Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.23 (2023), 131–143
ISSN 2280-9481

Il fragore della battaglia. I Sindacati della critica cinematografica in Italia attraverso la stampa d’epoca

Matteo BerardiniUniversity of Roma Tor Vergata (Italy)

Matteo Berardini (1987) is a PhD candidate in Cinema at the University of Rome Tor Vergata, where he studies History of film criticism and On-demand Culture, mainly from a cultural perspective. His doctoral research concerns the cinema magazines of the eighties and nineties as a meeting place for new spectatorial, discursive and consumption practices. Journal manager for the scientific magazines «Cinergie» and «Immagine», he has published an essay on the relationship between authorship and platforms on «Imago». He has also published two monographs for Bietti: “Strade di fuoco (Streets of Fire). Crime City in 1980s American Cinema” and “La cura del cinema. MUBI and the audiovisual experience on demand”. As a film critic, he is director of the online magazine Point Blank, as well as a collaborator for other magazines such as FilmTv, Cineforum Web, Gli Spietati and INLAND - Quaderni di cinema.

Ricevuto: 2023-02-07 – Pubblicato: 2023-07-20

The Distant Roar of Battle: The Italian Film Criticism Unions in the Press of the Period

Abstract

Throughout the twentieth century, Italian film criticism ran into various moments of crisis; three of these triggered the foundation of a union organization, a political instrument with little affinity for the intellectual elites and yet cyclically present in the history of our criticism. The years in question are 1916, 1925 and 1971, to which we owe, respectively, the Syndicate of the Film Press, the Syndicate of Intellectuals of Cinematography and the National Syndicate of Italian Film Critics. They are profoundly different moments and in any case in dialogue with each other, as phases of an identity repositioning in which the professional and ideological, political and social levels intersect. The aim of this essay is therefore to recover the studies that interpret the discursive practice of criticism as an entity ontologically connected to a state of crisis (de Man, Frey) to place them in a more accentuated historical framework. To do so, the three quoted periods will be reconstructed and analysed, using an archival corpus of period press as sources, and the cultural industry as an additional theoretical framework in the context of Italian literary theory of the sixties (Ferretti, Fortini), in order to restore facets and complexities of crisis that would otherwise not be resolved in purely endemic and ontological terms.

Keyword: Film Criticism; Film Critics Union; Crisis of Criticism; Silent Film Magazines; Cinema and Fascism.

1 Introduzione

Nel suo saggio Critica e crisi, Paul de Man afferma come sia in buona parte “ridondante” riflettere sull’azione critica in termini di crisi. Infatti “ogni vera critica si manifesta nel modo della crisi”, in quanto fonda le proprie griglie interpretative sulla distanza che separa ciascun gesto artistico dalla “nostra idea preconcetta e implicita di quel che l’arte dovrebbe essere” (1975: 11). L’impiego del concetto di crisi, tuttavia, sottende anche un’altra forma di distanza, quella che divide l’atto critico specifico dall’immagine ideale di cosa sia, e come debba operare, la critica in quanto tale, intesa come categoria e pratica socioculturale. Da questo doppio ordine di separatezza deriva la natura ontologica della relazione critica-crisi, la ridondanza dell’una nell’altra e necessaria coesistenza.

Se De Man, nel 1975, parte dalla teoria letteraria per porre una questione gnoseologica di portata universale, Mattias Frey, più di recente, si riallaccia a tali riflessioni per ricondurne la natura astratta alle forme pratiche della ricerca storica. Il suo The Permanent Crisis of Film Criticism. The Anxiety of Authority è un’indagine attenta alle fonti primarie e più minute della critica cinematografica, approcciate tramite una prospettiva euristica secondo la quale la critica vive uno stato ontologico di crisi permanente. Tale condizione, afferma Frey, è da intendersi nei termini di un’inquietudine identitaria caratterizzante gli impulsi autoriflessivi e le pratiche discorsive della critica cinematografica fin dagli albori, nonostante la moltiplicazione testuale dell’era digitale abbia suscitato apocalittici proclami di crisi e creato l’illusione che la democratizzazione anarchica del sapere online stia portando a un’inedita “morte del critico” (2015: 11-16). Al contrario, la relazione critica-crisi può essere descritta come uno stato discorsivo di ansietà endemica suscitato dalla ciclica vulnerabilità dei concetti di autorità e gusto, intesi come fattori intrinsechi e necessari all’idea di critica. In particolare:

the question of authority is vital for the critic: through its possession he or she is granted the legitimacy to describe, explain, elucidate, contextualize, and/or evaluate a certain cultural object or topic to a certain audience. […] critical authority is a textual position that assumes the privilege to speak on a certain matter (Ivi: 18).

Come dimostra la sua ricerca storica, Frey ha ben ragione nell’affermare che fin dalle origini dei discorsi sul cinema le élite intellettuali hanno esperito quella che, rielaborando Harold Bloom e la sua anxiety of influence, egli definisce anxiety of authority. Tuttavia, affinché tale individuazione teorica possa dirsi pienamente operativa, essa necessita di un’attenta declinazione sincronica, considerato il fatto che tanto le modalità (intenzionali, possibili, teoriche) che la critica adotta, quanto il riferimento ideale cui essa tende, e sul quale basa il proprio linguaggio della crisi (la separatezza su doppio binario di cui parla De Man), non sono caratteri assoluti ma discorsi determinati storicamente. Nel risolvere la dicotomia critica-crisi nei soli termini di desiderio di riconoscimento culturale e timore per una democratizzazione orizzontale dell’autorità intellettuale, il rischio è di smarrire all’ombra dell’approccio ontologico la specificità storica dei processi in corso, giocoforza connessi a sistemi economici, logiche culturali e strutture del sentire che fanno da alveolo, quando non da catalizzatore, alle pratiche discorsive prese in oggetto.

Obiettivo di questo saggio è quindi quello di applicare il modello ontologico di Frey alla ricostruzione di tre punti nodali della storia della critica cinematografica in Italia, casi studio la cui crescente complessità storica invita a una progressiva problematizzazione del modello e all’uso di lenti analitiche dalla lunghezza focale sempre più corta, grandangolare. Ricostruiti grazie a un corpus archivistico di stampa d’epoca, gli anni in oggetto sono il 1916, 1925 e 1971, tre momenti profondamente diversi e comunque dialoganti tra loro, nel corso dei quali la critica cinematografica italiana, per rispondere a differenti stati di crisi, questiona il proprio posizionamento identitario sviluppando linguaggi specifici e ricorrendo alla fondazione di una propria organizzazione sindacale, strumento politico poco affine alle élite intellettuali eppur ciclicamente presente nella storia di questa critica.

