Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.23 (2023), 89–98
ISSN 2280-9481

“Ciò che importa è la fusione”. Giuseppe Marotta e la critica cinematografica

Mattia CinquegraniUniveristy of Roma Tre (Italy)

Mattia Cinquegrani is Research Fellow at Università degli Studi di Roma Tre. He was member of Università degli Studi di Cagliari Research Unity in the project “Il pollo ruspante. Il cinema e la nuova cultura dei consumi in Italia (1950-1973)”. He published the book Il rito, la morte e l’immagine. Cinema, televisione e media digitali (Bulzoni 2020) and several articles on Italian cinema and visual studies, which are his main research fields. He is a member of the editorial board of Schermi. Storie e culture del cinema e dei media in Italia and Imago. Studi di cinema e media. He wrote for the cultural column of il manifesto.

Ricevuto: 2023-02-05 – Pubblicato: 2023-07-20

“The Important Thing is the Fusion”: Giuseppe Marotta and Film Criticism

Abstract

Novelist, screenwriter, dramaturgist, lyricist and journalist, from the late Twenties, Giuseppe Marotta also worked as a film critic for many magazines. However, he definitively established himself as a critic in 1954, when he started his collaboration with the column of the news magazine L’Europeo. Mixing analysis, autobiographical account and narration, the film review acquired, with Marotta, an original and unconventional nature. The hyperbolically ironic style, the recourse to digression as well as to a richly elaborated phrasing characterized his reflection on cinema, which combined the desire to affirm the autonomy of cinematographic language, to oppose the narrative strategies of neorealism and to promote a cinema freed both from the features of popular film production and from the more mannered forms of authorship.

Keyword: Giuseppe Marotta; L’Europeo; Film Criticism; Neorealism; Art Film.

1 “L’avvocato del diavolo cinematografico”

L’unico, il fondamentale pregio di queste mie cronache, è la sincerità. Non mi agghindo, qui, non mi faccio mai bello di nozioni rare, non sfoggio competenza e autorità. Spesso commetto errori madornali, assegno a Reed un attempato film di Lean, o viceversa, inducendo gli Aristarco e i Chiarini a farsi le croci: ma quello che voglio è che non troviate in me un facile e tedioso retore del cinema, la cui sola ambizione è di riuscire a servirsi della nomenclatura, del frasario di Croce per valutare Blasetti o Gallone, Amidei o Sonego. Voglio, al contrario, dare alle vostre domande (eventuali: sa Iddio se mi leggete o no) di spettatori cinematografici, un interlocutore vivo; forse ingombrante, lunatico, ma vivo, sto quasi per dire nudo (Marotta 1967: 72).

Come in una sintesi esemplare, le rapide considerazioni poste in apertura a una recensione del “colossale” Guerra e pace (War and Peace, King Vidor, 1956), prodotto da Dino De Laurentiis, già esibiscono tutti i caratteri sostanziali della critica cinematografica di Giuseppe Marotta. Un’attività, questa, solo apparentemente secondaria nella vita dello scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, elzevirista e paroliere napoletano, se è vero che la sua variegata collaborazione con riviste e rubriche di ambito filmico si definisce nella forma di un rapporto fittissimo e ininterrotto, protrattosi, grossomodo, per trentacinque dei suoi sessant’anni di vita. È ancora il 1928 quando a un giovane Marotta sono affidate da Angelo Rizzoli – attore essenziale per l’intero corso della sua carriera – le sorti di Cinema Illustrazione, fondato solo due anni prima dall’editore milanese.

Era il tempo della risorta Cines – scrive lo stesso Marotta, a conclusione di una nota polemica in merito alla fondazione del Centro Studi Anica – e dell’inaugurazione del “sonoro”. Cinema Illustrazione aveva una formula popolare, ma fino a un certo punto. Nell’articolo di fondo, Ettore Margadonna vi accarezzava problemi estetici. Il periodico inaugurò la critica cinematografica, a ogni film il suo giudizio, quando nemmeno i quotidiani l’avevano. E io, con una rubrica di corrispondenza (nuova, in quegli anni) deridevo il brutto cinema, i tifosi dei vacui belli di Hollywood, eccetera, quasi come tuttora faccio (Marotta 1967: 232).

