Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.23 (2023), 185–191
ISSN 2280-9481

Festival di Berlino. Uno sguardo alla 73ª edizione: il concorso e la retrospettiva

Cinzia CattinDeutsche Kinemathek Museum für Film und Fernsehen (Germany)

Pubblicato: 2023-07-20

1 Come il cinema racconta il disagio del viver male

Melodramma e catastrofi naturali sembrano essere i temi dominanti della rassegna cinematografica berlinese di quest’anno, almeno per quanto riguarda i film presentati in concorso. Argomenti più scottanti e di attualità, come l’invasione russa dell’Ucraina o il movimento di protesta in Iran, vengono tematizzati in altre sezioni, riuscendo comunque ad ottenere una buona attenzione da parte del pubblico. Un festival sicuramente meno compatto del solito, grazie al decentramento delle sale cinematografiche (o a causa di esso, a seconda dei punti di vista), non più quindi concentrate nella zona della Potsdamer Platz ma sparse in molteplici punti della grande metropoli. Questo, se non ha facilitato la visione alla stampa, ha però permesso al pubblico un più vasto accesso alle proiezioni. Anche un’audience più giovane ha accolto con grande interesse la retrospettiva dedicata quest’anno al genere del Coming of age. Quest’ultima meritevole di riportare in sala numerosi capolavori restaurati, i quali - non rientrando nel canone dei classici del cinema - sono ancora difficilmente fruibili in formato digitale o streaming.

Ma torniamo alle opere in concorso. Come dicevamo, non mancano di focalizzare su relazioni familiari in bilico fra psicosi e incomprensioni generazionali, ossia tutto quello che volendo, e qui ci permettiamo di far nostro il titolo di una delle opere vincitrici, costituisce ‘il vivere male’ della nostra società.

Che di questo male sia in parte colpevole una pandemia e che essa non sia stata da tutti completamente digerita, ma anzi, incida ancora sul nostro presente risulta chiaro, come dicevamo, in alcuni dei lavori presentati in concorso.

Quello che più di tutti si fa testimone di questa corrente è senza dubbio The Survival of Kindness del regista australiano Rolf de Heer. Survival è un incubo distopico sul colonialismo e i suoi violenti metodi schiavisti girato però pensando al Covid-19. Quindi, lungo il percorso del viaggio intrapreso a piedi dalla protagonista BlackWoman (Mwajemi Hussein) ritroviamo maschere antigas e guanti, malattie contagiose che provocano piaghe ed eccessi di tosse. Tutti disagi che in questo futuro possibile legittimano persecuzioni e violenze razziste.

Con meno evidenza creativa la pandemia è presente se vogliamo ‘a priori’ anche in altre due opere. Durante le conferenze stampa, ben due registi, il tedesco Christian Petzold (Roter Himmel), e il cinese Zhang Lu (Bai Ta Zhi Guang) ricordano come l’idea iniziale per i loro film sia nata durante la forzata quarantena in hotel, al tempo delle prime chiusure dovute alla pandemia.

Nemmeno il grandioso film d’animazione Suzume, del giapponese Makoto Shinkai, ne è completamente immune. Le energie maligne che provocano i terremoti del suolo hanno preso la forma di un lungo verme, e solo chiudendo le porte di accesso al nostro mondo la protagonista Suzume riuscirà a tenerle a bada. La chiave magica è l’antidoto, il vaccino, che ci permette di avere il controllo sulle forze della natura ed evitare catastrofi. Il regista Shinkai riprende elementi conosciuti dell’immaginario filmico e ludico giapponese, in particolare del già premiato Studio Ghibli, ma anche dal videogioco La leggenda di Zelda, e li riutilizza in maniera forse poco innovativa in questo film un po’ road movie, un po’ coming of age, che però ha la forza di stupire nella grandiosità delle immagini e nel finale.

È vero, non si vedono mascherine nel corso del film, ma isolare il male dilagante dietro una porta è diventato un gesto familiare a tutti.

Torniamo alla rappresentazione cinematografica che abbiamo chiamato ‘disagio del vivere’ e ai diversi modi in cui viene mostrata. Se nel film Tótem è principalmente l’esternazione di una malattia fisica, in Manodrome, Bad Living (Mal viver), (Sur l’Adamant), e - anche se solo in parte - in Le Grand Chariot è soprattutto il disagio mentale a trovare largo spazio nelle narrazioni filmiche in gara per l’Orso berlinese.