2 1916: nasce il Sindacato della Stampa Cinematografica

Ogni studio dedicato alla nascita della cultura cinematografica in Italia (a titolo d’esempio: Viazzi 1973, Turconi 1977, Caldiron 1980, Brunetta 2001a, Mazzei e Berruti 2015) evidenzia come sia necessario attendere i primi anni venti per avere, su carta stampata, una critica del cinematografo che sia consapevole, continuativa e soprattutto autonoma rispetto alle ingerenze finanziarie e pubblicitarie esercitate dall’industria cinematografica. Quando, cioè, un numero crescente di giornali infrange il tabù che voleva la stampa quotidianista disinteressarsi ai discorsi sul cinema e inizia ad affrontare la questione in termini artistici e industriali. Prima di questo momento il discorso sul cinema a mezzo stampa non può dirsi critico ma di certo è tutt’altro che assente, per quanto relegato alle prime riviste specialistiche, le quali diventano promotrici e cartina al tornasole di un graduale processo di istituzionalizzazione e radicamento del medium.

Le prime pubblicazioni nascono nel 1907, per quanto nella loro fase iniziale si occupino contemporaneamente di “caffè-concerto, fotografia, strumenti musicali, automatici e di tutto quel mondo del ‘divertimento moderno’ a cui il cinematografo è strettamente legato” (De Berti 2018: 471). In particolare, l’impronta positivistica di certo giornalismo fa sì che siano le riviste fotografiche specializzate il primo alveolo ricettivo, nel quale il cinematografo viene disquisito come novità tecnologica e potente attrattiva spettatoriale. Nel giro di pochi anni, complice il rapido sviluppo dell’industria cinematografica italiana, diverse di queste pubblicazioni si concentrano in maniera specifica sul cinema, aprendosi a prime riflessioni e commenti riguardo i film. Si tratta ancora di “fogli non poco avventurosi, nei quali le argomentazioni critiche sono frequentemente rozze e approssimative, procedono gomito a gomito con gli ingenui entusiasmi per le ‘dive’ e i ‘divi’, se non con i ‘soffietti’ pubblicitari e le sfacciate indulgenze reclamistiche” (Caldiron 1981: 8). È in particolare la compromissione pubblicitaria e promozionale il grande limite di queste riviste, volte al consumo borghese e all’aggiornamento informativo per gli addetti ai lavori. Tra inserzioni, infiltrazioni proprietarie dell’industria e pressioni economiche, la scrittura critica del tempo rivela in genere

un’impronta smaccatamente apologetica in senso commerciale e pubblicitario, o è spesso encomiastica ed esclamativa in senso letterario, […] e anche quando valuta negativamente un film lo fa in base al tipo di soggetto o al suo svolgimento, alla verosimiglianza degli episodi e dei particolari (Turconi 1977: 15).

Al netto dei suoi limiti merceologici, questa critica si muove ancora nell’orizzonte del gusto, senza metodologia estetica e con appassionata approssimazione, velleitario empirismo. Tuttavia è in questo contesto che il cinema viene approcciato sempre più come fatto intellettuale, tramite interventi di stampo pedagogico “spavaldamente combattivi e audaci” (Ceretti 1939: 8). Dal 1909 aumentano gli articoli “che s’interrogano sullo statuto artistico e culturale del cinema, sui rapporti con le altre arti, sul riconoscimento del diritto d’autore e soprattutto sulla sua funzione sociale” (De Berti 2018: 472). Il tutto con intento polemico e retorica battagliera, lungo direttrici di un processo fondativo di consapevolezza che si nutre dell’incontro-scontro tra ambienti culturali e riviste: si prenda la disputa risalente al 1911 tra «La critica cinematografica» e «Lux», colpevole di aver negato al film ogni possibilità di essere oggetto di critica estetica (Ivi: 476); o l’inchiesta-referendum rivolta ai drammaturghi italiani da parte di «La vita cinematografica», tramite la quale si cercava di stimolare una riflessione riguardo la supposta conflittualità tra i due media, la legittimità della pratica dell’adattamento e le possibili sinergie tra due diversi sistemi culturali (Turconi 1977: 12-13).

Per quanto sede di forme discorsive troppo distanti da una vera e propria critica (per come verrà definita pochi anni a seguire) e nonostante le compromissioni con il mondo della produzione e del noleggio, le riviste specializzate di inizio secolo diventano quindi il nucleo delle prime autoriflessioni messe in campo da una categoria, quella del giornalismo cinematografico, in cerca di una patente di professionalità e nobiltà socioculturale per sé e il cinema stesso.

Quest’ordine di impegno e rivendicazione ben si accorda a quanto dice Frey (2015: 29), sia riguardo il senso di crisi immanente al critico – ovvero di distanza rispetto a un riferimento ideale verso cui ci si pone in rapporto tensivo – sia riguardo la specificità di questa prima occorrenza critica (in ambo i sensi), in cui gli sforzi sono volti a legittimare il cinematografo e di lì la figura giornalistica del critico stesso affinché possa distinguersi dai contesti della pubblicità e della comunicazione commerciale. Più il cinema acquisisce prestigio culturale, più il critico del cinematografo viene equiparato alle precedenti figure del critico letterario, teatrale o musicale. Affinché accada diventa fondamentale individuare una metodologia professionale, operativa e riconoscibile a livello internazionale, oltre che esercitare e comunicare standard lavorativi condivisi (Ivi: 36-37). Parte di questo processo identitario assume forma sindacale quando, dopo un iter comunicativo fatto di tentativi ed errori, chiamate alle armi e riformulazioni, nel maggio del 1916 si costituisce a Torino il Sindacato della Stampa Cinematografica, primo organo ufficiale di categoria (Caldiron 1980: 45).

