1 Introduzione
La nascita nel 1965 della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro si inserisce in quell’articolato processo di trasformazione che investì il cinema a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, provocando una serie di importanti cambiamenti in diversi ambiti della cinematografia, dalla produzione alla fruizione, dalla riflessione teorico-critica al ruolo dei festival, fino a interessare il linguaggio filmico stesso. L’emergere della Nouvelle Vague francese prima, e delle varie onde nazionali (europee ed extraeuropee) dopo, determinò un’affermazione significativa del nuovo cinema1 e una inedita centralità nel dibattito critico della cosiddetta “politica degli autori”, che ritagliava per la figura del regista un ruolo sempre più determinante, in contrapposizione ad altri soggetti che fino a quel momento avevano rivestito una funzione non secondaria, se non addirittura in molti casi preminente, nel percorso che portava alla nascita e alla diffusione dei film: l’industria cinematografica, i produttori, il mercato, gli sceneggiatori, i divi, i grandi festival.
Questo processo di rigenerazione si manifestava, usando le parole di Pescatore, attraverso “una rete di incontri, scambi, confronti, dibattiti e visioni collettive che a livello internazionale vide impegnati cineasti, intellettuali, studiosi e critici, e non ultimo un pubblico che cominciava a diversificare le proprie richieste” (2002: 521). I festival cinematografici che nascevano in quel momento storico si proponevano di posizionarsi al centro di questo rinnovato dibattito a sostegno sia degli autori emergenti che sull’onda delle trasformazioni in atto sperimentavano forme inedite, sia delle cinematografie nazionali extra-europee che cominciavano a uscire dal loro storico isolamento (si parlerà di lì a breve di cinema terzomondista), sia infine delle riflessioni teoriche e pratiche sulla produzione e sulla distribuzione del nuovo cinema. Erano manifestazioni che muovevano i primi passi in netta e dichiarata opposizione con i festival istituzionali di Venezia e Cannes, e più in generale con il panorama dei festival europei tout court (de Valck 2007) accusati di non essere in grado di accogliere e sostenere le novità che stavano attraversando e rivoluzionando il linguaggio cinematografico, per restare invece insabbiati in un’idea di cinema piegata al consumismo, al conformismo tematico e formale, all’ideologismo ufficiale – si stavano, insomma, delineando le caratteristiche di un nuovo modello festivaliero che nel corso degli ultimi anni si è voluto indicare, all’interno dei cosiddetti Film Festival Studies, con il termine “antifestival”.2
In questo quadro così brevemente delineato, si inserisce l’esperienza innovativa e di rottura rispetto al panorama festivaliero mondiale di due manifestazioni nate in Italia negli anni Sessanta, che saranno modelli di riferimento sia pratici che teorici per la Mostra di Pesaro. Il riferimento è alla Rassegna di Cinema Latino-Americano di Santa Margherita Ligure (poi trasferita a Sestri Levante e a Genova) e alla Mostra Internazionale del Cinema Libero di Porretta, nate entrambe nel 1960 – esperienze che rappresentano momenti molto significativi, nonostante la loro marginalità e brevità temporale di azione, in quanto gli organizzatori, sostenuti da uno spirito pioneristico e di ricerca, riusciranno a dare vita a “un primo luogo di incontro e di dibattito in cui interessi eterogenei ed esperienze cinematografiche e critiche differenti si confrontavano concretamente con le nuove forme cinematografiche di quasi tutto il cinema contemporaneo” (Pescatore 2002: 521). In un breve lasso di tempo che va dal 1960 al 1965, anno di avvio dell’esperienza pesarese, si delineano alcune delle caratteristiche più rilevanti che contraddistingueranno queste nuove tendenze festivaliere: la costruzione di una struttura organizzativa orizzontale capace di dialogare allo stesso tempo con pubblico e addetti ai lavori, la scelta di una programmazione tematica, la preferenza accordata alle retrospettive, l’attenzione per le tavole rotonde e per la pubblicazione di testi informativi, il dialogo aperto con discipline e teorie nuove (la semiotica, la sociologia, lo strutturalismo), l’abolizione di premi e giurie, l’attenzione alle filmografie altre e alle opere prime.
Uno degli aspetti maggiormente caratterizzanti del festival pesarese, che diventerà nel corso degli anni una sorta di marchio di fabbrica della Mostra, è l’organizzazione di tavole rotonde e incontri tematici – una scelta che rende manifesta sin dalla prima edizione la volontà da parte degli organizzatori di sviluppare intorno all’evento festivaliero un dibattito che accompagnasse e arricchisse la proiezione dei film. Le tre tavole rotonde degli anni 1965-1967 dedicate a una rinnovata riflessione critica a proposito della natura del linguaggio filmico ebbero un significativo impatto sulla cultura cinematografica sia nazionale che internazionale dell’epoca. È sufficiente scorrere l’elenco degli interventi per constatare come il festival fosse stato capace di riunire a Pesaro alcuni tra i più brillanti intellettuali di quegli anni per dare vita a un dibattito estremamente articolato: tra gli altri, erano presenti Pier Paolo Pasolini, Christian Metz, Roland Barthes, Umberto Eco, Galvano Della Volpe3 (Miccichè 1989; Pescatore 2002: 522-523).
Questo articolo intende invece approfondire una vicenda meno conosciuta: in parallelo alle tre notorie tavole rotonde, il festival organizzò altrettanti convegni dedicati ad aspetti più pratici ma, a nostro avviso, non meno interessanti, che sono rimasti nell’ombra, sia per la loro natura eminentemente tecnica, sia perché oscurati dalla grande attenzione di stampa e di studi che invece ebbero le tavole rotonde sul linguaggio cinematografico. Nel 1965 i temi affrontati furono la produzione e la circolazione internazionale del nuovo cinema, mentre nel 1966 si scelse di approfondire unicamente le questioni relative alla distribuzione e alla circolazione dei film, tralasciando l’aspetto produttivo. Nel 1967 il convegno coincise con il primo congresso del “Centro Internazionale per la Diffusione del Nuovo Cinema”, che era nato a conclusione della tavola rotonda dell’anno precedente, e che si poneva, come vedremo, l’obiettivo di dare vita a un sistema alternativo di distribuzione cinematografica. La ricerca condotta all’interno dell’archivio della Mostra conservato a Pesaro ha portato infatti alla luce un’interessante attività del festival di cui poco o nulla si è detto in ambito critico e nelle storie dei festival cinematografici, e cioè il tentativo che la Mostra mise in atto tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta di costruire una rete distributiva per i film che passavano da Pesaro, coinvolgendo cineclub, sale specializzate, distributori e appassionati. La consultazione dell’archivio ha consentito di ricostruire, seppure in maniera parziale, il contenuto di questi incontri attraverso lo studio di materiali inediti di varia natura (ciclostili preparati dal festival per i partecipanti al convegno, trascrizioni e traduzioni degli interventi, lettere, ritagli di giornale, comunicati stampa).4
La scelta di tale caso di studio appare interessante essenzialmente per due motivi. Il primo riguarda la possibilità che esso ci offre di dare rilevanza alla vicenda storica degli antifestival italiani in quanto incubatori di progetti culturali innovativi, dinamici, aperti ai cambiamenti, capaci in parte di assecondare e in parte di innescare traiettorie inedite di azione da parte degli autori, dei critici, degli operatori del settore. Il secondo riguarda il problema della distribuzione del nuovo cinema poiché l’interesse degli organizzatori per questo aspetto della vita del film ci mette di fronte a un festival capace di pensarsi e di proporsi non solo come contenitore di prodotti culturali per un breve periodo di tempo, con cadenza annuale e in un determinato luogo, ma come un’istituzione viva che vuole agire su una scala temporale e spaziale molto più ampia: una riflessione che, a più di cinquant’anni di distanza dai fatti analizzati, appare di notevole interesse se messa in relazione al ruolo culturale e alle scelte artistiche e organizzative che i festival cinematografici (siano essi di fascia A, tematici o di ricerca) provano a mettere in campo nella nostra contemporaneità.
L’articolo intende mettere in rilievo la spinta innovatrice che la Mostra di Pesaro rappresenterà storicamente nel quadro degli antifestival italiani, e più in generale in quello dei festival tout court, utilizzando il caso di studio della rete di distribuzione cinematografica pensata e realizzata dal festival, per rimarcare la tensione della Mostra verso il superamento del carattere evenemenziale tipico delle manifestazioni cinematografiche, a favore invece di un modello nuovo di festival “permanente”. L’analisi delle azioni realizzate dalla Mostra a favore del nuovo cinema innesca, inoltre, altre domande e riflessioni circa le istanze che hanno determinato le scelte (pratiche e retoriche) fatte dagli organizzatori del festival – per un verso in un’ottica di distinzione e competizione rispetto agli altri festival nazionali e internazionali, per altro verso nella prospettiva di un discorso di legittimazione del proprio ruolo culturale, che ci spinge a indagare le forme di autopoiesi5 pensate e realizzate dalla Mostra nel corso delle sue attività.
