Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.24 (2023), 135–152
ISSN 2280-9481

Da veduta a sguardo: Bela (1913) al centro dello schermo

Martina MorabitoUniversity of Padua (Italy)

Martina Morabito is a research fellow at the University of Padua, focusing on Russian pre-revolutionary cinema in the Caucasus, and a lecturer in Russian Literature at the University of Siena. In her recent book Between Greece and the Orient (Quodlibet, 2022), she analyses the conceptualization of geographic space in Russian Modernism. She is also a literary translator: she has published an anthology of Russian haiku, and the first Italian edition of A. Blok’s The Snow Mask (San Marco dei Giustiniani, 2023), further developed into a podcast (Nevemercurio).

Ricevuto: 2023-06-03 – Versione revisionata: 2023-09-14 – Accettato: 2023-09-14 – Pubblicato: 2023-12-20

From View to Gaze: Bela (1913) at the Centre of the Screen

Abstract

Oriented by visual, gender and ethnographic studies, and broadening the focus from the film itself to the reviews in the cinema press of the period, this article offers a new interpretation of the Russian film Bela, a work that has been largely overlooked by critics, directed by Andrej Gromov and written by Marija Kallaš in 1913. Despite being a cinematic adaptation of a 19th century short story composed by Michail Lermontov bearing the same title, and therefore presenting itself as a paradigmatic example of classic narrative cinema, Bela challenges the typical features and conventions of the genre, reversing the standards and experimenting with the peculiarities of the documentary genre, particularly with the aesthetics of the coeval cinematic travelogues. Additionally, Kallaš’s screenplay puts the female character at the very centre of the narrative, and transforms Bela, an exotic Circassian princess depicted through ethnic and gender stereotypes, from a passive icon into an active and mobile figure, immersed in the landscape, able to observe the world around her.

Keyword: Early Russian Cinema; Lermontov; Visual Culture; Caucasus; Marija Kallaš.

1 Introduzione

A inizio Novecento una qualità “parassitaria di sfruttamento, a senso unico” (Ivaldi 2011: 16) contraddistingue quasi ovunque il rapporto tra la letteratura, fonte di soggetti e personaggi, e il cinema, medium predatore. È tale accezione derivativa a influenzare in Russia le scelte estetiche e tematiche di sceneggiatori, registi e produttori cinematografici, impegnati in progetti di trasposizione sullo schermo dei grandi classici ottocenteschi: dalle sole opere di Puškin, ad esempio, nel periodo prerivoluzionario vengono tratte le pellicole Boris Godunov (1907, regia di I. Šuvalov), Pikovaja dama (La dama di picche, 1910, regia di Čardynin; e per la regia di J. Protazanov nel 1916), Evgenij Onegin (1911, regia di Gončarov), Ruslan i Ljudmila (Ruslan e Ljumila, 1915, regia di V. Starevič). Oltre a legittimare la qualità artistica del nuovo mezzo espressivo, il legame con la letteratura del passato permette di evitare il pagamento dei diritti d’autore e di aggirare la censura, più concentrata su argomenti di attualità (Leyda 1983: 40). La distanza temporale tra scrittura letteraria e riscrittura cinematografica sembra però non eliminare “l’angoscia dell’influenza”, per dirla con Harold Bloom. In un autoritratto caricaturale (Fig. 1) che gioca con il titolo del racconto di Nikolaj Gogol’ Strašnaja mest’ (Una terribile vendetta), il regista Vladislav Starevič si immagina vittima delle attenzioni dispettose dello scrittore, evidentemente scontento della resa filmica del proprio testo letterario adattato per il cinema e perciò in cerca di una poco letteraria “terribile vendetta” nei confronti di Starevič.

Fig. 1. Vignetta tratta dalla rivista Vestnik Kinematografii 1913, 24: 35.

Tra il 1909 e il 1914 sul mercato russo compaiono le pellicole Pesn’ pro kupca Kalašnikova (Il canto del mercante Kalašnikov, 1909, V. Gončarov), Bojarin Orša (Il boiaro Orša, 1909, P. Čardynin), Vadim (1910), Demon (Il demone, 1910, P. Čardynin), Bela (1913), Beglec (Il fuggitivo, 1914), Maskarad (Un ballo in maschera, 1914), tutte tratte da opere in versi e in prosa di Michail Lermontov, scrittore del periodo romantico che pare essere particolarmente adatto al clima culturale di inizio Novecento:

La poetica delle opere di Lermontov si fondeva in maniera perfetta con l’estetica dei primi anni del cinematografo, fortemente definita dalle specificità del muto. L’espressività artistica si basava sul gesto e sulla mimica, a volte ipertrofica, e gli eroi dello schermo si animavano di passioni fatali ed estetica romantica (Furtaj 2013: 48).

Geroj našego vremeni (Un eroe del nostro tempo), la più celebre opera in prosa di Lermontov, che secondo Nabokov (1958: 12) detiene un “eterno fascino” in virtù della sovrapposizione del destino dell’autore con quello del suo protagonista Pečorin, si apre con il racconto Bela, prima tessera del complesso mosaico narrativo del romanzo1 e, nel periodo prerivoluzionario, unico tra i racconti a essere stato trasformato in film. Sulle pagine della nota rivista d’epoca Vestnik Kinematografii un anonimo recensore sintetizza così la trama del racconto:

La delusione e la noia spingono [Pečorin] a recarsi a un matrimonio nell’aul [tipico villaggio caucasico], dove si innamora di Bela; questi stessi sentimenti gli faranno poi perdere in fretta l’interesse per la bellissima circassa. Bela è un giocattolo per Pečorin, un divertimento temporaneo. Per amore del suo capriccio non si ferma davanti a niente, non è abituato a frenare né la sua vanità né i suoi desideri. Il pensiero di ottenere Bela gli attraversa la mente e porterà a termine il suo piano: con una demoniaca freddezza d’animo provoca Azamat promettendogli, in cambio della sorella, Karagëz, il cavallo di Kazbič, desiderato ardentemente dall’esuberante ragazzo. Ma quando Kazbič si vendica del rapimento del suo cavallo e, dopo aver ucciso il padre di Bela, ferisce a morte pure lei, nell’animo di Pečorin, alla vista della donna morente, non solo c’è una profonda pietà per la donna, ma anche una sofferenza travolgente. In quel momento sperimenta in maniera sincera tormenti terribili, tanto che il simpatico e compassionevole Maksim Maksimyč teme persino per lui. […] E quando Bela infine muore, e il vecchio capitano Maksim Maksimyč vorrebbe consolare il giovane compagno e pensa a cosa poter dire, Pečorin alza la testa e scoppia in una risata… (anonimo 1913b: 59).

Se, come scrive Lotte Eisner, “un singolo film non è mai un fenomeno strettamente individuale, staccato dalle altre espressioni artistiche e dagli eventi contemporanei” (1991:6), l’analisi di Bela (1913), una pellicola rimasta finora assente dal discorso critico, potrà fornire nuovi punti di vista sulla rappresentazione delle periferie dell’Impero russo. Bela è infatti ambientato in un Caucaso esotico e romanticizzato e presenta agli spettatori russi degli anni Dieci del Novecento una storia di conquista, militare e amorosa, avvenuta negli anni Trenta dell’Ottocento. Il racconto di Lermontov è stato spesso analizzato tramite l’impostazione postcoloniale, in quanto rappresenterebbe un testo in cui è particolarmente evidente l’ideologia dell’imperialismo russo: la conquista della figura femminile “orientale” da parte del militare russo Pečorin rispecchia la conquista del territorio del Caucaso da parte dell’Impero.2 Il film porta il nome della sua protagonista, una donna straniera che viene rapita prima da un russo, poi da un circasso e che vive in prigionia. Nel testo letterario, Bela è una principessa “raffigurata essenzialmente in riferimento alla sua passione e alla sua sessualità, emblema di donna sottomessa e pronta al sacrificio del sé” (Žigunova 2018: 185), mentre nel film, come si vedrà, la figura femminile è messa al centro dello schermo e della trama, e dotata di possibilità di azione e di movimento nello spazio.

Il film servirà inoltre come esempio di una delle prime riscritture cinematografiche femminili di un classico che, nella versione lermontoviana, è raccontato unicamente da voci maschili. La sceneggiatura è stata scritta da Marija Kallaš,3 una delle pioniere della cinematografia russa. In anni recenti è del resto emerso in maniera distinta quanto sia stato centrale il ruolo ricoperto dalle donne nell’industria cinematografica degli inizi, non soltanto come attrici in ruoli scelti e scritti da uomini, ma anche in quanto registe, sceneggiatrici, produttrici, soprattutto in Francia e negli Stati Uniti.4 Nell’Impero russo la situazione è analoga: sono molte le donne proprietarie di sale cinematografiche (come A.E. Genzel’/Hänsel), produttrici (si ricordi almeno Natal’ja Bachareva), registe (tra cui, la prima, Elizaveta Thiemann) e, come appunto nel caso di Kallaš, sceneggiatrici.5 Nata nel 1866, Marija lavora come giornalista per alcuni periodici moscoviti, pubblica volumi di critica letteraria su Zinaida Volkonskaja e Aleksandr Puškin6 e collabora con registi e imprenditori cinematografici; dopo la Rivoluzione del 1917, lascia la Russia per stabilirsi definitivamente a Parigi, dove morirà nel 1955.7 Kallaš sembra conformarsi a quella patente di “straordinarietà”, quel “paradigma di memorabilità borderline” che per Brogi (2022: 25) sono spesso stati l’unica modalità di uscita dal silenzio riservato alla condizione femminile: viene descritta come somigliante a un uomo nelle maniere, nella voce e nell’abbigliamento e, allo stesso tempo, simile a una premurosa madre di famiglia; viene spesso definita “strana” e “psicopatica” e Venjamin Višnevskij, tra i massimi studiosi del cinema russo di inizio secolo, declina il suo nome al maschile, scambiandola per uomo (Rjabčikova 2021: 82). Marija Kallaš è inoltre interessata al dibattito sul femminismo ed è critica nei confronti della “nuova” letteratura femminile alla moda, in cui il ruolo giocato dalla scrittrice è pari a quello di una performer davanti a una folla interessata solo ai particolari della sua vita intima; l’obiettivo delle donne, secondo la sceneggiatrice, deve invece essere molto concreto: la conquista dei diritti civili (cfr. Andreeva 2022).

Nella prima parte del presente lavoro si vedrà come Bela, emblema del genere del film a soggetto, un soggetto ottocentesco della più alta tradizione letteraria, affianchi alle consuete scene organizzate in maniera narrativa alcune riprese documentaristiche. Entrambe le forme, invece che rendere problematica la classificazione della pellicola, si affermano a vicenda, confermando come la distinzione tra fiction e non-fiction non sia sempre così netta, emerga nella sua continua trasformazione (Slugan 2019) e non risulti sempre adatta all’analisi delle produzioni cinematografiche dei primi decenni. Come si vedrà nella seconda parte dell’articolo, tale fluidità nei confronti del genere filmico è accompagnata da un atteggiamento non rigido verso il testo letterario di Lermontov, nonostante tutte le “rassicurazioni” sulla fedeltà al testo letterario originale offerte da Kallaš che, come nella vignetta presentata in precedenza, sembra avvertire dietro di sé la presenza, temibile, dell’autore. Su Vestnik Kinematografii e nella sua corrispondenza con Knipper, afferma a più riprese che il compito dello sceneggiatore non deve essere quello di “distorcere” l’opera letteraria attraverso un “rifacimento” (Garris 1914b: 83), ma l’analisi della pellicola fa emergere significativi punti di distanza con il testo di Lermontov. Il topos della passività della donna circassa,8 infine, pur conservando un’estetica stereotipata e modellata su precedenti figurazioni etnografiche, viene messo fortemente in discussione.