Grazie a un articolo pubblicato il 24 aprile 1916 su «Film. Corriere dei cinematografi» possiamo ricostruire il comitato promotore dell’iniziativa, composto dai direttori di riviste Gualtiero Fabbri («La Cinematografia Italiana ed Estera»), Alberto Sannia («Film»), Francesco Razzi («La Cine-Fono») e Alberto Cavallaro («La Vita Cinematografica»). Nella stessa pagina, atta a dare visibilità e appoggio pubblico all’Associazione, vengono pubblicati anche uno Schema di Statuto Sindacale e l’Ordine del Giorno “per la prima riunione dei giornalisti cinematografici italiani”, i cui punti 2 e 3 risultano di particolare interesse: il secondo riguarda la “relazione e discussione sui principali interessi della nostra classe e sui rapporti fra la stampa e l’industria e l’arte cinematografica” (a cura di Fabbri) mentre il terzo (relatore Sannia) affronta i “rapporti tra noi, gli altri Enti giornalistici e il Governo, perché la nostra stampa sia ufficialmente riconosciuta e non venga ancora esclusa dai diritti concessi al giornalismo” (Anonimo 1916a: 2). Lo stesso Fabbri, sulla sua «Cinematografia», sposa l’iniziativa augurandosi possa essere occasione per affrontare la “questione, abbastanza complessa, del dilagare di pubblicazioni nuove e sotto quale punto di vista, morale e materiale, considerarla” (Anonimo 1916b: 37). È evidente come a premere qui sia soprattutto l’esigenza di inquadrare professionalmente le pratiche e routine discorsive del critico, cui si vuole garantire riconoscibilità e indipendenza. Del resto è proprio dal tema dell’autonomia professionale che parte, sul finire del 1914, la battaglia sindacale di Cavallaro, che dalle pagine della sua «Vita Cinematografica» si fa promotore dell’iniziativa.

Fondata nel dicembre del 1910 a Torino, «La Vita Cinematografica» è forse la rivista più importante tra le pubblicazioni specialistiche che animano i primi anni del muto italiano, certamente “un punto di svolta decisivo per una stampa cinematografica consapevole dell’importanza del suo ruolo informativo-pubblicitario, ma anche critico e indipendente” (De Berti 2018: 474). Sulle sue pagine si possono leggere, tra notiziari e dibattiti informativi, profili di registi e aggiornamenti sulle produzioni più importanti, i primi gridi d’allarme per una pratica discorsiva che mal sopporta la commistione pubblicitaria e rivendica per le sue azioni una maggior sincerità e indipendenza. Nonostante simili ambizioni appaiano in buona parte velleitarie, considerata soprattutto la dipendenza economica e pubblicitaria di queste riviste, “è proprio una discussione di questo tipo che, nella sua modestia, suggerisce uno spregiudicato scrutinio delle ‘forze in presenza’, un ‘esame di coscienza’ del critico cinematografico, l’approfondimento dei modi e della funzione della critica” (Caldiron 1980: 40).

Scrive Cavallaro, in un’editoriale del 1914 rivolto con toni già battaglieri “ai nostri fabbricanti di films”:

Si inganna di molto, o è in mala fede, chi ritiene che la nostra rivista sia un semplice organo di réclame. E ci pare di averlo provato replicatamente: noi continuiamo sereni e fieri nell’esplicazione del compito assuntoci, come finora abbiam fatto; cercando di essere utili alla cinematografia con la nostra opera modesta, ma tenace e disinteressata (Anonimo 1914: 45).

E ancora l’anno successivo: “I cinematografisti sono divisi, e difficilmente si riuscirà a raggrupparli e metterli d’accordo, anche se si trattasse della loro stessa esistenza; ma almeno la stampa si elevi al di sopra delle competizioni di tutti” (Anonimo 1915a: 53). Cavallaro chiama a raccolta i direttori delle varie riviste e questi rispondono, come dimostra l’articolo A proposito di un’intesa fra i componenti la Stampa Cinematografica Italiana (Anonimo 1915b: 67), nel quale il giornale espone l’appoggio formale dei colleghi Sannia, Fabbri e Razzi nell’evocare la fondazione di un Sindacato, dato che “i nostri interessi siamo noi che dobbiamo tutelarceli e non altri” (Ibidem). Articoli simili escono nello stesso mese su «La Cine-Fono» e «La Cinematografia Italiana ed Estera», secondo una modalità di dialogo trasversale che caratterizza tutte le fasi del processo, alternando momenti di botta-risposta a prese di posizione in parallelo. Su «Cinematografia», ad esempio, si afferma che finalmente “si riconoscono i nostri sforzi. Si riconosce che noi siamo una forza nuova, un nuovo ramo o branchia artistico-etico-letteraria nel giornalismo” (Anonimo 1915c: 17), mentre tramite «Vita» Cavallaro dialoga a distanza con «Film» e «Cine-Fono» riguardo le modalità e gli intenti della prossima riunione, con la quale si dovrebbe giungere alla fondazione del Sindacato (Anonimo 1915d: 67).

Come questa sia anzitutto una battaglia per l’indipendenza professionale lo chiarisce poco dopo il solito Cavallaro, con l’editoriale I diritti della critica:

Noi non ci pieghiamo a nessuna imposizione palese o occulta e seguiteremo a battere la nostra strada informando l’opera nostra a quei criteri di obiettività che ci valsero finora non poche soddisfazioni morali. La parte commerciale, reclamistica della rivista è perfettamente estranea e separata da quella artistica: perciò è stolto pensare e pretendere che basterà ordinarci o intensificare la pubblicità a pagamento per legarci le mani e metterci nella impossibilità di dissentire in quello che cercheremo di non approvare (Anonimo 1915e: 69).

Ancor più esplicito Fabbri, che nell’editoriale Nel 1916 prende apertamente posizione, con il consueto tono irriverente. Del suo intervento vale la pena notare come il direttore eviti la contrapposizione tra stampa e industria cinematografica, sottolineando la sinergia (se non la vera e propria convergenza) che lega i due elementi. Una maggior autonomia e riconoscibilità socioculturale del cinematografo, e di lì della sua cronaca giornalistica e critica intellettuale, non può che giovare all’industria e al suo affermarsi nelle pratiche del consumo di massa:

La Stampa cinematografica sarà maggiormente considerata. Si capirà finalmente che essa è il più potente ausilio dell’industria e del commercio nostro. Direttori, Redattori, Corrispondenti, Cronisti formeranno una sola famiglia, perché il Sindacato sarà un fatto compiuto: un fatto compiuto che eleverà moralmente e materialmente una classe che certi omuncoli amano come il fumo negli occhi. E finalmente: Pax in terra per gli uomini di buona volontà (Anonimo 1916c: 33).

Nel giro di pochi mesi il Sindacato della Stampa Cinematografica diventa cosa vera, grazie alla guida di Cavallaro e le volontà congiunte dei direttori coinvolti. Certo, la sua nascita non porterà a maturazione improvvisa il panorama di queste prime riviste (di cui permangono i problemi relativi a obiettività, distanza critica e di giudizio, professionalizzazione della categoria e relazione con l’industria) ma è da qui che inizia ad accorciarsi la separatezza critica con la quale inquadriamo limiti e pregi della stampa cinematografica – separatezza giocoforza retrospettiva, volta a un ideale discorsivo oggi in nostro possesso ma al tempo ancora in fieri e tutto da costruirsi. Per questo motivo il Sindacato, attivo fino al sopraggiungere del Fascismo, è il primo esempio di come, anche in Italia, la crisi intrinseca all’agire critico riguardi anzitutto il suo posizionamento nel contesto, l’identità e indipendenza, la possibilità d’azione, ideata, ricercata e combattuta sul campo di battaglia attraverso un proprio linguaggio della crisi.

