Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.23 (2023), 75–87
ISSN 2280-9481

Producer’s e Critic’s Game di Alessandro Blasetti. Riposizionamenti dal regime al secondo dopoguerra

Francesca TesiUniversity of Florence (Italy)

Francesca Tesi is a PhD Student in History of Arts and Performative Arts at the University of Florence. Her research project focuses on the modes of production of Alessandro Blasetti’s works (supervisor: prof. Paola Valentini). She has worked for Fondazione Cineteca di Bologna and the Cinema Ritrovato Festival.

Ricevuto: 2023-02-02 – Pubblicato: 2023-07-20

Alessandro Blasetti’s Producer’s and Critic’s Game. Repositioning from the Fascist Regime to the Post-war Period

Abstract

Alessandro Blasetti’s career reaches a turning point in 1942: at the end of the year Quattro passi fra le nuvole is released. The film is retrospectively considered a forerunner of Neorealism. Since then, Blasetti focuses on realistic dramas in humble settings e.g., Nessuno torna indietro (1944), up to the partisan resistance themed Un giorno nella vita (1946). However, from the late 30s to the first half of 1942, Blasetti works mainly on historical films, such as Ettore Fieramosca (1938), Un’avventura di Salvator Rosa (1939), La corona di ferro (1941) and La cena delle beffe (1942). As a result of this productive repositioning, how does Blasetti change his critical posture to reconfigure himself within the field? The paper aims to retrace Blasetti’s works in parallel with his public statements on the press to find fluctuations and shifts. To do so, the author uses the concepts of producer’s game and critic’s game derived from Altman’s genre theory, together with some of Bourdieu’s tools. Blasetti’s repositioning takes place within a context of drastic political and cultural changes, from the first signs of the Second World War to the Postwar period, from the fascist Regime to Neorealism.

Keyword: Alessandro Blasetti; Neorealism; Historical Films; Critic’s Game and Producer’s Game; Fascist Regime.

Tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943 la carriera registica di Alessandro Blasetti subisce una svolta: esce nelle sale Quattro passi fra le nuvole (1942), da un soggetto di Cesare Zavattini e Piero Tellini, sceneggiato da Aldo De Benedetti – che, in quanto ebreo, non compare nei titoli di testa1 – e prodotto dalla Cines insieme a Giuseppe Amato. Nel dopoguerra, grazie alla critica francese che ha occasione di vederlo solo nel 1947 (Blasetti 1982b: 348-349), il film viene annoverato tra i prodromi del neorealismo: insieme, in particolare, ai coevi Ossessione (1943) di Visconti e I bambini ci guardano (1944) di De Sica, è ritenuto indicativo di una nuova sensibilità veicolata da un linguaggio attinente alla realtà (Pietrangeli 1995 [1948]). Fino a quel momento, Blasetti aveva attestato la sua posizione all’interno del campo cinematografico come regista di film in costume in ottemperanza all’ideologia fascista, come cercherò di motivare nelle pagine seguenti. Derivo da Bourdieu il concetto di campo come sistema di agenti che occupano posizioni determinate dalle regole di ingaggio del campo stesso e dalle risorse a disposizione di ciascun agente. Il campo è altresì un’arena nella quale gli attori agiscono per occupare strategicamente posizione e ottenere così maggiori risorse, ovvero maggiore capitale, sia esso economico, sociale, culturale o simbolico (Hilgers and Mangez 2015). Nella sua analisi del campo letterario, Bourdieu afferma:

Alle differenti posizioni […] corrispondono prese di posizione omologhe, opere letterarie o artistiche ovviamente, ma anche atti e discorsi politici, manifesti o polemiche ecc. […]. È negli “interessi” specifici associati alle diverse posizioni nel campo letterario che bisogna cercare il principio delle prese di posizione letterarie (ecc.), se non addirittura delle prese di posizione politiche all’esterno del campo (Bourdieu 1982b: 348-349).

Per occupare una posizione all’interno del campo, l’attore dunque agisce anche tramite prese di posizione, da individuare sia come opere creative, sia come atti pubblici che lo aiutano a collocarsi strategicamente.

Nel caso qui di pertinenza, dopo la realizzazione di Quattro passi fra le nuvole, cioè dopo uno scarto produttivo – che determina un disequilibrio della posizione occupata nel campo – Blasetti muta, veicolate dalla stampa, le sue prese di posizione. In che modo? Come cambiano i suoi discorsi per riconfigurarsi agli occhi del pubblico e della critica?

