prima stesura della sceneggiatura di Indagine (la morte del protagonista) e altri (come le riunioni della cellula brigatista sui treni, il sequestro di un politico) che saranno riutilizzati per l’adattamento di Nucleo Zero (1984) che Pirro scrisse insieme al regista Lizzani. La versione americana prende, invece, una direzione a metà strada tra il thriller erotico e il giallo-rosa in cui l’investigatore privato viene aiutato dalla ex-moglie nell’indagine sull’efferato omicidio di una piacente donna olandese, Ulrike Smell. La donna viene ritrovata in una lunga vestaglia da mattino con la gola tagliata nel suo appartamento (senza che la serratura sia stata forzata) all’interno dello stesso edificio dell’ufficio di Parker, proprio mentre Singer è nello stabile. Quello che colpisce è che, anche in questa versione internazionale, se confrontata con quella italiana, si possa cogliere, in controluce, il giudizio di Pirro sulla sceneggiatura di “Investigation”: nell’ambientazione americana ogni riferimento al terrorismo viene eliminato per concentrarsi maggiormente su un modo di vedere gli Stati Uniti come luogo desiderabile, pericoloso ma affascinante, costruito facendo appello ad un immaginario comune di luoghi e di percezioni sulla nazione americana.
Ricevere la sceneggiatura di Schrader può aver indotto Pirro a tirare fuori dal cassetto “Indagine più che perfetta”, datata inizialmente giugno 85, e farne un’ “ultima versione” come è scritto sulla scaletta attaccata alla sceneggiatura di Schrader? O il fatto che siano messe in relazione all’interno dell’archivio deriva semplicemente dalla comune discendenza da Indagine? Certo è che nella cartella 11bis.0095, riferita al progetto televisivo “Morte di un professore”, si trovano anche alcuni appunti riferibili ad Indagine, il cui titolo appare abbinato a “Investigation”, sottolineato (Fig. 6).
Che ci sia o meno un collegamento diretto tra la sceneggiatura di Schrader e i soggetti e trattamenti di Pirro, la mia indagine imperfetta evidenzia il tentativo dello sceneggiatore italiano di serializzare, attraverso la dialettica tra ripetizione e cambiamento, l’Assassino. “Indagine più che perfetta” e “Alibi imperfetto” non sono, infatti, esempi isolati. In “Indagine su un cittadino al di sotto di ogni sospetto” (ABIS.0818) ritroviamo “il dottore, come tutti lo chiamavano alla squadra politica di Roma”, che “dopo aver confessato la sua innocenza nonostante avesse provato di essere l’assassino della signora Terzi” (1), viene trasferito alla Squadra Omicidi di Palermo e deve occuparsi di un delitto di mafia, il cui esecutore lascia volutamente indizi per provare la sua insospettabilità. In “Grand Hotel del delitto” (43bis.0468), soggetto per uno sceneggiato giallo in quattro puntate, il concetto di insospettabilità e la consueta maschera dell’ispettore/assassino sono rilevanti per la risoluzione del mistero.
Questi tentativi di serializzare all’interno di narrazioni gialle un personaggio diventato immediatamente evocativo del cinema d’autore italiano, lo riportano, come l’analisi de Il bivio ha messo in luce, alla sua origine di genere.
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Recensioni de Il bivio
Avanti! 4 maggio 1951.
La Stampa 28 aprile 1951 (annuncio prima).
La Stampa 4 maggio 1951.
L’Europeo 20 maggio 1951.
Filmcritica 2(8), settembre 1951.
Il Corriere della Sera 26 luglio 1952.
Cinema 92, agosto 1952.
Settimo giorno 6 agosto 1952.
Hollywood 9 agosto 1952.
Tempo 9 agosto 1952.
Novellizzazioni e Cineromanzi tratti da Il bivio
“Il bivio”. Chérie Roto-film 8.
Tavalda, Primo (1950). “Il bivio”. Novelle Film 151: 2–4.
Archivi e materiali consultati
Fondo Fernando Cerchio, Bibliomediateca “M. Gromo”, Archivio Storico del Museo del Cinema di Torino
Il bivio, riassunto del trattamento, SNFC 3.
Il bivio, sceneggiatura, SNFC 4. La sceneggiatura differisce dal girato in diversi punti che sono stati soppressi o montati in momenti narrativi differenti: in particolare i primi due blocchi narrativi (Marchi che si reca in Questura per prendere servizio/Marchi che si reca dalla sua banda) sono invertiti nel girato, diverse scene in cui si spiega la preparazione dei crimini sono state eliminate e dove l’azione diventa più serrata, la stessa ricerca dell’assassino nell’indagine dell’omicidio della moglie della guardia viene accorciata, sacrificando le ambizioni di documentazione sociale del copione.
