Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.23 (2023), 1–4
ISSN 2280-9481

Spostamenti progressivi nella critica cinematografica tra 1930 e 1970: spazi, relazioni, movimenti

Paolo NotoUniversity of Bologna (Italy)

Jennifer MalvezziUniversity of Parma (Italy)

Andrea MarianiUniversity of Udine (Italy)

Pubblicato: 2023-07-20

Repositioning Film Criticism. Critical Displacements among the Film Critics from 1930 to 1970: Space, Connections, Movements

Ringraziamenti

Gli articoli pubblicati in questo Speciale sono in parte l’esito delle ricerche condotte nell’ambito della ricerca PRIN 2017 “Per una storia privata della critica cinematografica italiana. Ruoli pubblici e relazioni private: l’istituzionalizzazione della critica cinematografica in Italia tra anni Trenta e Settanta” (P.I.: Paolo Noto, Prot. 2017XB2Y7B).

“Il mestiere del critico” era la rubrica delle recensioni di Cinema Nuovo, una delle più influenti riviste di cinema italiane del dopoguerra, attiva dal 1952 al 1996, e già dal titolo lasciava intendere il senso e il valore che l’attività critica aveva secondo la testata e, in particolare, secondo il suo direttore Guido Aristarco. Il termine “mestiere” rimanda infatti a un riconoscimento professionale, a un set di strumenti di lavoro, a protocolli di azione riconosciuti e ripetibili. Rimanda anche a una manualità, a un saper fare che si impara esercitandolo. E Aristarco è stato senza dubbio l’intellettuale cinematografico più costante e deciso nello sforzo di professionalizzazione della critica, attraverso i suoi interventi diretti su rivista, ma anche grazie all’approntamento di un nucleo condiviso di strumenti di valutazione estetica, fondativi per la prassi critica, come le diverse edizioni della Storia delle teoriche del film (Aristarco 1951). Nelle intenzioni della generazione di critici e operatori cui lo stesso Aristarco apparteneva – spesso formatisi attraverso le organizzazioni giovanili fasciste, passati attraverso l’esplosione del neorealismo e infine (ma non sempre, le carriere eccentriche sono tante) approdati a un qualche tipo di stabilità nell’ecosistema cinematografico – il consolidamento del campo critico era parte integrante del processo di riconoscimento del cinema quale fatto di cultura, che comprendeva anche la costruzione e il mantenimento di un rapporto di scambio e influenza con i lettori e gli spettatori. La relazione con i lettori era strategica per la costruzione di quella autorità che dava alla critica un posto di rilievo nel sistema dei media, in termini di formazione dell’agenda del gusto e di organizzazione culturale.

Vista oggi, quella storia appare irrimediabilmente lontana, e senz’altro lo è. La critica sui quotidiani è di fatto scomparsa, le riviste specializzate boccheggiano, il discorso critico si insinua nelle piattaforme digitali, polverizzato e incontrollato. Questo presente di crisi ci porta però a guardare indietro e a riflettere in chiave storica sulla fase ascendente, sul momento di affermazione della critica che corrisponde all’epoca in cui il cinema si installa nella società e nelle istituzioni italiane; si tratta del periodo che va dagli anni Trenta agli anni Settanta, dagli anni in cui avviene il riconoscimento da parte dello Stato fascista della funzione culturale del cinema come industria e forma di espressione bisognosa di provvedimenti legislativi e strutture di formazione dedicate, a quelli in cui la storia e critica del cinema acquista un posto organico nel curriculum universitario. Riguardando quella lunga fase è possibile riconoscere qualcosa che rimanda al contesto odierno? I sintomi che noi siamo soliti attribuire alla crisi (precarietà dei posti di lavoro, assenza di professionalizzazione, permeabilità del campo da parte di non specialisti, e la lista potrebbe allungarsi) sono davvero caratteristici del presente, o hanno radici più lunghe? Per dirla con Mattias Frey (2015), cose c’è di permanente e di ricorsivo nelle crisi che la critica cinematografica attraversa? E tornando alla parola da cui siamo partiti, come resiste la definizione di mestiere (ma anche quelle correlate di legittimazione culturale e istituzionalizzazione), in un campo la cui disciplina è instabile (Bisoni 2006: 5-9), alla prova di una verifica concreta che riguardi gli spazi (nel senso di ambienti di lavoro, contesti culturali e istituzionali), le relazioni (personali e lavorative, interprofessionali e intraprofessionali), gli spostamenti (tra luoghi, così come tra ambiti mediali differenti)?