Nel corso dell’elaborato, le due distinte dimensioni, della produzione cinematografica e delle prese di posizione, verranno poste a confronto in quanto, rispettivamente, producer’s game e critic’s game messi in atto da Blasetti, per mutuare la terminologia di Altman. Semplificando, nella sua teoria sui generi cinematografici, Altman spiega che il critic’s game consiste nel ricercare retrospettivamente l’esistenza di un genere attraverso l’analisi di caratteristiche comuni a un certo numero di film e, sulla base di queste, stilare una filmografia che definisca il genere in questione; il producer’s game è invece proiettato nel futuro e ha come obiettivo quello di replicare il successo di un film analizzandone le caratteristiche vincenti per riproporle nel film successivo (Altman 2004 [1999]: 61-75). Nel ruolo di producer, Blasetti lavora nel tentativo di reiterare le formule di successo dei film precedenti; tutto ciò, almeno fino a quando i tempi non lo incalzano spingendolo a mutare la posizione precedentemente occupata. In quanto critic, Blasetti spiega retrospettivamente i suoi stessi film alla luce di concetti e parole d’ordine interpretativi che nel corso di pochi anni cambiano drasticamente. A seguito della rottura nel producer’s game avvenuta con la regia di Quattro passi fra le nuvole, risulta quindi di particolare interesse indagare il critic’s game, ovvero le prese di posizione di Blasetti necessarie a riequilibrare la sua posizione nel campo.

1 Producer’s Game: la produzione di Blasetti (1937 ca. – 1946)

Dirigere Quattro passi fra le nuvole non è stata una scelta d’autore. Non è un mistero che Blasetti stesse lavorando a una Francesca da Rimini, progetto abbandonato a seguito di uno scontro con Luigi Freddi per divergenze artistiche.2 Anziché far rescindere il contratto, Giuseppe Amato propone una rosa di soggetti, tra i quali Blasetti sceglie Quattro passi fra le nuvole, allora già sceneggiato e dialogato da De Benedetti.3 In un’anticipazione di Domenico Meccoli che si trova sul set del film emerge un ritratto di Blasetti tutt’altro che entusiasta di dirigere questa commedia amara con Gino Cervi e Adriana Benetti:

Sono venuto al teatro n. 5 a Cinecittà dove dirigevi Quattro passi fra le nuvole. […] Stavolta, però, c’è stato qualcosa di diverso. Interesse e fede sì, ma non entusiasmo, anzi quasi tristezza. […] e tornerà fuori [l’entusiasmo, n.d.r.], caro Blasetti… forse durante la lavorazione di Quelli della montagna, iniziatasi giorni fa con la regia di Vergano e la supervisione tua […]; e ancor più forte nascerà il tuo entusiasmo quando a primavera, come ho inteso dire, dirigerai Bir-el-Gobi, gesta semplice ed eroica di giovani che sognavano la guerra. Quello è il tuo film! (Meccoli 1942).

I riferimenti di Meccoli a Quelli della montagna (1943) e Bir-el-Gobi sono un chiaro richiamo non solo a film bellici, d’azione – più nelle corde di Blasetti, come sarà dimostrato più avanti – ma anche a opere con un preciso obiettivo propagandistico. Per quanto riguarda Quelli della montagna (1943) di Aldo Vergano, Blasetti dichiara di aver avuto un ruolo “fondamentale” e di aver assistito “l’80% delle riprese” (Savio 1979: 153-154). Si tratta di un film con intento celebrativo dell’arma degli alpini coerente con l’ideologia fascista di militarizzazione della società (Venturini 2015: 210). Blasetti riesce, invece, a svincolarsi dalla realizzazione di Bir-el-Gobi dedicandosi, già dalla fine del 1942, all’adattamento cinematografico del romanzo di Alba de Céspedes Nessuno torna indietro (1944) (De Céspedes 1942). È iniziata, dunque, la fase (neo)realista di Blasetti che procederà con Un giorno nella vita (1946).

Per interpretare correttamente le parole di Meccoli, e spiegare il significato di “svolta” nella carriera di Blasetti, è necessario fare qualche passo indietro e ripercorrerne le regie prima di Quattro passi fra le nuvole. All’avvio della pre-produzione del film, stava ancora proseguendo lo sfruttamento nelle sale di La cena delle beffe (1942), tratto dall’omonimo dramma di Sem Benelli, ambientato nella Firenze di Lorenzo il Magnifico. È l’opera conclusiva della fase “in costume” di Blasetti. Se possiamo farne risalire l’avvio già con 1860 (1934), essa si è stabilizzata a partire da Ettore Fieramosca (1938) a cui segue – dopo l’intermezzo, rinnegato, di Retroscena (1939)4Un’avventura di Salvator Rosa (1939), La corona di ferro (1941) e, appunto, La cena delle beffe.

Occorre qui fare una dovuta precisazione sull’utilizzo della categoria di film “in costume”. Rifacendomi alla proposta avanzata da Gili (1979a),5 tra i film realizzati da Blasetti, Ettore Fieramosca e Un’avventura di Salvator Rosa possono considerarsi “storici”, ovvero mettono in scena personaggi o avvenimenti precisi; gli altri, invece, sono più genericamente “in costume”, cioè si basano su un’invenzione romanzesca senza che abbiano necessariamente un legame con un periodo determinato.6 Per fare riferimento a questa produzione nel suo insieme adotterò genericamente la categoria di film in costume: film, cioè, che si collocano in un passato – sia esso storicamente definito o meno – e che hanno precise esigenze produttive, come l’uso di un profilmico complesso tra scenografie, costumi, masse, coreografie di scene d’azione, etc., e perciò, molto spesso, un budget superiore alla media.