È precisamente la posta con i lettori a diventare uno dei luoghi privilegiati e ricorrenti nei quali si elabora la salace riflessione marottiana attorno ai caratteri del cinema. S’intitola Strettamente confidenziale la rubrica che sul finire degli anni Trenta trova avvio fra le pagine di Film. Settimanale di Cinematografo, Teatro e Radio, fondato a Roma nel gennaio del 1938 da Mino Doletti e il cui evidente allineamento alla prospettiva culturale fascista si trova a confliggere, perlomeno in parte, con la presenza tra i collaboratori di personalità quali Gianni Puccini, Umberto Barbaro (che nel giugno del 1943 pubblica qui “Neo- realismo”) e Cesare Zavattini (Holdaway, Manzoli 2020: 108, Lotti 2020: 24, Maffei 2004: 91, Paliotti 1965: 6). Lo stesso Marotta, d’altronde, firma il 23 luglio del 1943 con il suo pseudonimo “l’Innominato” un articolo intitolato Signora libertà, a seguito del quale è radiato dall’Ordine dei giornalisti ed è costretto a vivere, sino alla definitiva liberazione di Roma, come un vero e proprio fuggiasco1 (Anonimo 2008, Maffei 2004: 55). Anche la sua collaborazione con 1944. Settimanale di varietà e arte – per il quale redige la rubrica Riservata personale oltre a partecipare al comitato di direzione – è così interrotta già a partire dal terzo fascicolo, del 3 febbraio 1944, per riprendere solamente nel giugno dello stesso anno: le truppe nazi-fasciste hanno oramai abbandonato la capitale e Marotta può tornare a lavorare per la rivista, che aveva nel frattempo deciso di rinnovarsi adottando il nuovo titolo di Cinematografia. Settimanale di cinematografo, teatro e arte (Maffei 2004: 61).

In questo stesso periodo di febbrile ripartenza, Marotta contribuisce in maniera tutt’altro che secondaria, anche se non esplicita, alla fondazione di Star. Settimanale di cinema e altri spettacoli, diretto da Ercole Patti, il cui proposito è quello di testimoniare e accompagnare il definirsi di una cinematografia nazionale necessariamente nuova (Cappelli 1964: 3).

In Italia, – si scrive programmaticamente nella seconda pagina del primo numero – anche il cinema vive il dramma di tutto il paese; una artificiosa produzione è crollata, tutto deve essere riedificato dalle fondamenta. Non è concepibile un’Italia rinnovata, senza una sua cinematografia. Il cinema oggi, per una nazione, non è un lusso, ma un connotato essenziale, non meno della stampa, della radio, del teatro. Noi crediamo in una sicura ripresa italiana anche nel campo cinematografico, e ne seguiremo con fervore gli sviluppi (Anonimo 1944: 2).

D’altronde, nel corso di questa rapida manciata di anni, la relazione di Marotta con l’orizzonte della critica sembra ripetutamente definirsi nell’incastro fra una proposta editoriale inevitabilmente votata all’osservazione del nuovo panorama filmico, da un lato, e un impegno, dall’altro, solo parzialmente riconosciuto dagli incarichi rivestiti all’interno delle molte redazioni. Così, a meno di un anno dalla rifondazione del precedente Film. Settimanale di Cinematografo, Teatro e Radio nel più attuale Film d’oggi, la direzione formalmente affidata a Gianni Puccini, nella realtà dei fatti, è completamente in carico al redattore capo Giuseppe Marotta, come risulta chiaramente da diverse corrispondenze personali e lavorative del tempo (Maffei 2004: 100). In maniera del tutto simile, anche il periodico Bis – tutti gli spettacoli, dopo che Marotta era stato coinvolto dal direttore Salvato Cappelli nella speranza che il suo nome potesse contribuire al successo dell’intera rivista (Cappelli 1964: 3), lo vede a impostare, impaginare e scrivere una buona parte degli articoli, sebbene egli partecipi soltanto in qualità di vicedirettore e, quindi, di co-direttore (Maffei 2004: 113-114).

In questo panorama, fortemente frastagliato e sempre mutevole, di relazioni con l’editoria cinematografica – nel quale andrebbero collocati altri interventi, più sporadici o non attribuiti, su Novella film e Primi piani (Maffei 2004: 161, Paliotti 1965: 6) – la stagione di maggior rilievo nella carriera critica marottiana è però rappresentata, senza alcun dubbio, dalla presenza decennale della sua firma nelle sezione culturale de L’Europeo, settimanale d’attualità nel quale ai film e ai suoi divi è attribuita una posizione del tutto rilevante (Cascetta et al. 1977: 64). Con l’acquisizione del rotocalco da parte di Angelo Rizzoli e le conseguenti dimissioni rassegnate dall’allora direttore Arrigo Benedetti, le rubrica della critica cinematografica, condotta dal 1950 e per i successivi quattro anni da Alberto Moravia (Pellizzari 2002: 484), è rapidamente affidata alla penna di Giuseppe Marotta.

In questo numero – si segnala in apertura a “Il maremmano Folco Lulli belva dal cuore tenero” – la rubrica della critica cinematografica viene assunta da Giuseppe Marotta. Non occorre certo presentare ai nostri lettori l’autore dell’ “Oro di Napoli”, di “A Milano non fa freddo” e di altri libri originali che hanno anche il merito (non il torto) di essere divertenti. È superfluo aggiungere che Marotta ha una larga e singolare esperienza di cinematografo (Marotta 1954: 35).