Fig. 1. Sur l’Adamant | On the Adamant von Nicolas Philibert

La statuetta dopotutto la vince l’unico documentario in concorso, Sur l’Adamant (On the Adamant) di Nicolas Philibert, il quale ci porta a conoscere il male di vivere come viene vissuto nel mezzo dell’Europa, in un centro di cura diurno per malati mentali. Il luogo è inusuale e proprio questo rende il progetto ancora più interessante. Situato su una barca ancorata lungo la Senna, l’istituto si trova nel cuore di Parigi. Qui si ritrovano ogni giorno pazienti, che pazienti a prima vista non sembrano, e i loro terapeuti. Insieme organizzano e pianificano la giornata, svolgono attività di gruppo e quando è sera tornano ai loro appartamenti. Il centro è aperto e nessuno è obbligato a frequentarlo. Anche l’architettura, con le tante finestre aperte sull’acqua, rispecchia la volontà di riconnettere con il mondo chi con quest’ultimo rischia di tagliare ogni legame. L’idea di Philibert è che il film possa funzionare da ponte fra noi spettatori e le personalità disturbate, ma sempre molto creative, degli ospiti dell’Adamant, le quali con ironia e consapevolezza ci raccontano del loro quotidiano essere. Indubbiamente il documentario vive soprattutto grazie alla spiccata individualità dei protagonisti e alle storie che raccontano.

Di follia tratta anche il film Manodrome, di John Trengove. Essendo però un film di finzione, a differenza di Sur l’Adamant, qui il disagio viene immaginato fino al suo limite estremo. Ralphie (Jesse Eisenberg) è un giovane e tranquillo padre in dolce attesa, che non riesce a gestire il carico delle responsabilità familiari. Egli, inoltre, logorato dai suoi traumi infantili, invece di cercare aiuto psicologico, si lascia accalappiare da una setta machista, guidata da Dad Dan (un superbo Adrien Brody), che un suo amico già frequenta, e perduto ulteriormente il controllo della realtà, si lancia in aggressioni violente e folli.

Meno violento ma non per questo meno estremo è Mal viver (Bad Living) del portoghese João Canijo. Il film, premiato dalla giuria con l’Orso d’argento, è un dramma esistenziale, una raccolta di motivi sull’ansia e la psicosi di essere madre.

Siamo in un hotel sulla costa Nord del Portogallo. L’ambiente è chiuso, le protagoniste si muovono fra le stanze dell’hotel e i bordi della piscina esterna. Le camere sono tutte visibili e somigliano ai loculi di un alveare; gli spazi all’interno si fanno opprimenti, tetri e pesanti, così che le psicosi generazionali di tre donne - madre, figlia e nipote -, invece di chiarirsi si intensificano nel loro isolamento emotivo. Nella calma e in silenzio si compie l’atto di liberazione finale. Canijo, forse in una ricerca di completezza, arricchisce questo studio di un secondo film, Viver mal (Living Bad), presentato nella sezione Encounters che, se rispecchia lo stesso male di vivere del primo, lo allarga, con altri esempi di relazioni soffocanti fra madre e figlia. L’accostamento, anche se non formale, al teatro di August Strindberg o al cinema di Ingmar Bergman è messo in evidenza da una mdp che cerca di indagare i protagonisti più che di mostrarli, e da una unità spazio-temporale che ricorda la messa in scena teatrale.

In Bai Ta Zhi Guang (The Shadowless Tower) di Zhang Lu, l’ormai non più giovane protagonista Gu Wentong (Xin Baiqing) si perde fra i meandri della vita così come simbolicamente si perde nelle labirintiche stradine della vecchia città di Pechino. Scopriamo che quando lui era bambino il padre ha abbandonato la famiglia, e che la mancata presenza paterna ancora gli pesa. Tutte le sue relazioni personali ne sono state influenzate, tanto che pure Gu è assente, sia come padre, che come marito. Anche la sua nuova compagna, la molto più giovane Oyang (Huang Yao), cerca di scrollargli di dosso con fatica questa sua indifferenza alla vita. Alla notizia che il padre è ancora vivo, Gu sembra reagire dapprima con disinteresse, ma, andatolo a cercare, intraprende contemporaneamente un viaggio alla ricerca di sé stesso. La vecchia torre bianca della pagoda, unico edificio circolare e bianco di Pechino, di cui si dice che non rilasci ombra, è come il padre di Gu, l’unico punto di orientamento, sia per la sua bianca purezza che per la forma inconsueta, nella labirintica città vecchia.