2 “Produzione e circolazione del Nuovo Cinema”: il convegno del 1965
Il programma della prima edizione della Mostra di Pesaro presenta, oltre alla proiezione di una trentina di film tra lungometraggi e cortometraggi e a un focus sul nuovo cinema cecoslovacco, una tavola rotonda dal titolo “Critica e nuovo cinema” (con interventi, tra gli altri, di Pier Paolo Pasolini, Gianni Toti, Paolo e Vittorio Taviani, Milos Forman) e un convegno dal titolo “Produzione e circolazione del Nuovo Cinema” (due giorni di incontri, il primo dedicato alla produzione e il secondo alla distribuzione), curato dal regista e critico Gianni Amico6 e da Louis Marcorelles, uno dei critici più attivi dei Cahiers du Cinéma e tra i fondatori della Semaine de la Critique di Cannes (nata solo tre anni prima).
Nel programma della Mostra il convegno viene così presentato:
Una nuova realtà si profila nel mondo: grazie alla evoluzione della tecnica e all’affermarsi di idee che rivendicano il diritto all’autonomia creativa per gli autori, il cinema comincia ad affrancarsi dai vincoli restrittivi dell’industria. Naturalmente, non sfugge alle leggi dell’economia, anche se anela ad essere soprattutto mezzo di conoscenza critica; non ignora i problemi connessi alla nascita di un mercato che gli permetta di sopravvivere e riprodursi; non trascura l’esigenza di organizzare un pubblico e suscitare un clima favorevole all’accoglimento delle opere cinematografiche culturalmente più stimolanti. In breve, è consapevole che deve determinare condizioni e strutture che ad un tempo garantiscano sia la libertà dei cineasti, sia la libertà dello spettatore, attualmente menomata da un sistema mercantile che si preoccupa soltanto di conseguire il massimo profitto e sovente di conseguirlo indulgendo a formule stantie, destinate prima o poi a esaurirsi (AMINCP 1965a: 43).7
Queste premesse “ideologiche” esplicitano il contesto di rottura incarnato dalla Mostra di Pesaro rispetto al cinema tradizionale e ai festival istituzionali,8 ed evidenziano l’esplicita volontà da parte degli organizzatori di rendere il festival un luogo di attività culturale e formativa attivamente operante nel contesto cinematografico internazionale. Il convegno è pensato, dunque, come un incontro non teorico ma pratico e organizzativo, volto alla condivisione di esperienze che riguardano i tre momenti della produzione, della circolazione e del consumo di film. I protagonisti di questo processo che il convegno si propone di far incontrare e di mettere in connessione sono “case produttrici che ispirano i loro programmi a intenti spregiudicati, catene di cinémas d’art e d’essai, federazioni di cineclubs, centri cinematografici universitari e popolari, piccole società distributrici che dispongono di repertori qualitativamente selezionati, circuiti minori o specializzati” (AMINCP 1965a: 43). Il festival riconosce in questi attori una forza vitale dall’altissimo potenziale che difetta solo di organizzazione e coordinamento – una forza destinata a crescere in un quadro complessivo che vede il cinema autoriale sempre più protagonista, accompagnato da un pubblico sempre più maturo ed esigente. L’obiettivo è di “costruire un coordinamento permanente di un cinema libero”, e cioè di un cinema che non sia più “concepito come strumento consolatorio e anestetizzante”: una netta scelta di campo fatta propria dal festival, che assegna dunque a se stesso il ruolo di guida di queste sparse realtà e la missione di “censire le situazioni produttive, promuovere scambi di film, allacciare legami, agire insieme affinché sia circoscritta la zona, all’interno della quale prende corpo un’alternativa che fornisce agli autori un porto franco per la loro attività e al pubblico una scelta meno condizionata dalle dominanti regole commerciali” (AMINCP 1965a: 43).
Oltre alla presentazione del convegno pubblicata nel programma del festival, si possono consultare in archivio, catalogati sotto la dicitura “Documentazione critica”, diversi ciclostili realizzati dal festival per essere distribuiti ai partecipanti durante le giornate della Mostra, e che riportano le relazioni per intero o le sintesi di alcuni degli interventi, grazie ai quali è possibile ricostruire il dibattito che si svolse durante il convegno (AMINCP 1965b: 49). La seduta prende il via con l’intervento di Marcorelles, il quale tenta di definire la nozione di cinema indipendente e le condizioni (economiche, tecniche, politiche) necessarie a conservare questa indipendenza. Tra i successivi interventi, si segnala (in particolare per la panoramica che ci restituisce del sistema produttivo italiano) quello di Tullio Kezich, scrittore e critico cinematografico, invitato a parlare in qualità di fondatore e animatore artistico della società di produzione milanese 22 Dicembre. Dopo aver ricostruito brevemente la storia della società nata a seguito della diffusione del tecnofilm e della cinematografia applicata all’industria (fortemente sostenuta dalla società Edisonvolta), e dopo aver ricordato alcuni titoli prodotti – I fidanzati di Ermanno Olmi (1963), I basilischi di Lina Wertmüller (1963), Il terrorista di Gianfranco De Bosio (1963) e una collaborazione nella serie televisiva di Roberto Rossellini L’età del ferro (1964) –, Kezich racconta delle difficoltà economiche a cui la società è andata presto incontro nonostante i numerosi riconoscimenti della critica e i premi raccolti in Italia e all’estero, tanto che i numeri negativi del botteghino hanno portato nel giro di qualche anno all’inattività della 22 Dicembre:
Dentro le attuali strutture del cinema italiano […] l’intelligenza è un marchio d’infamia. Nessuno ti compensa per il rischio che ti assumi, le velleità culturali devi finanziartele da solo. Di fronte alle ferree leggi dell’economia se fai un film che tenta di avviare un qualsiasi discorso indipendente, artistico, utile, parti con un handicap rispetto agli speculatori che montano cappelloni con sparatorie di seconda mano o spogliarelli deprimenti. È difficile perciò trovare nei produttori sostegno, comprensione, amore del rischio (AMINCP 1965b: 49).
Di fronte a un quadro così desolante, Kezich non ammaina però le vele del nuovo cinema ma propone di percorrere strade inedite, soprattutto a livello distributivo, che possano portare alla creazione di un mercato globale per il film d’autore, per evitare che i prodotti di qualità siano costretti a interfacciarsi inutilmente con i vecchi e miopi circuiti convenzionali. Secondo Kezich è necessario “uscire dal dialetto, in senso metaforico, e cominciare a pensare in termini universali”, bisogna “proporsi il mondo come mercato e distribuire il rischio” puntando ai cinema d’essai internazionali e alla creazione di “nuove leve di propagandisti, di venditori, di esercenti”. Kezich avverte, parimenti, che tocca anche ai nuovi autori fare la propria parte: è infatti essenziale che “cerchino il linguaggio più aderente al mezzo, avvertano le dimensioni universali del cinema e il problema della diffusione dei loro film come un problema di vita o di morte”, così come è essenziale evitare di “farsi sopraffare dalla macchina del cinema, ma contribuire giorno per giorno a modificarla”, perché – conclude – il nemico del cinema indipendente non è soltanto fuori ma anche dentro il cinema indipendente stesso, e si chiama “intellettualismo, donchisciottismo, superficialità, egocentrismo, megalomania, dilettantismo” (AMINCP 1965b: 49).
Il successivo intervento del regista Lindsay Anderson parte dalla ricostruzione della storia del Free Cinema inglese, movimento culturale a forte vocazione sociale e politica, da lui stesso fondato alla metà degli anni Cinquanta in contrapposizione al cinema tradizionale britannico e alla sua rigida industria cinematografica. Anderson ricorda la battaglia della critica portata avanti dal movimento e lo sforzo per diffondere in patria il nuovo cinema di quegli anni (fa i nomi di François Truffaut, Claude Chabrol, Lionel Rogosin), e sottolinea quanto stretto sia il rapporto tra le strutture economiche di un paese e la sua industria cinematografica (a tal proposito, cita quale esempio virtuoso la diversa struttura economica della Cecoslovacchia e la conseguente maggior produzione di un cinema autoriale e di impegno). Infine, anche il regista inglese, come già aveva fatto Kezich, invita a concentrare l’attenzione del dibattito critico sul problema della circolazione dei film e sulla necessità di ricercare un nuovo pubblico per il nuovo cinema.