2 Bela al cinema: film a soggetto e documentario esotico

Nel 1913 il celebre imprenditore cinematografico, regista e sceneggiatore Aleksandr Chanžonkov9 contatta la giornalista Marija Kallaš per affidarle il compito di selezionare alcuni testi letterari da adattare per il cinema; saranno tre le opere da lei sceneggiate, Bela10 (1913, da Lermontov), Obryv (Il burrone, 1913, da Ivan Gončarov) e Teni grecha (Le ombre del peccato, 1915, dal romanzo di Aleksandr Amfiteatrov Otravlennaja sovest’, Coscienza avvelenata).11 Kallaš, che spesso interviene sulle riviste di cinema firmando articoli con lo pseudonimo maschile Garris, lavora all’incarico molto seriamente, convinta della nobiltà dell’arte cinematografica che, più che essere vicina al basso intrattenimento del circo e del cabaret, è invece pari alla letteratura. Nel suo carteggio con l’attrice Ol’ga Knipper, tesse infatti le lodi di Chanžonkov, un uomo colto che si pone come obiettivo la costruzione di un dialogo tra letteratura e cinema, volto non soltanto alle trasposizioni di romanzi famosi, ma anche al recupero delle fiabe tradizionali russe, delle byliny [canti popolari epici] e dei racconti per l’infanzia. Secondo Kallaš, il problema principale della nuova arte del cinema risiede nel fatto che la tecnica innovativa è in posizione molto più avanzata rispetto all’esito artistico delle pellicole, in quanto il gusto, l’arte e l’estetica devono ancora formarsi adeguatamente (Koščienko, Ėngel’gardt 2016: 223). Inoltre, l’elemento di differenziazione tra cinema e letteratura non risiede tanto nella qualità visuale del primo, quanto piuttosto nel fatto che manchi della dimensione sonora: “la letteratura è l’arte della parola, il cinema è il campo delle azioni mute” (Garris 1914: 17).12

Per l’adattamento cinematografico dell’opera di Lermontov, il progetto iniziale di Chanžonkov è quello di girare episodi dedicati a tutte le sezioni del romanzo Un eroe del nostro tempo (ovvero Bela, Maksim Maksimyč, Taman’, La principessina Meri, Un fatalista), parte nel Caucaso, parte a Mosca. Verrà però scritto e girato solo il primo episodio, Bela, affidato alla regia di Andrej Gromov, che pure recita nella parte del protagonista maschile, il giovane ufficiale russo Pečorin.13 Kallaš afferma di aver scritto la sceneggiatura “seguendo esattamente Lermontov” (Koščienko, Ėngel’gardt 2016: 227), sceneggiatura che però è andata perduta; non sappiamo quindi se la resa finale della pellicola abbia rispettato quanto scritto da Kallaš, o se siano state apportate modifiche da parte del regista.14 Nella stampa cinematografica dell’epoca (Vestnik Kinematografii, Sine-fono) sono tuttavia presenti utilissime recensioni, come quella qui proposta in apertura, e descrizioni della pellicola. Il film lascia dunque traccia, anche se non è accompagnato da una campagna pubblicitaria particolarmente strutturata: le riviste non pubblicano né il poster del film, né le fotografie di scena e degli attori, come invece avviene generalmente per altre pellicole di Chanžonkov. Sul numero 21 dell’ottobre 1913 del bimensile Vestnik Kinematografii è presente un breve e curioso articolo di commento alla pellicola, in una forma ibrida, a metà tra la recensione vera e propria e quella che sembra essere una descrizione delle didascalie e degli intertitoli, che però sono assenti dal film.15 Dopo aver introdotto la figura di Bela, “bellissima, graziosa e semiselvaggia” (anonimo 1913a: 15-16), il recensore prova a compensare l’assenza dei dialoghi nel film inserendo ciò che “sembra di sentire” sullo schermo, citando direttamente dal testo di Lermontov: le frasi in un russo impreciso di Bela, che si schermisce e si sottrae a Pečorin; la sfida a se stesso pronunciata dall’eroe, che scommette di riuscire a conquistare quel cuore femminile; l’amara constatazione di Bela dello sfiorire dell’innamoramento di Pečorin.

Emerge dunque come la descrizione della trama, che abbiamo riportato nell’introduzione, e la recensione appena citata non siano per niente rispondenti alla realtà della pellicola: a essere illustrato è sempre il racconto di Lermontov, la fonte autorevole, presente anche in forma di numerose citazioni, mentre è evidente che chi scrive gli articoli non ha (ancora?) visto il film di Gromov.