Memorabile la scena della mdp, che in un paesaggio innevato si sposta in carrellata da Gu seduto, poi verso la torre, e quando ritorna a Gu, seduto al suo posto c’è il padre.

Al regista francese Philippe Garrel va il premio per la miglior regia. Il suo Le grand chariot altro non è che una ‘fantabiografia’ della famiglia Garrel, dove i tre ruoli principali sono affidati ai figli del regista, che per l’occasione appaiono per la prima volta insieme sullo schermo. Louis, Esther e Lena Garrel mettono in scena non solo il teatrino di burattini della famiglia, tema del film, ma anche il teatro della vita: gli amori, i tradimenti, la nascita e la morte sono gli elementi che portano avanti la narrazione. Il film si pone domande sulla vocazione artistica e sul tramandarsi di un’arte considerata minore, quella del teatro di burattini, che sta scomparendo; ma vuole essere soprattutto uno sguardo nostalgico alla famiglia come porto sicuro alle turbolenze della vita.

Onirico e magico è Disco Boy, il primo lungometraggio del regista italiano, trapiantato in Francia, Giacomo Abbruzzese.

Con il sogno di un passaporto francese, il bielorusso Aleksei (Franz Rugowski) rischia di annegare due volte: la prima, quando cerca di attraversare illegalmente un fiume dell’est Europa per entrare nella legione straniera francese; la seconda, quando sul fiume Niger, nel mezzo della giungla, dovrà affrontare un gruppo di ribelli locali per salvare degli ostaggi. Qui sarà costretto a sacrificare la vita di Jomo (Morr Ndiaye), uno dei ribelli. Proprio questa è una fra le sequenze più belle del festival, che innesca la componente onirico-magica del film: le riprese notturne - realizzate con una termocamera ad infrarossi -, se da una parte mediano la violenza dell’atto dell’uccisione, dall’altra ci immergono in un turbinio di colori, tanto da rasentare un’allucinazione. Non meraviglia quindi l’Orso d’argento alla fotografia di Hélène Louvart, già nota per la fotografia dei film di Alice Rohrwacher e per le sue collaborazioni con Agnès Warda (Le spiagge di Agnès) e Wim Wenders (Pina).

La casa, motivo ricorrente di Le grand chariot, occupa un posto centrale anche in un secondo film in concorso. Nel film messicano Tótem della regista Lila Avilés, questa diventa quasi claustrofobica, asfissiante. La mdp si muove senza pace fra le stanze della casa letteralmente piena di oggetti, piante ed animali. Una giungla in territorio umano, che non lascia respirare nemmeno lo spettatore, il quale, come la protagonista del film, la piccola Sol, preferirebbe nascondersi in un angolino, anche a rischio di rompere qualcosa, piuttosto che continuare ad errare per le stanze. Invece siamo partecipi insieme alla bambina dei preparativi della festa di compleanno organizzata da familiari e amici per il padre di Sol, Tona, malato in fase terminale avanzata. Una festa che, riallacciandosi al culto dei morti della tradizione messicana, diventa simbolicamente una cerimonia funebre.

Quasi tutti i film che giocano in casa, ossia quelli dei registi tedeschi già ben affermati, come Margarethe von Trotta, Christian Petzold e Angela Schanelec, hanno una correlazione letteraria.

Sicuramente ben meritato è il gran premio della giuria per Roter Himmel di Christian Petzold. Una éducation sentimentale alla francese, come lo presenta l’autore durante la conferenza stampa. I riferimenti al cinema francese (Éric Rohmer) e italiano (Roberto Rossellini) non mancano, tanto che il film vive della leggerezza e del piacere del racconto per il racconto. In una calda estate il giovane scrittore in crisi Leon (Thomas Schubert) si ritrova sul mar Baltico a dover dividere, di malavoglia, una casa isolata nel bosco con altri tre amici. Lui è il solo a non divertirsi, fingendosi occupato con la stesura finale del nuovo romanzo. Nemmeno le gentili attenzioni di Nadja (Paola Beer) riescono a distoglierlo dal già prevedibile insuccesso del suo libro. Quando all’improvviso il cielo si tinge di rosso e una sciagura stravolge l’idillio estivo del gruppo, sarà un incontro nel bosco a costringere Leon a svegliarsi dal suo letargo emotivo, e gli permetterà inoltre di superare l’impasse creativa. Anche Leon con la sua inettitudine rientra benissimo nell’immaginario dei disagiati del vivere di questo festival.

Dopo Undine, presentato nel 2020 sempre a Berlino, dove Petzold sondava il tema dell’acqua, ora tocca all’elemento del fuoco.

