Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.23 (2023), 37–59
ISSN 2280-9481

Il silenzio e il rumore. L’onore militare nella corrispondenza pubblica e privata relativa al caso L’armata s’agapò

Michael GuarneriUniversity of Bologna (Italy)

Michael Guarneri is a research fellow at Università di Bologna. He is the author of Questi fiori malati: Il cinema di Pedro Costa (Bébert, 2017), Vampires in Italian Cinema, 1956-1975 (Edinburgh University Press, 2020) and Conversations with Lav Diaz (Massimiliano Piretti Editore, 2020).

Lidia SantarelliPrinceton University (United States)

Lidia Santarelli (Ph.D. European University Institute) is a historian specializing in the study of Modern Europe and the Mediterranean. As a scholar, her main concerns have long been with the entangled histories of Italy and Greece. She has been the recipient of postdoctoral research fellowships at Princeton University, Columbia, Harvard, and the Center for Advanced Holocaust Studies in Washington, D.C..; and taught at the University “La Sapienza” of Rome, New York University, and Brown University. Currently, she teaches at Rutgers University and is the Modern Greek Specialist at Princeton University Library.

Ricevuto: 2023-02-25 – Pubblicato: 2023-07-20

Silence and Noise. Military Honor in the Public and Private Correspondence of the L’armata s’agapò Case

Abstract

Published in February 1953 in Guido Aristarco’s magazine Cinema Nuovo, Renzo Renzi’s film proposal L’armata s’agapò broke the long-standing Italian media silence about the fascist aggression and occupation of Greece. More than the film proposal itself (which attracted very little attention at the time of its publication), it was the arrest, detention, military trial and conviction of Aristarco and Renzi for contempting the Armed Forces in September-October 1953 that created noise and prompted Italian citizens of all ages and socio-economic, professional, political and religious background to critically re-examine the events of the Second World War. By transgressing the prohibition against discussing fascist Italy’s military campaigns, and by calling these campaigns a grotesque farce with a tragic ending, Aristarco and Renzi managed to open a debate that, from the pages of a specialized magazine aimed at a small audience of cinephiles, moved to a reporter-filled courtroom for the whole country to follow. Through the analysis of public and private correspondence about the ‘s’agapò case’, the essay investigates the concept of military honor in relation to the conduct of the Italian Army in Greece from 1940 to 1943. In so doing, the essay shows that the legal proceedings occasioned by L’armata s’agapò weren’t only a domestic matter of freedom of expression in a Christian-Democrats-run, imperfectly democratic republic risen from the ashes of the monarchic-fascist regime; they were also part of an international affair concerning the political and military positioning of Italy in the new world order of the Cold-War era.

Keyword: Correspondence; Armed Forces; Military Honor; Guido Aristarco; Renzo Renzi.

Ringraziamenti

Il saggio è stato sviluppato e discusso congiuntamente. Le sezioni 2 e 4 sono state redatte da Michael Guarneri, mentre le sezioni 1 e 3 da Lidia Santarelli. Il lavoro si colloca nell’ambito del progetto PRIN 2017 “Per una storia privata della critica cinematografica italiana. Ruoli pubblici e relazioni private: l’istituzionalizzazione della critica cinematografica in Italia tra Anni Trenta e Settanta” (P.I.: Paolo Noto, Prot. 2017XB2Y7B).

1 Introduzione

Pubblicato nel febbraio 1953 nella rivista Cinema Nuovo diretta da Guido Aristarco, il soggetto cinematografico di Renzo Renzi L’armata s’agapò rompe il silenzio su aggressione fascista e occupazione della Grecia calato in Italia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Più che la proposta di film in sé, sono l’arresto per vilipendio alle Forze Armate, la detenzione nel carcere militare di Peschiera, il processo e la condanna di Aristarco e Renzi nel settembre-ottobre 1953 da parte della giustizia militare a fare rumore e stimolare un tentativo di revisione storico-critica del recente passato bellico non solo tra alti ufficiali, uomini politici, artisti e intellettuali, ma anche tra i comuni cittadini della repubblica democratica sorta dalle ceneri del regime monarchico-fascista. Il rinvio a giudizio dei due critici cinematografici e la celebrazione del processo presso il Tribunale Militare Territoriale di Milano convincono infatti numerosi italiani di ogni età, professione, censo, grado di istruzione e fede politico-religiosa a portare, tramite lettera, la propria testimonianza autobiografica sulle vicende belliche e la propria opinione personale sul comportamento del soldato italiano: il “nome [Renzo Renzi] è oggi noto come quello di [Fausto] Coppi, dopo la vittoria del campionato su strada, o Marilyn Monroe, dopo il primo film sul Niagara. Chi per una ragione o per l’altra, a torto o a ragione, a carico o a difesa, tutti hanno qualcosa da dire sul ‘caso’” (Zambonelli 1953). Aldilà delle prese di posizione individuali, le missive – scritte nell’impeto di prendere parte al dibattito (e, in taluni casi che vedremo, al dibattimento in aula) – sono dunque lettere partigiane, nel senso che Antonio Gramsci attribuisce al termine nel noto articolo in cui identifica nel rifiuto dell’indifferenza la condizione essenziale per rimanere cittadini ed esercitare la propria coscienza critica nel conflitto politico e sociale (Gramsci 1958 [1917]). Trasgredendo il divieto di parlare delle guerre fasciste, e parlandone per di più in termini di biasimo, Aristarco e Renzi riescono così ad aprire una discussione che, dalle pagine di una rivista specialistica rivolta a un pubblico ristretto di appassionati di cultura cinematografica e addetti ai lavori, si sposta in un’aula di tribunale, sotto gli occhi dell’intera opinione pubblica italiana.

Attraverso lo studio delle lettere aperte, personali, riservate e segrete riguardanti il ‘caso s’agapò’ preservate nei fondi della Cineteca di Bologna e dell’Archivio di Stato di Milano, il presente saggio indaga la concezione di onore militare (e della vergogna, che ne rappresenta il corrispettivo inscindibile) in relazione sia alla condotta del Regio Esercito in Grecia dal 1940 al 1943, sia alle principali questioni politico-militari sullo scacchiere italiano e internazionale del Secondo Dopoguerra. Gli studi di antropologia culturale sul tema dell’onore e del suo rapporto con la vergogna – a partire dalle teorie classiche di Georg Simmel (Simmel 1989 [1908], 2003 [1917], 2004 [1901]) fino ai più recenti sviluppi della scuola di antropologia culturale americana ispirati all’opera di Gerhart Piers e Milton B. Singer (Piers e Singer 2015 [1953]) – evidenziano infatti come il significato dell’onore quale principio di autoconservazione del gruppo sociale non sia prerogativa esclusiva delle società arcaiche. Seppur in mutate forme, l’onore rimane un principio base dell’ordinamento civile delle società moderne. Per esempio, gli studi sulle nazioni e sui nazionalismi (Appiah 2010; Oprisko 2012) documentano come la dicotomia valoriale onore/vergogna, con i suoi corollari di dignità/indegnità, gloria/ignominia, fama/anonimato e rispettabilità/disprezzo, sia alla base dei processi che nelle società di massa regolano l’interrelazione tra identità (personale o di gruppo), morale e status. L’onore si acquista o si perde in modo assoluto: esso contribuisce a definire il senso di integrità della comunità politica nazionale ed è alla base del processo di legittimazione dello Stato e dei singoli rappresentanti delle sue istituzioni. In questo quadro, i sistemi politici moderni considerano l’onore un bene da tutelare, come fatto sociale e non solo individuale, tanto da sanzionarne l’offesa, morale o materiale.

Il ricorso alle suddette fonti epistolari non si giustifica solo con il loro essere in gran parte inedite e mai analizzate prima d’ora, ma anche perché esse permettono di ampliare il ristrettissimo gruppo di testimoni escusso alle udienze milanesi del 6, 7 e 8 ottobre 1953, composto da cinque militari ultracinquantenni che in Grecia ricoprirono posizioni di alto comando (i generali Mario Marghinotti, Pietro Luigi Testa e Giuseppe Berti, i colonnelli Pier Gastone De Michele e Domenico Doria) e da dieci professionisti trentenni che durante la Seconda Guerra Mondiale furono ufficiali subalterni o soldati semplici (gli imputati Aristarco e Renzi, gli impiegati Raffaele Russo e Giuseppe Enria, il commerciante Riccardo Oltolina, l’imprenditore cinematografico Luigi Pizzi, il documentarista Michele Gandin, il radiotecnico Giancarlo Speroni-Cardi, i giornalisti Antonello Trombadori e Amleto Boccaccini). Oltre a permettere di allargare il bacino testimoniale costruito da accusa e difesa in vista del processo, la corrispondenza pubblica e privata sul ‘caso s’agapò’ proveniente da Cineteca di Bologna e Archivio di Stato di Milano è utile per tre motivi. In primo luogo, essendo scritte a mano o dattiloscritte dai vari mittenti-testimoni in persona, le lettere non hanno subìto parafrasi, tagli o altri tipi di alterazioni da parte di intermediari, come avviene invece per le testimonianze riportate nei verbali di dibattimento (non trascritte verbatim ma riassunte dal cancelliere militare secondo le disposizioni del generale Armando Calabrò, presidente del collegio giudicante) e nei quotidiani (dove alla mediazione del reporter si aggiunge il filtro politico-ideologico del giornale per cui l’inviato lavora). In secondo luogo, la testimonianza via lettera è il risultato di una sorta di recollection in tranquillity, ovvero di un lavoro solitario di riflessione, ricordo, oblio, scrittura, rilettura e riscrittura tipicamente condotto in un ambiente privato, domestico o d’ufficio – niente di più distante dal dover rilasciare una dichiarazione orale di persona, più o meno ‘a braccio’, in un ambiente estraneo, di fronte a un pubblico di autorità e curiosi, e con la possibilità di continue interruzioni e contraddittorio. Infine, al contrario di quanto avviene per le testimonianze orali in pubblica udienza, l’autore di una testimonianza via lettera può efficacemente servirsi dell’anonimato e/o invocare presso il destinatario la discrezione, la riservatezza e persino il segreto per poter esternare il più liberamente possibile ricordi e opinioni, specialmente se afferenti alla sfera del privato inteso sia come ciò che è proprio della persona in sé o della persona singola, ossia non pubblico, sia come la condizione di alienazione e repressione di chi, nell’immediato Secondo Dopoguerra, come individuo o come gruppo, fu privato o si privò della possibilità di rielaborare criticamente il passato scomodo e traumatico del fascismo e delle sue campagne militari.1