Prendendo spunto da campionamenti già effettuati in passato da Guerra e Martin (2019a, 2019b, 2020), che ringraziamo per aver avviato il lavoro che ci ha portato qui, abbiamo chiesto agli autori e alle autrici di questo fascicolo di declinare questi interrogativi prendendo a oggetto di ricerca il periodo prima delineato e di verificare le proprie ipotesi a partire da fonti inedite e private: epistolari, documenti di lavoro, scritti non direttamente collegati all’attività prevalente dei critici studiati. Questi materiali non sono stati considerati come prove fattuali di una storia, ma come indizi che consentono di scomporre e ricomporre gli strati attraverso cui si sedimenta la cultura cinematografica: seguendo la lezione di Malte Hagener sull’avanguardia europea, hanno consentito di identificare luoghi, istituzioni, eventi, artefatti (Hagener 2007). Per fare questo tipo di storia è necessario interrogare fonti che documentino attività troppo spesso invisibili, che si collocano al di sotto delle superficie della pubblicazione editoriale. Fonti personali e talvolta intime, come la corrispondenza o i diari, sono particolarmente preziose, nella misura in cui consentono di avvicinarsi a esperienze singolari o effimere, in cui la sfera privata e quella professionale sono spesso strettamente legate, e permettono di osservare il farsi concreto dell’attività critica.

Il primo dato che emerge con forza da queste indagini, che riguardano in grandissima parte esempi italiani, è che quella del critico, prima e ancora più che una professione, è una funzione, una posizione all’interno del campo culturale e intellettuale. Una posizione che può essere occupata con maggiore o minore intensità, con maggiore o minore centralità, da soggetti con competenze, interessi, formazione e finanche mestieri diversi, chiamati però tutti ad assolvere la medesima necessità sociale di rispondere a domande relative al significato del film, al valore di ciò che si è visto collettivamente e su grande schermo. Gli articoli di questo speciale mostrano con una varietà stupefacente di esempi che i critici e le critiche facevano (fanno) anche gli autori televisivi (Aristarco), i ricercatori universitari (Fink), le traduttrici (Ojetti), le addette stampa di case di produzione (Chantal), i responsabili di adattamenti cinematografici (Auriol). D’altra parte, possono giocare il critic’s game, per riprendere la formula di Rick Altman (2004 [1999]) usata qui da Francesca Tesi, scrittori affermati (Marotta), registi (Alessandro Blasetti) e religiosi (Covi). Quest’ultimo caso, preso in esame da Steven Stergar, illustra in maniera esemplare la porosità del campo critico e la duttilità degli strumenti in esso impiegati. Antonio Covi, attivo fin dagli anni Trenta, diventa gesuita nel 1953 e nel corso della sua lunga militanza cinefila usa la critica come una delle modalità attraverso le quali si declina il suo interesse per il cinema, di fianco all’organizzazione culturale in senso lato e alla regia di cortometraggi e documentari. È interessante che l’attivismo di Covi si concretizzi anche negli interventi di cinefilo militante, come organizzatore di dibattiti e cineforum nei quali mette in pratica i criteri di analisi e valutazione del film che ha elaborato nei suoi scritti.

Una simile mancanza di specializzazione può caratterizzare gli anni di apprendistato e di orientamento dei singoli operatori, ma può estendersi anche alle età della vita in cui il critico occupa il centro del campo di pertinenza. I modi e le ragioni di questa professionalizzazione intermittente o mancata possono essere connessi all’aleatorietà tipica delle professioni culturali, che obbligano spesso a integrare redditi incerti, alla particolarità della vita di redazione, nella quale tutti fanno un po’ di tutto (come scrivono Myriam Juan e Stella Scabelli a proposito di Suzanne Chantal), ma soprattutto alla necessità vitale di mantenere vivo un capitale sociale che possa essere convertito continuamente in capitale culturale (ed economico).

Le reti sociali in cui sono inseriti sono infatti il vero patrimonio lavorativo di questi operatori. Come illustrano Enrico Gheller e Laurent Husson, Jean George Auriol, fondatore della Revue du cinéma, sfrutta intensamente i rapporti con i registi per allargare il suo ventaglio di attività e rafforzare la sua posizione lavorativa. Paola Ojetti, una delle critiche la cui traiettoria è indagata nell’articolo di Juan e Scabelli, mette al servizio di Film, rivista per la quale negli anni che precedono la Seconda Guerra Mondiale è formalmente solo segretaria di redazione, l’enorme giacimento di relazioni personali e familiari con protagonisti della vita culturale e artistica italiana che le deriva dalla famiglia di origine e dal circolo del Salviatino. Ugo Casiraghi, a lungo critico del quotidiano comunista l’Unità, nota Sara Tongiani, costruisce il suo profilo di “cultural agent of translation” (Salazkina 2012) tra l’Italia e Cuba muovendosi all’incrocio tra critica militante, organizzazione culturale e appartenenza partitica. E i tre carotaggi che Matteo Berardini compie per delineare una storia sindacale della critica italiana rivelano che nei tentativi di costruire organismi di rappresentanza, ancora più che il contenuto specifico della critica (un cinema che cambia più volte statuto e importanza dal 1916 al 1971), conta la capacità di disegnare uno spazio di aggregazione tra operatori, un senso di riconoscimento condiviso che consenta alla categoria di dialogare efficacemente con gli altri portatori di interesse che – di volta in volta – occupano il sistema: industriali, altri soggetti corporativi attivi nel cinema, uomini politici e funzionari pubblici.

