Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.23 (2023), 183–184
ISSN 2280-9481

Frammenti visivi. Lucia Tralli, Vidding Grrls. Nuovi sguardi sulle pratiche di genere nei fandom, Meltemi, Milano 2021

Eleonora SantamariaUniversity of L’Aquila (Italy)

Pubblicato: 2023-07-20

“Sottocultura” è un termine nebuloso che si apre a innumerevoli definizioni, mutevoli in base alla prospettiva e al contesto socioculturale adottati come punto di partenza: devianza, resistenza, fuga, risposta comunitaria a bisogni che la realtà non soddisfa, un gruppo che condivide un codice estetico e linguistico. E, in un contemporaneo in cui “cultura d’élite” e “popolare” convergono e i confini sbiadiscono, interrogarsi su cosa sia subculturale e decostruirne i significati si pone come un’impellenza epistemologica e, al contempo, un’operazione complessa. Dalla cura nei confronti di tale complessità si articola Vidding Grrls di Lucia Tralli, saggio che, come suggerisce il sottotitolo – Nuovi sguardi sulle pratiche di genere nei fandom – traccia nuove traiettorie, femministe e intersezionali, sulle pratiche del fandom, in particolare sul vidding. Per “vid” s’intende un remixaggio audiovisivo di clip tratte principalmente da serie o film accompagnato da una o più canzoni. Il legame di tale fenomeno con una comunità di riferimento abitata largamente da – persone socializzate come – donne conduce all’esplorazione di una storia sommersa e, spesso, denigrata tanto da rendere necessaria una metariflessione: come ri-orientare lo sguardo? Una nuova prospettiva, queer fenomenologica – nasce da un movimento; vuol dire posizionarsi come ricercatrice e guardare oltre – o dietro – la norma e la tradizione.

La struttura dello studio transdisciplinare è clessidrica: parte dal collocamento della pratica vidding nel più vasto ambito dei fan studies, si restringe sugli strumenti, le storie e l’anatomia del fandom vidding, per terminare nel nodo problematico sulla compenetrazione delle questioni di genere all’interno della frammentata pratica trattata.

La comparsa degli studi sul fandom, anch’essi posti nell’intersezione tra diverse discipline, nei dibattiti accademici è relativamente recente, intorno ai primi anni Novanta, e non è possibile trovare alcuna linearità nella loro storia. Com’è avvenuto anche per i queer studies, la prima fase di queste ricerche hanno discusso la patologizzazione del fan, tentando di sradicare l’immagine fanatica stereotipica della figura. Per non giungere a derive opposte e ugualmente parziali, ovvero a un’eccessiva idealizzazione della resistenza sociopolitica del fandom, Hall e Jenkins hanno lasciato emergere la necessità di evitare generalizzazioni teoriche, distanti dai segmenti di ricerca attuali, e la contraddittorietà di tali pratiche, allo stesso tempo trasformative e identitarie, corrotte e autentiche. La dinamica molteplice dell’impianto fandomico – e della pop culture che nutre e da cui viene nutrito – si riscontra in tutte le stagioni di ricerca successive. Prima, l’avvicinamento di queste pratiche marginali verso una centralità maggiore ha comportato sia accettazione culturale che controllo capitalista; poi, negli anni Duemila, la grande migrazione verso la rete e la trasformazione radicale degli ecosistemi mediali hanno comportato l’instaurazione di una relazione di sfruttamento e cooperazione tra fan e industrie culturali.

Internet non ha rivestito solo il ruolo di strumento per la pop culture, l’ha cyborgizzata, ibridata, rivoluzionando l’idea di comunità, la percezione interna ed esterna dei suoi soggetti, sempre più aggregati sotto uno stesso codice linguistico e frammentati dalla vastità del cosmo “virtuale”.

A questo punto, la specificità delle vidder nel contesto fandom si manifesta nel suo dialogo con gli studi femministi. Nell’ascoltarlo, si comprende la portata di una pratica fuori dall’asse produttivo che valorizzi una (contro)economia del dono, del futile e delle relazioni; è possibile indagare la mediazione tra sfera pubblica e intima in un contesto comunitario che pare accomunare i propri soggetti per la condivisione di un unico interesse (il vidding) ma che in realtà sottende una comune sensibilità e intelligenza emotiva.

Echi femministi e postmodernisti risuonano in diversi aspetti costitutivi del vidding. Innanzitutto, nella tecnica del remix, utilizzata dalle vidder per campionare e riassemblare elementi, clip nel nostro caso, per generare un contenuto nuovo, un’opera derivativa; capillare nel mondo digitale, per il vidding rappresenta una risemantizzazione del/dei propri oggetti di culto. La cultura che orbita attorno al montaggio e ai vid, inoltre, è mossa da una spinta affettiva nei confronti della fonte originaria e della comunità/casa stessa, tanto da rendere l’immaginario vicino a una “poesia comunitaria”. Infine, la presenza di una mentorship, di una pedagogia interna che non ammetta violenze verbali e della frammentazione della community nelle singole esperienze incarnate delle vidder, attesta uno sguardo altro, non tradizionalmente normato, verso i prodotti mediali.

Il saggio tenta di rispondere alla domanda “il vidding è una pratica femminista?”; per non tradire il proprio (s)oggetto di studio, l’autrice si focalizza su casi studio, singol3 vidder, dibattiti mai risolti, in una pluralità che sfugge all’omogeneizzazione a cui rischiano di essere sottopost3 le pratiche marginali, quelle tradizionalmente escluse dai discorsi accademici e storici. La risposta ha la conformazione di un nodo problematico in cui è doveroso chiedersi quale sia il confine tra legame emotivo e subordinazione alle industrie culturali e quanto la propria ricerca mini la vitale pseudoinvisibilità della comunità. Nella teoria debole, nelle domande che ci poniamo o che ancora dobbiamo porci, nella decostruzione e nella contraddizioni, è in quegli spazi che risiede il reale impatto trasformativo della pratica vidding.