2 Fatto e diritto

Nella seduta del 22 giugno 1944 il Consiglio dei Ministri del neo-insediato Governo Bonomi II approva all’unanimità una dichiarazione che, individuato nel “fascismo” (definito una parte estremamente minoritaria del popolo italiano “già nel 1940”) l’unico responsabile dell’entrata in guerra dell’Italia accanto alla Germania nazista, “sconfessa le cosiddette rivendicazioni fasciste contro l’onore e l’integrità di altre Nazioni”, e “condanna le aggressioni che il fascismo ha compiuto contro la Francia, la Grecia, la Jugoslavia e la Russia, aggressioni che hanno infranto le più nobili tradizioni italiane già suggellate a Solferino, Dom[o]kos e poi su tutti i campi di battaglia […] del 1915-1918” (Ricci 1995: 5). Tuttavia, nell’immediato Secondo Dopoguerra, a questa dura condanna governativa non fa seguito alcuna dettagliata analisi politica, economica e militare delle campagne belliche fasciste, guerra d’Etiopia e guerra di Spagna incluse: il silenzio è fondamentale sia per costruire il mito del ‘bravo italiano’, contrapposto al ‘cattivo tedesco’ a fini auto-assolutori e di ottenimento di migliori condizioni di pace nei trattati di Parigi del 1947, sia per evitare imbarazzanti processi per crimini di guerra contro i vertici dell’esercito italiano, garante non solo dei confini nazionali post-bellici (si pensi alla questione del Territorio Libero di Trieste, risolta solo nel 1954), ma anche della sicurezza internazionale nel quadro dell’alleanza NATO (cui l’Italia aderisce nel 1949) e del Patto Balcanico (firmato da Jugoslavia, Grecia e Turchia il 28 febbraio 1953, e a cui l’Italia, dopo lunghe trattative, non aderisce).2

In particolare, per quanto concerne il tema specifico del presente saggio, di aggressione fascista e occupazione della Grecia non si parla quasi mai nella mediasfera italiana del periodo 1945-1952, eccezion fatta in ambito editoriale per le memorie autobiografiche di diplomatici e alti comandanti militari,3 e per racconti autobiografici o romanzati di ufficiali subalterni e soldati semplici .4 Indicativo, a proposito della rimozione delle colpe italiane, è un passo dell’autobiografia di Adolfo Alessandrini, ambasciatore d’Italia ad Atene dal 1950 al 1954, che rievoca l’incontro tra il Presidente del Consiglio italiano Alcide De Gasperi e il suo omologo greco Alexandros Papagos l’8 gennaio 1953, un anno dopo l’adesione della Grecia alla NATO e la definitiva rinuncia greca a perseguire i criminali di guerra italiani: “La guerra di ieri sarà dimenticata: ‘Non parliamone più’, ha detto Papagos, ‘e conduciamoci in modo che essa non abbia a essere mai più rievocata’” (Alessandrini 1984: 154). È in questo clima di generale amnesia e silenzio pressoché assoluto che, nei primi anni Cinquanta, Renzi matura il proposito di scrivere un soggetto cinematografico d’intonazione antifascista e antibellicista sulla campagna di Grecia, basato sui propri colpevoli trascorsi di militare occupante in quei territori.5 Aristarco è ovviamente l’interlocutore privilegiato per una possibile pubblicazione: amici sin dai primi anni Quaranta, quando collaboravano a varie riviste dei Gruppi Universitari Fascisti, nel Secondo Dopoguerra Aristarco e Renzi condividono una concezione militante, democratica e progressista della critica cinematografica che li porta a porsi l’obiettivo “non solo di legare il cinema alle altre arti, ma addirittura alle altre manifestazioni della vita, […] alla storia della cultura ed ai problemi della vita in genere” (Renzi 1952a: 67).

Il testo definitivo, intitolato L’armata s’agapò, appare il 1° febbraio 1953 sul numero 4 della rivista Cinema Nuovo, dove inaugura la rubrica Proposte per film, destinata a durare per oltre due anni. Il numero in questione si apre con un editoriale in cui Aristarco denuncia che, “con la scusa della pacificazione e dell’ordine pubblico”, la censura cinematografica dell’Italia post-1948 a guida DC ha trasformato la storia recente in un tabù:

la nazione italiana ha fatto […] un’esperienza dittatoriale che ha condotto a tre guerre aggressive e a molte rovine. Perché […] i cattolici non sono all’avanguardia del riesame di un colpevole passato, dal momento che sono stati proprio loro a insegnare la confessione come liberazione, […] come atto morale per un vero rinnovamento interno? Perché non agitano, con profondità di indagine, i temi della pace e della guerra, perché non combattono le scorie delinquenziali che stanno sotto il militarismo? (Cinema Nuovo [Guido Aristarco] 1953: 71)

Coerentemente con queste premesse, L’armata s’agapò viene presentato come il soggetto per “un film proibito”, ovvero un progetto cinematografico della cui irrealizzabilità nell’Italia dei primi anni Cinquanta il soggettista è perfettamente conscio (Renzi 1953a: 73). Infatti, anziché esordire presentando tempo, luogo e protagonisti del racconto, L’armata s’agapò prosegue idealmente la polemica dell’editoriale attraverso un cappello introduttivo di critica cinematografica assolutamente inusuale per un soggetto: dopo aver notato come una recente serie di film bellici italiani – tra cui Carica eroica (1952) di Francesco De Robertis, Penne nere (1952) di Oreste Biancoli, Fiamme verdi (1952) di Mario Damicelli e Il caimano del Piave (1951) di Giorgio Bianchi – propagandi più o meno sottilmente il concetto che la guerra (qualsiasi guerra) “è sacra perché fatale e inevitabile nella storia degli uomini; e quello che le appartiene non va in ogni caso discusso, perché consacrato dal sangue dei morti”, Renzi denuncia questa mancanza di discussione come il terreno di coltura ideale per lo sviluppo di nuove guerre che, in un circolo vizioso inarrestabile, porteranno “nuovo sangue e nuovi morti”. Dunque, scrivendo un film irrealizzabile su aggressione e occupazione fascista della Grecia, Renzi si propone di contrastare, seppur solo ‘sulla carta’, il complice silenzio-assenso del cinema italiano dei primi anni Cinquanta sulla guerra in generale, e sulle guerre fasciste in particolare, nella speranza di stimolare “un esame di coscienza, una condanna della guerra e insieme un atto di fratellanza” verso il popolo greco, “nei confronti del quale abbiamo molti debiti”.

Dopo aver attaccato i film bellic(ist)i e dichiarato i propri fini pacifisti, Renzi trasporta i lettori prima “sui monti d’Albania”, dove ha luogo la “tragedia” del “nostro esercito” costretto tra l’autunno del 1940 e la primavera del 1941 a subire “gravi perdite” senza conseguire alcuna conquista territoriale (1953a: 74-5). Poi, con l’attacco decisivo sferrato dall’esercito tedesco alla Grecia attraverso la Bulgaria nell’aprile 1941, l’azione si sposta nel territorio ellenico occupato dai “falsi vincitori” italiani. Qui, “in chiave di commedia”, mescolando “grottesco”, “operetta” e “farsa”, Renzi elenca miserie e misfatti dell’occupazione italiana: imperialismo retorico e straccione che si risolve nello sfruttamento della propria posizione di occupanti per predare sessualmente ed economicamente gli occupati; fucilazioni sommarie di civili nell’ambito di operazioni di controguerriglia; incapacità, disorganizzazione e ignavia degli alti comandi abbinate a scarse motivazioni ideali e mancanza di disciplina di ufficiali inferiori, ufficiali subalterni e truppa, da cui lo sbandamento pressoché totale dell’esercito italiano di stanza in Grecia l’8 settembre 1943. Dopo una serie di episodi da commedia amarissima (dai latin lover in divisa che prendono le donne greche per fame al sottotenente italiano che cerca di sfuggire ai tedeschi travestito da domatore), nelle ultime righe il soggetto torna su note tragiche evocando la sorte degli Internati Militari Italiani mandati “a purgarsi nei campi di concentramento di Polonia e Germania”, e si conclude con il monito “La nostra generazione deve parlare di queste cose” (sottinteso: affinché non si ripetano).

Il tentativo di Renzi di rompere il silenzio sulla guerra di Grecia ha un’eco quasi nulla nella stampa italiana al momento della pubblicazione. A parte un piccolo dibattito pubblico per via epistolare tra Renzi e alcuni lettori di Cinema Nuovo sul tema dei film proibiti e del comportamento dei militari italiani in Grecia (Renzi 1953b, 1953c; Pirro 1953a; Galimberti 1953; Lombardini e Marcon 1953; Masini 1953; Bassoli 1953), in Italia nessuna rivista o quotidiano di rilevanza nazionale sembra accorgersi di L’armata s’agapò. All’estero, l’unica testata a interessarsi alla proposta di film è il quotidiano ateniese Akropolis, che in una corrispondenza da Roma pubblicata in prima pagina il 27 febbraio 1953 (cioè alla vigilia della firma del Patto Balcanico tra Jugoslavia, Grecia e Turchia) traduce in greco ampi stralci del testo renziano. L’articolista di Akropolis non commenta in alcun modo L’armata s’agapò, limitandosi a definire il soggetto interessante e ad affermare (senza fornire alcuna prova) che esso ha provocato una grande impressione nei circoli politici romani (Fredas 1953). Sarà in realtà la ripresa di L’armata s’agapò su Akropolis a destare un profondo sconcerto in Italia, e in special modo nei circoli militari milanesi, dando il via a un procedimento del Tribunale Militare Territoriale di Milano contro il sergente di Fanteria Aristarco (residente a Milano, dove ha sede legale Cinema Nuovo) e il sottotenente di Fanteria Renzi (residente a Bologna) destinato a diventare uno dei casi giudiziari più clamorosi dell’Italia anni Cinquanta.