Fondo Elio Petri, Bibliomediateca “M. Gromo”, Archivio Storico del Museo del Cinema di Torino
- Otto pagine dattiloscritte, datate 10 aprile 1969, suddivise in “Appunti sul soggetto di Ugo” e “Scaletta sul soggetto di Ugo” riguardanti Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, ELPE 22.
Fondo Ugo Pirro, Biblioteca “Renzo Renzi”, Cineteca di Bologna
Fogli di sceneggiatura manoscritta di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, 31.0305.
Appunti per “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, 31.0306.
Trattamento dattiloscritto di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, 31.0311.
Trattamento dattiloscritto e manoscritto di “Indagini su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, 31.0308.
Paul Schrader, sceneggiatura di “Investigation”, 43bis.0473.
Lettera di Ugo Pirro a Andron (Andrej Konchalovskij), 43bis.0473.
Scaletta di “Indagine più che perfetta” (ultima versione), 43bis0472.
Scaletta di “Indagine più che perfetta” (4 giugno 1985), 43 bis 0467.
Soggetto di “Alibi imperfetto”, 43 bis 0474.
Progetto per uno sceneggiato televisivo “Grand Hotel del delitto”, 43bis.0468.
Soggetto di “Indagine su un cittadino al di sotto di ogni sospetto”, ABIS.0818.
Archivio Centrale dello Stato, Roma. Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Direzione Generale dello Spettacolo. Certificazione di nazionalità italiana
Fondo CF, busta 12, CF852, Contro la legge.
Fondo CF, busta 19, CF1030, Il bivio. Nel fascicolo non è presente la sceneggiatura, che non è nemmeno conservata presso il fondo sceneggiature dell’Archivio Centrale dello Stato né presso la Biblioteca Chiarini, Roma. Nel fascicolo è invece presente lo stesso riassunto del trattamento conservato presso il Fondo Cerchio, Bibliomediateca “M. Gromo”, Torino, citato in precedenza. Nel frontespizio di questo riassunto non compare il nome di Calogero Marrocco che è, invece, aggiunto a mano nella copia del Fondo Cerchio.
Fondo CF, busta 690, CF5821, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.
Cine Censura
Fascicolo su Il bivio https://cinecensura.com/wp-content/uploads/1951/07/Il-bivio-Fascicolo.pdf (ultimo accesso 15-06-2024).
Fascicolo su Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto https://cinecensura.com/wp-content/uploads/2017/07/Indagine-su-un-cittadino-al-di-sopra-di-ogni-sospetto-1%5E-Edizione.pdf (ultimo accesso 15-06-2024).
Fernando Cerchio (1914-1974) si affermò inizialmente durante il ventennio fascista come regista di documentari e cartoni animati con cui partecipò a diverse edizioni dei Littoriali. Allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia, esordì nella regia di film a soggetto nel 1943 con La buona fortuna. Il bivio è il suo terzo lungometraggio a cui seguirono film di genere peplum e spionistico, oltre a tre pellicole con Totò.↩︎
Si rimanda alla sezione bibliografica per una descrizione dei materiali d’archivio consultati.↩︎
Film come Ai margini della metropoli (Carlo Lizzani, 1952), Art. 519, Codice Penale (Leonardo Cortese, 1952), Cronaca di un delitto (Mario Sequi, 1953), Le due verità (Antonio Leonviola, 1951), Gioventù alla sbarra (Ferruccio Cerio, 1953), Processo alla città (1952) e Il magistrato (1959), entrambi di Luigi Zampa, Processo contro ignoti (Guido Brignone, 1952) sono costruiti come contro-processi alle verità ufficiali raggiunte nelle aule di tribunale.↩︎
Il rapporto di Aldo con Giovanna è caratterizzato da un certo infantilismo, sottolineato dalla musica della filastrocca “Madama Doré” ogni volta che i due personaggi sono insieme, ma non è esente da un certo elemento di sfida sessuale della donna nei confronti dell’uomo, come si può cogliere nella battuta che irritò la censura, ma fu infine mantenuta nel film girato: “Per essere un poliziotto baci bene!” (SNFC 4:47). Nonostante le recensioni del tempo abbiano valutato soprattutto la fisicità dell’attrice, il personaggio di Giovanna è interessante perché vuole essere trattata alla pari da Aldo ed essere coinvolta nei suoi “sporchi guai” (SNFC 4: 203, nel girato “sporchi affari”).↩︎