Se lo scrittore viene convocato da Rizzoli anche in virtù del suo indiscusso successo (“non occorre certo presentare ai nostri lettori”), è pur vero che una simile strategia può essere ricondotta a una consuetudine allora particolarmente diffusa: come nel caso dello stesso Moravia, non di rado quotidiani e periodici decidono di affidare la critica cinematografica a personalità di grande rilievo ma appartenenti ad ambiti altri dell’universo culturale (Pellizzari 2002: 485). Autori, questi, che come pure accade con Marotta dimostrano spesso una grande capacità nell’animare il dibattito attorno alle opere recensite ma che si rivelano, al contempo, disinteressati nei confronti di un’indagine sugli elementi precipui della tecnica e del linguaggio filmico. Essi procedono nel solco di una tradizione derivata dal contesto umanistico-lettarario e adottano una strategia interpretativa che, interessata soprattutto alla struttura del racconto, appare più congeniale alla propria formazione, in massima parte estranea ai caratteri specifici del mezzo e della composizione cinematografica.2 “Ci si mantiene – come ricorda Bisoni – saldamente ancorati a parametri di verosimiglianza e coerenza drammatica modellati sugli standard del senso comune”3 (Bisoni 2006: 47).

Pur in questo uniformarsi a una certa tradizione e nonostante l’aderenza a un modo chiaramente definito e riconoscibile, l’attività critica di Giuseppe Marotta s’impone con forza nel panorama dell’epoca per la sua rivendicata originalità, in primo luogo, dello stile e dei toni.

Qua, i miei lettori – scrive Marotta nel corso di una polemica avviatasi con lo sceneggiatore Leo Bomba – […] sanno d’imbattersi in una critica cinematografica sui generis. Il mio giuoco è quello di avvicinare alla gente del cinema uno specchietto deformante; sono l’avvocato del diavolo cinematografico: privo di toga e munito, invece, di un berretto a sonagli che mi conferisce una gentile, bizzarra immunità. Dotati evidentemente di un congruo senso dell’umorismo, né C.L. Bragaglia, né Mastrocinque, né Freda mi hanno mandato finora gli ufficiali giudiziari o i padrini. Ho ballato per molte estati, qui, persino su Chaplin, su Clair, su Vidor (per tacere degli Antonioni, dei Maselli, dei Pietrangeli); ho impunemente giocato, insomma, ad accentuare, a ingigantire (come fa con la matita un Bartoli o un Maccari o un Chiappella o un Manzi) i loro difetti e i loro sbagli (Marotta 1960a: 103-104).

Se la franchezza del giudizio – ora brutale, ora appassionatamente commossa – pare riesca a intimorire registi e interpreti, che ogni domenica si precipitano a leggere con paura la rubrica de L’Europeo (Amelio 1997: 7), la scrittura sferzante e iperbolica, assieme al barocchismo lessicale di un periodare spesso autobiografico, fanno sì che le recensioni pubblicate tra il 1954 e il 1963 (e progressivamente raccolte in cinque volumi tutti editi da Valentino Bompiani)4 ottengano numerosi consensi persino tra le sfere più alte della cultura letteraria italiana (Pellizzari 1999: 131).

È specialmente sul piano ideale, tuttavia, che la critica marottiana si colloca su un registro di assoluta eterodossia rispetto alle forme dominanti del tempo. Del tutto indifferente a quel canone realista che, a partire dall’immediato dopoguerra, diviene parametro inevitabile ed essenziale per l’interpretazione del testo filmico (Bisoni 2006: 46-47, Pellizzari 2003: 514-516, Pierotti et al. 2004: 533-536, 541-544) – e anche per questo, spesso, ingiustamente collocato nell’orizzonte culturale della destra (Pellizzari 1999: 130-131) – Marotta si pone, a ben vedere, completamente al di fuori dal gioco delle opposte fazioni ideologiche. È solo indagandone la produzione alla luce di una simile prospettiva, che il suo mordace ironizzare sui critici alla Aristarco, “avvezzi a bagnare i propri intelletti in un ditale” (Marotta 1963: 93), può conciliarsi con il completo rifiuto delle brutali manifestazioni censorie espresse nei confronti della cultura cinematografica di sinistra. “P.S. Leggo in questo momento, lunedì 24 settembre, – annota, per l’edizione del 7 ottobre 1962 de L’Europeo, dopo aver recensito negativamente il film – che certi fascistucoli hanno preso a ceffoni Pasolini. Ritiro ogni mio dissenso. Mamma Roma è un capolavoro e chi lo boccia a mazzate è uno zulù”5 (Marotta 1965: 159).