3 1925: dalla “Battaglia per la cinematografia” al Sindacato degli Intellettuali della Cinematografia

Se è vero che “il periodo che va dal 1924 al 1933 può a buon titolo essere considerato come quello della maturazione del discorso critico sul cinema in Italia” (Menarini 2015: 509), non dovrebbe stupire che la fondazione della successiva organizzazione sindacale dei critici cinematografici italiani cada sul finire del ’25, agli inizi quindi di questo processo. Tuttavia non possiamo interpretare la nascita del Sindacato degli Intellettuali della Cinematografia – attestata da un articolo del quotidiano «L’Impero» al 16/12/1925 (Anonimo 1925a: 3) – solamente nei termini di ciclica reazione a una condizione di crisi permanente riguardo lo status sociale del critico (qui in via di definizione dal punto di vista intellettuale e culturale). L’approccio ontologico adottato da De Man e seguito da Frey, in particolare riguardo il modello di ansietà endemica, rischia di non contenere l’insieme di interessi e necessità sottostanti questo nuovo riposizionamento; per essere inquadrato, tale snodo identitario necessita di un ampliamento prospettico che collochi questo linguaggio critico (di nuovo, in senso duplice) nel contesto di un cinema nazionale in declino al cui interno lottano interessi statali e corporativi, sotto i passi di una progressiva fascistizzazione dalle molte anime spesso in contraddizione tra loro.

Complice la formazione giornalistica di Mussolini e di diversi gerarchi fascisti, la stampa rimane lungo tutta la dittatura “il più importante canale propagandistico e culturale del fascismo italiano, […] attraverso il quale il regime trasmetteva alle masse le linee della sua politica” (Cannistraro 1975: 173). Tale priorità non si traduce però in linee editoriali coordinate, parallele e ubbidienti al partito, attestate su di un’unica linea operativa; lo dimostra bene l’attività portata avanti dai cosiddetti giornali “fascistissimi”, testate dirette da gerarchi o pubblicisti, federazioni o gruppi sindacali, ciascuna delle quali è “espressione di differenti situazioni e di diverse tendenze, da quella sindacalrivoluzionaria a quella monarchica e imperialista” (Murialdi 1986: 25). Tra questi giornali Murialdi inserisce anche «L’Impero», foglio di battaglia politica fondato nel 1922 dal futurista e capitano degli arditi Mario Carli. Se il giornale, “forte delle benemerenze acquistate nel sostenere Mussolini dopo la crisi Matteotti, è spregiudicato come nessun altro nei suoi attacchi politici” (Ivi: 28), ugualmente aggressivo e bellicista è il tono impiegato per le querelle culturali, come ben dimostra la cosiddetta “Battaglia per la cinematografia”. Con questa locuzione «L’Impero» intraprende dalla sua terza pagina una campagna (idealmente) interventista di rivendicazione e rappresentanza culturale che per diversi mesi (almeno fino all’intervento di Turati nell’estate del ’26, quando con un Foglio d’ordini del Pnf il neo-segretario di partito si adopera a silenziare la rissosità interna dei giornali fascistissimi più militanti, per riordinare e centralizzare la stampa fascista) ricorrerà all’armamentario retorico più belligerante al fine di proporre una via d’uscita dalla crisi che attanaglia il cinema italiano, di cui si auspica un ritorno al cosiddetto Primato Nazionale (Mazzei 2012: 476-8, Mazzei e Berruti 2015: 527-8). È in questo contesto che nasce il Sindacato degli Intellettuali della Cinematografia, pensato come strumento politico in grado di operare all’interno della Corporazione Nazionale Teatro e Cinematografo (CNTC) di Luigi Razza per farsi forza antagonista e autonoma rispetto alla Federazione Cinematografica Italiana (FCI). L’istituzione presieduta da Pittaluga, infatti, veniva considerata, da queste frange interventiste, come espressione dei vecchi quadri del cinema nazionale, rappresentanza inerte, se non dannosa, di proprietari ed esercenti, monopolisti e noleggiatori di pellicole. L’obiettivo del Sindacato – coerentemente con l’idea corporativista del “sindacato integrale”, inseguita in questa fase da parte delle forze fasciste – era quindi quello di non limitarsi (come nel caso di Cavallaro) ai giornalisti di settore, ma di allargarsi anche a registi, soggettisti e sceneggiatori, affinché all’interno della Corporazione ci si potesse opporre con più decisione ai voleri della FCI, parte integrante della CNTC da quello stesso dicembre del ’25 per volontà di Razza (Redi 1994: 5). Dato che, “tutti i Sindacati Cinematografici, delle varie categorie, esistenti nelle città d’Italia, fanno parte da oggi della Corporazione Nazionale del Teatro e del Cinematografo” (Anonimo 1925b: 3), ai fini della Battaglia contro la crisi è necessario che vi sia tra questi anche il nuovo Sindacato; di qui l’inserimento di tre esponenti delle sue categorie nel direttorio nazionale della Corporazione: Augusto Genina e Roberto Roberti (come registi), e Luciano Doria (nelle vesti di soggettista e giornalista cinematografico). Assieme ad altri 14 organizzazioni similari, il Sindacato degli Intellettuali della Cinematografia fa parte adesso della CNTC.

Banco di prova del nuovo organigramma sarà la prima assemblea nazionale del Direttorio, convocata nel febbraio del 1926. Puntuale, «L’Impero» ne offre un resoconto, lodando l’approccio corporativista di cui questa versione sindacale è diretta e utopica incarnazione:

L’avvenimento assume una importanza eccezionale perché è la prima volta che datori di lavoro e prestatori d’opera, commercianti ed esercenti del grande mondo cinematografico, si riuniscono secondo le più schiette norme della Corporazione integrale per discutere, in piena armonia, i propri interessi in funzione di quelli maggiori dell’arte cinematografica e di quelli imperiali e imperativi della Economia nazionale (Anonimo 1926: 3).

Difficile in realtà parlare di “piena armonia” tra le parti in gioco. L’assemblea infatti è stata pensata e convocata con modalità tali da rendere impossibile per la rappresentanza industriale parteciparvi. Nonostante ciò la macchina viene messa in moto e Razza è libero di impiegare il contesto decisionale della Corporazione per esporre e ratificare il suo piano di rilancio dell’industria cinematografica italiana, tra la “settimana italiana” di programmazione e la costituzione dell’Opera Nazionale per la Cinematografia. Di fronte tale slancio seguono aspre polemiche (tra cui le dimissioni di Pittaluga dalla FCI e conseguente messa in liquidazione della Federazione) che si concludono il 26 marzo con la fondazione, da parte di industriali, commercianti e noleggiatori, dei rispettivi Sindacati Fascisti: come scrive Reda, “in tal modo la fascistizzazione del cinema italiano, almeno sul lato industriale, era compiuta” (1994: 8).