Scavando più nel dettaglio, non solo i film che Blasetti ha effettivamente realizzato appartengono a questo genere di produzione, ma anche quelli avviati tra il ’40 e il ’43 e mai compiuti. Ho già fatto riferimento alla Francesca da Rimini, che Blasetti immaginava sul modello dantesco;7 ma da un articolo a firma di Achille Vesce del 20 gennaio 1943 (appena all’indomani dell’uscita di Quattro passi fra le nuvole), vengono citati vari progetti annunciati e non portati a termine:

Blasetti dirigerà I tre moschettieri. Il film, ci informano, entrerà in cantiere a maggio. Ma, appena compiuto, il più animoso dei nostri registi porrà mano a una vita cinematografica di San Francesco. […] Ma non ci avevi promesso un Orlando furioso? Non s’era parlato una sera a Venezia, deambulando in Piazzetta per digerire una pessima cena e un film di Gallone, dell’Iliade, di Achille e di Ulisse? (Vesce 1943).

Tornerò su questo trafiletto di Vesce che contiene altri elementi d’interesse. Per adesso, ci basti segnalare le intenzioni, ancora all’inizio del ‘43, di continuare a perseguire il filone in costume, seppure con declinazioni differenti: avventuroso, I tre moschettieri; fantastico, l’Orlando furioso, la cui lavorazione era già stata annunciata nell’ottobre del ‘41 (“Alessandro Blasetti realizzerà l’Orlando furioso” 1941; “Blasetti realizzerà l’Orlando furioso” 1941); dimesso, religioso il San Francesco. L’Iliade, invece, dev’essere stata nient’altro che un’ipotesi, dal momento che, a differenza degli altri progetti citati di cui all’interno del fondo Alessandro Blasetti8 si trovano i copioni e talvolta contratti o corrispondenza, non se ne riscontra traccia né nell’archivio né nella rassegna stampa.

Questa voga della produzione in costume non costituisce una peculiarità blasettiana. Senza addentrarmi troppo nello specifico, se tra il 1930 e il 1939 si nota un graduale aumento dei film appartenenti a questo filone, fino ad arrivare a una decina all’anno, “a partire dal 1940, si assiste a un brutale sviluppo, a una vera e propria inflazione che continua nel 1941 e 1942, […] e che comincia a rallentare solo nel 1943” (Gili 1979a: 130). I film in costume vengono discussi sui periodici – particolarmente ampia e articolata la disamina che ne fa Spaini (1942) su «Cinema» – e, a partire già dal ’40, vengono apertamente osteggiati dal Ministero della Cultura Popolare, senza che, in ogni caso, seguano provvedimenti operativi.9

Per riepilogare: a partire dal 1937 (quando è già avviata la pre-produzione del Fieramosca10) fino all’estate del 1942, Blasetti pensa e realizza film in costume ad alto budget (sono noti i costi esorbitanti de La corona di ferro,11 per esempio). Gli si presenta, per risolvere una situazione contrattuale, la proposta di dirigere Quattro passi fra le nuvole, un progetto, quindi, assai diverso rispetto ai lavori a cui si stava dedicando. A questo punto, la mutata situazione politica, economica e internazionale scoraggia una produzione d’ambientazione storica e Blasetti stesso si riconfigura come regista di film (neo)realisti.

2 Blasetti regista di film in costume: il capitale simbolico

Per tracciare una traiettoria del critic’s game di Blasetti, è necessario dapprima osservare il suo capitale simbolico – nelle parole di Bourdieu (2012 [1978], 1986) – ovvero il prestigio accumulato e riconosciuto nel campo cinematografico e specificamente come regista di film in costume, di cui si usa come cartina tornasole la stampa coeva (quando non fa da vettore delle prese di posizione di Blasetti, come vedremo nei due paragrafi seguenti).

Innanzitutto, ai critici non sfuggivano la discontinuità e l’eclettismo di Blasetti, caratteristiche che ne fanno tutt’ora una personalità difficile da inquadrare:

Quando non porta gli stivali ha l’aspetto di un tranquillo signore che si occupa con diletto di scienze esatte. Invece è il più estroso dei registi. La scala delle sue sensibilità è infinta e tutte lo tentano. Adesso sembra si sia orientato verso il film in costume. La discontinuità della sua opera è tipica: caratteristica ne è la genialità (“Blasetti” 1940).12

Al di là dell’estrosità di Blasetti, l’autore anonimo di questo profilo specifica che la direzione intrapresa dal regista sembra essere attualmente (settembre 1940) quella del film in costume, opinione sulla quale in generale la stampa periodica concorda, a quest’altezza cronologica.

Blasetti è passato da quel suo narrare umano, puntuale e realistico a un fantasioso linguaggio da “mille e una notte”. È stata come una necessità di spaziare sempre più di volta in volta, in mondi più liberi da vincoli logici e realistici, un continuo allenare la fantasia a galoppare a briglie sciolte, verso orizzonti sempre più avanzati nei confini del sogno e della favola (Purificato 1942).