2 “Nel cinema la gente desidera il cinema”

“Non ho sempre affermato che un degno regista ha il diritto di prendersi qualunque confidenza con i testi letterari dai quali voglia attingere (anzi direi succhiare, tanto questo lavoretto è individuale, carnale) un ottimo film?” (Marotta 1956: 65). Senza lasciare spazio ad alcuna possibile ambiguità, l’avviarsi della recensione all’Ulisse di Mario Camerini (1954) – pubblicata su L’Europeo del 24 ottobre 1954 – esibisce una precisa concezione del testo cinematografico e delle sue strategie compositive fondamentali. Questa idea di una possibile e, anzi, doverosa autonomia del testo filmico, nei confronti dei vincoli linguistici e narrativi imposti dal supposto primato della letteratura, non deve essere in alcun modo ignorata, nel momento in cui ci si confronta con il contesto critico del periodo. Solo alcuni anni prima, fra le colonne di quello stesso rotocalco, Alberto Moravia ammoniva con solenne rigore riguardo alla necessità di un adattamento che, per quanto riduttivo, fosse in grado di tradurre con fedeltà le intenzioni del testo letterario d’origine.6

Il cinema ricorre spesso alla narrativa – scrive sul finire del 1952 riguardo a Gli occhi che non sorrisero (Carrie, William Wyler, 1952) – e non si contano ormai i film tratti da romanzi […]. Naturalmente il passaggio dalla narrativa al cinema comporta molte modificazioni del testo originario. Di solito il romanzo viene spogliato delle superficialità, schematizzato, ridotto ai suoi tratti principali e più drammatici. Fin qui il guasto non sarebbe irreparabile: purché si conservino lo spirito e le linee essenziali della narrazione, si può consentire senz’altro ad una trasformazione dettata dalla tecnica così diversa. Peggio avviene, invece, quando per motivi estrinseci, per lo più di convenienza commerciale, si cambiano i caratteri, si trasforma il racconto, si modifica, insomma, lo spirito del libro (Moravia 1952: 33).

Contrario a una qualsiasi possibilità di disporre gerarchicamente arti e linguaggi, Marotta rivendica invece la piena libertà del testo filmico, quale presupposto allo sviluppo, tanto commerciale quanto artistico, del cinema. A chi suggerisce, in occasione del convegno milanese Anica del febbraio 1958, di affidare il cinema ai letterati, per favorire la promozione delle idee, egli risponde con una decisione sicura e divertita che “il cinema si fa con le idee, ma con le idee cinematografiche” (Marotta 1967: 327). Pur muovendo ancora lungo una traiettoria immediatamente implicata con la dimensione qualitativa dell’opera filmica, allora, la riflessione di Giuseppe Marotta si definisce nell’adozione di un punto di vista precisamente inverso rispetto a quello assunto da Moravia.

Così, nel corso di una riflessione condotta con una lettrice attorno al film tratto dal suo più grande successo editoriale e diretto da Vittorio De Sica, L’oro di Napoli (1954), lo scrittore attribuisce proprio all’incapacità di svincolarsi dai caratteri della celebre raccolta di racconti i principali limiti della sceneggiatura, da lui realizzata assieme a Cesare Zavattini.

Commettemmo un grosso errore. Non avremmo dovuto abbandonarci alla suggestione panoramica del titolo, che ci obbligò ai capitoletti, al frammento. La penna è una cosa, l’obiettivo cinematografico un’altra. Scorci e sintesi e inviti a immaginare (che spesso formano il pregio di un libro) non sono concepibili in un racconto visivo. Ma anche ridotta alla nuda sostanza, ciascuna vicenda, originariamente stivata per miracolo in cinque o sei paginette, esigeva un intero film. […] Dunque complessi antefatti enunziati in quattro parole, abbreviazioni, sigle di gente e di sfondi, caratteri e luoghi intravisti e perduti, come le stelle cadenti. Quando un personaggio accennava a delinearsi, zac, bisognava congedarlo a mazzate. […] Fatti e persone del mio volume ebbero sullo schermo qualche valido e anche geniale abbozzo (De Sica è De Sica); niente di più. E, insisto, la colpa fu degli sceneggiatori (Marotta 1967: 201-202).

Il film non è il terreno sul quale operare una riduzione semplificata del romanzo. Se l’adattamento implica una traduzione delle strategie, ancor prima che degli avvenimenti, la sfrondatura e la schematizzazione del racconto appare qui, più che un male inevitabile e necessario, come l’esito di un tradimento nei confronti dello stesso linguaggio cinematografico. In una simile prospettiva, Marotta interpreta come pervertimenti ugualmente innaturali sia la sovrabbondanza della parola sull’immagine, sia l’incorporazione immediata dell’opera lirica, sia le eccessive raffinatezze del citazionismo pittorico.7 A doversi imporre, prima di ogni altra cosa, è il linguaggio precipuo del film, poiché “nel cinema la gente desidera il cinema, il bello e il brutto, il male e il bene del cinema, del cinema, del cinema” (Marotta 1960a: 359).