Il fuoco non è solo quello dell’incendio che brucia il bosco, ma è anche la fiamma della passione amorosa, che incendia i cuori dei quattro ragazzi e che viene tematizzato nella poesia del poeta tedesco Heinrich Heine, Der Asra, che Nadja legge per ben due volte di seguito, e il cui ritmo metrico potrebbe benissimo sostituire, parole del regista, un brano musicale.

Il premio per la sceneggiatura spetta al film Music di Angela Schanelec, già vincitrice nel 2020 dell’Orso d’oro con Ich war zuhause, aber… Se quest’ultimo parlava dell’arte del mettere in scena, Music ci accompagna nella riscoperta del mito di Edipo, un classico senza tempo, che la regista rielabora nel suo stile minimalista. Il cinema di Schanelec non è fatto di narrazione, piuttosto di omissione. Nei suoi lavori la parola è usata poco, al suo posto viene preferita la musica, e mai in eccedenza, ma ben motivata dalla trama. La narrazione è data da immagini sospese nel tempo: rari i dialoghi, lenti i movimenti, i rumori arrivano dal fuori scena. Pochi sono gli elementi che ci permettono di riconoscere in Ion (Aliocha Schneider) il bambino abbandonato Edipo, che ignaro del suo destino uccide il padre e sposa la madre Iro (Aghate Bonitzer), la Giocasta del film. Anche perché, dopo il suicidio di questa, Ion non si abbandona alla disperazione, ma si dedica all’arte del canto. Alla solennità mitica della prima parte, resa con la staticità delle immagini di una Grecia arcaica e pietrosa, segue una parte più musicale, girata a Berlino. Il film si chiude con una lunga sequenza finale, un’allegoria danzante che ricorda immagini di metope classiche con baccanti in festa. L’arte, in questo caso la musica, salva il moderno Edipo dal tragico destino a cui era stato predestinato e Ion, invece di strapparsi gli occhi, continua a vivere grazie alla musica. È inevitabile, visto il soggetto del film, non pensare all’Edipo re di Pasolini, che Schanelec dice di conoscere e ammirare, ma di non aver usato come riferimento per Music.

Margarethe von Trotta torna all’amato biopic su donne famose (Rosa L., Hannah Arendt) per raccontare in Ingeborg Bachmann – Reise in die Wüste un periodo della vita della poetessa austriaca. Il film si concentra sullo scorcio di vita più passionale della scrittrice, quando nel 1958 conosce lo scrittore Max Frisch e inizia con lui una tormentata relazione, si trasferisce a Roma e qui frequenta altri intellettuali, fra i quali il compositore tedesco Hans Werner Henze e lo scrittore austriaco Adolf Opel. Proprio dal racconto di un lungo viaggio nel deserto in compagnia di quest’ultimo prende avvio il film, per poi ripercorrere a ritroso, in lunghi flashback, i momenti centrali della storia con Frisch. L’attrice Vicky Krieps riesce a rendere con sagacia e credibilità i vari e contrastanti umori della complessa personalità di Ingeborg Bachmann, ma non riesce a caricarla fino in fondo di autenticità. Quel suo disagio, quel male di vivere, caratteristico della sua poesia, e che purtroppo l’ha condotta ad una tragica morte, rimane insondato. Nel film di von Trotta non se ne parla, anzi le ultime immagini nel deserto sono piene di luce e colori brillanti, tipicamente happy end. Forse che la vita reale sia troppo drammatica per la finzione filmica?

Fig. 2. Ingeborg Bachmann – Reise in die Wüste

2 Come il cinema racconta il diventare adulti. La retrospettiva Young at Heart – Coming of Age at the Movie

La Berlinale ha pensato di dedicare la retrospettiva di quest’anno al genere cinematografico del coming of age, e così dare voce e immagini a storie di giovani di ogni parte del mondo. L’idea degli organizzatori non è nata a caso. Si è voluto riportare l’attenzione su un’età, quella dei giovani, che sia la politica che la società, anche a causa pandemia, hanno in parte abbandonato a se stessa. E questo è avvenuto in un periodo storico in cui proprio questa - con le proteste di Friday for Future o di Ultima Generazione, senza dimenticare il movimento Woman Life Freedom - si è posta a capo di movimenti internazionali che intendono ridiscutere la (mal)gestione delle risorse e riappropriarsi del futuro. Inoltre, l’insicurezza sociale ed economica seguita alla pandemia, rischia di prolungarsi ulteriormente per le giovani generazioni di oggi, anche a seguito dell’invasione russa in Ucraina, e all’accelerazione, appunto, della crisi climatica.

