Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.23 (2023), 25–35
ISSN 2280-9481

Jean George Auriol (1907-1950), un mediatore critico tra Roma e Parigi

Enrico GhellerUniversity of Udine (Italy)

Enrico Gheller holds a Ph.D. in visual arts and musicology from the Université de Caen Normandie and the Università degli Studi di Padova. His research focuses on Italian cinema and reception studies and lies at the intersection of cultural studies, film history and film criticism studies. He is particularly interested in the international reception of Italian neorealism, of which he traces the influence in France between 1945 and the early 1960s. His most recent articles focus on the international spread of Anna Magnani’s icon (Journal of Italian Cinema and Media Studies, January 2022), on poorly studied facets of the reception of neo-realism in France (1895, February 2023) and on the role played by Italian expat intellectuals in the international circulation of neo-realism (Schermi, May 2023).

Laurent HussonUniversity Sorbonne Nouvelle (France)

Laurent Husson holds a Ph.D. in film and audiovisual studies from the Université Sorbonne Nouvelle (IRCAV). His thesis work, directed by Laurent Véray, focused on the emergence of film book collections in post-war France (1945-1954). His researches interests include the history of film criticism, the history of film studies in higher education, and the history of silent cinema. He has taught at the Université Sorbonne Nouvelle, the Université Paris 8 Vincennes-Saint-Denis and the Université Gustave-Eiffel. He is currently president of the association Kinétraces.

Ricevuto: 2023-01-31 – Pubblicato: 2023-07-20

Jean George Auriol (1907-1950), a Critic Mediator between Rome and Paris

Abstract

Based on unpublished sources found in French and Italian archives, this article focuses on the figure of Jean George Auriol (1907-1950), French screenwriter and one of the most important and celebrated film critics and magazine editors of his time. The primary goal of this research is to highlight Auriol’s efforts, before and after WWII, to establish links between the film communities in France and Italy. In the late 1930s, Auriol began collaborating with Italian producers and directors, an activity that ended prematurely with the beginning of hostilities. After the war, Auriol made use of his magazine, La Revue du Cinéma, to reinforce his dialogue with Italian film, and developed a unique and polemical point of view on the much-discussed topic of neorealism. In a later period, in order to prove the existence of a new generation of auteurs, and to underline the significant continuities between neorealism and previous cinema, Auriol helped to promote Italian films through the network of French ciné-clubs. In this context, he most notably celebrated the work of Alessandro Blasetti and Renato Castellani, who proved, according to Auriol, that neorealism in no way implied the erasure of creative authority.

Keyword: Jean George Auriol; Post-War; History of French Film Criticism; Neorealism; Transnational Mediation.

Il presente articolo è stato progettato e discusso congiuntamente dai due autori. In seguito, Laurent Husson ha materialmente redatto le parti 1 e 2, mentre Enrico Gheller ha scritto le parti 3 e 4. Le conclusioni sono frutto del lavoro di entrambi.