Questo stralcio prende le mosse dall’annunciata produzione dell’Orlando furioso, che porta Purificato a riflettere sulla recente produzione fantasiosa e avventurosa di Blasetti, sulla scorta del precedente La corona di ferro, in contrasto con la passata fase realistica (qui Purificato pensa forse, principalmente, a Sole [1929], Terra madre [1931], La tavola dei poveri [1932], Vecchia guardia [1934], Aldebaran [1935]).

Ancora dall’articolo di Achille Vesce citato poco sopra in riferimento al progetto su San Francesco: “Lo abbiamo visto troppe volte giostrare e tirar di stocco, troppe volte s’è cinto di acciari e di pennacchi perché ci sia dato di credere a una conversione siffatta. L’avventura e la guerra ce l’ha nelle vene, il nostro” (Vesce 1943).

Non sarebbe possibile qui continuare la rassegna delle occorrenze nelle quali il nome di Blasetti è associato alla direzione dei film d’ambientazione storica, sarà sufficiente citare ancora due brevi descrizioni a dimostrazione del riconosciuto accreditamento sulla stampa. Una la fornisce Eugenio Giovannetti nel recensire La cena delle beffe: “[…] Alessandro Blasetti, uno squisito maestro del film storico, che ha narrato una gustosissima Avventura di Salvator Rosa ed ha, come nessun altro italiano, l’intuito poetico del quadro” Giovannetti (1942). La seconda è di mano di Steno, che, nell’articoletto parodico Il Novissimo Melzi del cinema italiano, così scrive: “Blasetti Alessandro: Continua a dirigere tra battaglie, fumo, guerrieri, lance, spade. Propongo di chiamarlo: Alessandro il Filmèdone” (Steno 1941).13

Infine, vorrei fare ancora riferimento a una caricatura di Nino Za comparsa su la «Rivista illustrata del popolo d’Italia» nel dicembre del 1941 (Za 1941). Qui Blasetti è rappresentato – oltre che con i suoi immancabili stivali – con un pennacchio sul cappello, un cavallo alle spalle e un castello o forse una torre merlata sullo sfondo, tutti elementi che nel loro insieme servono allo scopo di rendere immediatamente riconoscibile l’oggetto della caricatura, segno, perciò, che questa iconografia di Blasetti era diventata familiare al pubblico.

Fig.1.

Insomma, dall’osservazione dei discorsi fatti sulla stampa tra il 1940 e la fine del 1942 attorno a Blasetti e alla sua produzione, risulta facilmente verificabile il riconosciuto ruolo di autore di film in costume e la posizione che, in quanto tale, Blasetti occupa nel campo.

All’indomani dell’uscita di Quattro passi fra le nuvole, i critici faticano a ricondurre questo nuovo film al resto della produzione blasettiana. “Non è facile immaginare Blasetti se non a contatto di masse di personaggi. Egli è il regista che sa infondere vita a scene popolatissime. Pure, in questo film, Blasetti ha rinunciato alla folla delle comparse.” afferma sempre Meccoli nel suo già citato articolo su «Tempo» (Meccoli 1942), adducendo caratteristiche della regia di Blasetti che ne fanno un esemplare direttore di film propagandistici (da cui l’esaltazione dei progetti di Quelli della montagna e Bir-el-Gobi). “Questi successi [Ettore Fieramosca, Un’avventura di Salvator Rosa, n.d.r..] hanno fatto sì che ognuno pensi a Blasetti come a uno specialista di pellicole in costumi molto costosi.” riferisce ancora Calcagno (1943) su «Film». Nel complesso, a uno sguardo più attento, sembra quindi che il regista si sia affermato come direttore di scene di guerra, di battaglia, di masse. Anche nell’articolo di Vesce citato (Vesce 1943), emerge come si auspichi a Blasetti di continuare sulla scia dell’azione – e quindi la regia degli annunciati Orlando furioso o I tre moschettieri – piuttosto che rifugiarsi in un mistico e spirituale San Francesco. Ad essere accomunati, quindi, non sono semplicemente film ambientati nel passato, ma piuttosto i generi avventuroso, epico o bellico.

Allargando per un attimo lo sguardo al di fuori della trade press, la conferma della posizione assunta da Blasetti nel campo come autore di film in costume si coglie in una lettera inviatagli da Luigi Chiarini il 28 novembre 1941: “il Centro Sperimentale di Cinematografia terrà quest’anno un ciclo di conversazioni settimanali […]. Ti sarei molto grato se volessi aderire all’invito di collaborare col Centro con una tua conversazione sul tema: ‘il film storico’.”14 Blasetti viene individuato come ospite prestigioso non solo per i suoi indiscutibili meriti di regista, ma, va segnalato, anche come ideatore della Scuola, collaboratore e suo insegnante, perciò senz’altro in rapporti confidenziali con Chiarini e familiare all’insegnamento.