L’originale idea di quest’anno è stata quella di presentare ventotto lungometraggi, proposti da altrettante personalità del mondo cinematografico, nei quali si delineano gli interessi, le insicurezze e le paure dell’adolescenza. Il risultato è stata una vasta panoramica del cinema internazionale degli ultimi settant’anni dedicato al tema.

Fra i nomi dei registi in lista troviamo Wim Wenders, Alice Diop, Pedro Almódovar, Wes Anderson, Luca Guadagnino, Abderrahmane Sissako, Martin Scorsese, Ryūsuke Hamaguchi; ma anche attori e attrici come Tilda Swinton, Juliette Binoche, Ethan Hawke, Kristen Stewart, i quali hanno potuto scegliere un film per loro importante, che abbia per loro segnato una cesura e li abbia fatti ‘crescere’ e maturare, non solo intellettualmente, ma anche da un punto di vista artistico.

Come spiega Annika Haupt, responsabile della sezione, i film selezionati sono uniti da una vaga linea comune del ‘diventare grandi’.1 Poi questo ‘diventare grandi’ è stato interpretato individualmente in modo personale ed originale, non essendoci parametri o canoni che ne limitino i confini, e anzi, il genere stesso, essendo molto dinamico, ben si presta a mescolarsi con altri generi.

Il cinema ha da sempre dedicato spazio a storie che ritraggono adolescenti nel momento del loro divenire adulti, con le problematiche della crescita, i conflitti con i genitori, ritraendo giovani a confronto con il mondo e la società, e che con questi si pongano in relazione di conflitto.

Il genere - solitamente per definirlo viene usato il termine inglese di coming of age - ha dei confini molto ampi ed elementi spesso variabili. L’unico tratto comune è il discorso sulla transizione da bambino all’età adulta. I protagonisti sono bambini o adolescenti ma i temi trattati riguardano spesso anche gli adulti. Come anche la retrospettiva ha messo in luce, altri elementi, quali l’ambientazione in una scuola con i suoi fenomeni di bullismo (Typhoon Club, Shinji Sōmai, 1985; Furore e grida, Jean-Claude Brisseau, 1988; Dov’è la casa del mio amico? Abbas Kiarostami, 1987) gli scontri fra gangs di quartiere (Rusty il selvaggio, Francis Ford Coppola, 1983), i conflitti genitori-figli (Splendore nell’erba, Elia Kazan, 1961) le prime esperienze sessuali (Ai nostri amori, Maurice Pialat, 1984), l’indipendenza e la libertà (Senza tetto né legge, Agnés Varda, 1985), sono a volte presenti, ma rimangono intercambiabili e non sempre necessari.

Per quanto riguarda i protagonisti è interessante notare, che siano stati presi in considerazione film dove questi sono ancora bambini non scolarizzati, e quindi si direbbe ancora lontani dalle problematiche dell’adolescenza. È il caso di The Beautiful Girl (Gražuolė, 1969), opera scelta dal regista ucraino Sergei Loznitsa; o di Il piccolo fuggitivo (Little Fugitive, 1953), il favorito del regista americano Wes Anderson; Lo spirito dell’alveare (El espiritu de la colmena, 1973) scelto dalla vincitrice dell’orso d’oro dell’anno scorso, la regista spagnola Carla Simón; o ancora A Bag of Rice (Kiseye Berendj, 1996).

In tre film salta subito agli occhi la problematica dell’abbandono del nido familiare come conseguenza del divenire adulti. In due di questi, L’invitto (Aparajito, 1956) e Sugar Cane Alley (Rue Cases-Negres, 1983), l’allontanamento dalla famiglia e dal luogo di nascita, a causa ma anche grazie all’istruzione scolastica, appare l’unica via verso l’auto-affermazione del singolo nella società, quindi anche a costo di perdere il legame familiare. All’opposto contrario, il film Manila (Maynila,1975), scelto dal regista filippino Lav Diaz. Qui, l’allontanamento dal paradiso, luogo dell’infanzia felice, verso la città, implica una perdita completa del controllo su sé stessi, dove lo sfruttamento del corpo (abuso della forza lavoro per l’uomo, abuso sessuale per la donna) non ha limiti, se non con la morte.