Il 2 aprile 1953 il generale Giuseppe Mancinelli – comandante dell’Ufficio Informazioni (leggasi: servizio segreto militare) del Comando Militare Territoriale di Milano, nonché ex braccio destro dei generali Erwin Rommel e Giovanni Messe in Africa settentrionale, e futuro Capo di Stato Maggiore della Difesa e comandante NATO – invia al Procuratore Militare presso il Tribunale Militare Territoriale di Milano una comunicazione segreta che ha per oggetto “Denuncia per reato di cui agli articoli 7 e 81 CPMP [Codice Penale Militare di Pace]”. Nel documento Mancinelli segnala che il

contenuto dell’articolo [L’armata s’agapò] è lesivo al buon nome e al prestigio dell’esercito italiano in generale, ed in particolare alle forze di occupazione in territorio ellenico. Il fine che si prefigge l’articolista è quello, evidentemente, di gettare fango sull’onore del soldato italiano. L’articolo in questione è stato riportato recentemente sulla prima pagina del quotidiano [Akropolis] di Atene suscitando viva impressione in quegli ambienti politici nonché in quella colonia italiana: cosa particolarmente deprecabile anche in considerazione delle ristabilite buone relazioni tra Italia e Grecia (Mancinelli 1953a).

Mancinelli prosegue sollecitando l’applicazione degli articoli 7 (“Militari in congedo non considerati in servizio alle armi”)6 e 81 (“Vilipendio alle istituzioni costituzionali e alle Forze Armate dello Stato”)7 del CPMP risalente al 1941, e allega precedenti e posizioni militari di Aristarco (denunciato in quanto direttore responsabile della rivista) e Renzi (denunciato in quanto autore dell’articolo). Per quanto riguarda i precedenti, il generale segnala soprattutto la “molta tendenza verso i partiti di sinistra” di Aristarco e la “simpatia” di Renzi verso “schieramenti politici di estrema sinistra”, sebbene nessuno dei due risulti tesserato (Mancinelli 1953b). Per quanto riguarda le posizioni militari, il generale fornisce copia dei fogli matricolari di Aristarco e Renzi per dimostrare la loro condizione di militari in congedo illimitato ma non assoluto dall’ottobre 1945. L’insistenza su quest’ultimo dettaglio si spiega con l’articolo 8 CPMP, che – subordinando la cessazione dell’appartenenza alle Forze Armate alla consegna del foglio di congedo assoluto per gravi menomazioni o raggiunti limiti di età – rende ogni italiano in salute il quale abbia mai prestato servizio di leva soggetto de facto all’autorità dei tribunali militari fino ai 55-60 anni.8

Imbeccato da Mancinelli, il 14 luglio 1953 il generale Mario Solinas – Procuratore Militare presso il Tribunale Militare Territoriale di Milano – chiede al Ministero della Giustizia l’autorizzazione a procedere contro Renzi e Aristarco, i quali,

sotto lo specioso pretesto di esporre […] la trama di un film che l’autore prevede proibito ed irrealizzabile, mett[ono] a ludibrio il Corpo di occupazione in Grecia fra il 1941 e il 1943; cita[no] episodi di dubbia e inaccertabile verità tendenti a porre odiosamente in ridicolo la cennata parte dell’esercito nazionale; delinea[no] e tratta[no] con ignobile ironia quelli che furono per converso dolorosi episodi e vicende di una guerra sfortunata (Solinas 1953a).

Il Ministro della Giustizia democristiano Guido Gonella, esaminati gli atti, concede l’autorizzazione a procedere l’11 agosto 1953 (Ministro di Grazia e Giustizia 1953), forse incentivato dalla profilazione politica degli accusati.9 A questo punto, il 2 settembre 1953, Solinas emana l’ordine di cattura (Procura Militare di Milano 1953a), eseguito dai carabinieri la mattina presto del 10 settembre 1953: sia Aristarco a Milano che Renzi a Bologna vengono raggiunti presso le rispettive abitazioni da carabinieri in borghese e convinti, con la scusa di un controllo di routine e senza essere informati di essere in stato di arresto, a recarsi alla più vicina caserma (Todisco 1953; Renzi 1985). Prelevati da casa con l’inganno, i due vengono condotti al carcere militare di Peschiera e detenuti separatamente (Aristarco è un soldato semplice, Renzi un ufficiale). In serata la notizia dell’arresto dei due critici cinematografici per vilipendio alle Forze Armate inizia già a riempire le nuove edizioni dei giornali italiani e a innescare, sia nella società civile che in Parlamento, un movimento di solidarietà che unisce comunisti, socialisti, repubblicani, liberali (Comitato Nazionale di Solidarietà con Renzi ed Aristarco 1953; AA.VV. 1953a, 1953b, 1953c, 1954; Buiani 1954), ala sinistra DC ed esponenti di spicco della chiesa cattolica (Natale 1953; Cavallaro 1953a, 1953b; Pestalozza 1953).

Il 12 settembre 1953 Solinas avvia l’istruttoria interrogando separatamente Aristarco e Renzi in carcere (Procura Militare di Milano 1953b, 1953c). Lo stesso giorno, sulla stampa lombarda, inizia a circolare la notizia che Solinas lavorò al Tribunale Militare Italiano in Grecia durante l’occupazione e sposò una donna greca, il che spinge l’interessato a scrivere una nota riservata ai suoi superiori presso il Tribunale Supremo Militare di Roma per rimettere il ‘caso s’agapò’ ad altri colleghi in modo da evitare che una campagna di stampa “in malafede” possa minare la credibilità dell’accusa e determinare ex articolo 289 CPMP una situazione di incompatibilità nociva per il buon andamento del processo (Solinas 1953b).10 La risposta del Procuratore Generale Militare è immediata e indicativa della parzialità con cui i vertici della giustizia militare repubblicana – sostanzialmente gli stessi del periodo bellico 1940-1943 (Labanca 2004b: 281) – si apprestano a celebrare il processo per vilipendio alle Forze Armate contro Aristarco e Renzi:

Il delitto di vilipendio delle Forze Armate offende il sentimento di tutti i cittadini, ma particolarmente quello dei componenti di esse. Se, pertanto, il solo fatto di avere appartenuto all’esercito di occupazione in Grecia dovesse essere interpretato, nei riguardi delle offese a quell’Armata, come produttivo della situazione [di incompatibilità] dell’articolo 289 CPMP, la medesima incompatibilità dovrebbe, per le offese alle Forze Armate in genere, sussistere per tutti gli ufficiali in attività di servizio e in congedo, con conseguente e assoluta impossibilità di formare qualsiasi collegio giudicante ed investire del procedimento qualsiasi magistrato militare. Il matrimonio, poi, con una signora greca potrebbe, se mai, determinare sensi di speciale solidarietà con gli ellenici. La circostanza di tale matrimonio sarebbe, quindi, inconcludentemente richiamata al fine di adombrare ragioni di personale risentimento verso l’articolista che ha attaccato coloro che pretende sostenere abbiano vessato ed angariato proprio la popolazione greca (Mirabella 1953).

Rassicurato dall’appoggio incondizionato delle più alte sfere della giustizia militare, Solinas prosegue il suo lavoro e il 24 settembre 1953 chiude l’istruttoria interrogando il generale Mario Marghinotti, in cui ha identificato l’alto comandante che, nel soggetto di Renzi, trasferendosi dal Peloponneso all’Epiro, porta con sé l’amante tenutaria di una casa di tolleranza e l’intero postribolo (Solinas 1953c; Ministero Difesa-Esercito 1953). Come prevedibile, Marghinotti nega tutto: sia l’episodio specifico a lui addebitato sia, per quanto riguarda il territorio sotto la sua giurisdizione, il gallismo, le fucilazioni di ostaggi greci per rappresaglia, le requisizioni arbitrarie ai danni dei civili, il malcontento e l’insubordinazione serpeggianti tra le truppe (Procura Militare di Milano 1953d). A questo punto, ad Aristarco e a Renzi non rimane che attendere il 5 ottobre 1953, data di inizio del processo, in carcere. Il CPMP, al contrario del Codice Penale ordinario, non prevede infatti la possibilità di affrontare il giudizio a piede libero per reati di vilipendio.

Scrive un lettore di Cinema Nuovo in una lettera indirizzata a Renzi nell’agosto 1953 e mai pubblicata: “In quanto al film L’armata s’agapò, hanno fatto benissimo a proibirglielo ed io ne gioisco; […] se lei avesse una moglie e costei la tradirebbe è contento di raccontarglielo ai suoi amici e parenti? Sarebbe contento della pubblicità che farebbero?” (Traina 1953). Aldilà delle scorrettezze grammaticali, la domanda retorica ha il pregio dell’onestà: più che una forma di rispetto per i caduti, come sostenuto dai critici di Renzi sin dal febbraio 1953 (Sisifo 1953; Masini 1953; Montanelli e Benedetti 1953; Guareschi 1953; AA.VV. 1954: 67-9), il silenzio su aggressione e occupazione della Grecia nel periodo 1945-1952 è un conveniente velo pietoso steso per evitare di discutere un passato vergognoso in cui il ‘bravo italiano’ si comportò da aggressore, occupante, ladro, affamatore, stupratore e assassino di civili innocenti. Ecco allora che la celebrazione del processo contro Aristarco e Renzi per vilipendio alle Forze Armate presso il Tribunale Militare Territoriale di Milano diventa una formidabile occasione per spostare il dibattito dalle pagine di una rivista specialistica a un’aula di tribunale gremita di giornalisti delle principali testate italiane, ovvero da una ristretta cerchia di lettori cinefili e colleghi cineasti all’intera opinione pubblica italiana – un’occasione più unica che rara, forse la prima del Secondo Dopoguerra, per lavare in pubblico i panni sporchi di Grecia e approcciare la questione fino ad allora tabù dell’onore militare di coloro che, come Renzi, combatterono per l’imperialismo fascista fino allo sbandamento e al crollo dell’esercito italiano l’8 settembre 1943.

