Il progetto editoriale Atlante del cinema queer contemporaneo, come racconta nell’introduzione il curatore Andrea Inzerillo, nasce all’interno delle esperienze maturate dal Sicilia Queer filmfest nelle sue ormai numerose edizioni. L’Atlante si pone allora come guida, riflessione e autoriflessione rispetto al cinema queer contemporaneo. Guida, perché gli otto saggi che lo compongono permettono di tracciarne la storia, la geografia e i percorsi degli ultimi vent’anni. Riflessione, perché l’obiettivo principale del volume è quello di interrogarsi sullo stato dell’arte del cinema queer, in special modo presente e futuro. Autoriflessione, perché le prospettive che convergono nella raccolta provengono non solo da chi si occupa di critica, ma anche da chi si dedica alla diffusione della cultura cinematografica.
Ragionare oggi sul cinema queer pone una serie di sfide. La prima riguarda la dimensione geografico-culturale. Nell’introduzione, Inzerillo ricorda che la raccolta offre uno sguardo geograficamente orientato sull’Europa occidentale, consapevole che, come sottolinea Nuria Cubas nel suo saggio sul cinema spagnolo, “nel contesto globale del XXI secolo l’idea di un cinema nazionale va perdendo forza” (p. 187). L’Atlante prende dunque su di sé l’arduo compito di offrire un quadro sia circoscritto sia globale, su esperienze culturali e spaziali che si articolano in un mondo in cui le determinazioni culturali e spaziali subiscono processi di risignificazione complessi e pervasivi.
C’è, poi, intimamente legata alla natura di tali processi, la definizione del concetto di queer: trattarlo in modo scientifico reclama precisione, ma il queer rifugge l’esattezza per sua stessa natura. A ragione Cubas parla di “anti-modelli” (p. 188): il queer è un’entità trasformativa, fantasmatica, rifrangente; contiene tutto e niente senza ridursi né all’uno né all’altro, ed è materia che torna su sé stessa in una costante e frenetica risemantizzazione. L’Atlante offre un esempio calzante di tutto ciò: ciascunǝ autorǝ si pone in relazione al queer e alla queerness secondo la propria interpretazione, in un gioco di percezioni e proiezioni che conferma il trionfo della natura trasformativa dell’argomento. Fra i vari approcci emerge però una linea comune nell’isolare come nucleo fondativo del queer la tensione verso la dinamicità e l’apertura. In ultima analisi viene privilegiata la sua finalità comunicativa, auspicando che imprima movimento e trasformazione non solo sulla propria materia ma anche sulla realtà circostante. Ciò presenta un’intrinseca valenza non soltanto artistica, ma anche politica, in quanto allontana la tentazione di rifugiarsi in mondi che esistono solo per sé stessi, rassicuranti, fatti di proiezioni e particolarismi.
È quanto scrive Mario Psaras nel suo saggio dedicato alla Greek Weird Wave, quando, citando Emmanuel Lévinas, parla dell’importanza di “preservare l’irriducibile alterità dell’Altro” (p.103) ma anche di contestualizzarla, cercando modi più etici di parlare di corpi e identità senza incasellarli. È sicuramente un compito non semplice: tutti gli scritti della raccolta fanno riferimento alle resistenze del binarismo e dell’omonormatività, nonché alla tanto frequente quanto errata tendenza a far coincidere queer culture con gay culture. L’impressione generale è che a trattare di “vere” identità in transito sia l’ultima generazione, con un ricorso ad approcci intersezionali (e al queer in quanto fattore di intersezionalità) che utilizzano lo straniamento sia come dispositivo critico responsabilizzante sia come espediente formale. È il caso della Germania, con registǝ come Kutluğ Ataman e Susanne Heinrich.
Si potrebbe altresì parlare di un principio di fondo, piuttosto che di correnti e opere integralmente queer: l’Atlante evidenzia infatti come le prospettive queer siano spesso discontinue. In particolare, il saggio di Cüneyt Çariklar e Gary Needham parla di cinema britannico in termini di queer relay e relay system. Secondo la definizione di Lisa Henderson si tratta di un “sistema di staffette” che “mobilita il valore politico e discorsivo della queerness oltre le distinzioni mainstream/alternativo, egemonico/non-normativo e centrale/marginale” (p. 154). Al queer viene dunque riconosciuta un’agentività trasversale che può manifestarsi indipendentemente dal contesto e al di fuori di quelli che sono considerati i suoi spazi d’elezione.