Sicuramente poco conosciuto il film scelto da Sergei Loznitsa. Il sensibile ritratto in bianco e nero della piccola Inga in The Beautiful Girl (Grazuolė, 1969) mette in luce la fragilità di una bambina, nella sua prima esperienza fuori le mura del cortile di casa, quando il suo mondo fiabesco si confronta con la realtà del mondo esterno.

L’incredibile Touki Bouki (1973), del regista senegalese Djibril Diop Mambéty e scelto dal regista Abderrahmane Sissako, è sia per l’uso dei colori, sia per lo spirito anarchico che lo permea, molto godardiano e nella sua radicalità ricorda alcune scene di Il bandito delle 11 (Pierrou le fou, 1965). E forse è ancora più estremo di quest’ultimo nel fare uso del montaggio associativo di immagini. La voce di Josephine Baker copre le immagini di mandrie portate prima al pascolo e poi al macello, mentre i due giovani studenti hippie Anta (Mareme Niang) e Mory (Magaye Niang) sognano di far fortuna e andare a Parigi a fare la bella vita.

Fi. 3. Touki Bouki

Dai classici americani come Splendore nell’erba (Splendor in the Gras, 1961) e Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause, 1955), ai più recenti Amiche per sempre (Now and Then, 1995) e Il giardino delle vergini suicide (The Virgin Suicides, 1999), si allontana notevolmente il meno popolare esperimento filmico di Martha Coolidge, Not a Pretty Picture (1976). La regista mette in scena una docu-fiction a sfondo autobiografico su un brutto episodio di violenza sessuale subito da lei stessa in età adolescenziale. La dolorosa rielaborazione del danno subito avviene in contemporanea alla realizzazione del film, durante gli scambi di idee fra Coolidge e gli attori interpreti.

Non potevano mancare in rassegna alcuni capolavori del cinema internazionale come Racconto crudele della giovinezza (Sheishun zankoku monogatari, 1960), Prima della rivoluzione (1964), o ancora Tre colori - Film blu (Trois couleurs: Bleu, 1993).

E nemmeno film che sono ricordati in particolar modo per i loro protagonisti fuori dagli schemi e per questo rimasti nella memoria di intere generazioni, quali Una pazza giornata di vacanza (Ferris Bueller’s Day Off, 1986), Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause, 1955), Rusty il selvaggio (Rumble Fish, 1983), e Margheritine (Sedmikrásky, 1966).

Sicuramente senza una lettura dei messaggi o dei video-messaggi di registi e attori2 che hanno scelto i film, sarebbe impossibile risalire alle motivazioni della scelta delle opere basandosi solo sulla biografia o sul percorso autoriale degli autori della selezione. Così, se la regista indiana Aparna Sen sceglie Il convitto (Aparajito, 1956) del suo compatriota Satjait Ray, il regista iraniano vincitore di un orso d’oro nel 2019, Mohammad Rasoulof, dal carcere iraniano in cui è segregato, sceglie invece il film del regista tedesco Werner Herzog, L’enigma di Kaspar Hauser (Jeder für sich und Gott gegen alle, 1974). Mentre il film iraniano Bag of Rice (Kiseye Berendj, 1996) è stato scelto dall’attrice britannica Tilda Swinton.

Una rassegna quindi, che parte da una premessa certamente interessante, proprio perché insolita per un festival, e segnala una svolta di apertura a nuovi stimoli redazionali. Questo rimane purtroppo anche il suo limite. In quanto, la completa mancanza di coordinate di partenza - fossero state solo spazio-temporali -, trattandosi di un genere, come dicevamo dinamico e adattabile a convivere con generi più classici, ha certamente ampliato il panorama all’infinito. Non si è raggiunto l’obbiettivo (e forse non lo era) di proporre una panoramica veramente internazionale: in quanto la concentrazione di film di produzione americana è pur sempre un buon terzo delle opere presentate.

Allo stesso tempo, specie leggendo le motivazioni delle scelte, ha certamente ribadito, quanto il cinema, evadendo le etichette, ci permetta di uscire fuori dai nostri confini identitari, e come spesso un buon film ci raggiunga tramite vie traverse, spesso in condizioni non ottimali di visione e nei modi e momenti più inaspettati, ma fortunatamente sia capace di deporre i suoi frutti, scavalcando l’intervento di censura, anche in un regime totalitario.


  1. Intervista con la coordinatrice della retrospettiva Annika Haupts in rbb-kultur del 17.02.2023↩︎

  2. Per le dichiarazioni che accompagnano le scelte dei film: https://www.berlinale.de/de/news-themen/berlinale-themen/retrospektive-2023.html↩︎