3 Obbedir tacendo e tacendo morir

La prima udienza, tenutasi il 5 ottobre 1953, è interamente dedicata alla discussione delle eccezioni preliminari di natura procedurale sollevate dal collegio difensivo. Esse riguardano le competenze dei tribunali militari in tempo di pace, la punibilità degli imputati per aver vilipeso un’istituzione militare (il Regio Esercito) che con l’avvento della repubblica ha cessato di esistere, la validità dell’autorizzazione a procedere concessa da Gonella l’11 agosto 1953, e l’ammissibilità dei testimoni citati dall’accusa. L’ultima eccezione, presentata dall’avvocato Ettore Gallo, è di fondamentale importanza perché definisce le regole d’ingaggio della battaglia legale da combattersi nelle udienze dei giorni seguenti. Appellandosi ad alcune sottigliezze di CPMP e Codice di Procedura Penale, Gallo insiste affinché durante il dibattimento vengano ascoltate in qualità di testi solo le tre persone già interrogate da Solinas in istruttoria; in caso contrario, chiede che anche agli imputati sia consentito di convocare testimoni non sentiti in istruttoria (Tribunale Militare Territoriale di Milano 1953a). Da un lato, Gallo manifesta quindi un’attitudine conciliante, offrendo alla casta militare inquirente e giudicante la possibilità di evitare sfilate di testimoni che rimestino negli aspetti più torbidi della campagna di Grecia, e di fare del processo un’asettica e fin quasi astratta disquisizione sul terzo comma dell’articolo 103 della Costituzione,11 sulla continuità storica delle Forze Armate al variare dei regimi politici, e sulla validità dei provvedimenti presi dal Ministro della Giustizia di un governo sprovvisto di fiducia parlamentare. Dall’altro, rivendicando il diritto degli imputati a convocare testimoni di loro scelta, Gallo mostra gli artigli e sembra persino sfidare procuratore e giudici militari ad avere l’ardire di far deporre un gruppo di reduci su temi quali sesso e crimini di guerra di fronte a tutta la stampa nazionale. Poiché sin dal luglio 1953 l’azione penale è stata impostata sulla “dubbia e inaccertabile verità” (Solinas 1953a) dei fatti citati nell’articolo incriminato, Solinas lascia cadere nel vuoto l’invito di Gallo a limitarsi a questioni tecniche, e le parti risolvono di procedere allo scontro frontale, con il processo presso il Tribunale Militare Territoriale di Milano che, dal 6 all’8 ottobre 1953, consiste in un serrato susseguirsi di interrogatori e controinterrogatori: gli alti comandanti convocati dall’accusa negano ogni addebito riguardante i territori sotto la loro giurisdizione; gli ufficiali subalterni e i soldati semplici convocati dalla difesa confermano “l’atmosfera […] assai divertente” descritta in L’armata s’agapò (Renzi 1953a: 74), e il teste Speroni-Cardi riporta voci così scabrose sulla condotta sessuale di un colonnello italiano da causare lo sgombero dell’aula (Tribunale Militare Territoriale di Milano 1953c). La medesima polarizzazione del dibattito caratterizza il corpus di lettere indirizzate ai protagonisti del ‘caso s’agapò’ nel settembre-ottobre 1953, anche se nei due fronti epistolari contrapposti non si riscontra la netta contrapposizione generazionale-gerarchica tra alti comandi ‘negazionisti’ versus ufficiali subalterni e truppa pro Aristarco-Renzi emersa alle udienze del processo milanese.

Il fronte ‘negazionista’ è ben rappresentato nelle missive indirizzate a Solinas e al Presidente del Tribunale Militare Territoriale di Milano, oggi preservate nel fascicolo processuale depositato presso l’Archivio di Stato di Milano. Il più feroce critico di Renzi è senz’altro il colonnello Renzo Bonivento, comandante del Reggimento Cavalleria Blindata Gorizia Cavalleria, ridenominazione post-bellica del Reggimento Savoia Cavalleria che il 24 agosto 1942 compì la carica di Isbuscenskij – una manovra militare che in L’armata s’agapò viene definita “un sacrificio inutile per una guerra sbagliata, nata e concepita secondo i miti rettorici, le aberrazioni nazionalistiche della peggiore tradizione italiana” (Renzi 1953a: 73). In una lettera a Solinas del 2 ottobre 1953, scritta nella triplice veste di aggressore e occupante della Grecia (1940-1943), partigiano anti-nazista sulle montagne elleniche (1943-1944) e ufficiale dell’esercito italiano che ha svolto missioni in uniforme nella Grecia post-guerra-civile (1949-1953), Bonivento nega recisamente che i fatti narrati da Renzi restituiscano un quadro generale veritiero della condotta di greci e italiani durante l’occupazione:

Tutte le Nazioni hanno avuto le loro SEGNORINE […] ma la verità è che la maggior parte delle donne greche ha scritto leggendarie pagine di umanità verso gli italiani e gli italiani non le potranno mai dimenticare, augurandosi che le proprie madri e le proprie sorelle si siano comportate con altrettanta ammirevole dignità. Tra tanti errori, orrori e manchevolezze che sono inevitabili in una guerra così lunga e nella occupazione di un territorio straniero, noi italiani abbiamo dovunque dimostrato le più belle e più rare caratteristiche di un popolo tradizionalmente civile: generosità, comprensione, conforto. Nessun Generale italiano avrebbe mai ordinato il massacro degli ufficiali polacchi a Katyn, massacro eseguito serenamente e per lunghi giorni dai russi. Nessun Generale italiano avrebbe mai ordinato il massacro di Cefalonia, massacro eseguito serenamente e per lunghe ore dai tedeschi. Nessun Generale italiano avrebbe mai ordinato i massacri nelle foibe e le torture collettive eseguite serenamente per molti mesi dagli jugoslavi. Perché ripugna al nostro grado di civiltà e alla sensibilità del popolo italiano. Noi italiani abbiamo lasciato in Grecia un ricordo così profondo di umanità da poter riprendere a cuore aperto non solo i legami diplomatici, ma quelli di pensiero, di studio e reciproco apprezzamento (Bonivento 1953).

Dello stesso parere è Emmanuel Tasso, un imprenditore greco residente a Milano che durante l’occupazione italiana della Grecia fu un alto funzionario collaborazionista appartenente al Ministero della Pubblica Sicurezza ellenico. Applicando la stessa logica comparativa adottata da Bonivento, l’8 ottobre 1953 Tasso scrive al Presidente del Tribunale Militare Territoriale di Milano per “esprimere […] riconoscenza e gratitudine all’intero Corpo d’Armata Italiano per il modo in cui si è comportato durante la sua permanenza in Grecia”, perché, “al confronto con altre truppe occupanti [tedesche e bulgare], i Soldati Italiani si sono particolarmente distinti per generosità, comprensione ed umanità nell’aiutare e soccorrere tutti i Greci bisognosi senza distinzione di ceto, sesso ed età” (Tasso 1953). Dicendosi disponibile a testimoniare al processo, egli tiene a smentire Renzi su tutta la linea, attingendo alla propria esperienza lavorativa “con Sua Eccellenza il Generale […] [Arturo] Scattini, Colonnello Sordi Ufficio I[nformazioni], Colonnello Cam[illo] Meoli già comandante la piazza di Atene, Generale [dei Carabinieri Erminio] Bocchi, Maggiore Enrico Perricone del Tribunale Militare di Atene, eccetera”: nei rapporti con la popolazione, “l’Armata Italiana in Grecia […] non ha mai abusato del suo potere”, astenendosi sia dall’“asportare arbitrariamente prodotti alimentari o di altro genere”, sia dal commettere “atti di violenza” di qualsiasi tipo contro i civili, e in special modo contro le donne (Tasso 1953). Ritorcendo contro Renzi il nomignolo ‘armata s’agapò’, Tasso conclude:

Tutti i Greci [ri]conoscono che l’Armata Italiana ha lasciato nel campo dei lavori pubblici una impronta non facilmente cancellabile con strade, ponti, agricoltura […]. È quindi ovio [sic!] che essendo Comandi e truppe impegnati [in] normale attività di sorveglianza bellica, oltre ad eseguire opere durature di pace, non era possibile dedicare [tempo] ad attività sentimentali oltre a quelle normali. È una verità effettivamente per i Greci che l’Armata Italiana si sia fatta voler bene, ma non per il fatto di dedicarsi […] alla conquista delle donne, ma al contrario perché gli Italiani, col loro comportamento corretto, generoso e cavalleresco, hanno saputo conquistare il cuore della Grecia e farsi volere bene sì da lasciare un ricordo incancellabile e la più viva simpatia e gratitudine. La parola “s’agapò” in greco significa “ti voglio bene” e veramente “l’Armata bene” ha voluto bene senza doppi sensi al popolo greco, come il popolo greco ha voluto e vuole bene ancora all’Armata Italiana del Generale [Carlo] Geloso (Tasso 1953).12

Numerosi altri reduci, tra cui l’ufficiale di grado imprecisato X, reagiscono tramite lettera alle “insinuazioni false” dei “poco generosi scribacchini” Aristarco e Renzi, narrando vari episodi atti a “testimoniare che da parte dei nostri vi è stata generosità ed umana comprensione verso la popolazione greca che, degli Italiani, HA BUON RICORDO”: “senza nulla chiedere e per puro sentimento di umanità e cristianità”, la truppa era solita dividere le proprie scarse razioni di cibo e medicinali con i civili affamati e malati, e specialmente con i bambini, mentre i comandanti arrivavano ad assumere giovani greche come interpreti negli uffici civili e militari per sottrarle alla prostituzione indotta “dal bisogno” (X 1953).13 Forse galvanizzato dalla recente ‘discesa in campo’ post-amnistia dell’alto comandante del fu Regio Esercito e del fu Esercito Nazionale Repubblicano Rodolfo Graziani nelle file del MSI, e più in generale dalla formazione di un blocco sociale clerico-fascista in seguito alla crisi della leadership di De Gasperi nella DC e alla contemporanea affermazione di missini e monarchici alle elezioni amministrative e politiche del 1952-1953, l’“umile soldato” Cesare Caporizzi – tornato dall’Africa Orientale Italiana “quasi nudo, ma con la coscenza [sic!] serena di aver fatto il proprio dovere” agli ordini del sunnominato Graziani – si propone addirittura di fare squadra con i “i compagni d’armi” e “rompere […] le ossa” a coloro che mettono in discussione l’onore dell’esercito italiano scrivendo “oscenità” (Caporizzi 1953).