3 “I ‘realismi’ cadranno come foglie morte”

Esistono due modi, oggi, di concepire un film: quello stentoreo e quello fievole. O Babele, o il Sahara; o tutto o niente. L’orgia di intreccio del “feuilleton”, o i nudi fatterelli di ogni giorno; per Caio il cinema è rarità, meraviglia; per Tizio è invece l’opposto, vicende normali, cose e gente da quattro soldi, ma che grondino, almeno intenzionalmente, di “verità”. Sa il diavolo che mai debba essere, in un lavoro di fantasia, la “verità” (Marotta 1956: 133).

Così prende l’avvio una recensione che, sulle pagine de L’Europeo del 20 marzo 1955, analizza in maniera comparata La contessa scalza (The Barefoot Contessa, Joseph L. Mankiewicz, 1954) e Le ragazze di San Frediano (Valerio Zurlini, 1955). Pur nello scarso entusiasmo dichiarato nei confronti di un narrare costruito attorno a un susseguirsi implacabile di episodi – “questo è un cinema che ‘mena gli spiriti nella [sic!] sua rapina’. Io non lo godo; ma lo reputo, in fin dei conti, necessario (Marotta 1956: 134) –”gli eccessi dell’invenzione” cinematografica paiono al critico un’alternativa, tutto sommato, più auspicabile rispetto alle strategie di rappresentazione della “realtà”. Se già nel campo della narrativa Marotta colloca la sua opera in aperta antitesi con il neorealismo (Maffei 2004: 27), il progetto zavattiniano del comporre il racconto a partire da quanto si incontra nel quotidiano non possiede per lui altro valore che quello di un’illusione e di un inganno prospettico. Non è, però, solo una questione di maschere sociali e quasi pirandelliane, che impediscono di conoscere l’individuo semplicemente osservandolo, a essere messo in campo: “gli uomini occorrenti vociano per un’ora o per venti (e cioè mentono, si camuffano, si fraintendono come generalmente accade) e io, scegliendo l’essenziale di tanta falsità, creo” (Marotta 1967: 161). Il vizio non emendabile risiede, per Marotta, nella distanza che separa l’investigatore dall’investigato, specialmente quando quest’ultimo – come avviene nel neorealismo – appartiene alle classi sociali più misere e disagiate.

Ah Cesare; ed ecco, nel volume di cui sto parlando, – osserva sarcastico mentre commenta una pubblicazione dedicata a Il tetto di Vittorio De Sica (1956) – fotografie che ti ritraggono fra i pezzenti, o che ritraggono De Sica davanti a un quadro che ha per titolo: “Case sull’Aniene”, un De Sica nell’abito del quale, come nel tuo, fruscia la seta di Caraceni, di Baratta, e che qualche ora dopo tornerà, come te, in una casa linda e tiepida e illustre come il grembo di una zia nobile, sai, quella zia che era una borghesuccia, da fanciulla, ma conobbe e sposò un autentico barone. Sì, caro Zavattini, c’è un solo modo artistico e umano di andare fra i poveri, ed è il modo inimitato di San Francesco. Altrimenti li si indovina meglio supponendoli, immaginandoli8 (Marotta 1967: 160).

L’indagine sul reale si fa, qui, nascita già abortita perché generata da un dialogo impossibile, costruito ricorrendo a codici emotivi ed esperienziali del tutto incompatibili, come quelli tra un borghese e un sottoproletario, fra un regista e una prostituta. “Un maschio – scrive riguardo a Le notti di Cabiria (Federico Fellini, 1957) – non potrà indovinare mai ciò che prova una Cabiria, quale influenza abbia sul carattere, sull’anima e sul corpo femminili il più antico mestiere del quale ci informino i più antichi libri. […] Mi fanno ridere i sopralluoghi e le inchieste di Fellini” (Marotta 1967: 250). Al di là del valore dell’opera (“Retori e scettici blu del cinema, lasciate che Fellini canti” è il titolo di questa recensione ammirata), l’esito di un simile procedimento è interpretato come una finzione inverosimile, tutta costruita su un’esasperazione incontrollata e posticcia delle forme (“Occorrono bestie in un tugurio? – osserva riguardo a Giorni d’amore del 1954 – E De Santis ne fa l’Arca di Noè”. Marotta 1956: 95-96). Un’esasperazione, questa, che si ritrova, secondo Marotta, anche nel ricorso vuoto e ripetuto a una parlata dialettale senza nessuna credibilità ma adoperata come scorciatoia, a suo giudizio inservibile, per accedere a una presunta e ben precisa idea di realtà.