Ai fini del nostro discorso non serve riepilogare ulteriormente questa seconda avventura sindacale, dal brevissimo respiro e dal fato segnato per le lotte intestine di cui è emissione. Piuttosto è utile notare come qui lo strumento del Sindacato dipenda da altri scopi e funzioni rispetto alla fase del 1916, anzitutto per quanto riguarda lo statuto della critica e le sue politiche di riposizionamento. Se al tempo di Cavallaro era necessario mettere a fuoco l’autonomia e professionalità della categoria al fine di compiere un salto di qualità identitario e instaurare un rapporto sinergico con l’industria, nel caso del Sindacato degli Intellettuali della Cinematografia la questione si lega alla crisi cinematografica italiana tout court, per cui il focus slitta dal terreno estetico e socioculturale a quello della militanza intellettuale e conflittualità politica. Se “la vera svolta della politica del regime in materia cinematografica è data […] dalla legge del 1931, che costituisce il primo intervento concreto per favorire la ripresa della produzione” (Brunetta 2001b: 35-36), essa è frutto di un approccio unitario ancora di là da raggiungersi nella seconda metà degli anni Venti, nel corso dei quali le numerose anime del fascismo riflettono le loro litigiosità e contraddizioni irrisolte nel corpo vivo della categoria critica. Per il potere centrale fascista, ottenere e controllare il coordinamento corporativo delle varie sfere del discorso cinematografico significa ricondurre alla linea unica le diverse anime del regime, altrimenti impegnate in forme di militanza divergente come furono la “Battaglia per la cinematografia” e la fondazione stessa del Sindacato del 1925. Contemporaneamente, per giornalisti, intellettuali e prestatori d’opera raccolti attorno a «L’Impero», un interventismo solidale alla crisi produttiva del cinema italiano si traduce in un linguaggio e schieramento identitario, una messa in evidenza della crisi intesa come necessità collettiva di tracciare nuove coordinate e pianificazioni (per quanto, a conti fatti, assai poco concrete al di fuori della dimensione declamatoria e oppositiva nei confronti della FCI). Ben più pragmatiche le criticità suscitate dalla crescente pressione e istanza di controllo da parte del magmatico potere fascista, espletata tramite giochi di potere e fluttuazioni ideologiche per cui il riposizionamento sindacale si configura come mossa su di uno scacchiere politico in cui si giocano contemporaneamente due partite: quella interna al regime, tra le sue forze centrifughe e centripete, e quella che come apparato di potere il fascismo vuole esercitare nei confronti dell’insieme discorsivo, industriale ed economico del cinema italiano.

4 1971: dalla scissione del SNGCI al Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani

In un saggio dedicato allo stato della critica cinematografica in Italia nei tardi anni settanta, Claudio Bisoni individua tra le linee di cambiamento del tempo una spiccata attitudine autoriflessiva, alimentata da “un senso di profonda stanchezza e sfiducia nella funzione sociale della critica cinematografica”. Tale negatività “non fa altro che accentuare una caratteristica propria della storia dell’interpretazione [dato che] la critica, presa nella sua generalità, non ha mai smesso di essere attratta dal mito della propria decadenza” (Bisoni 2005: 521). I punti di contatto con il modello ontologico proposto da Frey sono evidenti, del resto già Bisoni ricorreva al Critica e crisi di De Man:

nessuna serie di argomenti, nessuna enumerazione di sintomi proverà mai che l’effervescenza che circonda al presente la critica letteraria sia realmente una crisi che, in meglio e in peggio, sta dando una nuova forma alla scienza critica di una generazione. Resta il fatto, importante, che questa gente ne sta facendo l’esperienza come di una crisi, e che nel riferirsi a quanto sta accadendo fa uso di un linguaggio della crisi (Ibidem).

Se la critica conferma la propria attitudine a esperire sé stessa all’interno di cicli di ansietà endemica, le specificità storiche con cui si manifesta l’intensità e qualità discorsiva del suo “linguaggio della crisi” non possono quindi essere sottovalutate. Al contrario, si fa necessario problematizzare, e chiedersi il perché qui, adesso e con questa intensità, con l’obiettivo di trattare l’occorrenza quantitativa nei termini qualitativi di una pratica situata. Solo così, al netto dell’operatività del modello ontologico, potremo ricavare risultati analitici specifici delle forze in campo. Quest’asserzione si fa ancor più evidente con l’arrivo agli anni settanta, che incubano nelle spire discorsive di un intenso linguaggio della crisi un denso amalgama di agitazioni e insofferenze, vulnerabilità e grida d’allarme, nel quale s’intersecano i piani del professionale e dell’ideologico, del politico e del sociale, compresi i prodromi di un paradigmatico mutamento del cinema stesso come dispositivo mediale. Come scrivono Guerra e Martin,

il campo degli studi cinematografici […] permette di avvertire bene la distanza tra l’attuale condizione critica e il tempo passato di un’effettiva possibilità di poter contare qualcosa a livello sociale, politico ed economico che aveva caratterizzato molte battaglie tra i primi anni Cinquanta e il decennio Settanta del secolo scorso. Ricordare che c’è stato un periodo in cui, al di là del suo peso economico, il cinema rappresentava uno dei temi di discussione in assoluto più coinvolgimenti e aggreganti per il popolo italiano, aiuta a inquadrare meglio il potere e le responsabilità della critica cinematografica, ma anche il senso di un’occasione per molti versi mancata (2020: 9).