Sulla scia di una simile trasversalità il volume individua alcune tendenze, strade più o meno battute dal cinema queer del secondo millennio. Su tutte prevale una generale riconsiderazione dello sguardo, nonché dei concetti di spazio e alterità. Così si impongono, ad esempio, i temi della decolonizzazione e della deterritorializzazione, entrambi riferibili sia agli spazi tangibili sia a quelli dell’immaginario. C’è chi, concentrandosi sulla riappropriazione degli spazi, sceglie la strada del realismo e del documentario: si veda l’ampia produzione tedesca sui rapporti tra Germania Est e Germania Ovest. Ma c’è anche chi, guardando alle narrazioni socioculturali, prova a riscrivere la Storia o quantomeno a entrarvi in dialogo. È il caso del cinema heritage britannico, volto a “sovvertire il genere dall’interno delle sue stesse convenzioni estetiche” (Çariklar, Needham, pp. 165-166), ma anche dell’anarchia dei film di Albert Serra in Spagna. Inevitabile, in questo senso, è anche parlare di autopercezione dei singoli Paesi: contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sono spesso quelli che si reputano più accoglienti (Germania, Francia) a lasciare meno spazio alle realtà marginali, cercando spesso di assorbirle attraverso un controllo verticale pressoché totale sui sistemi di finanziamento.
Un’altra conseguenza della messa in discussione degli sguardi e delle narrazioni dominanti è l’avvertimento di confini più sfumati fra alto e basso, cultura ufficiale e cultura pop, nonché una generale necessità di sostituire dicotomie-binarismi quali centro/periferia, presenza/assenza, finito/infinito, oltre all’ovvio binarismo di genere. È particolarmente forte la rivendicazione della leggerezza, nonché la depatologizzazione di corpi ed esistenze che, come in Attenberg di Athina Rachel Tsanagari, si rifiutano di percepirsi ed essere percepite solo come identità oggettive e definite. I corpi prendono possesso della scena, affermando la loro anarchica centralità in quanto soggetti a sé stanti ma anche contemplando la possibilità del proprio contrario. La morte, la mutilazione, i fantasmi, in generale il non-corpo pone la questione dell’essere umano come creatura liminale tra sensibile e soprasensibile, tra corpo e identità, col significato performativo di quest’ultima che viene ora accolto (Hong Khaou) ora respinto (Yorgos Lanthimos). È soprattutto attraverso il corpo che il cinema queer ripensa il proprio rapporto con l’immagine, proponendo innumerevoli interpretazioni. In generale si può parlare di un intenso scambio fra immagine e corpo, perfino di corpi che si fanno immagine, come quelli di João Pedro Rodriguez.
Da ultimo, l’Atlante propone un’interessante visione sul futuro del cinema queer (o del queer nel cinema?) riflettendo sulla zona grigia tra ufficialità e non ufficialità in cui si è sempre mosso. Il rapporto del cinema “alternativo” col proprio status di prodotto e con i propri stessi risvolti capitalistico-individualisti è sempre stato complesso e problematico. Ma, ora più che mai, gli addetti ai lavori sono chiamati a confrontarsi con una realtà fluida, sia in termini di produzione sia in termini di fruizione. Per dirla ancora con Henderson, pare ormai necessario riconoscere che “produttori e pubblico possono muoversi nel raggio di una medietà culturale dove le scelte non sono così vincolate dall’egemonia del capitale rispetto alla sovversione a costo zero”, nel contesto di “un mondo non formato sulla base di un calcolo anacronistico in cui le ambizioni espressive […] di produttori culturali outsider sono visti con sospetto, o per essere venduti all’ambizione del settore o per aver manifestato l’autonomia culturale queer” (p. 154). Il volume propone dunque di ripensare anche questa specifica accezione dell’opposizione ufficialità/non ufficialità, ponendo al primo posto la funzione comunicativa e di rottura del cinema queer e lasciando che questo si appropri liberamente e creativamente degli spazi.