A seguire, sono raccolte le sintesi degli interventi di cinque registi emergenti, il giapponese Key Kumai, la statunitense Juleen Compton, l’iraniano Ebrahim Golestan, il cecoslovacco Jarolim Jireš e l’isrealiano Uri Zohar. Pur partendo da contesti molto diversi tra loro e ciascuno con tratti nazionali specifici (ad esempio, i differenti livelli di intervento statale, più o meno cospicui, a sostegno della produzione cinematografica), tutti i giovani autori si soffermano a evidenziare due aspetti preminenti: da un lato la vivacità e intraprendenza del nuovo cinema, che va però di pari passo, dall’altro lato, con una serie di difficoltà non solo e non tanto produttive, quanto soprattutto distributive e di ricezione da parte del pubblico (in linea, quindi, con le criticità evidenziate già da Kezich e Anderson).
Il secondo giorno del convegno è incentrato sul tema della distribuzione cinematografica. Gli interventi conservati in ciclostile sono quattro (su un totale di sei)9 e hanno visto come protagonisti: Yvonne Decaris, programmatrice e amministratrice dello storico cinema d’essai parigino La Pagode, punto di riferimento per i cinefili francesi e per i registi della Nouvelle Vague (Meusy 2022); il distributore americano Ed Harrison, grazie alla cui società arrivano negli Stati Uniti, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, i film di importanti registi provenienti dalle “periferie” cinematografiche di tutto il mondo, come ad esempio il regista indiano Satyajit Ray (Talbot 2022); la produttrice cinematografica, curatrice di rassegne e programmatrice Kashiko Kawakita, al cui lavoro di promozione nei festival a partire dal secondo dopoguerra (in coppia col marito Nagasama Kawakita), si deve la diffusione del cinema giapponese in Europa e negli Stati Uniti, oltre che l’arrivo in patria del cinema d’arte internazionale (Deveney 2021, Gerow 2013, Sharp 2011); il regista italiano Giuseppe Fina, che dalla fine degli anni Sessanta in poi lavorerà soprattutto come autore televisivo. Appare utile aggiungere che lo studio della corrispondenza presente in archivio ha portato alla luce tre lettere indirizzate a Henri Langlois (due del direttore della Mostra Lino Miccichè e una di Gianni Amico), con cui si tentò di avviare una collaborazione strutturata tra il festival e la Cinémathèque française e di coinvolgere anche il suo direttore nel convegno sulla distribuzione (alla fine, Langlois non sarà presente al festival ma vi parteciperà la sua stretta collaboratrice, Lotte Eisner).10
La relazione di Yvonne Decaris si inserisce nel solco tematico su cui si è voluto indirizzare il convegno, in quanto il suo intervento chiarisce tecnicamente il funzionamento delle sale cosiddette “d’art et d’essai”, regolamentate in Francia per legge a partire dal 196111 con un loro statuto e con agevolazioni fiscali ma, anche, con delle regole rigide per quanto riguardava la programmazione.12 Decaris spiega inoltre come diverse sale francesi, compresa La Pagode, dovendo far fronte alla necessità di avere nuovi film stranieri, hanno cominciato a occuparsi direttamente di distribuzione (a dimostrazione della posizione non marginale occupata dalle sale francesi nel sistema di diffusione dei film), nonostante la difficoltà di versare una garanzia economica a volte anche cospicua. Si sofferma infine su due aspetti, a suo avviso, di rilievo per il buon funzionamento delle sale indipendenti: per un verso l’opportunità che i direttori delle sale possano fare un serio lavoro di ricerca attraverso la collaborazione con le cineteche, la partecipazione ai festival nazionali e internazionali, la lettura di riviste specializzate, la cura di rapporti personali con registi e produttori, per altro verso l’esigenza che la critica giochi un ruolo da protagonista in questa partita, affinché possa fornire al pubblico le informazioni e le valutazioni necessarie a guidare e indirizzare la visione.
Ed Harrison, a differenza di Decaris, lamenta invece la sparizione pressoché totale negli Stati Uniti delle sale dedicate al cinema d’arte e d’autore, che è andata di pari passo negli ultimi quindici anni con l’aumento del costo dei film stranieri e con l’estromissione dal mercato statunitense dei distributori più piccoli e indipendenti o con l’assorbimento degli stessi in società più grandi. Harrison sottolinea infine il mancato intervento sia del governo che delle fondazioni nel sostenere la circolazione di film stranieri d’autore negli Stati Uniti.
La breve relazione di Kashiko Kawakita illustra la situazione molto positiva del Giappone sia sul piano produttivo (prova ne è l’affermazione nei festival internazionali di un buon numero di giovani registi nipponici), sia soprattutto sul piano distributivo grazie alla diffusione capillare nel paese di sale cinematografiche d’essai che permettono al pubblico (ma anche agli autori emergenti) di entrare in contatto con le migliori e più innovative filmografie del mondo.
Il regista Giuseppe Fina stigmatizza nel suo intervento l’atteggiamento vittimistico che a volte il nuovo cinema ha nei confronti del sistema cinematografico e sottolinea quanto ingenuo sia lo stupore di chi si lamenta di essere respinto da quello stesso sistema che critica ferocemente. D’altronde, aggiunge, così come il cinema tradizionale pur tra tanta “paccottiglia” (AMINCP 1965b: 49) a volte produce lavori artisticamente rilevanti, allo stesso tempo, a parti invertite, non tutto ciò che produce il nuovo cinema è necessariamente di qualità, e non basta avere difficoltà produttive o riscontrare l’incomprensione del pubblico per ritenersi i depositari dell’arte cinematografica. Ciò che di positivo c’è nel movimento del nuovo cinema è, secondo Fina, il desiderio spontaneo che i giovani registi hanno di esprimersi – un desiderio generato dall’esigenza di stare nel proprio tempo, di essere protagonisti dei cambiamenti, di esercitare questa volontà di espressione come una necessità: “abbiamo il diritto di esprimerci come vogliamo; se questo diritto non ci viene riconosciuto, se non in via teorica e qualche volta in via di condiscendenza come fossimo dei matti o degli alienati, è nostro dovere organizzarci per difenderlo, questo nostro diritto” (AMINCP 1965b: 49). Per combattere questa battaglia è necessario, a parere di Fina, uscire dal settarismo, organizzandosi e mettendo in rete tutte le forze in campo, con la convinzione che il sistema non va cambiato dall’interno né riformato, ma deliberatamente ignorato al fine di cercare strade completamente nuove. Fina, per chiarire il suo punto di vista, tenta un parallelo tra diversi sistemi industriali:
Si parla di industria cinematografica quando si parla di cinema…ma guarda caso, quella del cinema è l’unica che non abbia un settore sperimentale. La Fiat, ha una sua sezione ricerche che tra qualche anno ci darà un nuovo motore, una nuova macchina; così la Montecatini, così ogni industria che si rispetti. Il cinema, invece, no. Noi, siamo il campo sperimentale della nostra industria cinematografica; noi, le cavie. Il cinema di oggi, dieci o quindici anni fa, era sperimentale; il nostro potrà essere il cinema di domani; ma domani, sicuramente ci sarà bisogno di nuove sperimentazioni, di nuove ricerche per cui il problema minaccia di essere permanente se una volta per tutte non tentiamo di trovare una soluzione (AMINCP 1965b: 49).
L’ipotesi di lavoro che Fina propone è di “uscire da questo convegno legati gli uni agli altri non solo idealmente” ma gettando le basi per una “internazionale della cultura” che operi non a livello puramente ideale e di astrazione, ma sui problemi reali. Molta fiducia viene riposta dal regista nel lavoro dei circoli del cinema considerati come dei “punti di lotta non solo teorica” (AMINCP 1965b: 49) e nella stampa usata come cassa di risonanza capace di arrivare lì dove la critica non arriva, e cioè al pubblico di massa. È inoltre necessario, a suo parere, che tale processo di cambiamento venga condiviso a livello extra-nazionale, pur partendo dalle specificità imprescindibili che caratterizzano ciascun paese.