L’inquadramento è coerente con la periodizzazione proposta da Manzoli, secondo cui gli anni che vanno dal 1958 al 1976 corrispondono al secondo grande periodo della modernizzazione culturale in Italia, a sua volta diviso in una fase euforica (1958-1966) e una disforica (1967-1976), quest’ultima tale in quanto vi si preparano le basi della crisi industriale e spettatoriale del cinema e la sua rinegoziazione mediale a favore della (presto neo) televisione (Manzoli 2009: 24). L’inserimento in questo contesto disforico del ’68 – nell’insieme di controcultura e lotte dal basso che, fattualmente e simbolicamente, vi si agglutina attorno – rischia di apparire paradossale, ma tale periodizzazione è pienamente giustificata nei termini di una teoria dei modelli culturali, all’interno della quale il ’68 si fa indicatore di una nuova struttura del sentire che nell’insieme di luci e ombre, tra rottura progressista e maglie tardocapitalistiche, rimodula le geometrie della percezione e organizzazione culturale, del linguaggio e riposizionamento critico in ambo i sensi. A riguardo, De Bernardinis descrive così il cambio di paradigma nel cui si collocano queste forme discorsive:

“si tratta di un mutamento vettoriale: dal verticale all’orizzontale. Viene meno la fiducia per i sistemi a piramide, verticali, di profondità, che esprimono un’idea prestabilita di gerarchia e di potere. Si afferma, invece un modello di spazio culturale orizzontale, superficiale, reticolare, ibrido, a maglie, della comunicazione point to point. Una cultura dinamica, non più luogo contrattuale del compromesso, aperta ai fermenti e al mutamento, intrisa di realtà e di sogni” (2009: 4).

Di disforia ha senso parlare, quindi, perché sotto le braci di un periodo dalle molte fiamme si preparano i tratti di quella che Jameson definirà “logica culturale del tardo capitalismo” (2007), quel postmodernismo che livella le gerarchizzazioni culturali problematizzando il concetto di canone artistico e le precedenti tassonomie gnoseologiche, nella sfiducia crescente verso l’oggettività omnicomprensiva delle grandi narrazioni (Lyotard: 1981). All’ombra di questo processo, nel suo lento e particellare innestarsi storico, è ben comprensibile come il critico degli anni settanta senta venir meno la propria autorità intellettuale, incapace di porsi a “guida spirituale di popolo o borghesia in lotta [e piuttosto] buffone di un popolo e di una borghesia in pace con la propria coscienza e quindi in cerca di evasioni piacevoli” (Pasolini 1981: 22). Un’insorgenza, si è detto, ontologica, che trova però nel sistema mediale italiano alcuni acceleratori specifici, ancora sottopelle e in caricamento negli anni settanta ma pronti a emergere col decennio successivo: da una parte l’affermarsi dello spettatore come nuovo “fruitore di immagini mutante, sempre più inquieto, poco controllabile, soggetto attivo nella costruzione della propria dieta mediale” (Bisoni 2009: 23); dall’altra la crisi la crisi della logica pedagogizzante dei media a favore della “valorizzazione assoluta del successo di pubblico come criterio di qualità, e la centralità del marketing nel processo di ideazione e produzione dell'industria culturale” (Colombo 1998: 261).

Nella sua storia dell’industrializzazione culturale in Italia, Forgacs offre una diagnosi particolarmente amara del rapporto che dal secondo dopoguerra va instaurandosi tra lavoro intellettuale salariato e capitale, all’interno del quale “gli intellettuali sperimentarono una mobilità sociale verso il basso che li ridusse allo stato di impiegati salariati nelle professioni e nelle industrie culturali in rapida espansione, a ‘operai intellettuali’ alla pari, per certi versi, con gli altri operai” (1992: 253). Secondo questa linea di pensiero, alla riscrittura orizzontale, rizomatica, manifestata dalla controcultura e formalizzata dalla teoria postmoderna, si affianca una relazione tensiva di verso opposto, verticale o potremmo dire top-down, contro la quale a partire dagli anni sessanta si apre un complesso e variegato fronte di reazione, battaglia e riposizionamento composto da intellettuali convinti di essere oggetto di un “rimescolamento dei rapporti di prestigio conseguente al tipo di cultura imposto dal neocapitalismo attraverso la civiltà multimediale” (Segre 1993: 6). Non serve qui verificare o meno la diagnosi di Forgacs e Segre (citati a titolo d’esempio); piuttosto è importante rilevare come tale lettura “postuma” si ponga in continuità con la sfera discorsiva del tempo, dominata da “l’argomento ricorrente dell’asservimento alle leggi dell’industria culturale” (Bisoni 2005: 521), framework teorico che più di tutti alimenta e informa il linguaggio della crisi per come viene esperito dalla critica italiana (non solo cinematografica) tra gli anni 60 e 70.

Si pensi, andando a toccare con mano la letteratura del tempo, a Franco Fortini, che sul finire del boom economico indicava come “molti critici militanti credevano ancora di correre con la maglia del marxismo e dello spiritualismo cattolico e non sapevano di avere già stampato sulla schiena il nome di una ditta di tubolari della cultura o di dentifrici letterari” (Fortini 1965: 43). O a Gian Carlo Ferretti, che ne Il mercato delle lettere cristallizzava anni di militanza intellettuale scrivendo:

il sistema tende a considerare e a utilizzare come canali di mercato sostanzialmente analoghi, la pubblicità e i premi, le pagine-libri e i critici stessi nell’insieme della loro attività (almeno fin dove ci riesce): elevando o abbassando il livello dell’uno o dell’altro strumento, a seconda delle necessità (1979: 64).

Fortini e Ferretti, tra i più importanti critici e studiosi letterari del tempo, non sono nomi casuali, la loro scelta deriva dal fatto che i primi campanelli d’allarme riguardanti la tendenziale ossidazione dell’agire intellettuale squillano nel contesto della teoria e critica letteraria, settore che in Italia fa da apripista ai processi di industrializzazione della cultura con le prime concentrazioni industriali spurie (Cadioli 1981: 121). Tale concentrazione, associata alla crescente domanda di consumo esercitata dal nuovo destinatario di massa, fa sì che ogni conglomerato s’impegni in radicali processi di razionalizzazione delle risorse, tra le quali ricade anche l’intellettuale e critico. In un contesto culturale popolato da direttori commerciali che poco o nulla hanno degli uomini di cultura, il critico si percepisce asset spendibile nel piano di lavorazione, un elemento da funzionalizzare e finanche valorizzare purché inserito all’interno di un contesto di mercificazione e marketing. Ferretti è tra coloro che meglio diagnostica questo processo, individuandone l’origine nel passaggio dal sistema delle due culture (alta/bassa, borghese/popolare) a quello della cultura di massa, secondo un nuovo consumismo integrale e interclassista atto a gestire risorse umane e prodotti intellettuali lungo una scala di consumi i cui livelli siano analoghi e intercambiabili nelle loro destinazioni e motivazioni. L’azione del critico viene così frantumata e riscritta come mansione impiegatizia da una razionalizzazione tardo-capitalistica che ne parcellizza l’attività culturale, funzionalizzandola alle nuove necessità aziendali e di mercato (Ferretti 1979).