Non è con un “Orca!” che si fa Po, – scrive in polemica con Mario Soldati – non è con un “Mamma mia bella!” Che si fa Santa Lucia. Occorre andare alla sostanza dei modi verbali ferraresi o partenopei. Essi debbono legare, fondersi con personaggi non meno tipici e inconfondibili. Gente fatti e parole di Romagna, o gente fatti e parole di Napoli. Invece nel tuo La donna del fiume, caro Soldati, il dialetto era occasionale, voluto; era l’ingrediente, formaggio o pepe, di una cattiva cucina. Ogni tanto uno scroscio di inutili “Boia di questo e di quello”; subito dopo il film se ne andava per le fumettistiche, dozzinali faccende sue. […] Non bisogna limitare il dialetto a quattro esclamazioni, bisogna entrare col dialetto nei piaceri e nelle ambasce dei personaggi. Farli godere e soffrire in dialetto; che dico, ritrarli in dialetto, rendere dialetto anche la macchina da presa. Altrimenti accontentiamoci del generico, della lingua, no?9 (Marotta 1956: 310-311).

Non si nega, allora, l’importanza del realismo, quanto l’idea che lo si possa raggiungere semplicemente ricorrendo a delle formule, narrative o verbali che siano, definitivamente codificate, come a delle tecniche universalmente applicabili. È proprio per la sua volontà di vedere preservata la credibilità degli eventi narrati e la verosimiglianza dei suoi personaggi, che Marotta rifiuta la standardizzazione di un modello prestabilito nel quale si confonde, a suo giudizio, il realismo della vita quotidiana con quello del racconto, la tensione verso la cronaca con l’aspirazione all’arte (Marotta 1956: 135). In risposta al parametro dell’esistenza raccolta dal vero e identicamente riprodotta, egli rivendica l’urgenza di una creazione che sappia plasmare la realtà ipotizzandola (Marotta 1965: 424). “L’arte – scrive su L’Europeo rivolgendosi a Zavattini – è sogno, è la vita come potrebbe apparire a chi stesse dolcemente e lucidamente perdendola” (Marotta 1967: 163). Il raggiungimento della realtà artistica, allora, non può che avvenire, secondo Marotta, distaccandosi da essa e trasformandone i contorni con la forza dell’invenzione e attraverso la sfocatura propria dell’esperienza onirica.10 È una necessità storica che già guarda al futuro, prima ancora che un imperativo ideale. “Io non sono – scrive in una lettera a Massimo Franciosa del settembre 1952 – che lo scalcinato fante, in avanscoperta, di certe forze d’assalto che arriveranno, vedrà. Nel secolo della televisione i ‘realismi’ cadranno come foglie morte; bisognerà trasfigurare o andarsene al diavolo” (Maffei 2004: 127).

4 Il Pizzo Chaplin e gli abissi di Raffaello Matarazzo

Che paese vario, tumultuoso, folle, è il paese del Cinema. Davanti al Pizzo Chaplin, la tozza collinetta degli Hathaway; a due passi dal verde altipiano dei De Sica e dei Castellani, la palude, la “bassa” delle innumeri “mezze maniche” della regía; qua i salati Faraglioni di Tati e là i neri strapiombi degli infimi “paglietta” della pellicola, gli abissi, per intenderci, di Raffaello Matarazzo e compagni (Marotta 1956: 12).

È in quest’ultimo insieme di film, destinati quasi unicamente alla periferia e alla provincia, perché architettati in maniera da “bastonare” il “rozzo spettatore” con una raffica di fatti senza profondità, che questa topografia marottiana riconosce i territori deteriori e più spaventosi. Eppure, prima ancora che sul piano narrativo, la loro colpa risiederebbe nell’immoralità delle strategie che vi vengono messe in atto, nella stortura emotiva che saprebbero produrre in un pubblico ingenuo e, in quanto tale, incolpevole. “Lacrime e pietà dei poveri di spirito sono infatti genuine, preziose, care al cielo: guai a voi, scribi e farisei ipocriti del cinema, che non potendo o non volendo educare il grosso pubblico, sfruttate così deliberatamente la sua innocenza” (Marotta 1956: 14). Se a determinare il rifiuto di simili produzioni è la natura intenzionalmente vuota e artificiosa del racconto, il suo ambire esclusivamente a un mero coinvolgimento emotivo di individui animati da “elementari e goffi sentimenti”, allora ai Torna possono essere equiparati i Gli ultimi giorni di Pompei e, a questi, gli Italia piccola o i Nel blu dipinto di blu. Un panorama stratificato di titoli ma che vede corrispondere, perlomeno nelle finalità, i templi romani di cartapesta e le orge di petti maschili e di cosce femminili, alle “bone” e ai belli, pescati dalla televisione o dall’industria discografica, quale unico elemento per attrarre il pubblico (Marotta 1963: 15-16, 1967: 286-287, 1960a: 231).

Al contempo, sono da respingere anche le vette più ardite e macchinose dell’autorialità, che si concretizzano, per Marotta, principalmente nel cinema di Michelangelo Antonioni. Per quanto solcate da un’essenzialità narrativa che è del tutto antitetica ai film di Matarazzo, in esse si ritrova un’identica noncuranza nei confronti del pubblico.