L’analisi del primo dei tre convegni ci mette di fronte a un dibattito che, pensato dagli organizzatori come un momento di incontro che non restasse bloccato nelle secche di discorsi astratti, si è perciò mosso in direzioni molteplici ma tutte finalizzate a un confronto concreto su questioni pratiche. Emerge chiaramente la convinzione che una delle principali debolezze che grava sulle spalle del nuovo cinema sia proprio il processo distributivo – e a partire da questa convinzione, come vedremo più avanti, scaturirà l’idea di un circuito indipendente per la circolazione delle opere del nuovo cinema. L’aver affiancato al piano critico-discorsivo finalizzato alla definizione del nuovo cinema,13 un piano pratico-operativo pensato per agevolare la circolazione dei nuovi film, appare una scelta dal forte carattere distintivo rispetto all’operato dei festival istituzionali, che posiziona perciò in maniera netta la Mostra di Pesaro nel quadro degli antifestival, le cui politiche culturali si intestavano una funzione manifestamente sociale e pedagogica. Si trattava, insomma, di fare in modo che un cinema esteticamente e tematicamente rinnovato, in molti casi anche convintamente engagé, arrivasse a un pubblico il più ampio possibile. Non ultimo, agiva alla radice delle scelte operate dalla Mostra la necessità per quest’ultima di posizionarsi istituzionalmente al centro della scena festivaliera, attraverso la novità del circuito di distribuzione indipendente, in competizione con le altre realtà nazionali e internazionali che negli stessi anni operavano con le medesime finalità culturali e politiche.
Significativo appare, inoltre, il dialogo tra figure diverse ma complementari di quel processo che comincia dall’intuizione creativa del regista e si conclude con l’arrivo in sala del film. Mettere attorno a un tavolo autori, produttori, distributori, critici e direttori di sala per provare a immaginare un percorso fattuale e del tutto inedito per il nuovo cinema, affinché questo non rimanga chiuso nella riserva indiana di un festival che è, per forza di cose, temporalmente e geograficamente limitato, sembra un’intuizione di non poco rilievo da parte degli organizzatori della Mostra, i quali dimostrano di avere consapevolezza dei reali problemi che il cinema indipendente si trovava (e si trova ancora oggi) ad affrontare, primo fra tutti proprio la capacità di arrivare al grande pubblico. La stessa consapevolezza che emerge dai pochi ma significativi articoli apparsi sulla stampa nazionale dedicati al convegno,14 come quello di Ugo Casiraghi sull’Unità, il quale afferma nel tirare le somme della prima edizione del festival, perentoriamente e con estrema lucidità, che è “inutile fare buoni film se poi nessuno li vede” (1965: 7).
3 “Problemi della distribuzione e circolazione dei film del Nuovo Cinema”: il convegno del 1966
Il programma della seconda edizione della Mostra di Pesaro (AMINCP 1966a: 43) informa che il convegno abbandona i problemi della produzione per concentrarsi esclusivamente sul tema della distribuzione. Gli incontri sono organizzati in collaborazione con l’UNESCO15 e, a differenza dell’anno precedente, si svolgono durante l’intera settimana del festival, a dimostrazione che l’interesse per il tema è cresciuto rispetto all’edizione del 1965. I lavori vengono aperti il 30 maggio con le relazioni introduttive di Marcorelles e del regista, sceneggiatore e studioso di cinema Enrico Fulchignoni.16 Nei giorni successivi le riunioni di lavoro dei partecipanti al convegno hanno luogo in forma privata, confermando l’impostazione tecnico-pratica e per addetti ai lavori che si è scelto di dare alla tavola rotonda, mentre la giornata conclusiva viene dedicata al rendiconto dei lavori tenutisi durante la settimana.
La presentazione della seconda edizione della Mostra con cui si apre il catalogo, nell’illustrare la natura del convegno e l’opportunità di tenerlo, chiarisce come esso si ponga in continuità con quello dell’anno precedente e come lo stato della circolazione dei film richieda uno sforzo aggiuntivo per affrontare con maggior cognizione di causa una delle questioni centrali di fronte a cui si trova a operare, con grandi difficoltà, il nuovo cinema:
si tratta, dopo l’ampia recensione di situazioni fatta nell’incontro precedente, di verificare ora un po’ più da vicino le possibilità che vi sono di iniziare a migliorare o modificare tali situazioni, senza crearsi l’illusione che ciò possa avvenire rapidamente o facilmente, ma senza nemmeno limitarsi alle diagnosi lucide e disperate rifiutandosi di cercare ogni cura (AMINCP 1966a: 43).
Anche l’edizione del 1966 del convegno ha, insomma, l’obiettivo di fare incontrare i protagonisti che sono chiamati in causa dal problema della distribuzione cinematografica, per condividere l’efficacia delle diverse pratiche di cui ciascuno è portatore. Al festival spetta il compito di farsi promotore di questi incontri, attraverso i convegni e le tavole rotonde, affinché diventino “un valido punto di riferimento permanente per tutti coloro che vedano nel rinnovamento del cinema la sua stessa condizione di vita e credano che capire più e meglio il cinema, voglia dire capire più e meglio la realtà” (AMINCP 1966: 43).
Una corposa cartella presente in archivio (AMINCP 1966b: 60) in cui è raccolta la trascrizione completa degli interventi della prima giornata del convegno consente di ricostruire l’andamento del dibattito, mentre la trascrizione dei lavori tenutisi nell’ultima giornata del festival offre la possibilità, attraverso la lettura dell’intervento di chiusura di Miccichè, di avere un resoconto di quanto discusso e delle decisioni operative prese durante gli incontri tenutisi a porte chiuse.
Il convegno è aperto da un breve intervento di Roberto Rossellini il quale, partendo dalla constatazione della netta diminuzione di presenze in sala (provocata non solo dall’avvento della televisione, ma anche di nuove forme di intrattenimento, come ad esempio lo sport e l’automobile), si interroga su quale sia e se ci sia un gusto predominante del pubblico e sull’incapacità sempre più evidente del cinema contemporaneo di indirizzare e determinare quel gusto. Una risposta possibile, secondo Rossellini, potrebbe venire dall’incontro di due forze attive, la cui auspicabile collaborazione aprirebbe strade inedite: da una parte il nuovo cinema e i giovani autori, spinti da un bisogno di esprimersi attraverso i film che appare ormai non arginabile, dall’altra l’industria, sempre più capace di sperimentare e allargare i propri orizzonti.17 La freschezza e la vivacità culturale dei giovani registi che animano ormai da qualche anno il nuovo cinema, insieme alla propensione alla ricerca e all’innovazione del mondo tecnico-industriale, potrebbero dunque, secondo Rossellini, se si trovassero nella condizione di collaborare attivamente, innescare un processo necessario di svecchiamento e di rilancio del mezzo espressivo cinematografico.
Segue un lungo e articolato intervento di Marcorelles, che si concentra in prima battuta sul tentativo non facile di circoscrivere e identificare il nuovo cinema, fortemente caratterizzato dall’entusiasmo dei giovani registi che lo animano, ma anche da un certo grado di disordine e di demagogia, inevitabile quando ci si muove con l’intenzione di analizzare i problemi politici e sociali del proprio paese da una posizione di marginalità e insieme di netta critica del sistema di potere (il critico francese chiama in causa come esempio acerbo ma virtuoso di questa rinnovata spinta espressiva il Cinema Nôvo brasiliano, che aveva trovato proprio in Italia, tra Santa Margherita Ligure, Porretta e Pesaro, ampi spazi di visibilità e di attenzione da parte di critica e pubblico).18 Marcorelles si concentra poi, restando fedele alla volontà del convegno di affrontare il tema con concretezza e spirito pratico, sull’analisi economica dei budget produttivi dei film del nuovo cinema, da cui pare emergere l’impossibilità per chi produce questo tipo di film di rientrare nei costi di produzione (né tantomeno di realizzare degli utili), a fronte dei risibili incassi che l’attuale sistema distributivo concede al nuovo cinema. Il critico a questo punto si sofferma ad analizzare due esempi virtuosi che tentano invece di invertire la rotta del processo che regola la circolazione commerciale dei film: uno è quello tentato proprio dai registi e dai produttori del Cinema Nôvo, l’altro è il progetto animato dal regista Jonas Mekas (insieme a Shirley Clarke, Stan Brakhage, Lionel Rogosin e altri autori sperimentali statunitensi) a partire dagli inizi degli anni Sessanta con l’organizzazione non-profit The Film-makers’ Cooperative.