1 Per una riscoperta di Jean George Auriol

Nell’aprile del 1950, Bianco e Nero pubblica una nota dedicata al critico francese Jean George Auriol, appena scomparso all’età di 43 anni, definito come “una forza viva e operante” della quale si commemora il “vero aiuto disinteressato e spassionato, l’aiuto di uno spirito libero, sinceramente innamorato del cinematografo”. Con Auriol si onora, in particolare, un generoso promotore del cinema italiano, interessato ai “suoi problemi” e alle “sue possibilità” (Redazionale 1950a: 96). Nello stesso mese, anche Cinema pubblica un commosso ricordo di Auriol, di cui ha avuto modo di pubblicare gli “scritti intelligenti, saporiti, freschi e anticonformistici, spregiudicati e acuti” (Redazionale 1950b: 231). Tali articoli riecheggiano i numerosi omaggi che costellano, in Francia, la stampa generalista e le pubblicazioni specializzate: per esempio, Jean Queval nel Mercure de France ricorda Auriol nella veste di “sceneggiatore discontinuo […] più a suo agio nell’estetismo che nel documentarismo sociale” (Queval 1950: 725),1 mentre altri commentatori mettono l’accento sul suo ruolo di mediatore e di fine conoscitore del cinema italiano. Emblematica a tal proposito la conclusione del saggio Cinema dell’Arte di Nino Frank – opera sul cinema italiano edita nel 1951 –, in cui l’autore riconosce che Auriol “avrebbe scritto questo libro con più intelligenza e maggior contezza che il sottoscritto” (Frank 1951: 178). Tali celebrazioni preludono all’editoriale del primo numero dei Cahiers du Cinéma (aprile 1951), che un anno dopo la morte di Auriol eleggono il critico e la sua pubblicazione La Revue du Cinéma (LRdC) a stelle polari della nuova tribuna critica diretta da André Bazin, Jacques Doniol-Valcroze e Joseph-Marie Lo Duca.2 La redazione dei Cahiers si propone di “riprendere l’esempio paziente e inflessibile” del critico scomparso, per rendere servizio al cinema facendosi “testimone fedele dei suoi sforzi più alti e più valorosi, da qualsiasi parte essi provengano” (Redazionale 1951: 9).

Benché gli esempi forniti suggeriscano l’importanza della figura di Auriol, è a tutt'oggi possibile constatare la mancanza di un adeguato approfondimento storico relativo alla sua opera, una lacuna dovuta principalmente alla morte improvvisa del critico nonché alla disseminazione delle fonti che lo riguardano.3 Lo studio della stampa dell’epoca e di alcuni documenti d’archivio (per lo più inediti) ci consentono oggi di restituire ad Auriol la centralità che gli compete, permettendoci anche di attribuirgli la giusta rilevanza come agente di mediazione culturale internazionale. Auriol è in effetti una figura-cardine, il cui percorso intellettuale si iscrive in una fase di cambiamento generazionale e di ricollocamento ideologico ed estetico della critica francese, ma anche in una fase di consolidamento dei legami della Francia con il mondo cinematografico italiano.

Senza proporsi di stilare un resoconto esaustivo del suo percorso intellettuale e delle sue numerose relazioni professionali con l’Italia, il presente articolo intende concentrarsi sul particolare sguardo critico che Auriol rivolge al cinema italiano del dopoguerra. Nelle prime due parti si definiscono le radici di questo sguardo, basandosi soprattutto su alcuni documenti rinvenuti nel fondo Marcel L’Herbier (Bibliothèque nationale de France, Parigi) e negli archivi del Festival di Cannes (Cinémathèque française, Parigi), nonché su documenti privati come le corrispondenze con Nino Frank (BnF), Cesare Zavattini (Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia), Alessandro Blasetti (Biblioteca Renzo Renzi, Bologna), Guido Aristarco (Biblioteca Luigi Chiarini, Roma). Al fine di ricostruire gli spostamenti e le reti sociali del critico, un documento utile è stato rinvenuto presso la Cinémathèque française: si tratta di una lista dei film visti da Auriol tra il 1926 e il 1950, completa di dettagli riguardanti i contesti di visione (proiezioni commerciali o private). Nelle due parti successive dell’articolo, a partire dall’analisi di alcuni testi pubblicati su LRdC tra 1946 e 1949, si analizzerà nel dettaglio il lavoro di mediazione critica che Auriol svolge tra Italia e Francia, attività che si prolunga, più concretamente, nella promozione di film italiani su suolo francese. Si intende evidenziare come, basandosi su una conoscenza diretta dell’ambiente culturale italiano e su una rete sociale comprendente figure di primo piano del cinema della penisola, Auriol sviluppi e promuova un punto di vista eccentrico sul fenomeno neorealista, prendendo delle significative distanze dalle posizioni estetiche a lui contemporanee.