Nel primo trattamento di Indagine conservato presso il Fondo Pirro (31.0308), tuttavia, l’Assassino non ha un atteggiamento così atto a provare di essere al di sopra di ogni sospetto e, anzi, dichiara di non voler essere notato e pulisce attentamente le sue scarpe, invece di lasciare volutamente le impronte insanguinate e il filo della cravatta, come nel trattamento 31.0311 e nel girato.↩︎
Calogero Marrocco era stato capo della Squadra Mobile di Roma nel 1945, stesso anno in cui l’Alto Commissario per le Sanzioni contro il Fascismo aveva archiviato un procedimento a suo carico. Nella scheda di revisione preventiva di un altro film alla cui sceneggiatura Marrocco aveva collaborato, Contro la legge (Flavio Calzavara, 1949), veniva particolarmente apprezzato il suo contributo, descritto come un lavoro di “mani esperte” che, senza svelare i segreti della Mobile, ne indica i modi di indagine: “Un ‘giallo’, quindi, ma condotto abilmente, alla buona e senza inutili truculenze” (CF 852).↩︎
https://cinecensura.com/wp-content/uploads/1951/07/Il-bivio-Fascicolo.pdf (ultimo accesso 15-06-2024).↩︎
Utilizzo il termine censura seguendo l’avvertimento di Tomaso Subini (2021: 3, nota 5) che, sebbene il termine non compaia nei testi di legge coevi, come la legge 161 del 1962, è comunque molto diffuso nei documenti ufficiali e nei dibattiti parlamentari, non solo da parte dell’opposizione ma dalla stessa compagine governativa.↩︎
https://cinecensura.com/wp-content/uploads/2017/07/Indagine-su-un-cittadino-al-di-sopra-di-ogni-sospetto-1%5E-Edizione.pdf (ultimo accesso 15-06-2024).↩︎
La denuncia contro il film di Petri è indice dell’attivismo della magistratura che, come documenta Subini (2021), tende a volersi sostituire alla censura amministrativa in seguito all’approvazione della legge 161 del 1962.↩︎
Dei tre trattamenti presenti nel fondo dello sceneggiatore, questo, datato 1969, è il più lungo ed è l’unico interamente dattiloscritto e rilegato con copertina da cui si deduce essere una fase piuttosto avanzata dell’elaborazione. La versione 31.0308, invece, le cui ultime parti sono manoscritte, e che è chiaramente antecedente perché le correzioni vengono recepite nella versione interamente dattiloscritta, ha un finale ancora diverso in cui l’Assassino bacia Rosa, una sua nuova conquista, sembrandogli, tuttavia, di avere tra le braccia Augusta. Questa versione è quella su cui Petri abbozza la “Scaletta desunta dal soggetto di Ugo”, conservata presso il Fondo Petri della Bibliomediateca “M. Gromo” di Torino, con la collocazione ELPE22: “Fanno l’amore ed egli vede nella donna l’immagine di Augusta” (p. 8).↩︎
Queste informazioni sono desunte dalla corrispondenza personale intercorsa con Paul Schrader e Austin Trunick, autore di The Cannon Film Guide. In una mail del 23 novembre 2022, Schrader, alla mia domanda sull’origine del progetto del remake, scrive: “It was written for Pacino and Konchalovsky. It fell apart when Menachen Gotlan (sic) took out a full page ad at Cannes without Al’s approval. That’s what I was told”, mentre la spiegazione di Trunick è più elaborata e mette in relazione il mancato accordo tra Pacino e la produzione sulla sceneggiatura di American Buffalo che, a cascata, lo spinse a cancellare ogni impegno con la Cannon: “Pacino deal with Cannon was already falling apart – Pacino wanted a rewrite of American Buffalo, but David Mamet would not allow changes, and so Cannon was unable to reach an agreement to make that film. By November 1986, Pacino had also dropped out of Investigation” (email del 28 novembre 2022). La sceneggiatura conservata nel fondo Pirro differisce leggermente da quella, successiva, inviatami da Trunick e datata 8 maggio 1987, con un significativo cambio delle pagine 60-62, in cui la scena dove Karin e Ria fanno sesso davanti a Jude è spostata da un’ambientazione balneare, come nel film di Petri, all’interno dell’appartamento di Karin, dove Jude è letteralmente “in the closet” e osserva i due amanti. Per la pubblicità del film si veda, per esempio, l’annuncio su Variety del 22 ottobre 1986 in cui figura ancora il nome di Pacino e che sembrerebbe, quindi, far propendere per la spiegazione di Trunick.↩︎