Riconosca i diritti dello spettatore comune, – afferma in conclusione alla recensione di La notte (1961) – ci dia vicende e non ricerche di vicende, itinerari e non vagabondaggi d’arte, geniali sintesi e non uggiose, scentrate e puerili analisi. […] Antonioni rifletti: a che serve l’innegabile sapienza delle tue finissime inquadrature (che tipica Milano, con le sue ciminiere e le sue gru e le sue benne, con i suoi nitidi marmi e asfalti, con il suo pallido cielo forato dagli aviogetti, con le sue goffe ma solide facciate che sembrano proverbi di cemento!) se il racconto vacilla e sbava come i lattanti? (Marotta 1963: 174)

La raffinatezza e l’efficacia estetica di Antonioni diventano emblema di un’arte tutta arroccata su se stessa, “incapace di ogni semplicità o innocenza, e quindi viziosa, corrotta, maligna come i fiori di palude” (Marotta 1965: 50). A mancarle sarebbe il senso più intimo dell’essere umano, con la sua presenza reale di carne e di sentimenti. Se per Marotta le vicende interiori, che sostanziano per intero il cinema antonioniano, non possono esistere senza un’identità del personaggio e una sua condizione sociale e affettiva, prima ancora che esistenziale (“senza l’animale, cioè, non si hanno visceri” Marotta 1965: 48), ecco allora che pulsioni, gioie e sofferenze delle Claudia, delle Anna e dei Sandro, delle Lidia e dei Giovanni, dei Piero e delle Vittoria, non si riducono che a “teoremi ed equazioni psicologici, allineati su una prestigiosa lavagna, magari esatti ma aridi; alta matematica […] ma non poesia”11 (Marotta 1963: 48).

Fra questi due estremi del racconto filmico, esiste per Giuseppe Marotta una via mediana le cui forme corrispondono a quelle di “un diffuso, ricco artigianato che non esclude affatto, ogni tanto, un Ladri di bicilette o un Senso” (Marotta 1967: 7). Non c’è qui spazio per alcuna distinzione fra alto e basso, fra autoriale e popolare. L’abilità e il garbo di Padri e figli… (Mario Monicelli, 1957) si armonizza con l’acre sorriso poetico di El cochecito (Marco Ferreri, 1960), la grazia toccante di Guendalina (Alberto Lattuada, 1957) con la soave amarezza de La dolce vita (Federico Fellini, 1960) (Marotta 1967: 140, 1963: 374, 1967: 148, 1960a: 419). In essi si esprime, con identica intensità, il significato del cinema, il suo desiderio inestinguibile e fondamentale è di raccontare l’umano. “Non c’interessano – afferma Marotta in un commento appassionato a Rocco e i suoi fratelli (1960) – i problemi, le istanze, la polemica; c’interessa l’uomo. L’uomo in qualunque circostanza, è il problema dei problemi, l’istanza delle istanze, la polemica delle polemiche” (Marotta 1963: 94).

È nella relazione autentica con la vita che l’opera arriva a farsi arte. Solo in essa si può realizzare “non la frigida bellezza esteriore […] ma una bellezza sostanziale, completa, di organismo, di creatura” (Marotta 1956: 119) che può sbocciare solo da un’armonia assoluta fra il “cuore” e il “raziocinio” (Marotta 1960a: 419). Il senso primo e ultimo dell’opera filmica risiede, allora, nella sua capacità di generare una commozione piena e spontanea, un’ardore che fioco oppure incandescente sappia, in ogni caso, bruciare le carni dello spettatore insieme alla sua anima.

Una commozione di ordine artistico non può non essere anche di ordine psicologico. La differenza tra Manzoni e Ponson du Terrail sta nella qualità della commozione e sta nei mezzi con i quali è ottenuta. La temperatura non c’entra. Un metallo pascoliano fonde a un grado lieve di calore, ma un altro metallo (baudelairiano, ad esempio) fonde a un calore di geenna, di vulcano. Ciò che importa è la fusione (Marotta 1958: 246).

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  1. “Pia Cara, – scrive, non a caso, Marotta in una lettera destinata alla moglie e riconducibile all’inizio del 1944 – ho dormito due sere fuori, ma non mi sento di farlo più ed eccomi a casa. Sono rientrato alle cinque e mezza; ti scrivo sul nostro tavolone della stanza da pranzo, che mi sembra dieci volte più grande ora che tu non ci sei. […] Ho fatto bene o male a rimandarti a Gavi? E di me stesso, che diavolo succederà? Il lavoro può finire da un momento all’altro, cose anche peggiori possono verificarsi” (Maffei 2004: 93).↩︎

  2. D’altronde, come sulle pagine de L’Europeo Marotta e Moravia (poi giunto a L’Espresso) approdano alla critica cinematografica dalla narrativa, così al Corriere della sera, a La Stampa e a Epoca si affermano rispettivamente le figure dell’italianista Giovanni Grazzini, del linguista Leo Pestelli e dell’umanista Filippo Sacchi.↩︎