2 La formazione di uno sguardo francese sul cinema italiano: il percorso atipico di Jean George Auriol

Nel 1938, Jean George Auriol ha 31 anni e, assieme a Nino Frank, è giornalista e critico per la rivista francese Pour Vous. Forte della buona reputazione della defunta LRdC, egli dedica la maggior parte dei suoi scritti ai film hollywoodiani e si afferma come severo osservatore delle difficoltà e delle prospettive dell’industria cinematografica francese. Dal 1933, lavora anche come sceneggiatore in particolare per Marcel L’Herbier, con cui collabora a Terre de feu/Terra di fuoco, produzione della italiana Manenti Film girata a Roma tra il luglio e l’agosto del 1938 (in doppia versione francese e italiana). Il film esce il 9 febbraio 1939 in Italia e molto più tardi, il 2 ottobre 1942, in Francia, a causa, sembra, di un “litigio d’ordine artistico ed economico” che contrappone il regista L’Herbier al produttore Giulio Manenti (L’Herbier 1941). È in occasione di questa collaborazione che Auriol effettua il suo primo viaggio professionale in Italia (a Roma e Napoli), prendendo parte poco più tardi alla lavorazione del suo primo film italiano, un’altra produzione Manenti intitolata Napoli che non muore e diretta da Amleto Palermi4 nell’autunno 1938. Tra luglio e settembre dello stesso anno, Auriol effettua un nuovo soggiorno a Roma: in agosto (Auriol 1939b) collabora con Camillo Mastrocinque – definito “un molto fine e molto piacevole ex-parigino” (Auriol 1939a) – alla sceneggiatura di Validità giorni dieci, che esce in Italia nel marzo 1940. Nello stesso periodo, egli lavora anche all’adattamento di Angelica (uscito sugli schermi italiano col titolo Rosa di sangue) dello svizzero Jean Choux, parzialmente girato a Roma. Lo sviluppo dei suoi rapporti professionali con l’ambiente cinematografico italiano si interrompe tuttavia brutalmente con la guerra, quando Auriol è richiamato in Francia. Preso dallo sconforto, egli confida a Nino Frank i propri dubbi circa la possibilità di una carriera transnazionale: “Dal momento che bisogna ricominciare tutto… penso che una nuova collaborazione franco-italiana sia ancora prematura” (Auriol 1940). Nella Parigi occupata, la sua carriera di giornalista e sceneggiatore prosegue a ritmo ridotto, ma Auriol conserva il proprio interesse per il cinema italiano: tra i film visti tra 1942 e 1943 troviamo quelli di Alessandro Blasetti Un’avventura di Salvator Rosa (1939), La corona di ferro (1943) e La cena delle beffe (1942) (Auriol 1950a).

L’attività critica riprende a partire dall’agosto 1945, quando Auriol entra a far parte della redazione de L’Écran français, per il quale fino al luglio del 1947 si occupa soprattutto di film e star hollywoodiani. In questo periodo, egli si impegna anche nel rilancio de LRdC, ancora edita da Gallimard, il cui primo numero della seconda serie esce nell’ottobre del 1946. Dapprima mensile, la pubblicazione diviene trimestrale dalla primavera del 1947, per riprendere cadenza mensile nel gennaio dell’anno successivo e interrompersi dopo il numero 18 di ottobre 1948; un ultimo numero speciale, intitolato L’Art du costume dans le film, compare nell’autunno del 1949.