Le differenze tra testo e film sono in realtà rilevanti: in primo luogo, l’assenza della figura del narratore nel film, che ha invece un ruolo centrale nell’architettura del racconto e permette tanto un distanziamento ironico, quanto un’ingenua ed entusiastica adesione ai fatti raccontati.16 Insieme al narratore, scompaiono anche le sue divagazioni in forma di brevi descrizioni del paesaggio caucasico visto che l’elemento paesaggistico, all’interno del film, non è presente in maniera così significativa. Nei pochi casi in cui nella pellicola si incontra un campo lungo o lunghissimo è perché quella determinata inquadratura ha una dimensione prettamente narrativa: Pečorin e Maksim Maksimyč che a cavallo raggiungono il luogo del matrimonio al quale sono stati invitati e dove conosceranno Bela, ad esempio, o Kazbič in fuga a cavallo con il corpo di Bela, inseguito dai due russi. Il paesaggio è invece centrale nell’opera di Lermontov. Le digressioni paesaggistiche, spesso in forma di descrizione stereotipata, aiutano a definire alcuni tratti del narratore: inesperto, lontano dal mondo altro del Caucaso e della montagna, incline a banali riflessioni romanticheggianti, attento alla costruzione di una distanza tra sé (russo, nordico, scrittore) e gli altri. Ne riportiamo alcuni esempi:

Silenzio, intorno, un silenzio tale che dal ronzio di una zanzara era possibile seguirne il volo. A sinistra nereggiava la profonda gola; sopra di lei e di fronte a noi le vette blu dei monti solcate di rughe, coperte da falde di neve, si profilavano nella pallida volta celeste che conservava ancora l’ultimo riflesso del tramonto. Nel cielo scuro cominciavano a brillar le stelle, e stranamente mi sembrò che fossero molto più alte che da noi al nord. Ai due lati della strada sporgevano nude pietre nere; ogni tanto da sotto la neve si affacciavano dei cespugli ma non si muoveva foglia e metteva allegria sentire, in quel sonno senza vita della natura, lo sbuffare della stanca trojka postale e il tintinnio ineguale della campanella russa (Lermontov 2007: 13).

Chi, come me, ha potuto vagare per deserte montagne, e scrutare a lungo le loro forme bizzarre, e inghiottire avidamente l’aria vivificante che si diffonde per le loro gole, costui, naturalmente, capirà il mio desiderio di riferire, raccontare, dipingere questi quadri incantevoli. E così alla fine salimmo sul Gud-gorà, ci fermammo e ci guardammo intorno; il monte era sovrastato da una nuvola grigia, e il suo freddo respiro minacciava un’imminente bufera; ma ad oriente tutto era così chiaro e dorato che noi, cioè io e il capitano, ce ne dimenticammo del tutto… Sì, il capitano: nei cuori semplici il senso della bellezza e della grandezza della natura è più forte, più vivo, cento volte di più, che in noi, esaltati ed entusiasti narratori a parole e con la penna (Lermontov 2007: 34).

Un’altra differenza tra testo e film risiede nella trama stessa della pellicola, che è semplificata: il fratello di Bela, Azamat, non è presente, e con lui scompare la linea narrativa incentrata sul destriero Karagëz, doppio animalesco della donna.17

Dai materiali pubblicati sulle riviste citate, Vestnik Kinematografii e Sine-fono, a emergere è il portato esotico dell’opera di Lermontov/Gromov: se il rapporto tra testo letterario e pellicola non è al centro dell’interesse delle riviste, l’obiettivo delle descrizioni giornalistiche sembra essere piuttosto quello di presentare la pellicola come fonte di esotismo. Si insiste sul fatto che il territorio del Caucaso sia selvaggio, del tutto isolato dal mondo, capace di inglobare e influenzare le azioni e l’aspetto della quasi totalità dei personaggi, compreso il russo Maksim Maksimyč. Oltre a ciò, si sottolinea che il film è stato effettivamente girato nel Caucaso, che non si tratta di una ricostruzione scenografica in studio e che il cast è stato in parte scelto tra attori locali (tra cui emerge il nome di Aršo Šachatuni). Non si tratta tanto di un esotismo costruito sul paesaggio, quanto piuttosto sui corpi, femminili e maschili, esibiti a favore di cinepresa.

Bela, quindi, non è solo una trasposizione di un celebre racconto ottocentesco, ma anche una possibilità concreta per gli spettatori, immobili nella sala del cinema, di viaggiare nello spazio per giungere in un Caucaso astorico fortemente caratterizzato da uno sguardo etnografico e pittoresco. È del resto proprio in quel periodo, gli anni Dieci del Novecento, che anche in Russia si afferma il genere del travelogue cinematografico, che coniuga lo sguardo etnografico con quello popolare e commerciale, con l’obiettivo di vendere “immagini degli altri che siano allo stesso tempo affascinanti e spaventose” (Sarkisova 2021: 8). Le immagini degli altri sono dunque messe-in-scena, diventano merce da esibire e da vendere, e i luoghi sullo schermo “devono meritare lo sguardo dello spettatore curioso, e quindi devono essere (costruiti come) esotici” (Hertogs, De Klerk 1997: 81). Sarà qui utile un rapido raffronto visuale tra un fotogramma tratto da Bela e altre due figurazioni di donne caucasiche, che poggiano su un’analoga fusione di sguardo etnografico e teatralizzante (Fig. 2), così da rendere evidente una sorta di costante Pathosformel warburghiana che, in contesti differenti, conferma e ripete la stessa immagine, le stesse posture: quelle di un corpo femminile stereotipato.

Fig. 2. L’Illustration, 1900, 115; fotografie di scena del Demone di Vitrotti (1911); fotogramma tratto da Bela.