  3. Per una più approfondita contestualizzazione della critica cinematografica italiana fra riviste di settore, quotidiani e periodici, durante il periodo di principale attività di Giuseppe Marotta, si rimanda a Bisoni 2006: 46-48, Guerra e Martin 2020, Lotti 2020: 66-88, Pellizzari 2001a: 445-484, Pellizzari 2001b: 551-567, Pellizzari 2003: 514-533, Pezzotta 2007: 29-34, Pierotti et al. 2004: 531-544.↩︎

  4. I primi quattro testi Questo buffo cinema (1956), Marotta Ciak (1958), Visti e perduti (1960), Facce dispari (1963) sono editi per volontà dello stesso autore, mentre Di riffe o di raffe (1965) sarà pubblicato postumo sotto la cura del giornalista e scrittore napoletano Vittorio Paliotti, che già l’anno precedente aveva permesso fosse dato alle stampe Il teatrino del Pallonetto.↩︎

  5. Tale posizione ideale viene ripresa e maggiormente argomentata a seguito delle traversie giudiziarie nelle quali incorre ancora Pasolini con La ricotta (Ro.Go.Pa.G., Jean-Luc Godard, Ugo Gregoretti, Pier Paolo Pasolini, Roberto Rossellini, 1963). “Sì, per me è innocente, Pasolini; e la mia certezza che, in Appello, i giudici lo assolveranno è incrollabile. Mi dolgo, perciò, di avere, bocciando La ricotta, aggiunto forse un’amarezza (facilmente equivocabile) alle amarezze che quasi contemporaneamente aspettavano in Tribunale il Pasolini. Madonna aiutami. Sia ben chiaro, cioè, che ho e avrò sempre in uggia la parola ‘vilipendio’ come elemento protettivo di una istituzione o di un individuo o di Nostro Signore perfino” (Marotta 1965: 300). Una più articolata riflessione sui rischi impliciti nell’esercizio della censura in ambito cinematografica era già stata elaborata da Marotta in un corposo articolo pubblicato nell’estate del 1960. Cfr. Marotta 1960b: 10-11).↩︎

  6. Si veda, a tal proposito, anche Moravia 1951: 12, Moravia 1953a: 17, Moravia 1953b: 42, Moravia 1954a: 35, Moravia 1954b: 37.↩︎

  7. Si vedano, a tal proposito, le recensioni a: L’anno scorso a Marienbad (L'année dernière à Marienbad, Alain Resnais, 1961): “Che razza di ‘cinema puro’, o di ‘cinema psicologico’ è – domanda nel 1961 a Resnais e Robbe-Grillet – il cinema che ha un tale bisogno di aiuti verbali?” (Marotta 1963: 357); Madama Butterfly (Carmine Gallone, 1954): “Già il melodramma allo stato originario è un buffo compromesso tra copione e orchestra, oggi intollerabile […]; il cinema arriva in questa materia come la ricotta in uno spezzatino di carne e di pesce” (Marotta 1956: 156); Mamma Roma (Pier Paolo Pasolini, 1962): “Un film, – ricorda Marotta, con l’intenzione di ammonire il regista – pur equivalendo a una magica, lunga successione di tele di Masaccio, può, non essendo pittura il cinema, risultare goffo e inutile” (Marotta 1965: 158).↩︎

  8. Tutt’altro che episodica, questa stessa riflessione era stata già proposta sei mesi prima, e pressappoco in maniera identica, nel corso di una recensione allo stesso film di De Sica e Zavattini: “Ebbene, Cesare, tu non fosti mai povero. È inutile visitare un mucchio di sciagurati, se non scendi, se non abiti in uno sciagurato” (Marotta 1967: 57-58).↩︎

  9. La stessa posizione interpretativa emerge anche dalle recensioni al film di Soldati e a Le amiche di Michelangelo Antonioni, del 1955. (Marotta 1967: 236, 263).↩︎

  10. “Infatti – scrive, non a caso, di Accattone (Pier Paolo Pasolini, 1961) – qual è il brano più toccante dell’intero film? Quello del sogno di Accattone, sogno col quale niente ha da fare, appunto, il vero (e che piacerà molto, suppongo, a Ingmar Bergman). Dove subentra l’invenzione, là Pasolini mette le ali e di poco o di molto s’innalza” (Marotta 1963: 369).↩︎

  11. “O l’uomo – commenta Marotta, in maniera del tutto simile, riflettendo attorno a Il grido (1957) – continua a riassumere il tempo e le cose, nei film, o i film sono vuoti di cose, di tempo e di uomini” (Marotta 1967: 289) Si veda anche la recensione a L’avventura (1960), (Marotta 1963: 206).↩︎