3 Critic’s Game: la postura15 di regista di film in costume

Certamente, Blasetti non è un operatore ingenuo o ignaro, anzi tutt’altro: ad una chiara consapevolezza del funzionamento del mezzo giornalistico (derivata dagli anni di redazione delle riviste da lui fondate e dirette16) si associa una personalità impetuosa. Dalle dichiarazioni ed interviste, dalle sue prese di posizione, riportate all’interno del presente paragrafo, emerge piuttosto limpidamente la sua predilezione per la direzione dei film in costume e, più precisamente, per il genere avventuroso, bellico. È possibile, a mio avviso, incrociare questa inclinazione di Blasetti con il carattere impetuoso di cui sopra, con la sua nota veemenza di uomo d’azione, la quale – di derivazione militare – lo porta a sostenere il movimento fascista per affinità culturale .17 In altre parole, si può facilmente immaginare che la regia dei film in costume – la coreografia delle masse, il coordinamento di scene d’azione – consenta a Blasetti, da un lato, di esprimere al meglio la propria carismatica autorevolezza e “tutto il suo nerbo, il suo vigore”, come lo descrive Gromo (1938);18 e, dall’altro, nei momenti più solidi del Regime, di accreditarsi come uomo forte, in grado – tra i pochi – di celebrare le imprese fasciste con opere cinematografiche all’altezza del compito.

È possibile cogliere le fluttuazioni delle posizioni pubblicamente espresse da Blasetti grazie ai frequenti interventi sulla produzione cinematografica e, nello specifico, su quella in costume.

Su «Kinesis» Blasetti firma un pezzo di proprio pugno nel quale, prendendo le mosse dall’inaugurazione di Cinecittà, invita a ripensare l’intero apparato produttivo augurando che questa nuova istituzione riesca a imprimere una nuova spinta alla cinematografia italiana. L’occasione, in assenza di una data, permette di orientarci almeno al 1937, grazie anche alla presenza di fotogrammi di film di quell’annata19 e a riferimenti al contesto legislativo che fanno supporre di trovarci prima della legge Alfieri del 193820:

I film che entrano in cantiere per forza propria non sono che i pochi filmetti di seicento-ottocento mila lire, […] la gran parte dei quali raggiunge appena il livello del ‘senza infamia e senza lode’, nessuno serve il benché minimamente serio scopo di propaganda […]. Le duecentomila lire dei buoni doppiaggio e l’eventuale premio governativo non sono una provvidenza inutile. Risolvono il calcolo di produzione dei succitati filmetti (un giorno o l’altro però bisognerà poterli separare dalla produzione seria contraddistinguendo questa con un marchio di garanzia, affinché il pubblico finalmente si orienti e distingua i film tollerati dai film approvati dallo Stato), filmetti, in ogni modo e in fin dei conti, che […] hanno quindi una loro ragione di essere tollerati anche se, ben lungi dal porre il nostro cinematografo sul piano dell’impero, lo mantengono tutt’al più sul piano della repubblica di S. Marino (Blasetti n.d.).

Pur non parlando esplicitamente di film di genere, Blasetti qui intende la produzione ad alto budget – perciò anche i suoi ambiziosi film storici – come l’unica degna di celebrare i fasti dell’Impero, poiché sarebbe l’unica in grado di confrontarsi con il mercato straniero, soprattutto americano. Siamo, chiaramente, nel momento in cui il Regime gode di maggiore consenso (Zagarrio 2006: 38). La citazione da «Kinesis», sebbene leggermente fuori fuoco rispetto all’oggetto qui d’interesse, inquadra meglio il punto di partenza della postura di Blasetti in rapporto alla sua produzione degli anni subito seguenti.

Sempre a riprova del capitale simbolico accumulato, Blasetti viene chiamato più volte ad esprimersi sui film in costume. Già nel 1939 nella rubrica Fuoriprogramma del «Marc’Aurelio», interpellato insieme a Goffredo Alessandrini e ad alcuni produttori di recenti film in costume, si esprime in questi termini: “è innegabile […] che una sola tradizione è rimasta ancora salva nel mondo per il cinema italiano ed è proprio quella del film storico” (Blasetti 1939).

Ancora, nell’articolo Registi, storia e film su «Cinema» del 25 gennaio 1940, è intervistato insieme agli altri grandi nomi del cinema di genere: Goffredo Alessandrini (immancabile), Guido Brignone, Augusto Genina, Gennaro Righelli ed Esodo Pratelli. L’intervistatore riferisce:

Poi interruppe d’improvviso il suo ragionamento e parlò dell’inaugurazione del Centro Sperimentale di Cinematografia e delle parole che il Duce durante la sua visita gli aveva rivolto. Era raggiante. Vedeva ormai tutto con entusiasmo e concluse: ‘È proprio sul film storico che noi italiani dobbiamo battere; per noi la storia è cosa viva, è anzi, la nostra stessa vita. Ad essa dobbiamo ispirarci, di essa dobbiamo servirci’ (Gi. 1940).