La prima immagine è un ritratto fotografico dei manichini rappresentativi dell’etnia dei Circassi nel settore dedicato al Caucaso nel Padiglione russo dell’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Queste “mascherate” etnografiche hanno le loro origini tanto nei panorami, nei tableaux vivants e nei diorami, dispositivi ottici, quanto nella tassidermia e nel museo delle cere (Griffiths 2002: 18).18 La seconda è una fotografia di scena del film perduto Il demone di Giovanni Battista Vitrotti (1911), con la principessa georgiana Tamara impersonata dall’attrice del Teatro imperiale di Tbilisi Čemesnova-Moridgi, definita dal regista stesso “Grusina [georgiana in lingua russa, n.d.A.] autentica”.19 Infine, un fotogramma di Bela con la principessa circassa in mostra, al centro degli sguardi maschili e dell’occhio degli spettatori. Pur essendo, dunque, documenti fotografici che testimoniano contesti differenti e diverse interpretazioni artistiche, sono evidenti i tratti in comune, quasi fossero – lo si è detto – Pathosformeln, fermo-immagini, concentrati di ripetitività archetipica sempre pronti a riemergere. Inoltre, si tratta di ritratti di corpi che sono il frutto dell’incontro con una macchina fotografica e con una cinepresa, dispositivi ottici in grado di agire sul soggetto al centro dello sguardo: come nota Oskiloff (2011: 15), “una delle caratteristiche principali dell’incontro tra la macchina fotografica/cinepresa e il soggetto umano è una specie di evoluzione al contrario […]: il corpo si trasforma da complesso organismo biologico e sociale in artefatto”.

Il meccanismo che sta alla base di molti documentari dell’epoca, e che si allarga fino a inglobare anche i film a soggetto, è quello dello stereotipo, del gioco con le convenzioni, della dialettica tra diversità e normalità. La presenza di attori locali è uno dei segnali dell’autenticità della “prospettiva etnografica” tipica del travelogue documentaristico (Sarkisova 2021), e anche nei film a soggetto russi, proprio come nel caso di Bela, si utilizza un cast “autoctono” e si inseriscono, nella sceneggiatura, frammenti di vita “reale” di fronte alla cinepresa: un esempio è quello delle esibizioni maschili a cavallo e della danza di coppia, recitati di fronte allo sguardo russo del personaggio Pečorin (Fig. 3).

Fig. 3. Fotogramma tratto da Bela.

Gromov entra così dentro lo schermo, e quando osserva le esibizioni orientalizzate che vengono organizzate appositamente per lui è sempre presente all’interno dell’inquadratura. In questo modo costituisce un vero e proprio doppio filmico dello spettatore seduto in sala: lo spettatore guarda il film attraverso il dispositivo registico della cinepresa di Gromov, ma allo stesso tempo guarda Gromov- Pečorin guardare il suo film all’interno del film.

3 Bela nello spazio filmico: figura nel paesaggio, portatrice di sguardo

Il travelogue cinematografico, genere molto vicino all’ideologia imperialista di inizio Novecento, lascia tuttavia emergere spazi possibili di resistenza e di fuga dalle strutture sociali. Oltre che presentarsi come forma democratica di intrattenimento e di cosmopolitismo per le grandi masse escluse dal turismo di lusso, questo genere filmico “presenta al pubblico l’opportunità di fare esperienza di una rêverie poetica, restituendo lampi di meraviglia e persino una temporanea capacità di superare le censure e le restrizioni della vita moderna” (Peterson 2013: 13). Se, nel caso di Bela, le differenze già notate tra racconto e film sono probabilmente dovute ai mezzi tecnici del periodo, sono però presenti altri punti di distanza che potrebbero rivelare non una semplice volontà di adattamento da un medium all’altro, quanto piuttosto essere un tentativo di rielaborazione e riscrittura, in un’ottica di superamento di determinate costrizioni sociali. Si tratta, soprattutto, dell’esplicitazione della somiglianza tra i due personaggi maschili principali, anche da un punto di vista visuale, e di un differente trattamento della libertà di movimento dell’eroina.

Nella pellicola, dopo la festa di matrimonio20 alla quale erano stati invitati Pečorin e Maksim Maksimyč, ritroviamo Bela nelle stanze della fortezza russa, e non sappiamo niente sul suo rapimento da parte di Pečorin. Questo primo “ratto” subito da Bela è quindi assente nella pellicola. Il primo rapimento di Bela, avvenuto per mano maschile e russa, è obliterato, cancellato, un fuori campo non raccontato, mentre viene invece mostrato nei particolari il rapimento finale, compiuto da Kazbič, uomo altro in quanto musulmano e caucasico. Bela compie un passaggio dal palcoscenico festoso del matrimonio caucasico alla stanza della fortezza russa rivestita di tappeti senza cambiarsi d’abito (Fig. 4).

Fig. 4. Fotogrammi tratti da Bela.

L’appropriazione russa del corpo femminile circasso non è messa in scena, ma è data come un’azione ovvia, automatica e rapida, e rispecchia l’agognata conquista imperiale del territorio del Caucaso, conquista non raccontata nella pellicola (evocata unicamente dalla presenza di armi all’interno della fortezza) ma che è un altro fuori campo essenziale.21 Viceversa, la violenza “orientale” del circasso Kazbič, che la ferisce a morte, è rappresentata in scene molto suggestive, organizzate spesso in campi larghi e larghissimi per inquadrare il paesaggio montuoso del Caucaso, e la rigidità delle mosse di Bela si rifà probabilmente al campo visuale della pittura, richiamandosi all’iconologia tradizionale del ratto di Proserpina: la contrapposizione tra il bianco del corpo femminile e il corpo scuro del rapitore, il cavallo infernale, l’attraversamento al galoppo di campi e prati in fiore che si fanno distesa d’acqua (Fig. 5).22

Fig. 5. Fotogrammi tratti da Bela.