La perfetta sintesi di cosa significhi onore militare per un soldato italiano convinto che L’armata s’agapò vilipenda le Forze Armate proviene dalla già citata lettera del colonnello Bonivento, e ha a che fare più con la nozione di dovere evocata da Caporizzi che con la correttezza, la generosità e la carità cristiana ricordate da Tasso e X. Commentando alcuni episodi della storia dell’Arma di Cavalleria nelle due guerre mondiali, Bonivento sentenzia:

In realtà la carica di Isbuscenskij del Savoia Cavalleria è Gloria di tutto il Popolo Italiano anche [se] nel suo carattere episodico non ha logicamente portato a conseguenze decisive sulla guerra. Com’è noto la Cavalleria, quando necessario, si sacrifica generosamente per le altre Armi, senza mai sofisticare sulle conseguenze materiali del proprio sacrificio. Così Genova [Cavalleria] e Novara [Cavalleria] a Pozzuolo del Friuli nel 1917, così Savoia [Cavalleria] in Russia nel 1942. Da tali azioni epiche e da taluni episodi spesso leggendari il militare ne coglie la nobiltà dei motivi tradizionali; il cittadino l’orgoglio di avvenimenti che passano alla Storia con l’avallo di ammirazione di tutto il mondo. Il disperato galoppo di Isbuscenskij, galoppo verso la morte e verso la Gloria, ha strappato agli stessi tedeschi le espressioni più spontanee e più enfatiche di ammirazione […]. Quello che dissero i russi non si può sapere, ma nei miei Cavalieri superstiti è ancora vivo il ricordo di quei visi atterriti, sconvolti e coscenti [sic!] di doversi arrendere con le armi cariche di fronte ad un valore che superava i limiti dell’umano (Bonivento 1953).

In altre parole, l’onore militare consiste nell’eseguire gli ordini dei superiori senza discutere, eventualmente fino all’estremo sacrificio. Questa obbedienza assoluta e silenziosa trasfigura il singolo soldato italiano nell’Arma di appartenenza, la quale diventa, in seno alle Forze Armate, emblema dell’intera nazione (non combattenti inclusi), generando ammirazione sia tra i connazionali che tra gli Stati stranieri, alleati e nemici. Grazie all’ammirazione generata tra i connazionali, le Forze Armate (ovvero l’unione sinergica delle differenti Armi) possono fungere sul fronte interno come un efficace riferimento identitario aggregatore di cittadinanza e, in quanto depositarie di una tradizione di nobili modelli da imitare, perpetuare sé stesse di generazione in generazione. Grazie all’ammirazione generata dall’esercito nazionale tra gli Stati stranieri, l’Italia può invece aspirare ad avere un peso rilevante sulla scena internazionale indipendentemente dalle ragioni e dagli esiti delle guerre cui ha preso parte, perché la gloria, ovvero il luminoso exemplum di obbedienza dato ai posteri, non discrimina tra ordini giusti e sbagliati, e non si cura delle conseguenze materiali della loro esecuzione. Chiaramente influenzato dal magistero del Maresciallo d’Italia Messe, passato senza battere ciglio dal comando delle campagne fasciste in Etiopia, Albania, Grecia, Russia e Tunisia a quello della cobelligeranza italiana a fianco degli Alleati perché “Per noi militari la linea da seguire […] è una sola: marciare senza discutere […] i moventi e gli scopi della guerra” (Messe 1947: 2), il ragionamento di Bonivento è tagliato su misura per una nazione come l’Italia che, uscita sconfitta da un conflitto da essa stessa scatenato tramite varie aggressioni imperialiste, deve giustificare non solo il proprio passato, ma anche la propria esistenza presente e futura come potenza militare che aspira a mantenere nonostante tutte le recenti disfatte una propria sfera di influenza internazionale in Africa e nei Balcani. Inoltre, sempre in tema di sopravvivenza, l’idea di aver combattuto con onore aldilà delle ragioni e degli esiti della Seconda Guerra Mondiale è funzionale a presentare le Forze Armate come un partner leale e affidabile per i governi DC della repubblica italiana, in grado di vigilare sui confini nazionali, sull’ordine interno minacciato dagli estremisti di sinistra e sul fronte mediterraneo del blocco NATO, e non come una struttura arcaica, elefantiaca e inefficiente, un relitto dell’ancien régime monarchico-fascista da commissariare o, peggio, smantellare.

A conferma dell’idea di onore militare esposta da Bonivento si veda la lettera inviata da Y al Presidente del Tribunale Militare Territoriale di Milano in data 8 ottobre 1953, che rappresenta un vero e proprio caso-limite dell’equivalenza tra obbedienza e onore. L’autore, di professione avvocato, esordisce dicendo di aver seguito sui giornali la cronaca delle prime udienze e di sentire di non poter più tacere sui fatti di cui fu testimone oculare e parte attiva nel periodo 1941-1943 in qualità di tenente di Cavalleria nella Grecia occupata: “Se l’Illustrissimo Tribunale dovesse ritenere accertati i fatti come finora esposti dai testi d’accusa escussi, mi consenta Signor Generale di affermare che centinaia di migliaia di uomini [che fecero parte dell’Armata di occupazione] sorriderebbero dell’Amministrazione della Giustizia” (Y 1953). Preoccupato per la possibile falsificazione della verità storica, Y descrive – con dovizia di particolari e indicazioni precise di tempi, luoghi e nominativi di superiori e colleghi – fatti che confermano il contenuto di L’armata s’agapò concernente l’amore mercenario (praticato dai soldati italiani in case di tolleranza organizzate dall’esercito, oppure ovunque capitasse, con donne disposte a tutto pur di sopravvivere alla carestia) e la brutalità della lotta anti-partigiana condotta tramite rappresaglie contro la popolazione civile inerme. Per quanto riguarda il tema dell’amore mercenario, oltre a offrire scorci della “prostituzione gigantesca” trovata ad Atene (incluse sue personali esperienze sessuali con “studentesse di scuole medie”), Y si sofferma sul rapporto che legava alti comandi e postriboli, categoricamente negato da tutti gli ufficiali generali e superiori convocati da Solinas come testi: “Preoccupati di evitare casi di autosoddisfazione sessuale o peggio di sodomia, degli ufficiali fecero presente al Colonnello [OMISSIS] l’opportunità di organizzare una casa di tolleranza. Ebbi io stesso l’incarico di requisire […] una casa; e […] l’allora Maggiore [OMISSIS] provvide, in occasione di una missione a Larissa […], a prender contatto con una mezzana che facesse affluire le prostitute”. Perciò, quando nell’estate del 1942 venne a sapere che Radio Londra “qualificava l’Armata Italiana in Grecia ‘l’armata s’agapò’”, Y non poté non convenire “che il nomignolo calzava”, supportato in ciò da numerosi colleghi (Y 1953). Per quanto riguarda il tema delle rappresaglie sui civili, lo scrivente tiene ancora una volta a smentire la versione fornita durante il processo dagli alti comandanti, secondo i quali non risultano esecuzioni per rappresaglia da parte italiana, a eccezione della “fucilazione di due greci detenuti per reati comuni”, che “suscitò favorevole impressione tra i greci, perché si trattava di due elementi pericolosi” (Tribunale Militare Territoriale di Milano 1953b). Per farlo, Y si lancia in una lunga e angosciata rievocazione del ruolo di primo piano da lui avuto nella strage di Domenikon, come esecutore dell’“ordine perentorio” del Comando Divisione di fucilare più di cento civili in risposta a un attacco partigiano a un convoglio militare italiano in cui erano perite nove Camicie Nere:

Poiché il Tenente Colonnello [OMISSIS], cui ripugnava l’eccidio, fece fucilare solo pochi uomini trovati sui monti circostanti ed incolonnò gli altri verso Larissa per metterli a disposizione del Comando Divisione, fummo raggiunti verso le una di notte da un Capitano addetto a tale Comando che ci recò l’ordine perentorio di eseguire immediatamente la fucilazione. A quell’ora di notte dovemmo quindi massacrare 117 – dico centodiciassette! – innocenti! Dovetti io stesso organizzare la fucilazione e mi sembrò pietà ordinare il colpo di grazia alla nuca a quei poveretti che giacevano moribondi in quella catasta umana. […] Grazie a Dio […], [in seguito] non mi toccò mai [più] quel servizio (Y 1953).14

Quella di Y è, a tutti gli effetti, una confessione, e non a caso il mittente della lettera chiede al destinatario di serbare il più assoluto segreto sull’identità dello scrivente. Tuttavia, l’esito di questa confessione è ben lungi dall’“atto morale” di ammettere le proprie colpe come base per il “vero rinnovamento” dell’esercito e di tutte le istituzioni italiane post-belliche auspicato da Aristarco nell’editoriale del numero di Cinema Nuovo che ospita L’armata s’agapò (Cinema Nuovo 1953: 71). Il desiderio di Y di fornire “un quadro vivo, completo, veridico” ed evitare “una possibile deformazione di quella verità” che migliaia di reduci italiani “conoscono perfettamente per esperienza diretta e personale” si risolve nella rivendicazione di essere stato un buon soldato che, nonostante qualche strappo alla regola e qualche eccesso, ha svolto fino in fondo il proprio dovere, obbedendo agli ordini superiori senza discutere, anche quando essi lo ripugnavano. Non c’è perciò nulla di cui le Forze Armate debbano vergognarsi riguardo alla campagna di Grecia; anzi, “pregiudizievole all’onore del nostro Esercito” è “l’occultare una realtà che non è in effetti vergognosa: Signor Generale, è vero che abbiamo avuto l’amante, ma è anche vero che siamo stati capaci di combattere onorevolmente e degnamente” (Y 1953).

Alla visione proposta dall’ufficiale superiore Bonivento e fatta propria dall’ufficiale subalterno Y si contrappone quella dei comuni cittadini (molti dei quali reduci di Grecia) che scrivono ad Aristarco e Renzi presso il carcere militare di Peschiera o la redazione milanese di Cinema Nuovo per portare, con tutte le cautele e le reticenze del caso, la propria testimonianza autobiografica sulle vicende dell’ultima guerra, reclamando giustizia per i due critici cinematografici accusati di vilipendio alle Forze Armate, e per tutti coloro che hanno sofferto, e ancora soffrono, a causa del recente conflitto mondiale. In effetti, dopo anni di sostanziale silenzio sulla condotta bellica italiana, le campagne stampa seguite all’arresto e il procedimento giudiziario altamente mediatizzato del 5-9 ottobre 1953 forniscono ai reduci e ai loro familiari, fino ad allora isolati più che mai, l’occasione di raccontare, e dunque condividere, traumatiche esperienze di guerra a lungo messe a tacere o taciute, cercando di superare meccanismi di censura e autocensura, amnesie e afasie pubbliche e private. Non siamo ai livelli della “smania di raccontare” calviniana (Calvino 1971 [1964]: 8), ma la celebrazione del processo – con le contrastanti versioni testimoniali di accusa e difesa ampiamente riportate sui maggiori quotidiani italiani – dà la stura ai ricordi di molti, come dimostrano le missive conservate presso la Cineteca di Bologna nel Fondo Guido Aristarco e nel Fondo Renzo Renzi.