Infine, nel ’41, con una lettera al «Mattino Illustrato», Blasetti risponde a un precedente pezzo critico nei confronti del film in costume (i tempi stavano già evolvendo rapidamente) motivando le sue scelte artistiche non come mero escapismo ma come mezzo per parlare comunque di attualità attraverso una trasposizione dei temi in un’altra epoca (Bròntolo 1941).

In definitiva, gli interventi citati mettono in luce come Blasetti assuma una postura – espressa tramite le sue prese di posizione – che nell’esporsi favorevolmente nei confronti del film in costume si allinea esplicitamente al Regime. Nel contesto del cambiamento internazionale e politico, questa corrispondenza progressivamente sfuma fino ad arrivare all’ultimo intervento citato del 1941, nel quale le parole d’ordine non hanno più a che fare con la celebrazione, l’exemplum della storia, bensì l’attualità e i temi morali.

Con il deteriorarsi della situazione bellica e, di conseguenza, delle strutture fasciste, gli interventi a firma di Blasetti sulla stampa si diradano fino a scomparire21 (e, d’altra parte, tutta la stampa mantiene faticosamente la propria periodicità durante il conflitto).

Nel frattempo, la redazione di «Marc’Aurelio» premia Quattro passi fra le nuvole come miglior film dell’annata 1941-1942 (“Fuoriprogramma” 1943),22 e la critica, soprattutto facente capo ad una certa area giornalistica, lo saluta come il ritrovato realismo del Blasetti delle origini (Pietrangeli 1943, 1944; De Santis 1943) – quello di Sole, Terra madre, 1860. Su questo merita soffermarsi per un attimo. Il cinema di Blasetti, infatti, non era certamente esente dalle categorie interpretative – teorizzate e contrapposte soprattutto dai giovani militanti di «Cinema» – di “realismo” e “formalismo”, tendenza, quest’ultima, nella quale era stato incluso lo stesso Blasetti nell’articolo polemico di Lizzani (1942).23 Non stupisce, perciò, che i recensori appartenenti alla corrente (neo)realista formatasi dentro «Cinema» accolgano favorevolmente Quattro passi fra le nuvole.

4 Critic’s Game: riposizionarsi nel dopoguerra

A conflitto finito, Blasetti ha all’attivo altri due film dopo Quattro passi fra le nuvole: Nessuno torna indietro – dramma con un cast all stars sulle vicende di sette studentesse – e Un giorno nella vita – dramma resistenziale sull’eccidio, per rappresaglia, di un gruppo di suore in un convento. Posizionatosi, nell’ottica del producer’s game, in linea con i toni dimessi e gli argomenti d’attualità cari alla sempre più emergente corrente neorealista, Blasetti deve rimodulare il suo critic’s game così da sussumere la sua produzione fino a quel momento nel segno delle questioni sociali e civili:

Ogni film dovrebbe nascere per esprimere o sottolineare un problema sociale, umano e quindi morale. Ogni film dovrebbe raccontare emotivamente un esempio, in cui gli spettatori possano riconoscersi e da cui possano trarre delle conseguenze. Io credo di essermi dedicato in questo senso al cinema (Turi 1946).

Interpellato da «L’Unità» per un’opinione in merito a una rassegna di film russi al Quirinetta di Roma, Blasetti ritiene che il cinema sovietico abbia il difetto de “L’inesorabile presenza del tema sociale [corsivo originale, n.d.r.]”, aggiungendo che: “perché fatta da me che da Sole a Un giorno nella vita ho sentito sempre il tema sociale come una necessità, l’osservazione può avere un certo valore” (Blasetti 1946).24 È già elemento d’interesse rilevare che la testata ospite dell’intervento di Blasetti è niente meno de «L’Unità», organo ufficiale del PCI.

Con Fabiola (1949) – kolossal religioso sul martirio dei cristiani di IV sec. – Blasetti torna a una produzione ad alto budget di ambientazione storica. A questo ulteriore riposizionamento produttivo consegue una leggera oscillazione nelle opinioni pubblicamente espresse da Blasetti. La continuità dei suoi film non è più ricercata nel tema “sociale”, ma piuttosto nell’interesse verso la “pace” e la “non-violenza”, aspetti che sono già rintracciabili in La corona di ferro. In un’intervista a Marcello Baldi:

L’uomo del cinema che non senta il bisogno, l’ansia addirittura, di esprimere il grande anelito di tutto il mondo verso la bontà e la pace […] è un uomo che artisticamente non conta. […]. Ma mi preme far rilevare come l’intento di ogni mio film, dalla Corona di ferro a Quattro passi fra le nuvole, da Un giorno nella vita a Fabiola, e cioè tutto l’ultimo decennio della mia attività, sia sempre stato orientato nel senso predetto (Baldi 1949).

Ritornato a un film d’ambientazione storica, Blasetti viene nuovamente interrogato sugli spazi dei periodici per esprimere un proprio parere sulla produzione in costume, spesso contrapposta a quella neorealista.

Il film neorealista presenta i problemi dell’oggi ponendo i suoi interrogativi sull’avvenire. Un film realista, in quanto riproducente storia risponde con l’esperienza degli uomini a questi interrogativi. Il problema della violenza e della intolleranza è il più grave fra quanti si propongano oggi alla soluzione degli uomini (Dom 1949).