I due rapimenti, dunque, sono (non) raccontati in maniera molto diversa. Ciononostante, dal punto di vista prettamente visivo, concentrando l’attenzione su quello che Kallaš aveva definito “campo delle azioni mute”, si rintracciano due inquadrature molto simili, che hanno però una valenza narrativa totalmente differente (Fig. 6). Si tratta del primo abbraccio d’amore tra Pečorin e Bela, che viene ingannata dall’uomo che le fa credere di voler partire per sempre in cerca di una morte avventurosa, e la morsa di Kazbič che sorprende Bela all’aperto e la trascina sul suo cavallo.

Fig. 6. Fotogrammi tratti da Bela.

Lermontov sembra suggerire quanto i comportamenti maschili nei confronti di Bela, sia da parte dei personaggi caucasici, sia da parte di Pečorin – che gioca spesso con la propria identità, travestendosi da circasso – siano in realtà equivalenti, e all’interno della pellicola ciò è reso ben esplicito e visibile nel raffronto tra l’abbraccio d’amore e la morsa del rapimento. Si recupera così, in maniera visuale ed estetica, il parallelo appena abbozzato da Lermontov tra i due personaggi maschili, che condividono lo stesso sguardo di conquista sulla figura femminile. A questa visione si sottrae soltanto Maksim Maksimyč, che si affeziona sinceramente alla ragazza. I due sono spesso insieme nelle inquadrature, e la recensione già citata su Vestnik Kinematografii, oltre a lodare l’attore che recita nel ruolo del capitano (A. Sorin), sottolinea proprio questa tenerezza del suo rapporto con Bela.

Ma l’elemento più innovativo della pellicola riguarda la rappresentazione del corpo femminile della protagonista. La recensione già citata, che si rifà esclusivamente al testo di Lermontov, dopo aver tracciato la trama dell’opera, descrive l’esotismo di Bela, del padre e del fratello, di Maksim Maksimyč e di Kazbič come un collante che tiene loro uniti, all’interno di una comunità. L’unico elemento estraneo del racconto è Pečorin, venuto a turbare la quiete pacifica delle acque pure dei monti caucasici con la sua noia eterna, morbo di un’intera generazione. È il russo-europeo Pečorin, lettore di Byron, a essere l’altro, feroce e selvaggio, incapace di provare veri sentimenti, colpevole nei confronti di Bela, un giocattolo nelle sue mani. Questa lettura del racconto (e del film) si pone in netta contrapposizione con il filone narrativo, di moda nel cinema all’epoca, dei personaggi femminili che, provocando gli uomini con la propria sensualità, portano loro alla rovina e alla morte, un genere filmico permeato di “ossessione erotica maschile [N.d.A.] e profonda misoginia” (Youngblood 1999: 91). In questo caso, non è Bela a provocare la rovina di Pečorin, ma il contrario: recuperando un soggetto ottocentesco, il film Bela ri-scritto da Kallaš rovescia e supera il tipico sguardo, filmico e di genere, dei primi anni del Novecento, e si distingue in maniera netta dalle altre produzioni cinematografiche del periodo. L’aspetto esteriore del personaggio femminile, tuttavia, rimane sotto l’influenza delle coeve visioni maschili fin de siècle: da versione caucasica dell’esotica tagliatrice di teste, velata, danzante, che tiene in grembo la testa maschile, come evidente dalla giustapposizione di due fotogrammi con l’Orphée di Moreau (1865) e con la Salomé del pittore armeno Vardges Surenyants (1907) (Fig. 7), a donna contemplata sul letto di morte, una specifica tipologia di culto femminino del periodo (Dijkstra 1986).

Fig. 7. Fotogrammi tratti da Bela a confronto con Orphée di Gustave Moreau (1865), Musée d’Orsay e Salomé di Vardges Surenyants (1907), National Gallery of Armenia.

Al di là dell’aspetto esteriore stereotipato, influenzato tanto dallo sguardo etnografico, quanto dalle visioni artistiche del periodo, Bela personaggio è presente nella maggior parte delle scene, e attraverso la costruzione narrativa e i movimenti teatralizzati dell’attrice, chi guarda la pellicola finisce per adottare il punto di vista della donna. Paradossalmente, gli inserimenti “in presa diretta”, documentaristici, e la distanza temporale con la vicenda narrata, aiutano a costruire negli spettatori e nelle spettatrici empatia nei confronti di Bela. Nel racconto, sono presenti alcune sfumature negative che designano Bela: è vanitosa, volubile, selvaggia, non affezionata alla sua “patria”, né al padre:

“E poi?” chiesi a Maksim Maksimyč. “L’ha abituata effettivamente a sé, o è avvizzita per la prigionia, per nostalgia della patria?”

“Mi perdoni, ma cosa c’entra la nostalgia della patria? Dalla fortezza si vedevano gli stessi monti che si vedevano dall’aul, e questi selvaggi non han bisogno d’altro. Inoltre Grigorij Aleksandrovič le regalava qualcosa tutti i giorni: lei i primi tempi allontanava in silenzio, con fierezza, i regali che la locandiera le porgeva, e che eccitavano la sua eloquenza. Ah, i regali, cosa non fa una donna per uno straccio colorato!” (Lermontov 2007: 29).

“E quando la informaste della morte del padre, cosa fece?”

“Glielo nascondemmo a lungo, finché non si fu abituata alla sua nuova situazione. E quando glielo dicemmo pianse così tanto, per due giorni, e poi dimenticò” (Lermontov 2007: 39).

– Se non mi ama, chi gli impedisce di rimandarmi a casa? Io non lo costringo. Ma se deve continuare così, me ne vado io stessa. Non sono la sua schiava, sono figlia di un principe.