In primo luogo, subito dopo l’arresto dei due critici cinematografici, intervengono amici e colleghi che non solo ricordano episodi autobiografici per confermare il contenuto di L’armata s’agapò, ma tracciano anche inquietanti parallelismi tra passato e presente.15 Scrive il giornalista del quotidiano La Stampa Ferruccio Cervi ad Aristarco in data 12 settembre 1953:

sentitevi onorati [tu e Renzi] di esserci finiti [a Peschiera]: certi mandati di cattura hanno il valore d’una decorazione sul campo. Non è senza significato che voi siate stati rinchiusi in uno dei quattro pilastri del “quadrilatero” austriaco. C’è ancora in Italia un quadrilatero che resiste, più protervo di quello di [Josef] Radetzky, e il risorgimento continua. Salutami Renzi che non conosco ma che stimo. Anch’io sono […] stato in Grecia, anch’io mi son fatto fotografare – come quell’ufficialetto della “s’agapò” – sotto il Partenone, e ho capito e sentito il suo sfogo (Valdata e Cervi 1953).

Il critico cinematografico parmense Gianfranco Buiani, scrivendo ad Aristarco in data 22 settembre 1953, rincara la dose:

È evidente che vogliono metterci il “tappo” in bocca, come un generale che abita nella mia città ordinò – durante la campagna di Grecia (o quale combinazione!) – ai suoi soldati di metterlo affinché i nemici (i greci) non avessero ad accorgersi della presenza di italiani che stavano avanzando verso le loro linee. […] È un episodio, come i tanti citati da Renzi, che rivela ancor di più – se ve ne fosse bisogno – l’assurdità di una guerra come quella di Grecia, come di tante altre preparate dal fascismo e che tanti lutti procurarono alle famiglie italiane. È evidente però che oggi queste guerre non possono nemmeno più essere criticate, poiché gli stessi generali che comandavano allora comandano oggi; la casta militare reazionaria di allora comanda forse meglio di prima e si sta riorganizzando. È così che si permette al leone di Arcinazzo [Rodolfo Graziani] di sporgere impunemente querele su querele a [Luigi] Zampa e ai suoi collaboratori per il film Anni facili (Buiani 1953).

Lo sceneggiatore Ugo Pirro, che da qualche anno si sta vedendo rifiutare dai produttori cinematografici italiani un soggetto sulla guerra di Grecia basato sulla propria esperienza di militare occupante, è il più accanito sostenitore dell’esame di coscienza auspicato da L’armata s’agapò, tanto che la sua lettera a Renzi del 12 settembre 1953 viene segnalata a Solinas dalla censura militare:

Caro Renzi, i generali che chiudevano i forni […], i generali i quali certo sapevano che i postriboli militari della Grecia erano popolati da fanciulle ancora prive degli attributi della femminilità, forse immaginano che tutti hanno cattiva memoria e, certo, si sono illusi che i fatti da te citati in quel tuo mirabile articolo sono i soli che i reduci della Grecia ricordano. Che illusi! Noi non abbiamo dimenticato nulla. Ciò che è accaduto in Grecia non è contenibile in poche pagine di una rivista, […] così come non si può sperare di contenere in tremila metri di pellicola tutta la verità, ma anche tutto l’amore sincero e profondo per l’eroico popolo greco, come per i nostri soldati che furono tanto generosi ed inosservanti degli ordini superiori da far dimenticare ai greci tutto il male che, nostro malgrado, noi gli procuravamo. I bambini che cadevano spezzati dalla fame nelle vie di Atene, le donne che vendevano per mezza pagnotta la loro onorabilità, noi li abbiamo sempre considerati sorelle e fratelli nostri. È questa la verità, ed è questa, a mio modesto avviso, la tua arma di difesa. Il processo contro te ed Aristarco, insomma, deve trasformarsi in un atto d’accusa contro la guerra fascista, contro i generali fascisti, contro coloro che ordinavano le rappresaglie ai danni di un popolo stremato dalla fame e dal sangue versato per difendere la libertà, infine contro coloro che ancora hanno il coraggio di proclamare legittimo tutto ciò. Denunziandovi e arrestandovi qualcuno ha voluto certo negare i fatti e le responsabilità di quegli anni, sicché [tocca] ai reduci della Grecia di dimostrare le responsabilità di coloro che li comandarono (Pirro 1953b, Pirro1953c).16

Pur essendo contenuto in una lettera privata rimasta finora inedita, l’appello di Pirro agli ex-commilitoni per ricordare, testimoniare e mettere sotto accusa gli accusatori di Aristarco e Renzi è fatto proprio da molti, tra cui la Medaglia d’Oro al Valore Militare e Grande Invalido di Guerra Eugenio Vicentini

la guerra di Grecia è stata condotta rovinosamente, con gravissimo sacrificio delle truppe, contro un avversario che non sentivamo nemico, perché ad esso ci legava una tradizione risorgimentale ed una lunga amicizia. L’aggressione fu voluta dai capi e scontata dai soldati […]. Noi vogliamo ben distinguere [i capi] da quei nostri compagni che hanno combattuto in silenzio e sono morti in silenzio. E contro i responsabili si leverà sempre la protesta di chi ha vissuto e sofferto da soldato quel triste periodo (AA.VV. 1953c),17

e il capitano Amos Pampaloni della Divisione Acqui, unitosi ai partigiani greci dopo essere miracolosamente sopravvissuto all’eccidio di Cefalonia

ritengo che nessuno si possa ritenere offeso dalle verità amaramente raccontate nell’articolo di Renzi. Tutti coloro che hanno dovuto combattere in Francia, in Russia o nei Balcani sanno quanto poco fosse sentita la guerra fascista e ricordano le terribili conseguenze dovute all’impreparazione dei comandi, alla deficienza dei mezzi, alla leggerezza con cui venivano condotte le operazioni (Pampaloni 1953).

Alle prestigiose firme di Vicentini e di Pampaloni, che tra l’altro auspica che il film “L’armata s’agapò si realizzi effettivamente […] con i soli contributi degli ex-combattenti, che ricordano gli anni del dolore e del riscatto” (Pampaloni 1953), si aggiungono l’ufficiale invalido di guerra Cesare Santini

In quanto all’attività amorosa del soldato italiano nei presidi in terre occupate […] chi, già presente in quelle terre, nega tale attività o è un mentitore per costituzione o ha la memoria labile o aveva allora tendenze nient’affatto naturali. […] [M]i sembra che nel processo si sia giunti anche ad attenuare lo stato di fame esistente in Grecia per non ammettere che le donne si cedevano per una pagnotta (Santini 1953);

il tenente Ettore Verzegnassi

voglio […] confermare che anche nel mio settore (isole di Samo e di Icaria […]) sono purtroppo accaduti diversi fatti molto simili a quelli descritti dal Renzi […]. Quanti e quali siano questi fatti non credo sia ora il caso e neppure la convenienza di esporre (Verzegnassi 1953);

l’alpino Remigio Colombo (“sono stato richiamato a suo tempo proprio presso quell’armata che fu gettata allo sbaraglio sui monti della Grecia dagli incoscienti capi di allora”) (Colombo 1953); il sottotenente Enzo De Bernart

li abbiamo sentiti noi [i gloriosi caduti] parlare prima di morire e noi stessi, che siamo vivi per caso, la pensavamo come loro […]. Non c’è vilipendio se oggi si ripete a tutta la nazione quello che i morti pensavano e dicevano prima di morire. Non c’è un solo soldato o ufficiale italiano morto in Grecia che non abbia deprecato il modo come fu preparata e condotta la campagna (De Bernart 1953);18

l’invalido di guerra Heros Arimondo, granatiere ferito e congelato sul fronte greco (“posso dare senz’altro ragione al signor Renzi […], specie dal lato ‘d’una guerra non sentita dai soldati italiani, quella di Grecia, e condotta in un modo orribile!’”) (Arimondo 1953); numerosi parenti di reduci come la casalinga Luisa De Val

La storia è fatta dai documenti dell’epoca e, dei documenti, fanno parte anche le lettere dei soldati […] dove si chiedeva ‘una gugliata di cotone ed un ago’ da mettere nella lettera di risposta, ‘per cercare di tenere su i brandelli delle divise’. Poveri soldati imperiali, portatori di civiltà in così misere condizioni, poco adatte ad incutere rispetto a popolazioni aggredite! (De Val 1953)

e uno studente universitario figlio di un colonnello deceduto poco dopo il ritorno dall’internamento militare in Germania (“A proposito di ‘vilipendi’, sapete quanto riceve di pensione, mensilmente, la mia famiglia (3 persone), dacché è morto mio padre? Lire 27,129 e moltissime promesse”) (PC 1953).

Sebbene nessuno degli scriventi pervenga a dare una definizione in positivo di onore militare, dalle missive appena citate emerge chiaramente una definizione in negativo: l’onore militare non è certo la muta e acritica esecuzione di ordini superiori esaltata da Bonivento e Y. Aldilà delle notevoli differenze nel background dei mittenti e nello stile letterario, tutte le lettere pro Aristarco-Renzi dei reduci (come già l’articolo incriminato di Renzi che esse difendono) pongono infatti l’accento sull’esperienza della guerra di Grecia come un brusco, doloroso risveglio che porta alla constatazione della differenza tra propaganda bellic(ist)a fascista e realtà, alla presa di coscienza di trovarsi dalla parte degli aggressori e dei carnefici, dal lato sbagliato della storia, e al tentativo di attenuare la vergogna e il senso di colpa rivisitando il trauma bellico nei termini di una violenza non solo perpetrata, ma anche subìta, sotto il fascismo, per e in nome del fascismo. Da qui l’esigenza di verità e la volontà di ‘fare rumore’ come esercizio di libertà utile alla formazione di anticorpi democratici, perché la retorica del silenzio come miglior tributo ai caduti e dell’obbedienza assoluta e silenziosa come ideale supremo di onore militare rappresentano un pericoloso terreno di coltura per il ritorno dello Stato-caserma “ove, come [recitava] una scritta dell’epoca [fascista], ‘per il militare il più bel discorso è un rigoroso silenzio’ (così tutte le porcherie sono possibili!)” (Santini 1953).