Accanto alla riproposizione del “problema della violenza”, il regista non esclude che un film ambientato in un tempo lontano dall’attualità possa essere ugualmente realista (d’accordo con la critica che, a posteriori, ravvisa in 1860 elementi assimilabili al neorealismo [Pietrangeli 1944]). Sempre in una dialettica che mette a contrasto il film neorealista con quello in costume, Mario Verdone chiede a Blasetti:

V: Il film in costume è estraneo alla sensibilità del film detto neorealista o più semplicemente realista?

B: A mio parere, no. Anzitutto, il neorealismo non è un fatto di costumi, ma di “costume”; è una realtà di vita, umana e universale; è attualità, contemporaneità di temi, personaggi, atmosfere, situazioni. L’abito che si indossa non determina il dramma (Verdone 1952).25

Non è possibile qui continuare a proporre citazioni prese dalle numerosissime dichiarazioni e interviste di Blasetti che si susseguono nel dopoguerra, si rischierebbe di allargare troppo l’arco cronologico e di dover, conseguentemente, includere i successivi film diretti, complicando l’analisi con fattori estranei al focus.

5 Conclusioni

Il campo del potere, nella teoria di Bourdieu, è trasversale a tutti gli altri campi e ne informa le strutture gerarchiche (Hilgers and Mangez 2015: 27-29). Dunque, nel delicato e complesso passaggio tra il cinema di Regime e il neorealismo, nel contesto di crisi e vacanza di potere, Blasetti assume – volontariamente o casualmente, non è questo l’oggetto che qui ci interessa dibattere – una nuova postura produttiva, un riposizionamento nel campo che necessita di essere consolidato attraverso prese di posizione strategicamente determinate. La ristrutturazione del campo del potere nel dopoguerra determina nuove regole d’ingaggio nel campo cinematografico, una frattura ravvisabile nella produzione creativa e nelle conseguenti prese di posizione di Blasetti. Per spiegarlo con Altman: a uno slittamento del producer’s game, consegue uno sforzo da parte del critic’s game nel cercare di rintracciare nei film precedenti dei tratti comuni, e ricondurli così a un medesimo genere, o quanto meno a una medesima esigenza artistica, morale od etica. Perciò, nel ripercorrere parallelamente questi due games – di producer e di critic – sono emerse ora continuità, come si ravvedono tra la manifesta predilezione per i film in costume e le effettive regie degli ultimi anni ’30; ora punti di rottura, nel caso dell’avvio della fase (neo)realista con Quattro passi fra le nuvole; o, infine, oscillazioni, riscontrate soprattutto nel dopoguerra, quando si rafforzano le strutture ideologiche e culturali legate al neorealismo. Momenti distinti che testimoniano il passaggio da una fase di tenuta del potere fascista e quindi di equilibrio e affermazione della posizione di Blasetti, a una fase di rovesciamento nella quale lo scambio di risorse nel campo avviene secondo nuove regole, e Blasetti deve quindi rimodulare la sua strategia.

Bibliografia

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  1. Su Aldo De Benedetti sceneggiatore di Quattro passi fra le nuvole cfr. Bruni (2011: 151-163). Bruni fa notare che la lunga rimozione del nome di De Benedetti e la presenza di Cesare Zavattini tra gli autori del soggetto non è questione secondaria per il successo critico che avrà il film, “cardine della rinascita preneorealista” (nelle parole di Bruni), nel dopoguerra.↩︎

  2. Sulla Francesca da Rimini e la sua presenza nelle carte d’archivio si veda Zegna (2021).↩︎

  3. Sull’intera vicenda dell’inizio del cantiere di Quattro passi fra le nuvole Blasetti si è espresso più volte, cfr. Blasetti (1982 [1978]) citato in Blasetti (1982a: 103); ma anche Blasetti (1982b: 348-349).↩︎

  4. Retroscena insieme a La contessa di Parma (1937) viene definito in un’intervista “il più cretino dei film che ho fatto” (Gori 1984: 57).↩︎

  5. Gili specifica che i film storici o in costume non sono propriamente dei generi, piuttosto categorie ombrello sotto le quali vengono sussunti generi diversi. La sua analisi è ovviamente più complessa di quella che ho qui lo spazio per riassumere sulla questione del film storico o in costume. Per altri contributi sul tema cfr. Cardone (2010) e Grmek Germani (1979).↩︎

  6. La corona di ferro trae ispirazione da un elemento (la corona ferrea) di un passato alto-medievale, perciò è considerato film in costume, pur avendo un’ambientazione fantastica e di difficile definizione.↩︎

  7. “Stavo studiando in quel momento una Francesca da Rimini, che non volevo fare secondo lo schema dannunziano ma partendo dalla semplicità lirica di Dante. Però trovai degli ostacoli giganteschi nell'organizzazione della Cines, la quale non voleva saperne niente, pretendeva che mi attenessi alla Francesca di D'Annunzio” (Faldini and Fofi 2009 [1979]: 56).↩︎