L’esempio brasiliano analizzato da Marcorelles è quello della Difilm, società di produzione diretta da Luiz Carlos Barreto, che realizza a partire dagli anni Sessanta diversi film del Cinema Nôvo, tra cui lavori di Glauber Rocha e Paulo César Saraceni. La novità sta nel fatto che la società di produzione, per superare le miopie del sistema distributivo e le strozzature economiche imposte al cinema di denuncia portato sugli schermi dai registi brasiliani della nuova onda, ha deciso di gestire in proprio la distribuzione dei suoi stessi film e dei conseguenti ricavi, cercando il sostegno dei festival internazionali, della critica e delle sale d’essai.19
Più articolata è l’analisi dell’esperienza americana della “cooperativa dei registi” guidata da Mekas, il quale, su sollecitazione dello stesso Marcorelles, aveva inviato alla Mostra di Pesaro una lunga e appassionata lettera per spiegare le nuove modalità di distribuzione realizzate dai registi sperimentali americani al fine di sostenere i propri film.20 In apertura della lettera (alcuni stralci della quale vengono letti da Marcorelles durante la sua relazione), il regista statunitense lamenta l’incapacità dei festival (compresi quelli più attenti al nuovo cinema come i festival di Mannheim e Oberhausen, la Semaine de la Critique di Cannes e la stessa Mostra di Pesaro) di essere al passo con i cambiamenti rapidissimi che il cinema contemporaneo sta vivendo, fermi ad esempio all’idea di “cinema-verità”, ampiamente superata, secondo Mekas, dai lavori sperimentali di Andy Wharol, Stan Brakhage, Tony Conrad o Nam June Paik – tutti registi aderenti alla sua organizzazione e veri araldi del nuovo cinema.21 In seguito, Mekas spiega come i produttori e i registi della cooperativa, stanchi del cinema commerciale e dei festival asserviti a logiche economiche e burocratiche, si siano uniti cinque anni prima per immaginare un percorso diverso, senza cedere ad alcun compromesso con il sistema produttivo e distributivo, immaginando anzi un sistema completamente diverso, più umano, che non prevede alcuna forma di sfruttamento e di condizionamento artistico. Si è avviata così la costruzione di una nuova rete di distribuzione e di un circuito alternativo attento soprattutto alle università, ai teatri, alle gallerie d’arte e ai musei (per un totale di un centinaio di venues sul territorio statunitense), che consente ai produttori e ai registi di creare profitti da reinvestire nella produzione di altri film.22 La lettera si conclude con l’accorato invito rivolto ai registi e ai produttori europei ad avviare un percorso simile che possa far nascere una rete di cooperative internazionali sganciate dai meccanismi commerciali e concorrenziali: “Dovremo circondare la terra con i nostri film, con amore, come se lo facessimo con le nostre mani” – chiosa liricamente Mekas (AMINCP 1966b: 60).
L’intervento di Marcorelles si conclude con l’annuncio della creazione, proprio nelle giornate del convegno, di un “Centro internazionale del nuovo cinema”, un ente senza scopi di lucro che, lungi dal voler soppiantare le società di distribuzione, si prefigge piuttosto il compito di coordinare le varie realtà nazionali del nuovo cinema, di fare incontrare registi, produttori, esercenti e critici che vogliano sostenere le cinematografie emergenti, e di organizzare nelle principali capitali europee e non delle “Settimane” di proiezioni dedicate ai nuovi film. Fondamentale, per il critico francese, sarà l’apporto dell’UNESCO, sia in termini di prestigio, sia di sostegno tecnico-conoscitivo per le questioni legali e burocratiche, con l’obiettivo finale di riconoscere al nuovo cinema lo statuto di prodotto culturale a cui è necessario garantire esistenza e operatività all’interno del più ampio sistema commerciale di diffusione cinematografica.
Tra le relazioni che seguono, si segnala quella di Mino Argentieri, critico cinematografico e collaboratore del festival sin dalla prima edizione, il quale interviene al convegno anche in qualità di presidente della Federazione Italiana dei Circoli del Cinema (FICC). L’analisi da lui proposta si articola proprio a partire dalla situazione italiana dei cineclub e delle sale d’essai – situazione che non manca per un verso di evidenziare gli storici ritardi politici e amministrativi nella realizzazione di un progetto complessivo di diffusione del cinema autoriale in Italia, ma per altro verso di segnalare anche alcuni passi in avanti fatti negli ultimi anni, tali da consentirgli di affermare che non si è più fermi all’anno zero. Esistono, spiega Argentieri, diverse realtà locali (un migliaio circa) impegnate nel tentativo di diffondere la cultura cinematografica in Italia, che sono costrette a fare i conti con i pochi mezzi a disposizione, ma che, nonostante ciò, sono molto attive attraverso riviste, giornali, centri universitari, circoli culturali. Gli esempi proposti da Argentieri sono diversi: le centocinquanta sale toscane da poco riunitesi in un consorzio per promuovere il “cinema di qualità”, il consorzio emiliano di centoquaranta sale che alterna programmazione commerciale e programmazione d’essai, i circoli Arci (un centinaio) che proiettano utilizzando il 16 mm, i trecento cineclub cattolici sparsi sul territorio. Argentieri segnala dunque l’esistenza di un ricco sottobosco operativo e dinamico che necessita di coordinamento e sostegno, e di un pubblico nuovo pronto ad accogliere un cinema nuovo.23
A dimostrazione di quanto il lavoro dei cineclub possa essere di aiuto nel processo distributivo, Argentieri porta l’esempio dell’organizzazione nel 1966 della “Settimana del giovane cinema cecoslovacco” (che, ricordiamo, era stato oggetto di rassegna nell’edizione della Mostra di Pesaro dell’anno precedente) a opera della FICC, grazie alla quale i film vengono proiettati in varie città tra cui Roma, Milano, Firenze e Genova, con un buon riscontro di stampa locale e nazionale, e con il risultato di aver consentito la visione a un pubblico più vasto della sola cerchia di specialisti e appassionati che frequentano festival come quelli di Pesaro o Porretta, tanto da richiamare l’attenzione anche dell’Unione Nazionale dei Distributori Italiani al fine di stipulare accordi mirati di circolazione su scala nazionale dei film visti in rassegna, e dell’Associazione Nazionale degli Esercenti con cui si comincia a ipotizzare una programmazione d’essai nei giorni di minore rendimento commerciale delle sale. Esiste, dunque, secondo Argentieri, un mercato culturale dentro il più vasto mercato cinematografico a carattere commerciale che, pur non sfuggendo alle regole dell’economia, può non essere succube di tali regole ma piuttosto indirizzarle a proprio favore. Inoltre, i cineclub assieme alle sale d’essai e ai consorzi, appaiono come possibili trait d’union capaci di mettere in connessione festival come quello di Pesaro, ancora lontani dal grande pubblico, con fasce più larghe di spettatori. L’analisi di Argentieri porta, in chiusura, ad auspicare la realizzazione di un coordinamento “supernazionale” di tutti gli attori coinvolti nel processo distributivo commerciale, così come già annunciato da Marcorelles, a cui si aggiunge la proposta di un coordinamento di quei festival internazionali sempre più numerosi che si pongono l’obiettivo culturale di sostenere il nuovo cinema, anche sotto forma di “mostre mercato”.
Gli interventi successivi, come ad esempio quelli di Adrianne Marcia (curatrice della sezione cinema per il Museo di Arte Moderna di New York) e dei registi Jaromil Jireš e Dušan Makavejev, o come le repliche di Rossellini e Marcorelles nel dibattito che segue le relazioni, toccano altre questioni economiche e tecniche (come il problema del sottotitolaggio), che saranno poi oggetto di discussione nei lavori a porte chiuse dei giorni successivi. Il resoconto ci viene offerto dalla trascrizione dell’intervento del direttore (AMINCP 1966b: 60) durante l’ultima giornata del festival – intervento con cui Miccichè informa che, a chiusura del convegno, si è formato un “Comitato Internazionale per la Diffusione del Nuovo Cinema”, con sede a Roma presso gli uffici della Mostra24 e la cui prima riunione avverrà durante il successivo festival di Karlovy Vary. Le azioni che il comitato si propone di avviare sono diverse, e sono evidentemente figlie del dibattito appena concluso: la pubblicazione periodica di un bollettino informativo, l’organizzazione di “Settimane” del nuovo cinema in vari paesi, l’avvio di ricerche di tipo economico e sociologico intorno ai problemi del nuovo cinema, la promozione di comitati nazionali per la diffusione del nuovo cinema, la collaborazione con organismi internazionali come l’UNESCO, la costruzione di legami con i festival a carattere prevalentemente culturale, la collaborazione attiva con organismi professionali e culturali del mondo cinematografico, come ad esempio la stampa specializzata.25
Miccichè si sofferma inoltre su due questioni di natura eminentemente tecnica, a conferma del fatto che il convegno si è smarcato dal rischio di impastoiarsi in questioni astratte, cercando invece di ragionare intorno a problematiche pratiche e concretamente utili per la circolazione del nuovo cinema. La prima riguarda la diffusione sempre più larga delle pellicole 8 mm che hanno il vantaggio di abbattere cospicuamente i costi sia di produzione che di circolazione dei film,26 la seconda concerne un’innovazione tecnologica appena annunciata riguardante l’uso di un proiettore speciale pensato per i sottotitoli, da affiancare al proiettore tradizionale, che consentirebbe di evitare la stampa di più copie di un film, a vantaggio sia dei produttori che dei registi indipendenti, ma anche dei festival che in alcuni casi erano gravati da questo onere organizzativo ed economico.