4 Conclusioni

Gli storici del cinema inseriscono giustamente il ‘caso s’agapò’ nel più ampio quadro di “guerra fredda delle idee” (Pellizzari 2003) e “censura a largo spettro” (Vigni 2003) che caratterizza la mediasfera italiana a partire dalla campagna elettorale per le elezioni politiche del 1948. A tal proposito, giova ricordare che sia Aristarco che Renzi hanno già fatto esperienza del “clima irrespirabile” (Carancini 1953: 1) dell’Italia di fine anni Quaranta e inizio anni Cinquanta ben prima di essere imprigionati e processati per vilipendio alle Forze Armate. Per motivi politici malamente mascherati da pretesti disciplinari e amministrativi, nell’aprile 1948 Aristarco viene licenziato dalla redazione milanese della RAI e nel settembre 1952 dalla redazione della rivista Cinema (Aristarco 1948, 1952). È proprio quest’ultimo licenziamento a portarlo, alla fine del 1952, alla creazione di Cinema Nuovo, il cui primo editoriale – intitolato Continuare il discorso – presenta la nuova rivista come un tentativo di denunciare e combattere la censura delle “forze esterne (commerciali, statali, di certo pubblico)” e l’autocensura che “minacciano di frenare le forze più vive” del nuovo cinema italiano nato da “un’esperienza di libertà” e da “un terreno preparato quasi clandestinamente prima e durante il recente conflitto da tutto un movimento critico e culturale” (Cinema Nuovo [Guido Aristarco] 1952: 7).19 Dal canto suo, nel 1951-1952, Renzi sceglie prudentemente di autocensurarsi mentre scrive, dirige e monta il cortometraggio documentario Quando il Po è dolce (1952), ma l’opera viene comunque bocciata dalla commissione di selezione per la Mostra di Venezia, e poi subisce modifiche censorie su pressioni governative (Renzi 1952b; Ente per la Colonizzazione del Delta Padano 1953; Sottosegretariato di Stato per l’Agricoltura e le Foreste 1953).

Nonostante i precedenti, nelle ‘lettere dal carcere’ scritte alla vigilia del processo militare, gli imputati si dicono sereni, fiduciosi e determinati a combattere per la piena assoluzione dall’accusa di vilipendio alle Forze Armate. Non è dato sapere se quanto scritto nelle suddette lettere corrisponda ai veri sentimenti di Aristarco e Renzi, ma certo è che i due sanno di godere di un’enorme esposizione mediatica (cosa che non era avvenuta per i torti da loro subìti prima del settembre-ottobre 1953), e che di conseguenza ogni loro comunicazione privata può avere un destinatario e un uso pubblici: “Concorderemo la linea più naturale di difesa, anche se essa comporterà una nostra ulteriore permanenza [nel carcere militare di Peschiera]. Infatti vogliamo uscire dall’avventura netti, come crediamo di meritare”, scrive Renzi ai genitori (Renzi 1953d); “Non ho nulla da rimproverarmi e da rimproverare a Renzo. Ho detto agli avvocati […] che non voglio scindere le responsabilità. Nel nostro giornale non contano le firme singole, […] conta la testata, il ‘gruppo’”, scrive Aristarco alla moglie, che del resto queste cose sa benissimo, avendo ella “collaborato alla nascita della rivista” nell’autunno 1952 (Aristarco 1953). Il collegio difensivo e i più stretti collaboratori di Aristarco, però, non nutrono molte speranze e considerano una condanna mitigata da attenuanti e condizionale l’esito più probabile (Anonimo e Kezich 1953; Kezich 1953a, 1953b, 1953c, 1953d). La previsione di questi ultimi si avvera: il 9 ottobre 1953 i due critici cinematografici vengono giudicati colpevoli di aver leso l’onore militare italiano, condannati a due anni di reclusione militare ciascuno (il minimo della pena, ulteriormente ridotta dalle attenuanti a sei mesi per Aristarco e a sette mesi e tre giorni per Renzi, il quale perde il grado di sottotenente) e immediatamente scarcerati per effetto della condizionale.

A un primo sguardo, quella del Tribunale Militare Territoriale di Milano sembrerebbe una sentenza ‘cerchiobottista’ in quanto, pur sancendo l’intoccabilità dell’esercito italiano in qualunque tempo e luogo presumibilmente a partire dal 1861 (ovvero “dal momento storico in cui [lo Stato italiano], riunificatasi quasi totalmente l’Italia nei suoi confini geografici, ha coinciso sostanzialmente con la nazione italiana”) (Tribunale Militare Territoriale di Milano 1953e), i giudici non infieriscono: la pena massima prevista ex articolo 81 CPMP è di sette anni e di fatto, grazie alla condizionale, della pena minima loro inflitta Aristarco e Renzi scontano soltanto il mese che intercorre tra la mattina del 10 settembre e le prime ore del 10 ottobre 1953. Tuttavia, va tenuto presente che la condizionale è una sospensione dell’esecuzione della pena legata all’impegno, da parte del condannato, di non commettere altri reati – il che, nel caso di Aristarco e Renzi, si traduce in una sorta di libertà condizionata di espressione, con la spada di Damocle della reclusione militare che dal 9 ottobre 1953 pende sulla loro produzione giornalistica e cinematografica fino all’estinzione della pena.20

Similmente, sebbene il rumore provocato dal ‘caso s’agapò’ convinca alcune case editrici italiane a pubblicare opere autobiografiche e semi-autobiografiche di reduci di Grecia, come la raccolta di racconti Sagapò di Renzo Biasion (vero e proprio instant book, in quanto uscito nell’ottobre 1953) e il romanzo Le soldatesse di Pirro (uscito nell’aprile 1956), la condanna di Aristarco e Renzi mette nero su bianco che aggressione e occupazione della Grecia sono un argomento proibito per il cinema italiano degli anni Cinquanta. In effetti, il film ispirato a Sagapò (Biasion 1949, 1953) progettato nei primi anni Cinquanta da Carlo Ponti e a fine anni Cinquanta da Roberto Rossellini non verrà mai realizzato (Pirro 1998: 66-9, 76-7), e la trasposizione cinematografica di Le soldatesse (Pirro 1956) sarà a lungo osteggiata da Nicola De Pirro in persona, e verrà approvata solo nel 1964, dopo il pensionamento del Direttore Generale dello Spettacolo e numerose riscritture della sceneggiatura.21 L’unico film italiano sulla guerra di Grecia girato negli anni Cinquanta è Ciao, Pais! (1956) di Osvaldo Langini: dedicato “agli Alpini d’Italia” da un’epigrafe nei titoli di testa, esso è un perfetto esempio di pellicola bellic(ist)a in cui i soldati italiani fanno il loro dovere in silenzio, senza discutere, fino all’estremo sacrificio, e al termine della missione i sopravvissuti rendono omaggio ai caduti in silenzio, senza porsi domande, in attesa della prossima azione suicida in nove contro duecento dietro le linee nemiche. In Ciao, Pais!, come nei combat films aspramente criticati da Renzi nel cappello introduttivo del soggetto L’armata s’agapò, la “figura del soldato pronto a sacrificarsi per la patria a cui attribuire virtù e onore” permette di “silenzia[re], oscura[re], il ruolo di aggressore” del Regio Esercito, nonché “qualsiasi riferimento diretto al regime” fascista e alle “cause del coinvolgimento italiano nel conflitto”: un “processo di ri-scrittura storica e di costruzione della memoria collettiva” teso a “promuove[re] una specifica politica del ricordo o, più precisamente, dell’oblio” (Antichi 2021: 25) utile a fini conservatori se non apertamente reazionari.

Aldilà dell’indubbio merito di aver portato alla luce la divided memory italiana sulla campagna di Grecia (Foot 2009: 1-29, 110-24), la trasgressione del divieto di parlare delle guerre fasciste operata da Aristarco e Renzi tramite la pubblicazione del soggetto L’armata s’agapò su Cinema Nuovo non porta dunque risultati concreti dal punto di vista della libertà di espressione in campo cinematografico. Per ragioni di politica interna (rimozione delle colpe per pacificazione nazionale; mancata de-fascistizzazione delle istituzioni italiane post-belliche in chiave anticomunista), di politica estera (risorgente militarismo e nazionalismo italiano in relazione a contese territoriali internazionali quali quella del Territorio Libero di Trieste; inserimento di Italia e Grecia nel blocco atlantico in chiave antisovietica) e di sopravvivenza di casta (il tentativo da parte della burocrazia militare di saldare l’affermazione dei propri privilegi di Stato-nello-Stato al maccartismo DC e all’anticomunismo dei suoi alleati internazionali), il silenzio continua a coprire gran parte delle questioni relative alle campagne belliche fasciste e a impedire, con la scusa della tutela dell’onore militare italiano, il “riesame di un colpevole passato” (Cinema Nuovo 1953: 71). Tuttavia, se ai primi di ottobre del 1953 Aristarco e Renzi perdono la battaglia legale presso il Tribunale Militare Territoriale di Milano, nel lungo periodo finiscono per vincere la guerra della riforma legislativa in Parlamento. Nell’ultima decade del settembre 1953, l’imponente campagna di solidarietà pro Aristarco-Renzi portata avanti a mezzo stampa da amici e colleghi uniti nell’antifascismo aldilà delle differenze di schieramento politico sfocia nella presentazione di tre proposte di legge (una di Partito Socialista Italiano e Partito Liberale Italiano, una del Partito Comunista Italiano e una del Partito Socialista Democratico Italiano) per limitare la giurisdizione dei tribunali militari in tempo di pace ai soli cittadini che stanno effettivamente prestando il servizio militare.22 A questa limitazione, che tra le altre cose rende impossibile per i tribunali militari processare militari in congedo illimitato per il reato di vilipendio alle Forze Armate, si arriva nei primi mesi del 1956 con l’approvazione della legge 167 del 23 marzo 1956. In termini di impatto sociale, la riforma legislativa del CPMP fascista del 1941 occasionata dal ‘caso s’agapò’ può essere considerata la più significativa vittoria nella storia delle battaglie culturali promosse da Cinema Nuovo e da tutta una “critica militante” che, nell’immediato Secondo Dopoguerra e per buona parte del secondo Novecento, vede nel cinema uno strumento per “influire sul costume, modificare i comportamenti, minacciare la morale, essere fonte di dubbi e […] modificare il mondo” (Pellizzari 1999: 118).