Da ciò deriva la forte politicizzazione di intellettuali e giornalisti del periodo, testimoniata dall’aumento di agitazioni sindacali nel mondo della stampa e dell’editoria. Ne sono esempio la crisi del Saggiatore, che nel 1969 “fa irrompere nel sonnacchioso mondo dell’editoria libraria lo sciopero, il volantino, lo slogan sindacale” (Ferretti 2004: 223) e la nascita del Movimento dei giornalisti democratici con 450 e più professionisti aderenti, in gran parte RAI (Forgacs 1992: 213). O, ancora, la fondazione nel 1971 del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI), frutto di una burrascosa scissione interna al Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani (SNGCI).

Per ricostruire la vicenda, piuttosto intricata, sarà utile partire dall’assemblea straordinaria del SNGCI tenutasi a Roma il 23-24 gennaio del 1971. Ne danno notizia «l’Unità» (Anonimo 1971a: 9) e «Avanti!» (Anonimo 1971b: 5) con due trafiletti, nonostante i due quotidiani non si siano occupati in precedenza delle vicende riguardanti il sindacato. L’assemblea è occasione per mettere su carta diversi obiettivi, nati dall’esigenza di rinnovare l’azione collettiva e intensificare l’attività culturale, ma soprattutto serve a valutare l’operato del Consiglio Direttivo straordinario, riconfermato fino al novembre successivo. Stando ai fogli quotidiani sembrerebbe un passaggio di routine, ma un resoconto pubblicato pochi mesi dopo dal periodico «Cinemasessanta» getta una luce diversa sulla riunione (Viani 1971a: 8, 43-45), a partire dalle “urla e invettive [che] rimbalzano nella sala delle conferenze” (Ivi: 8). L’articolo titola Le strane vicende del sindacato nazionale dei giornalisti cinematografici, e nel ricostruire l’accaduto offre una chiave interpretativa che rilegge la storia dell’associazione attraverso una sua aporia identitaria. Secondo Viani, l’SNGCI, composto al tempo da critici e saggisti ma anche giornalisti d’informazione e capi uffici-stampa, soffre almeno dal 1962 di una difficile convivenza tra due anime, in cui quella afferente a una minoranza relativa reclama interventi più significativi in termini di vita cinematografica e iniziative culturali. Il 1969 porta a un compromesso tra le due parti: esponenti della minoranza militante (Giovan Battista Cavallaro, Sergio Frosali, Mario Gallo, Mino Argentieri e Fabrizio Gabella) vengono accolti nel direttivo con l’idea di preservare l’unità del sindacato senza pregiudicarne ogni tentativo di rinnovamento interno. La mozione assembleare che li accoglie, del 29 novembre, sollecita infatti “un’iniziativa di rifondazione costituente che definisca funzioni e finalità del sindacato” (Ivi: 44) e attribuisce al direttivo d’emergenza il compito di preparare la nuova elaborazione statuaria, dopo la quale si sarebbe effettuata una seconda elezione. Dopo mesi di lavoro intenso, testimoniati dai verbali delle riunioni consigliari, il piano di riforma viene posto a referendum; l’esito però è negativo, nonostante la preponderanza di voti favorevoli (75 contro 68) manca la maggioranza qualificata. A fronte di questa sconfitta il clima peggiora in fretta: durante Venezia 31, nel 1970, una ventina di soci sottoscrive una petizione in cui si chiedono le dimissioni del direttivo straordinario che avrebbe ormai esaurito il suo compito avendo tentato e fallito l’azione riformatrice. Qui si ricongiungono i lembi di quanto successo all’assemblea del 23 gennaio a Roma, quando il Presidente in carica Tullio Cicciarelli notifica le dimissioni del suo comitato, salvo vedersele respinte da una successiva mozione che riconferma il gruppo di lavoro chiedendogli di andare avanti e operare, come da accordi, fino a novembre.

Che la situazione sia tutto fuorché pacificata lo dimostra presto una lettera, firmata da 67 soci e spedita al direttivo, in cui si chiede di invalidare l’ultimo rinnovo delle cariche sociali e ripetere l’assemblea, ritenuta invalida per gravi irregolarità. Ne siamo informati grazie al solito Viani, che nel numero successivo della rivista, uscito in agosto a scissione già conclusa, riporta sia la lettera che i verbali della seguente riunione direttiva, del 21 marzo, nella quale i soci decidono di respingere la richiesta (1971b: 25-41). Il resoconto restituisce un confronto dialettico aspro che vale la pena riportare perché vi s’intrecciano in forma esemplare i livelli del politico e del professionale, con Vicenzo Bassoli, parte dei 67, che denuncia una spaccatura interna fra coloro che “intendono il sindacato come strumento sindacale e quelli che l’intendono come trampolino di lancio per arrivare altrove”, oltre al rischio di arrivare a vedere “partiti o correnti di partito giovarsi del Sindacato” (Ivi: 31); e Argentieri che risponde difendendo un’interpretazione politica dell’agire sindacale, perché “il sindacato ha fatto e farà sempre politica. Quando finge di non fare politica, quando brilla per la sua assenza, in realtà, questo tipo di sindacato asseconda il corso degli eventi, l’attuale organizzazione cinematografica, si rende tacitamente complice, lascia correre, consente e permette, fiancheggiando una parte ben individuabile” (Ibidem). Tra le due parti non c’è possibilità di mediazione, tanto che i 67 scrivono a tutti i soci per esporre le loro ragioni e posizioni legali, e convocare un’autonoma assemblea straordinaria per il 17-18 aprile. L’esito dell’incontro porta alla scissione: i soci dissidenti eleggono un loro consiglio direttivo parallelo all’attuale, che accusano di essere espressione antidemocratica di una sparuta minoranza atta a politicizzare e disgregare il sindacato. La replica del direttivo ufficiale non si fa attendere: definendo illegali e arbitrari gli atti compiuti dal gruppo scissionista, Cicciarelli “rivendica la sua legittimità, emette diffide nei confronti di chiunque abusi del titolo associativo, denuncia alla magistratura coloro i quali si sono impossessati degli uffici sindacali” (Ivi: 36) e, soprattutto, invia un comunicato alla carta stampata che ha effetti esplosivi.