  8. Da ora in avanti nel fare riferimento al fondo Alessandro Blasetti conservato presso la Biblioteca Renzo Renzi della Fondazione Cineteca di Bologna, userò l’acronimo ABCB.↩︎

  9. Su tutta la vicenda politica attorno alla produzione in costume si veda Venturini (2015: 194-197).↩︎

  10. Al 1937 risalgono alcune stesure della sceneggiatura presenti in ABCB.↩︎

  11. 14 milioni di lire il consuntivo, quando un prodotto medio ne prevedeva 3 milioni (Corsi 2012: 88).↩︎

  12. Da notare la connotazione degli stivali quasi fossero una divisa che distingue il regista dall’uomo (sugli stivali di Blasetti cfr. Andreazza [2016]).↩︎

  13. Il gioco consiste nell’accostare Alessandro Blasetti “il Filmèdone” ad Alessandro Magno “il Macedone”.↩︎

  14. Lettera da Luigi Chiarini ad Alessandro Blasetti, 28 novembre 1941, in ABCB, busta CRS 15, fasc. 482, sottofasc. 2. Non è chiaro se a questa data Blasetti sia ancora insegnante stabile del Centro. Per un elenco del corpo docenti e degli allievi nel corso della sua storia, si veda Baldi (2018). Sul ruolo di Blasetti come maestro del CSC si veda invece Baldi (2000).↩︎

  15. Il termine “postura” è mutuato da Bourdieu (2002: 133-134), ampliato e ridiscusso per un’applicazione in ambito cinematografico da Andreazza (2016: 23).↩︎

  16. Sull’attività giornalistica e redazionale di Blasetti si veda Mazzei (2000) e Albano (1975).↩︎

  17. Nelle parole di Andreazza: “Ora, la cultura fascista (incorporata dopo un’educazione militare) divenne parte dell’habitus di Blasetti, instillò in lui delle disposizioni ad agire, in primo luogo quel culto dell’azione come affermazione decisa della volontà comunemente riconosciuta a Mussolini.” (Andreazza 2015: 372); a cui vorrei aggiungere Grmek Germani: “Il progetto blasettiano tende in definitiva a sostituire un cinema di generi con un cinema di messa in scena, in cui questa diventi un valore primario: ‘Far spettacolo di se stesso’, della propria fantasia, del proprio vitalismo (anche al di fuori dei film, si pensi ai noti stivali) è in fondo il senso del cinema di Blasetti […].” (Grmek Germani 1979: 85-86); e in ultimo Prono: “il suo stesso vitalismo è bisogno di fare spettacolo, e i suoi film vogliono sostanzialmente comunicare questa carica vitale.” (Blasetti 1982a: 13).↩︎

  18. Citato in Andreazza (2015: 374).↩︎

  19. I film sono: I due misantropi (1937) di Amleto Palermi, Il dottor Antonio (1937) di Enrico Guazzoni, La regina della scala (1937) di Camillo Mastrocinque e Guido Salvini e I fratelli Castiglioni (1937) di Corrado D’Errico.↩︎

  20. Per esempio, il riferimento agli anticipi sulla produzione.↩︎

  21. Più precisamente, scompare il nome di Alessandro Blasetti ma non le sue opinioni, espresse ora sotto lo pseudonimo di Cesare Lani, che sappiamo trattarsi di Blasetti grazie a un foglietto autografo conservato nell’archivio, ABCB, busta RS 30, fasc. 526, 526_028 http://archivi.ibc.regione.emilia-romagna.it/ibc-cms/viewer.jsp?mediaToView=38&numDoc=184&arc=IBCAS00210 (ultimo accesso: 27-01-2023): Lani ([Blasetti] 1944a); Lani ([Blasetti] 1944b); Lani ([Blasetti] 1944c); ora sotto lo pseudonimo di Don Ipsilon, che Blasetti utilizzava già su «cinematografo» (cfr. Mazzei [2000: 27]): Don Ipsilon ([Blasetti] 1944a); Don Ipsilon ([Blasetti] 1944b). Infine, con il nome di Quattropassi, si dilettava anche in poesia romanesca: Quattropassi ([Blasetti] 1944).↩︎

  22. Quattro passi vince con sedici voti, al secondo posto con undici voti figura Alfa tau! (1942) di Francesco De Robertis, parimerito con La bella addormentata (1942) di Luigi Chiarini.↩︎

  23. Sul dibattito sul cinema italiano di questo periodo cfr. Rondolino (2010); nello specifico attorno al formalismo in «Cinema» cfr. Miccichè (1992).↩︎

  24. Può essere utile ricordare che a Blasetti è attribuita una certa autorità per quanto concerne la cinematografia russa, dal momento che si riteneva vi avesse tratto diretta ispirazione per il suo Sole, ma sappiamo, da sue stesse dichiarazioni, che non ebbe occasione di vederne personalmente un film fino a molti anni dopo. Cfr. Venturini (2015: 21-22).↩︎

  25. Citato in Blasetti (1982b: 219-222).↩︎