Non sembra casuale, a questo punto, che la necessità di controllo di una solida rete sociale sia inversamente proporzionale a quella di riconoscimento esplicito di un’individualità professionale da parte dei singoli operatori. Entra in gioco, in questa prospettiva, una dimensione di classe, consolidata per meriti lavorativi, o incorporata per via familiare: qui è una delle differenze tra i piccolo borghesi Aristarco, Casiraghi e Renzo Renzi, e soggetti per altri motivi affermati. Paola Ojetti, che nelle comunicazioni private è considerata talvolta dai suoi interlocutori quasi alla pari con il direttore di Film, Mino Doletti, nelle rappresentazioni pubbliche affetta modestia e si dipinge come una semplice esecutrice. La ricostruzione di Mattia Cinquegrani permette di osservare uno scarto analogo a proposito di Giuseppe Marotta: già collaboratore di numerose testate negli anni tra le due guerre, direttore di fatto di Film d’oggi nell’immediato dopoguerra, sceneggiatore e intellettuale conosciuto da un pubblico non specializzato, Marotta nelle sue recensioni per L’Europeo respinge apertamente il tono serio e cattedratico dei colleghi militanti, ma nei fatti infiltra i suoi articoli, solo apparentemente svagati, di preoccupazioni teoriche, definendo più o meno implicitamente lo statuto estetico del cinema (un’arte diversa dalle altre, ma da considerare insieme alle altre) secondo coordinate che non sono poi così distanti da quelle di matrice neoidealista di Aristarco e Chiarini (De Gaetano 2005). In questo contesto sono prevedibilmente gli outsider ad avere necessità di una qualifica professionale più definita, segnalando così una maggiore difficoltà a conciliare attività critica e integrazione nell’industria culturale. L’episodio della collaborazione del rigoroso marxista Guido Aristarco al quiz televisivo Lascia o raddoppia?, ricostruito da Matteo Macaluso usando materiali privati provenienti dall’archivio del critico, va a questo proposito oltre il valore aneddotico. Nei mesi che intercorrono tra due celebri polemiche che scuotono Cinema Nuovo, quella sul realismo in Senso (Luchino Visconti, 1955) e quella relativa al conflitto tra appartenenza ideologica e militanza estetica scatenato dall’intervento sovietico in Ungheria (raccolto poi in Aristarco 1981), Aristarco stila per il programma condotto da Mike Bongiorno una lista di domande a tema cinematografico, che costituiscono una sorta di estensione divulgativa del suo canone autoriale e filmografico.