Provai a convincerla.

– Ascolta, Bela, non può sempre star qui seduto come se fosse cucito alla tua gonna, è un uomo giovane, gli piace cacciar la selvaggina: va, e poi torna; ma se tu diventi triste, gli verrai a noi ancora prima.

– Hai ragione, hai ragione, – rispose – sarò allegra. E con una risata afferrò il suo tamburello, cominciò a cantare, a danzare e a saltare intorno a me; ma non durò a lungo: cadde ancora sul letto e si coprì la faccia con le mani (Lermontov 2007: 40).

Questi tratti scompaiono del tutto nella pellicola, tanto che la riscrittura da parte di Kallaš pare una celebrazione del personaggio femminile. Bela filmica, inoltre, sembra avere più libertà rispetto al suo prototipo letterario. Prima di passeggiare nei dintorni della fortezza insieme al paterno Maksim Maksimyč, Bela si era già avventurata da sola lungo quei sentieri, in un luogo in cui il potere russo e maschile di Pečorin è sospeso. Bela conquista una fascia di spazio per sé, su cui rivendicare la propria autonomia, in cui sarà poi sepolto il suo corpo (Fig. 8).

Fig. 8. Fotogrammi tratti da Bela.

Durante la passeggiata compare per la prima volta sullo schermo una perturbante galleria fatta di luce e di fronde degli alberi, una sorta di strappo all’interno del paesaggio e che sarà il segnale del pericolo: è da lì che arriva il rapitore Kazbič, lì che si nasconde. Il vuoto bianco e luminoso, che compare più volte nel film, dialoga a distanza con l’ultima inquadratura della pellicola, che colma quel vuoto di terra, la terra della sepoltura di Bela. E tuttavia durante la sua passeggiata solitaria Bela riesce a conquistare lo spazio centrale dell’inquadratura; prima di allora era sempre rimasta in posizione laterale, anche durante la sua performance di danza con il tamburello (Fig. 9). Come aveva scritto Kallaš in un racconto per il cinema (Garris 1914a: 16), “la donna è l’inevitabile centro di ogni dramma; è il centro stesso del dramma cinematografico”. Anche se per poco tempo, la protagonista femminile riesce a rovesciare il tipico sguardo documentaristico che, come si è visto, fa del corpo un artefatto passivo, affine ai fantocci in mostra alle esposizioni etnografiche e alle attrici in posa sul set: nei momenti in cui Bela si prende uno spazio proprio, spariscono le danze e i canti dei “selvaggi” caucasici, spariscono le scenografiche inquadrature del Caucaso montuoso, e ci si perde in un paesaggio emozionale, soggettivo, che si fa metafora del suo stato d’animo. Il panorama non ci informa più della diversità del mondo e non mappa le conquiste degli Imperi, bensì riflette i sentimenti di paura e libertà, sentimenti singolari e soggettivi, della protagonista.

Fig. 9. Fotogrammi tratti da Bela.

Oltre a rivendicare la sua centralità, fuori dal territorio russo, Bela si osserva intorno, ribaltando così la passività dell’oggetto femminile, che non è più guardato, ma guarda a sua volta. Bela si trasforma da “icona”, per Mulvey (1975) ruolo tradizionalmente femminile, a “figura nel paesaggio”, prerogativa dei personaggi maschili. Non deve più guardarsi, “osservare se stessa essere guardata” (Berger 2015: 99) ma può finalmente passare da veduta a sguardo. Inoltre, se consideriamo lo schema qui proposto (Fig. 10), che riporta il primo fotogramma di ogni inquadratura della pellicola, notiamo che a metà c’è un’interruzione rispetto al flusso narrativo: non ci sono personaggi che si incontrano, o che si mettono in viaggio per un qualche scopo, o che conversano, ma vediamo unicamente i movimenti di Bela nello spazio naturale, la sua passeggiata fuori dalla fortezza – che dovrebbe tenerla al sicuro, lontana dagli elementi naturali, lontana dalla gente altra. Viene presentato un viaggio a vuoto, in cui non succede nulla, che parte dalla fortezza e ritorna alla fortezza. Tale intervallo rientra pienamente in quella che per Melchiori (1988), alla luce di una lettura femminista degli scritti di Kierkegaard e della psicanalisi freudiana, è una peculiarità della regia femminile: la sospensione del tempo della narrazione e della trama, che aiuta ad avvicinare gli spettatori e le spettatrici all’esperienza infantile del mondo. Un’esperienza in grado di liberare il soggetto, in direzione di una fusione con il mondo e con le immagini: Bela, che viene presentata come figlia (non solo del padre naturale, ma anche del padre “adottivo” Maksim Maksimyč) e come bambola di Pečorin, ribalta in maniera positiva e vitalistica queste caratteristiche sminuenti di immaturità che le vengono ascritte nel racconto e conquista lo sguardo incantato dell’infanzia.

Fig. 10. Primo fotogramma di ogni inquadratura di Bela.