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  1. Per un’introduzione all’uso della corrispondenza come fonte storica, si veda Casalena (2006). Sulla corrispondenza di cineasti e critici cinematografici come fonte per lo studio del cinema italiano, e più in generale della cultura italiana del Novecento, si vedano Mariani e Venturini (2017), Noto (2019), Dotto e Mariani (2021), Rigola (2021) e Guarneri e Scabelli (2023).↩︎

  2. In proposito si veda Battini (2003, 2004); Focardi e Klinkhammer (2004); Labanca (2004a); Santarelli (2004a, 2004b); Di Sante (2005); Oliva (2006: 17-35, 137-62); Rivello (2006: 99-109); Osti Guerrazzi (2010: 201-79); Conti (2011); Focardi (2016).↩︎

  3. Donosti (1945: 237-42, 271-6); Grazzi (1945); Mondini (1945); Zanussi (1945: 29-33, 63-7, 84, 101); Armellini (1946: 71, 78-9, 96, 103, 106, 111, 113-5, 119-23, 134, 139-40, 143-4, 168-93, 228, 268); Badoglio (1946: 50-8); Favagrossa (1946: 133-4, 138-55, 233-4); Pricolo (1946); Roatta (1946: 117-39); Visconti Prasca (1946); Alfieri (1948: 102-21); Cavallero (1948: 1-91); Canevari (1949: 197-372); Papagos (1950 [1947]); Geloso (1950); Rossi (1951: 72-142); Caviglia (1952: 293, 297-9, 315-7, 350-1, 456, 489).↩︎

  4. Gnocchi (1956 [1946]: 131); Montanelli (1982 [1946]: 166-7); Biasion (1948: 9-73); Biasion (1949); Figallo e Damigella (1949: 9-13); Ufficio Stampa della Regia Legazione di Grecia in Italia 1949; Giannini (1950: 18-74; Fra Ginepro 1951).↩︎

  5. Nel marzo 1941 Renzi rinuncia ai benefici connessi alla sua condizione di studente universitario e si arruola volontario, desideroso di evadere dal grigiore della vita borghese, dimostrare il proprio coraggio e guadagnarsi sul campo di battaglia la considerazione di un regime che, aldilà dei proclami di facciata, stenta a fare ‘largo ai giovani’. Diventato sottotenente di complemento presso la Scuola Allievi Ufficiali di Fano, Renzi partecipa alle operazioni di presidio e controguerriglia in territorio greco-albanese con il Reggimento Fanteria Cagliari dal 18 novembre 1942 all’8 settembre 1943. Fatto prigioniero dai tedeschi il 9 settembre 1943 a Eghion, rifiuta ogni collaborazione, sopravvive all’internamento militare in Polonia e Germania, e nell’agosto 1945 rientra in Italia, dove inizia immediatamente a lavorare per testate giornalistiche nate dall’esperienza resistenziale. Oltre agli scritti autobiografici di Renzi (1954, 1960, 1973), per il ‘lungo viaggio’ dal fascismo all’antifascismo di una parte degli universitari italiani nati negli anni Dieci e nei primi anni Venti del Novecento, si vedano La Rovere (2003: 177-398; 2008: 134-351), Serri (2005: 128-39, 149-86, 243-59, 279-322), Duranti (2008, 2011) e Guzzo (2019).↩︎

  6. Cfr. CPMP, Libro I, Titolo I, Art. 7: “Fuori dei casi in cui sono considerati in servizio alle armi, ai militari in congedo la legge penale militare si applica […] quando commettono alcuno dei reati contro la fedeltà o la difesa militare”. Il CPMP è consultabile online su https://www.normattiva.it/ (consultato il 10 novembre 2022).↩︎

  7. Cfr. CPMP, Libro II, Titolo I, Capo I, Art. 81: “Il militare, che pubblicamente vilipende la Corona, il Governo del Re Imperatore, il Gran Consiglio del Fascismo, o il Parlamento, o soltanto una delle Camere, è punito con la reclusione militare da due a sette anni. La stessa pena si applica al militare, che pubblicamente vilipende le Forze Armate dello Stato, o una parte di esse”. Il vilipendio alle Forze Armate rientra nella casistica dei reati contro la fedeltà militare menzionata nell’articolo 7 CPMP.↩︎

  8. Cfr. CPMP, Libro I, Titolo I, Art. 8: “Agli effetti della legge penale militare, cessano di appartenere alle Forze Armate dello Stato: 1) gli ufficiali, dal giorno successivo alla notificazione del provvedimento, che stabilisce la cessazione definitiva degli obblighi di servizio militare; 2) gli altri militari, dal momento della consegna a essi del foglio di congedo assoluto”.↩︎

  9. Come denunciato innumerevoli volte dalla stampa marxista, nei primi anni Cinquanta la magistratura militare è solita sfruttare gli articoli 7, 8 e 81 CPMP per perseguitare militanti comunisti, dal dirigente sindacale al semplice panettiere, con il beneplacito del governo DC (Anonimo 1953a, 1953b, 1953c). Per l’ipotesi di una genesi politica del ‘caso s’agapò’, si veda Santini (2003: 2-3), dove si citano documenti ministeriali da cui si evince che Aristarco era stato segnalato alla polizia politica come propagandista “socialcomunista” sin dal marzo 1952.↩︎

  10. Cfr. CPMP, Libro III, Titolo III, Capo II, Art. 289: “non p[uò] sotto qualsiasi titolo concorrere alla istruzione di un procedimento, far parte di un Tribunale Militare o del Tribunale Supremo Militare, o esercitarvi le funzioni di Pubblico Ministero […] colui che è stato offeso dal reato”. Cagliaritano, classe 1894, Solinas presta servizio in qualità di Procuratore Militare presso il Tribunale Militare di Guerra di Agrinion dal 5 ottobre 1941 (Ministero della Guerra 1942: 1472) al 25 giugno 1943, quando viene sostituito e rimpatriato a causa di “relazione notoria con donna greca; favoritismi e gravi irregolarità giudiziarie” (Bregantin 2010: 369).↩︎

  11. Cfr. Costituzione, Parte II, Titolo IV, Sezione I, Art. 103: “In tempo di pace [i tribunali militari] hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze Armate”. La Costituzione è consultabile online su https://www.senato.it/home (consultato il 10 novembre 2022).↩︎

  12. La menzione del generale Geloso da parte di Tasso non è casuale: due settimane prima, in coincidenza con una visita diplomatica di Papagos in Italia, il comandante delle truppe italiane occupanti in Grecia aveva scritto una lettera al quotidiano Il Tempo tessendo le lodi dell’occupazione italiana, e vantandosi di essere “l’unico, fra i comandanti italiani e tedeschi di truppe di occupazione, a non essere, dal governo del dopoguerra del Paese già occupato, né denunziato né richiesto quale criminale di guerra” (Geloso 1953). Nonostante quest’ultima affermazione sia mendace (Conti 2009: 241), la lettera di Geloso viene depositata agli atti da Solinas nell’udienza dell’8 ottobre 1953 (Tribunale Militare Territoriale di Milano 1953d).↩︎

  13. Si vedano anche le lettere dell’ufficiale di grado imprecisato (nonché Capo dell’Ufficio Affari Civili del Comando Supremo Forze Armate Albania) Alfredo Cutrera (Cutrera 1953), del tenente Germano Tadeo (Tadeo 1953), del soldato semplice Giovanni P. (P. 1953) e del capitano Gerardo Bonelli (Bonelli 1953).↩︎

  14. Per la strage di Domenikon, avvenuta il 16-17 febbraio 1943, si vedano Office National Hellénique des Criminels de Guerre (1946: 106-8), Santarelli (2004a, 2004b), Fonzi (2019: 177-86) e Sinapi (2021).↩︎

  15. Per il ‘caso s’agapò’ come critical incident, ovvero come uno di quei momenti di crisi che funzionano da situazioni di aggregazione generazionale e professionale, si vedano Brunetta (2009) e Mariani e Noto (2020).↩︎

  16. Pirro figura nella lista dei testimoni a discarico (Tribunale Militare Territoriale di Milano 1953b), ma per ragioni ignote non viene convocato alle udienze milanesi.↩︎

  17. Indirizzata al settimanale Il Mondo in coincidenza con l’inizio del processo, la lettera di Vicentini viene depositata agli atti dal collegio difensivo di Aristarco e Renzi nell’udienza del 7 ottobre 1953 (Tribunale Militare Territoriale di Milano 1953c).↩︎

  18. Il testo di De Bernart, apparso sul quotidiano La Voce Repubblicana, era stato originariamente proposto a Cinema Nuovo, come si evince da Kezich (1953d).↩︎

  19. Per un profilo storico-critico di Cinema Nuovo dalla fondazione nel 1952 alla cessazione nel 1996, si vedano Fressura (1977), De Vincenti (1979), Torri (2004), Bisoni (2006: 43-55), Pezzotta (2018: 27-41) e Mandelli e Re (2021).↩︎

  20. Nonostante la condanna di Aristarco e Renzi, Cinema Nuovo continua a sostenere posizioni antimilitariste, principalmente tramite recensioni di film stranieri e italiani. Si vedano, a titolo di esempio, i seguenti articoli del periodo ottobre 1953 - agosto 1955: Vice (1953), Paladini (1954), Doglio (1954), Malerba e Marchi (1954), Aristarco (1954), Anonimo (1955a, 1955b, 1955c, 1955d) e Renzi (1955a, 1955b).↩︎

  21. Si veda il carteggio 1958-1965 tra la Direzione Generale dello Spettacolo e la direzione del Centre National de la Cinématographie contenuto in Archivio Centrale dello Stato, Fondo Ministero Turismo e Spettacolo, Direzione Generale Spettacolo, Archivio Cinema, Lungometraggi. Fascicoli per opera (CF 16-5000), Busta 381, CF 4159.↩︎

  22. Cfr. gli atti parlamentari del 24 e 29 settembre 1953 disponibili su https://legislatureprecedenti.camera.it/ (consultato il 10 novembre 2022).↩︎