Una simile separazione tra rappresentazione (o autorappresentazione) pubblica e routine private è complessa e non sempre possibile. Il mestiere del critico è talmente volatile da contaminare il tempo libero. Il cinema non si stacca facilmente dalla vita di tutti i giorni, come dimostrano gli scambi, insieme densi di amicizia e affinità professionale, tra Guido Fink e Lorenzo Pellizzari, studiati da Marco Zilioli. E le condizioni private hanno impatto sul ruolo pubblico e la possibilità di esercitarlo. Qui, alla dimensione di classe prima accennata, va aggiunta quella ancora più difficile da indagare di genere, in un campo in cui il contributo delle professioniste, soprattutto nei decenni di nostro interesse, era messo in ombra quando non sistematicamente “invisibilizzato”. Suzanne Chantal racconta nei suoi diari di essere stata estromessa dalla direzione di Cinémonde dopo un aborto. Un intellettuale alto borghese e fascista come Paola Ojetti, lo si è visto, sta attenta a distinguere la sua posizione pubblica di semplice segretaria dal ruolo che svolge realmente e sottotraccia per Film. Il posto centrale di Teresa Piccoli (moglie di Guido Aristarco) nell’organizzazione di Cinema Nuovo, fin dalla sua fondazione, è ricostruibile solo dalle testimonianze orali e da un raro accenno scritto presente in una lettera inviata dal critico durante la sua detenzione al carcere militare in seguito all’accusa di vilipendio alle Forze Armate. E proprio il caso L’armata s’agapò, di cui Michael Guarneri e Lidia Santarelli ricostruiscono l’impatto pubblico attraverso una documentazione inedita proveniente dai fondi di Renzi e Aristarco conservati alla Biblioteca della Fondazione Cineteca di Bologna e da quello del Tribunale Militare Territoriale di Milano, dimostra in maniera traumatica la centralità della critica cinematografica negli anni del dopoguerra e allo stesso tempo la sua evanescenza istituzionale. Il progetto per un soggetto sul disonorevole comportamento dei militari italiani in Grecia durante la Seconda Guerra Mondiale, pubblicato da Cinema Nuovo nel 1953, passa inosservato finché non è tradotto da un periodico greco che suscita l’interesse delle gerarchie militari italiane. La detenzione e la successiva condanna di Aristarco e Renzi sono quindi basate sulla obliterazione del loro status di critici e giornalisti: i due sono incriminati perché militari in congedo illimitato, ma non assoluto, a partire da un’interpretazione insolita, ma formalmente ineccepibile del Codice penale militare di pace. Questo critical incident crea un evento attorno al quale la comunità critica si aggrega e dispone attorno a sé altre comunità di interesse, nonché un’estesa e trasversale area politica insofferente nei confronti dei residui del militarismo anteguerra. In qualità di militari, Aristarco e Renzi saranno condannati con la condizionale, ma in qualità di critici e intellettuali saranno al centro di una campagna di opinione che porterà all’approvazione di una legge che limiterà la giurisdizione dei tribunali militari, in tempo di pace, a coloro che prestano effettivamente il servizio militare.

Il caso L’armata s’agapò riguarda un film mai fatto e nemmeno scritto, solo vagheggiato, ma in grado di suscitare l’interesse di lettori e potenziali spettatori. E in fondo è questo l’elemento appena visibile che lega tutte le vicende raccolte in questo speciale: la capacità che la critica ha, in questa fase storica, di organizzare, coinvolgere, educare, intrattenere, talvolta servire il pubblico. I film potrebbero fare meno dei critici, si dice talvolta, magari per sminuire l’importanza di quella che invece noi riteniamo a tutti gli effetti un’agenzia di mediazione culturale (Andreazza 2014). E forse questi articoli suggeriscono che è vero anche il contrario: pure la critica, in certe fasi del suo lavoro, può fare a meno dei film (mentre non può fare a meno di carta, di foto, di notizie, di strutture, di relazioni…). Ma critici e film non possono fare a meno di un altro elemento: il pubblico, che dà senso alle attività dei primi e alla circolazione dei secondi, nonché alle loro innumerevoli, possibili interazioni.

Bibliografia

Altman, Rick (2004 [1999]). Film/Genere. Milano: Vita e Pensiero.

Andreazza, Fabio (2014). “Il critico cinematografico. Genesi di un intermediario culturale in Italia.” Studi culturali (11)3: 377-400.

Aristarco, Guido (1951). Storia delle teoriche del film. Torino: Einaudi.

Aristarco, Guido (1981). Sciolti dal giuramento. Il dibattito critico-ideologico sul cinema negli anni Cinquanta. Bari: Dedalo.

Bisoni, Claudio (2006). La critica cinematografica. Metodo, storia e scrittura. Bologna: Archetipolibri.

De Gaetano, Roberto (2005). Teorie del cinema in Italia. Soveria Mannelli (CZ): Rubbettino.

Frey, Mattias (2015). The Permanent Crisis of Film Criticism: The Anxiety of Authority. Amsterdam: Amsterdam University Press.

Guerra, Michele e Sara Martin (2019a). La cultura della lettera. La corrispondenza come forma e pratica di critica cinematografica, Cinergie 15. https://doi.org/10.6092/issn.2280-9481/9661

Guerra, Michele e Sara Martin (2019b). Atti critici in luoghi pubblici. Scrivere di cinema, tv e media dal dopoguerra al web. Parma: Diabasis.

Guerra, Michele e Sara Martin (2020). Culture del film. La critica cinematografica e la società italiana. Bologna: il Mulino.

Hagener, Malte (2007). Moving Forward, Looking Back: The European Avant-garde and the Invention of Film Culture, 1919-1939. Amsterdam: Amsterdam University Press, 2007.

Salazkina, Masha (2012). “Moscow, Rome, L’Havana. A Film Theory Roadmap”. October 139: 97-116.