In chiusura, Miccichè auspica che tutti i protagonisti del convegno, dai registi ai produttori, dai critici ai giornalisti, dagli esercenti ai distributori, possano collaborare all’interno del comitato, ciascuno con le proprie specificità ma tutti concordi per un obiettivo comune, e cioè di garantire al nuovo cinema la possibilità di esprimersi liberamente:
Sappiamo che tra le molte cose che oggi non sono libere nel mondo, il cinema è fra le meno libere. Anche se ha l’aria di essere tra le più libere; sappiamo anzi che il cinema serve a conservare certe illiberalità; vogliamo che si proponga liberamente, che sia liberamente scelto, e con una certa modestia, ma con una non minore fermezza, vogliamo fare questo lavoro, in questa direzione (AMINCP 1966b: 60).
4 “Congresso del Centro Internazionale per la diffusione del Nuovo Cinema”: il convegno del 1967
Il programma della terza edizione del festival (AMINCP 1967a: 43) informa dell’organizzazione del “Congresso del Centro Internazionale per la diffusione del Nuovo Cinema”: si tratta, in sostanza, del primo incontro ufficiale in cui si riunisce quel comitato, ora chiamato “Centro”, la cui nascita era stata annunciata l’anno precedente. A presiedere gli incontri della prima giornata sono Marcorelles e Miccichè con un’introduzione ai lavori e una relazione generale, a cui fanno seguito ben sedici interventi che riferiscono a proposito delle diverse situazioni nazionali e dei problemi particolari di ciascun paese in cui il comitato si è formato (intervengono, tra gli altri, i registi Fernando Birri, Jonas Mekas e Glauber Rocha). La seconda giornata segue un ordine del giorno che prevede: a) Rapporti sulle situazioni dei vari Comitati nazionali; b) Struttura definitiva del “Centro Internazionale per la diffusione del Nuovo Cinema”; c) Cooptazioni; d) Preventivo finanziario e programma 1967-68;27 e) Nomine e incarichi. Nella terza e ultima giornata sono previsti il dibattito e la conclusione dei lavori.
A differenza dei precedenti convegni, non è stato possibile individuare in archivio documentazione che permetta di ricostruire quanto discusso durante gli incontri.28 Fa eccezione un ciclostile (AMINCP 1967a: 70) che riassume la conferenza stampa di apertura del direttore del festival da cui veniamo a sapere, tra le altre cose, che il Centro ha già organizzato una prima “Settimana” del nuovo cinema a New York,29 che sono in programma altre rassegne in diverse città (tra cui Praga, Budapest e San Paolo) e che il movimento, per quanto di fatto nato da una costola della Mostra di Pesaro, si trova ora in una nuova fase di indipendenza dal festival.
Pochissime altre informazioni si possono rintracciare attraverso lo studio della rassegna stampa. L’unico resoconto individuato della prima giornata del convegno è del quotidiano di Ancona Voce Adriatica con un articolo da cui apprendiamo che l’apertura, come nelle due precedenti edizioni, è affidata a Marcorelles, il quale ha sottolineato come la rassegna newyorkese abbia raggiunto l’obiettivo di far avvicinare un pubblico più ampio a film “difficili”, che è appunto lo scopo prioritario per cui è nato il Centro. In seguito, il critico francese ha analizzato il lavoro di alcuni organismi attivi nel sostegno al nuovo cinema (la Semaine de la Critique di Cannes, i cinema d’essai, la cooperativa che fa capo a Mekas, la stessa Mostra di Pesaro) e ha caldeggiato la nascita di comitati nazionali che possano entrare in rete tra loro, in quanto il fenomeno del nuovo cinema è ormai di dimensione internazionale (e. g. 1967). Segnaliamo, infine, un’intervista rilasciata da Miccichè alla rivista Argomenti socialisti a chiusura della terza edizione del festival (1967: 14), in cui il direttore, nel tirare le somme del lavoro svolto fino a quel momento, sottolinea due aspetti particolarmente significativi: da una parte l’essere riusciti a definire, seppure per via negativa, cos’è il nuovo cinema,30 dall’altra aver svolto un lavoro di traduzione pratica di quanto discusso in sede di convegni attraverso la nascita del Centro per la diffusione del nuovo cinema. Il risultato di questo lavoro pone dunque il festival, oramai diventato maturo, di fronte a nuove sfide e a nuovi rischi.
5 Conclusioni
Le riflessioni di Miccichè su questo primo ciclo di vita della Mostra esprimono, dunque, la consapevolezza di quanto questa fase sia servita a dare l’abbrivio per un percorso che, per forza di cose, ora dovrà portare verso direzioni inedite. Ci penseranno le contestazioni alla direzione del festival durante l’edizione del 1968, insieme agli scontri in strada tra organizzatori, critici, registi, pubblico, studenti, amministrazione locale da una parte, fascisti e forze dell’ordine dall’altra,31 a spingere verso un ripensamento della Mostra, nel tentativo di sfuggire a qualsiasi cristallizzazione che ingabbi il festival in una formula rigida e prestabilita. Lo stesso Centro si trasformerà negli anni a seguire nel tentativo di federare sul territorio nazionale una rete di sale a sostegno del nuovo cinema, mantenendo fede a quel desiderio dichiarato esplicitamente sin dal primo convegno di non circoscrivere la Mostra, e con essa il nuovo cinema, nella torre d’avorio dell’intellettualismo e dello specialismo, quanto invece di aprirlo il più possibile al confronto con la realtà – desiderio che si traduce con l’obiettivo di proiettare sì i nuovi film, ma avendo anche un pubblico in sala che li guardi.
Con il caso di studio analizzato si è cercato di evidenziare quanto il modello di manifestazione cinematografica indicato come antifestival spicchi, nel contesto delle trasformazioni sociali e culturali degli anni Sessanta, per vivacità intellettuale, modernità e spinta al cambiamento, in contrapposizione al modello ufficiale festivaliero, imbolsito e stagnante (si pensi, a tal proposito, alla crisi in cui versa in quegli anni, e poi in misura ancora maggiore dopo le contestazioni del ’68, la Mostra di Venezia). L’intuizione di mettere mano al tema della distribuzione attraverso un’azione diretta della Mostra a sostegno del nuovo cinema caratterizza il festival in quanto organismo che sceglie come proprio obiettivo fondativo e come sua stessa ragion d’essere il superamento del carattere effimero e transitorio tipico delle manifestazioni cinematografiche, per pensarsi invece come soggetto permanentemente attivo su una scala temporale e spaziale dallo spettro ben più ampio.32
Abbiamo visto come alla base di questa direzione di lavoro intrapresa dalla Mostra ci fossero solide motivazioni ideologiche e istituzionali che hanno determinato le strategie di programmazione e di organizzazione del festival – ideologiche in quanto il festival fa una scelta di campo di netta opposizione nello scontro culturale con i festival e con il cinema tradizionale e commerciale (sostenendo, ad esempio, filmografie politicamente schierate e impegnate nell’ambito della Sinistra e dei movimenti anticapitalisti, antimperialisti e anticoloniali, come quella brasiliana del Cinema Nôvo), istituzionali in quanto gli organizzatori della Mostra sono consci della necessità che il festival ha di radicarsi a livello locale e nazionale come struttura culturale riconosciuta (anche per motivazioni economiche legate all’accesso ai finanziamenti statali),33 su un terreno di gioco in cui sono presenti altri protagonisti a cui contendere la leadership nella sfera d’azione degli antifestival – segnatamente, Santa Margherita Ligure e Porretta.
Questa prima parziale mappatura dei materiali, in gran parte inediti, studiati nell’archivio del festival per la realizzazione del presente articolo, ha consentito dunque di individuare alcune linee di interesse nell’ambito delle microstorie degli antifestival, inserite nel quadro più generale della storia dei festival di cinema: l’affermazione delle new waves cinematografiche internazionali anche grazie al sostegno attivo degli antifestival, l’attenzione al processo distributivo visto come momento decisivo per il successo del nuovo cinema, la definizione dei tratti peculiari di ciò che viene chiamato nuovo cinema, le complesse strategie pensate e realizzate dagli organizzatori del festival per determinare e consolidare le proprie attività, i cui caratteri culturali, sociali e politici appaiono intrecciati in un articolato gioco di forze. La ricchezza di storie legate all’attività della Mostra di Pesaro che emerge da questo primo studio, accompagnata dall’altrettanto generosa mole di materiali da essa prodotta negli anni, lascia immaginare la possibilità di ulteriori approfondimenti e di una definizione più precisa e più ricca del quadro storico in cui il festival ha operato e delle motivazioni che lo hanno mosso.