Il 21 aprile infatti sia «l’Unità» (Anonimo 1971c: 7) che «Avanti!» (Anonimo 1971d: 5) non si limitano a riportare il testo ma prendono apertamente posizione; se il primo paventa il rischio di un “sindacato fasullo, al servizio dei burocrati ministeriali, del governo e dei padroni del cinema”, il quotidiano socialista titola Un grave episodio e il suo senso politico e definisce gli scissionisti un’armata Brancaleone vicina al Ministro del turismo e dello spettacolo Matteotti. Ai direttori dei due giornali replica lo stesso Ministro, con una lettera pubblicata dal giornale socialdemocratico «Umanità» volta a respingere ogni accusa di connivenza con gli scissionisti (Anonimo 1971e: 3). Lo stesso giornale, pochi giorni dopo, torna all’attacco del foglio socialista, che accusa di distorsione ideologica e malafede; nulla di troppo lontano dalla routine discorsiva di quegli anni, se non fosse che «Umanità» ci tiene a sottolineare come la situazione secessionista sia in realtà frutto di un “golpe da retrodatare agli anni sessanta, un colpo di mano ben riuscito che ha condizionato finora tutta l’attività dell’organo associativo, predisponendola ai determinati fini che tutti conoscono” (Anonimo 1971f: 5). Ovvero una politicizzazione atta a rendere l’SNGCI un centro di potere prima e uno strumento carrieristico poi. Dello stesso parere anche il «Giornale dello spettacolo», che chiama in causa la Federazione Nazionale Stampa Italiana affinché un suo pronunciamento possa “restituire ai giornalisti cinematografici quell’unità sindacale messa a repentaglio per ragioni affatto estranee alle caratteristiche ed alle finalità proprie di un’organizzazione sindacale effettivamente libera da qualsiasi ipoteca o strumentalizzazione e genuinamente democratica” (Anonimo 1971g: 2).

Il 27 aprile, titolando I “golpisti” eleggono, gli ideologhi spiegano, «Avanti!» (Anonimo 1971h: 5) riporta l’elezione di Gaetano Carancini a presidente del direttivo scissionista, e la certificazione de facto dell’esistenza di due sindacati paralleli, ciascuno dei quali – emerge dall’insieme di questa copertura – accusa l’altro di ideologizzazione e compromissione con il potere. Via carta stampata seguono due mesi di attacchi reciproci, specie tra socialisti e socialdemocratici, e si arriva così al 25 giugno, quando un comunicato annunciante la nascita del nuovo SNCCI viene rilanciato da tutti i giornali coinvolti (compreso «Cinemasessanta», che pubblica anche i nomi di tutti i soci, per stragrande maggioranza proveniente dal SNGCI). Con un movimento circolare separatisti e rappresentanti ufficiali si cambiano di posto, il gruppo scissionista rientra nell’ufficialità della sua sigla mentre quasi metà dei soci regolari (72 al momento della fondazione) entra a far parte della nuova associazione. Che la scissione fosse inevitabile lo ribadisce del resto il testo del comunicato, che sottolinea come

i recenti avvenimenti sono tali da non permettere durature conciliazioni; essi costituiscono soltanto l’ultimo episodio di un pluriennale contrasto di natura insieme culturale e professionale. Tale contrasto riflette due diverse concezioni del cinema, della sua funzione e delle sue responsabilità sociali e culturali; ed è anche connesso alle differenti funzioni e responsabilità che comportano, da un lato, la professione del critico cinematografico e, dall’altro, quelle di press-agent, di cronista, di informatore. Oggi, dopo gli ultimi avvenimenti, ogni tentativo di coesistenza associativa è reso impossibile dalla radicalizzazione di tale contrasto. Un dialogo potrà eventualmente aprirsi soltanto tra due istituzioni distinte e autonome. (Viani 1971b: 40).

Nel giro di pochi mesi il nuovo SNCCI è pienamente operativo e intento a tracciare una linea d’azione che non lascia adito a dubbi riguardo il suo modo d’intendere la critica e il sistema cinema in Italia. Rimandando a studi futuri la possibilità di ricostruirne la storia, ci limitiamo qui a chiudere con il battesimo del fuoco dell’associazione, il Convegno di Perugia del 15-17 ottobre 1971. Voluto da un comitato esecutivo fresco d’elezione (i membri: Giovanni Grazzini, Mino Argentieri, Sergio Frosali, Bruno Torri, Tullio Cicciarelli, Ernesto Guido Laura e Aldo Bernardini), il convegno ruota attorno al tema Responsabilità sociali e culturali della critica e prevede, oltre agli interventi, la pubblicazione della carta programmatica del Sindacato. Ne riportiamo un breve stralcio, il più rilevante per il percorso sin qui tracciato:

Aperti a ogni dialogo con altre istanze del giornalismo cinematografico e del cinema in generale, non ancorati ad alcuna pregiudiziale, convinti che sia nostro dovere partecipare attivamente alla dinamica della storia e della società in una diversa collocazione della nostra funzione sociale, ci proponiamo di cercare questa diversità non più dal chiuso di una visione corporativa o aristocraticamente intellettuale, ma assieme ad altri; nel concreto delle cose e delle lotte che esse richiedono, in un nuovo rapporto dove anche l’esercizio della critica cinematografica sia il momento di una battaglia democratica. (Anonimo 1972: 5).

5 Conclusioni

In diversi dei suoi punti nodali, come si è visto, la storia della critica cinematografica italiana si è fatta attraverso processi di riposizionamento e ridefinizione, militanza e campagna intellettuale, e buona parte di queste esperienze si è svolta parlando un linguaggio della crisi. La ricostruzione delle tre occorrenze sindacali che coinvolgono la figura del critico in Italia conferma quindi il modello ontologico dell’anxiety of authority, per cui il critico in quanto tale esperisce stati d’assedio ciclici nei confronti del proprio ruolo sociale e intellettuale. Tuttavia, il percorso intrapreso dimostra anche come tale framework teorico vada applicato con estrema circospezione storica, affinché possa dirsi vitale e in grado di restituire un’analisi situata di ciascuna occorrenza critica. Occorre mantenere un ampio angolo di visione e un’attenzione specifica alle diverse forme discorsive, ciascuna delle quali conferma la relazione ontologica ma porta in campo implicazioni qualitative determinanti. La ricostruzione sin qui condotta ha dimostrato che è questo il caso per il Sindacato della Stampa Cinematografica, il Sindacato degli Intellettuali della Cinematografia e il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, rispettivamente avvinghiati a gangli relativi l’autorità specifica della critica, il suo ruolo in relazione al potere dittatoriale e la crisi dell’industria, il suo ingaggio contrastivo con l’industria culturale e le ingerenze della politica. Ciascuna di queste occorrenze ha generato una sua lingua della crisi, che a sua volta manifesta esigenze, interessi, conflittualità e pericoli che trascendono la cultura del film e chiamano in causa i piani dell’economia e della produzione, della lotta politica e dell’impatto sul sociale. Analizzare ciascuna di queste situazioni non solo impiegando ma interrogando il modello di Frey, testandone usabilità e pertinenza, ha quindi permesso un impiego attivo delle fonti e uno svelamento del loro collegamento profondo con le strutture del sentire che innervano i tre modi/luoghi/tempi di riposizionamento.

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