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  1. Si veda, per una puntuale analisi degli aspetti intertestuali dell’opera, Carbone 2017, che pure contiene un’aggiornata bibliografia italiana sul testo lermontoviano.↩︎

  2. Tuttavia, a emergere è soprattutto la posizione sfumata e ambigua di Lermontov scrittore, che dimostrerebbe piuttosto una resistenza nei confronti dell’ideologia coloniale: cfr. Scotto 1992; Layton 2002; Magarotto 2014.↩︎

  3. Per approfondire il suo legame con l’opera e la figura di Puškin e per alcune notizie biografiche, si veda Zločevskij 2017; sul suo legame con il cinema Rjabčikova 2021 e Frison 2022. Ringrazio Anita Frison per aver condiviso con me i suoi materiali su Kallaš e per avermi consigliato questa direzione di ricerca.↩︎

  4. Si veda l’utile progetto https://wfpp.columbia.edu/ (ultimo accesso 07-05-2023) da cui, tuttavia, è assente il nome della nostra sceneggiatrice.↩︎

  5. A partire dal 2015, la rivista online Apparatus. Film, Media and Digital Cultures in Central and Eastern Europe è diventata un luogo importante di condivisione della ricerca accademica attorno al tema della presenza femminile e delle minoranze etniche all’interno della cinematografia del periodo russo imperiale, accogliendo contributi innovativi di Drubek (2021) e Kovalova (2022a). https://www.apparatusjournal.net/index.php/apparatus (ultimo accesso 07-05-2023).↩︎

  6. Zinaida Volkonskaja i ee vremja (1916), Ugolok Puškina (1923).↩︎

  7. In emigrazione pubblicherà opere di argomento religioso e di critica letteraria su Anton Čechov e Vasilij Rozanov.↩︎

  8. Utilizzo il termine “circassa” per Bela, seguendo così il testo russo di Lermontov, ma si tratta di un’imprecisione etnografica (Durylin 2002: 124–134).↩︎

  9. Chanžonkov aveva già prodotto alcuni film tratti dalle opere di Lermontov che abbiamo nominato in precedenza: Il canto del mercante Kalašnikov, Il boiaro Orša e Vadim.↩︎

  10. Per la descrizione tecnica della pellicola si veda Ivanova, Myl’nikova, Skovorodnikova, Civ’jan, Jangirov 2002: 135-136. Il film è disponibile online su https://www.prlib.ru/item/322306 (ultimo accesso 07-05-2023).↩︎

  11. Probabilmente firma altre sceneggiature, tra cui almeno quella per la già citata Strašnaja mest’ da Gogol’ (Kovalova 2022a).↩︎

  12. Il “silenzio” dei primi film è stato generalmente percepito come elemento fondamentale di differenziazione con le altre arti, come il teatro, dominato dalla parola (Kaganovski 2013: 209–210).↩︎

  13. Gromov, qui alla sua prima regia, aveva in precedenza lavorato come attore teatrale e di cinema, prendendo parte ai già ricordati adattamenti lermontoviani Il canto del mercante Kalašnikov, Il boiaro Orša e Vadim.↩︎

  14. Il corpus delle pellicole e delle sceneggiature è fortemente lacunoso. Soltanto tra il 15 e il 20% della cinematografia russa degli inizi è sopravvissuta fino a oggi, una percentuale di cui solo un terzo è stato restaurato e reso visibile (Youngblood 1999: 75). Sul ruolo dei libretti come fonte per ricostruire il corpus si veda Kovalova 2022b.↩︎

  15. L’articolo è anonimo, ma viene inviato a Vestnik Kinematografii direttamente dalla casa di produzione cinematografica della pellicola. Lo stesso testo viene inviato anche alla redazione di Sine-fono e pubblicato nel n. 1 del 1913.↩︎

  16. Per approfondire le figure complesse dei narratori in quest’opera si rimanda a Eichenbaum 1961.↩︎

  17. Gli occhi scuri di Bela e quelli del cavallo hanno la stessa bellezza, il manto di Karagëz ha lo stesso colore dei capelli di Bela e Kazbič, l’antagonista di Pečorin, nella canzone che intona davanti ad Azamat ribadisce la superiorità dei cavalli sulle donne (i cavalli non ingannano, non tradiscono e, a differenza delle donne, regalano la libertà).↩︎

  18. Per il museo delle cere come prefigurazione del cinema si veda Michelson 1970.↩︎

  19. Come nota il regista nel libretto dell’opera, cfr. la brochure Il demone della Serie Russa con trama, metraggio, viraggio, informazioni sull’affisso e 4 fotografie, Torino, Tip. Lit. E. Denina, 4 pp., 29,7x16, P41685, disponibile online sul sito http://www2.museocinema.it/collezioni/Muto.aspx (ultimo accesso 07-05-2023).↩︎

  20. Questo elemento sembra sottolineare l’intento quasi parodico di Lermontov: Pečorin e Bela si conoscono a un matrimonio, ma il loro rapporto non sarà mai regolarizzato e finirà con il funerale non celebrato di Bela, sepolta senza croce né nome, come un cavallo. Lo stesso nome Bela, probabilmente, è un nomen omen, dal momento che in turco designa il concetto di “lutto”, ma gioca con l’assonanza della radice latina “bella”: si veda, per questa interpretazione onomastica, Austin 1986.↩︎

  21. Guerra di conquista che, nella realtà dei fatti, si è invece protratta per lunghi anni, senza mai potersi dire del tutto conclusa.↩︎

  22. Per motivi di spazio si accenna soltanto a questa possibilità di confronto visuale; tuttavia si rimanda alla galleria online curata dalla Cattedra di Iconografia e Iconologia del Dipartimento di Storia dell’arte e spettacolo della Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma http://www.iconos.it/le-metamorfosi-di-ovidio/libro-v/ratto-di-proserpina/immagini/ (ultimo accesso 07-05-2023) che contiene le fonti iconografiche del ratto di Proserpina (dal mondo classico al XVIII secolo). Si vedano in particolare per il nostro esempio la tomba di Persefone a Vergina (immagine 4), il sarcofago del ratto di Proserpina conservato al Museo archeologico di Venezia (immagine 7), l’affresco della Tomba dei Nasonii (immagine 12), e il celebre Ratto di Proserpina di Rembrandt (immagine 60).↩︎