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L’espressione “nuovo cinema” viene ripresa non a caso dagli organizzatori della Mostra di Pesaro, che scelgono programmaticamente di inserirla nell’intitolazione stessa del festival.↩︎
Il termine “antifestival” venne utilizzato in particolare in riferimento alla Mostra di Porretta (Blasi 1960). La Mostra di Pesaro non adopererà mai il titolo di antifestival per definire se stessa. Si deve a Ongaro l’impiego del termine per la storicizzazione di queste manifestazioni cinematografiche, che avevano in comune tra di loro un’idea di festival inteso come momento di impegno sociopolitico, in contrapposizione con i festival tradizionali ai quali si contestava la mancanza di attenzione per un cinema inteso quale fatto prioritariamente culturale, a vantaggio di una visione invece meramente commerciale e istituzionale (Ongaro 2005: 107-112). Ulteriori studi sul tema sono stati proposti da Pisu (2016: 247-259) e Gelardi (2022).↩︎
De Valck (2016) propone una lettura bourdesiana dei festival cinematografici intesi come luoghi in cui agisce il principio di accumulazione di capitale simbolico che consente di competere in quanto a prestigio con altri circuiti festivalieri (in questo caso, quello degli altri antifestival come Santa Margherita Ligure e Porretta, ma anche delle varie realtà europee festivaliere a carattere preminentemente culturale), con l’obiettivo di una futura conversione di quel capitale in capitale economico. In tal senso, la presenza a Pesaro per la prima edizione della Mostra di figure intellettuali di spicco, portatrici di un altissimo tasso di capitale culturale, consente al festival di guadagnare un notevole peso specifico in termini di legittimità e autorità rispetto ad altre analoghe manifestazioni culturali.↩︎
Non risultano invece pubblicazioni relative a tali convegni curate dal festival stesso, diversamente da quanto era accaduto per gli interventi tenutisi durante i convegni sul linguaggio cinematografico, pubblicati in un primo momento annualmente (quelli del 1965 sulla rivista Marcatré nei numeri 19-22 del 1966, quelli del 1966 su Nuovi Argomenti nel numero di aprile-giugno dello stesso anno, quelli del 1967 pubblicati dall’editore Cafieri l’anno seguente) e raccolti in seguito nella pubblicazione Per una Nuova Critica. I convegni pesaresi 1965-1967 (Micciché 1989).↩︎
Con il concetto di autopoiesi si intende quell’insieme di processi retorici che i festival scelgono di utilizzare per raccontare sé stessi e le proprie attività, con l’obiettivo di corroborare la propria posizione istituzionale e rafforzare la propria identità culturale e sociale. A partire da alcune riflessioni di Luhmann (1990), de Valck parla ampiamente di autopoiesi in relazione ai festival, intesi come sistemi sociali chiusi bisognosi di legittimarsi attraverso una narrazione di sé, necessaria a garantire loro una continuità d’azione temporale (2007: 31, 35-36). Iervese ha utilizzato il concetto di autopoiesi a proposito del Festival dei Popoli di Firenze, indagando le modalità con cui la comunicazione adoperata dal festival abbia determinato l’identità e il posizionamento istituzionale del festival stesso (2016: 148-149).↩︎
Amico era già stato coinvolto direttamente nell’organizzazione delle manifestazioni di Santa Margherita Ligure e Porretta, a conferma della stretta connessione esistente tra le due rassegne e la Mostra di Pesaro.↩︎
Per i rimandi ai documenti consultati nell’archivio del festival, si fa riferimento all’inventario realizzato nel 2022 dall’archivista Arianna Zaffini, che descrive la documentazione del periodo 1964-1981. Con il numero di pagina si fa riferimento alla pagina dell’indice generale in cui è sinteticamente riportato il contenuto di ogni singola cartella (ad esempio, “Corrispondenza internazionale” pag. 15, “Programmi della mostra” pag. 43, “Ritagli stampa” pag. 175).↩︎
Un momento di forte conflittualità in relazione alla funzione dei festival istituzionali si era avuto pochi anni prima nel corso dell’edizione della Mostra di Venezia del 1960 a seguito della polemica scoppiata per il mancato Leone d’Oro a Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti (1960), penalizzato secondo molti critici dai condizionamenti politici che avevano limitato l’indipendenza di giudizio della Mostra veneziana (Casiraghi 1960, Gelardi 2022: 165-166).↩︎
Dal resoconto degli interventi risultano come invitati a parlare anche lo sceneggiatore Pietro Anchisi e il critico Guy Gauthier, ma le loro relazioni non risultano conservate in archivio.↩︎
Le lettere di Miccichè sono dell’11 febbraio e dell’11 maggio del 1965, la lettera di Amico è dell’11 maggio del 1965. Amico scrive a Langlois: “Se ci sono così tanti giovani registi nel mondo, lo dobbiamo soprattutto a te e alla Cinémathèque e credo che dovresti avere un posto d’onore in questa Tavola Rotonda” [la traduzione dal francese è mia], a testimonianza di quanto gli organizzatori della Mostra tenessero al convegno e avessero chiaro quanto centrale fosse la questione della distribuzione per l’affermazione del nuovo cinema (AMINCP 1965c: 15).↩︎
Cfr. JORF, 22 novembre 1961, Décret n. 61-1244 portant définition et classement des salles de cinéma d’art et d’essai pour l’administration fiscale, p. 10718.↩︎
Le sale cinematografiche, per essere considerate “d’art et d’essai”, erano tenute a proiettare una certa quantità di film (variabile in base al numero di abitanti della città), che dovevano rientrare in queste categorie: 1) film di incontestabile qualità che non avevano avuto il successo di pubblico meritato; 2) film con carattere di ricerca e novità; 3) film provenienti da paesi la cui produzione cinematografica fosse poco distribuita in Francia; 4) cortometraggi di qualità. Era possibile proiettare anche film classici, opere moderne inedite e film amatoriali. I film stranieri dovevano essere presentati in lingua originale con i sottotitoli (Leglise 1980; Frodon, Iordanova 2016). Un’analoga legge che stabilisce i criteri per la definizione dei cinema d’essai sarà approvata in Italia pochi mesi dopo il convegno, nel novembre del 1965 (Cfr. GU Serie Generale n.282 del 12.11.1965), favorendo la diffusione di sale disposte ad accogliere i film del nuovo cinema (Brunetta 1993, 57) e sostenendo l’attività associazionistica dei cineclub.↩︎
Questa era la funzione principale della parallela tavola rotonda dedicata all’analisi del linguaggio cinematografico.↩︎
La gran parte degli articoli di giornale consultati, a parte un accenno del Corriere della Sera (Grazzini 1965), si è occupata esclusivamente della tavola rotonda dedicata al linguaggio cinematografico, anche per la presenza di diversi nomi noti, tra cui quello di Pasolini – tavola rotonda che ha evidentemente fatto ombra al convegno su produzione e distribuzione, gravato a sua volta, come abbiamo detto, da un’impostazione eminentemente tecnico-pratica e quindi considerato di minore interesse per il pubblico più largo.↩︎
L’UNESCO aveva già organizzato tavole rotonde, con relative pubblicazioni, all’interno di festival cinematografici. Era successo, ad esempio, nel 1964 al Mannheim-Heidelberg International Filmfestival con un intervento dedicato al Direct Cinema proprio di Marcorelles (1964). L’anno successivo si era tenuta invece una tavola rotonda durante il Festival cinematografico internazionale di Mosca con interventi dedicati al Cinéma Vérité (Leacock 1965, Cottrell 1965). La collaborazione con l’UNESCO contribuiva dunque a inserire la Mostra di Pesaro nel quadro dei più importanti festival di cinema internazionali a carattere culturale. Marcorelles collaborerà ancora negli anni con l’UNESCO, con cui pubblicherà, in collaborazione con Rouzet-Albagli, un volume dedicato al nuovo cinema (1970). Per approfondire il ruolo dell’UNESCO nella diffusione del cinema come strumento pedagogico si veda Turquety (2023); per il ruolo dell’UNESCO nel processo di affermazione del cinema inteso come status di bene culturale si veda Boarini (2006).↩︎
Dai resoconti del convegno consultati in archivio non risultano suoi interventi. Fulchignoni dal 1949 lavorava per l’UNESCO come direttore della “Film Section”; poiché, come si è detto, il convegno è organizzato in collaborazione con l’agenzia delle Nazioni Unite, ipotizziamo che il suo sia stato più un ruolo di coordinamento e consulenza, che non di relatore e animatore del dibattito.↩︎
Il riferimento di Rossellini è all’industria automobilistica e ingegneristica, e ricalca l’intervento dell’anno precedente di Fina, a proposito della mancanza di innovazione nel campo dell’industria cinematografica.↩︎
In questo articolo si tocca solo incidentalmente la questione della definizione critica di ciò che a partire dagli anni Sessanta si è voluto indicare con l’espressione “nuovo cinema”. Il tema era stato affrontato proprio durante i paralleli convegni sul linguaggio cinematografico, in particolare in quello del 1965: si rimanda, a tal proposito, all’intervento di Nowell-Smith (1965: 93-100), tra gli studiosi più attenti all’evoluzione delle new waves cinematografiche (Nowell-Smith 2013). È lo studioso inglese a evidenziare come si debba al riconoscimento da parte dei festival europei della qualità culturale e sociale dei film provenienti dal Sud America, la nascita e la diffusione del cinema latino-americano (Gelardi 2022: 171-172). Casetti, nell’analizzare i diversi movimenti che tra gli inizi degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta determinano il fiorire internazionale del nuovo cinema, parla di un comune “sentimento del nuovo” che tiene insieme tutte le diverse sperimentazioni cinematografiche – sentimento scaturito proprio dalla necessità di rompere drasticamente con i modi tradizionali di fare e di pensare il cinema (1993: 81-96).↩︎
Il contesto in cui operavano i registi brasiliani del Cinema Nôvo era quello di una dittatura, nota come “Regime dei Gorillas”, attraverso cui i militari avevano preso il controllo del paese a partire dal 1964. Il regime imponeva limitazioni drastiche alla produzione e alla circolazione di film e, ovviamente, non nutriva simpatie per il cinema impegnato e socialmente critico sostenuto dalla new wave cinematografica brasiliana. La Mostra di Pesaro, insieme agli altri antifestival, rappresenterà un circuito di sostegno e di solidarietà per i registi colpiti dalla censura e dal controllo illiberale della dittatura, tanto che queste manifestazioni fungeranno da casse di risonanza per le battaglie culturali e politiche sostenute da tanti registi terzomondisti, anticapitalisti e anticolonialisti, brasiliani e non (Ranvaud 1982, Gelardi 2022).↩︎
La lettera, nella traduzione italiana, è presente nell’archivio del festival (AMINCP 1966b: 60) in quanto venne fatta circolare in ciclostile tra i partecipanti al convegno.↩︎
La Mostra di Pesaro, proprio nell’edizione successiva del 1967, dedicherà al New America Cinema un’ampia rassegna curata dallo stesso Mekas, con lavori, tra gli altri, di Stan Brakhage, Bruce Baillie, Peter Kubelka, Gregory J. Markopoulos, Stan Vanderbeek.↩︎
Mekas chiarisce nella lettera alcuni aspetti dell’accordo tra cooperativa e produttore, ad esempio che quest’ultimo resta proprietario delle copie del film e che le può ritirare in qualsiasi momento, che non è previsto per chi entra nella cooperativa alcun accordo formale né firma di contratti, che il produttore può far distribuire contemporaneamente lo stesso film anche da altri distributori, che gli incassi al lordo vanno al 75% al produttore e al 25% alla cooperativa per le sole spese di funzionamento – un accordo, in sostanza, notevolmente vantaggioso per produttori e registi, a dispetto del sistema classico che avvantaggiava invece soprattutto il distributore. Si segnala la presenza in archivio (AMINCP 1966b: 60) di una seconda lettera a firma Mekas, Clarke e Rogosin, indirizzata ai cineasti presenti al convegno, con cui si esplicano i servizi offerti dal centro di distribuzione della cooperativa attraverso un decalogo di interventi destinati a chi decide di associarsi (ad esempio, l’assicurazione di una prima proiezione del proprio film a New York, la spedizione di stampa periodica, la realizzazione di un pressbook del film, l’iscrizione del film a festival cinematografici internazionali).↩︎
Per una storia delle origini dell’associazionismo cinematografico italiano, nato a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, si veda Brunetta (1973, 1993), Tinazzi (1966), Di Giammatteo (1985). Per analizzare la diffusione dei circoli del cinema a partire dall’immediato dopoguerra e il notevole sviluppo che ebbero nel corso degli anni Cinquanta, si veda Cosulich (1978), Brunetta (1997), Tosi (1999). Il riconoscimento istituzionale all’associazionismo cinematografico e alle sale d’essai arriva, come si è detto, con la legge n.282 del 1965; contestualmente, il primo convegno nazionale dell’Associazione Italiana Amici Cinema d’Essai (AIACE), tenutosi a Fiuggi nel settembre dello stesso anno, segna l’inizio di una nuova fase di crescita e trasformazione del movimento, dentro cui si inserisce il tentativo distributivo voluto dalla Mostra di Pesaro. Si ricorda, infine, la figura di Cesare Zavattini, che rivestì un ruolo di primo piano nella diffusione dell’associazionismo cinematografico come strumento di democratizzazione culturale subito dopo la caduta del fascismo (Cosulich 1992).↩︎
Il ruolo decisivo del festival nella nascita del comitato è confermato anche dalla decisione, sottolineata da Miccichè, di devolvere un milione di lire del bilancio della Mostra per l’avvio dei lavori, in previsione di ottenere in seguito finanziamenti internazionali più cospicui.↩︎
A proposito di stampa, diversi sono gli articoli di quotidiani e di riviste che danno notizia della nascita del Comitato, tra cui segnaliamo L’Unità (Ranieri 1966), Avanti! (Buttitta 1966) e Rivista del Cinematografo (Fantone 1966).↩︎
Il New American Cinema ne stava facendo un uso considerevole e consapevole proprio in quegli anni, sostenendo, tra l’altro, l’idea che i film, non diversamente dai dischi e dai libri, avrebbero potuto a breve, grazie alle nuove tecnologie, finire nelle case di tutti, come sarebbe effettivamente successo da lì a poco con la diffusione dell’Home Video.↩︎
Questo punto all’ordine del giorno si suddivide in: 1) Settimana del Nuovo Cinema; 2) Presenza ai festival; 3) Rapporto con l’UNESCO; 4) Notiziari; 5) Varie.↩︎
Si auspica che questa prima mappatura del progetto di distribuzione realizzato dalla Mostra di Pesaro possa, a seguito di ulteriori ricerche di archivio, arricchirsi e ampliarsi attraverso lo studio di nuova documentazione utile a una comprensione più ampia del fenomeno e, eventualmente, alla stesura di un ulteriore articolo al riguardo.↩︎
Due brevi articoli non firmati apparsi sull’Unità e sul Tempo (Anonimo 1967a; Anonimo 1967b), risalenti al gennaio 1967, informano che dal 9 al 20 gennaio si è tenuta al MoMA di New York, organizzata dal Centro, la rassegna dal titolo “New Cinema: an international selection”, conclusa con la tavola rotonda “Is there a New Cinema?”, a cui partecipa lo stesso Miccichè. Dall’archivio online del museo, sappiamo inoltre che vennero presentati film di Glauber Rocha, Jean-Marie Straub, Gregory J. Markopoulos, Dušan Makavejev, Jean Eustache, Alfredo Leonardi https://www.moma.org/momaorg/shared/pdfs/docs/press_archives/3831/releases/MOMA_1967_Jan-June_0005_3A.pdf (ultimo accesso: 26-04-24), tutti registi i cui lavori erano precedentemente passati dalla Mostra di Pesaro.↩︎
“Il nuovo cinema è l’insieme dei processi di rinnovamento, di crescita, di maturazione, di evoluzione del cinema. Tentare di definirlo positivamente (per ciò che è) è vano. Si può solo cercare di definirlo negativamente (per ciò che non è o cerca di non essere)” (Miccichè 1967).↩︎
Per un resoconto dettagliato della contestazione scoppiata durante l’edizione della Mostra del 1968 si rimanda al lavoro monografico di Anna Tonelli.↩︎
Anche l’attività editoriale curata dal festival, che sempre più si intensificherà e strutturerà nel tempo, sino a diventare con la collana di saggi edita da Marsilio un punto di riferimento imprescindibile per gli studi di cinema in Italia e non solo, caratterizza la Mostra di Pesaro come una manifestazione culturale che va ben oltre la dimensione strettamente festivaliera. Lo stesso dicasi per le attività di ricerca svolte a partire dal 1982 con gli incontri di Ancona (Rassegna internazionale retrospettiva) e con i colloqui di Urbino (Seminario internazionale di studi teorici), con cui si decide di spostare alcune attività del festival fuori dalla stessa città di Pesaro e in un periodo diverso dell’anno.↩︎
A tal proposito, appare funzionale alla costruzione retorica e autopoietica dell’immagine di un festival a vocazione anti-sistemica ma al contempo necessariamente legato alle istituzioni, il tentativo di legare a doppio filo l’attività della Mostra all’azione di promozione culturale in ambito cinematografico che l’UNESCO andava sostenendo in quegli anni in maniera sempre più vivace a livello internazionale.↩︎