Nell’immediato dopoguerra, la dimensione transnazionale del lavoro di Auriol si esprime su livelli differenti e si traduce in una vera e propria azione diplomatica: solidi legami tra il critico e l’ambiente produttivo italiano si affermano in occasione della prima edizione del Festival di Cannes. Alla vigilia di tale evento, concepito proprio nell’ottica di un rilancio delle relazioni internazionali, Auriol scrive da Parigi all’addetta stampa del festival Eugénie Hélisse in merito alla partecipazione dell’Italia alla manifestazione. Facendosi portavoce di diverse personalità del cinema italiano, Auriol vuole placare sul nascere ogni polemica relativa alla concorrenza con la Mostra di Venezia affinché, scrive, “ogni nuova occasione di frizione sia evitata tra i nostri due paesi”. Inoltre, egli esorta gli organizzatori della kermesse francese a contattare la neonata ANICA affinché il contributo dell’associazione dei produttori sia tenuto in debito conto per la selezione dei film in gara (Auriol 1946a). Sulla Croisette, Auriol scopre Un giorno nella vita di Alessandro Blasetti (1946), Il bandito di Alberto Lattuada (1946), Amanti in fuga di Giacomo Gentilomo (1946) e Roma città aperta di Roberto Rossellini (1945). Da questo momento, in continuo spostamento tra Parigi e Roma, egli non smette di seguire le evoluzioni del cinema italiano, il più delle volte assistendo a proiezioni private e tessendo relazioni sempre più strette con critici, sceneggiatori e registi della penisola, tra i quali si annoverano lo stesso Blasetti, Francesco Pasinetti, Ugo Casiraghi, Guido Aristarco, Cesare Zavattini, Mario Verdone, Piero Tellini e Indro Montanelli.5

Nel marzo 1947 Auriol soggiorna per alcune settimane a Viareggio, dove collabora con Montanelli, Tellini e Glauco Pellegrini alla scrittura di Tombolo, paradiso nero di Giorgio Ferroni (Auriol 1947b), già responsabile della versione italiana di Terra di fuoco; tale soggiorno si conclude a Roma, dove Auriol resta per circa un mese. Egli soggiorna più a lungo in Italia dal gennaio all’estate del 1948, iniziando una collaborazione con la Universalia di Salvo D’Angelo: in questa fase, Auriol collabora all’ambizioso Fabiola di Blasetti, ufficialmente incaricato dell’adattamento linguistico per la versione francese. Egli figura tra i numerosi sceneggiatori del film, ma lavora anche sul set in qualità di interprete per gli attori francesi.6 Nel luglio dello stesso anno, Auriol è inviato con Aldo Vergano sulle pendici del Vesuvio per immaginare scene spettacolari per Gli ultimi giorni di Pompei di Marcel L’Herbier (Auriol e Vergano 1948) e nello stesso momento Bianco e Nero pubblica per la prima volta un suo contributo, Aspetti del cinema francese contemporaneo, tradotto da Michelangelo Antonioni.7 Ad inizio settembre 1948, Auriol è presente alla Mostra di Venezia e di ritorno a Parigi coordina il doppiaggio francese di Fabiola, che esce nelle sale della capitale francese il 3 giugno del 1949. Nello stesso periodo, egli intensifica la propria attività di animatore di cineclub, impegnandosi in particolare a diffondere alcuni film italiani degni di attenzione ma sottostimati dalla critica. Nell’agosto 1949 lo troviamo ancora a Venezia, per la decima edizione della Mostra, e in settembre a Perugia con Georges Sadoul e il regista Jean Lods, per intervenire polemicamente al convegno “Il cinema e l’uomo moderno”. In seguito, fino al gennaio 1950 collabora al cortometraggio documentario L’Année sainte à Rome di Michel Ferry e all’adattamento di È più facile per un cammello… (1950) di Luigi Zampa. Purtroppo questo fecondo percorso si interrompe brutalmente il 2 aprile 1950, a causa di un incidente automobilistico; secondo la rivista professionale Le Film français, che incontra Auriol per l’ultima volta il 16 marzo 1950, “i suoi progetti erano numerosi e egli pensava di ripartire presto per l’Italia” ([Autré] 1950: 8).

3 Una critica eterodossa del cinema italiano del dopoguerra

L’opera di mediazione critica transnazionale portata avanti da Jean George Auriol si sviluppa principalmente sulle pagine de LRdC, che nel dopoguerra si dedica con passione al cinema italiano pubblicando critiche, soggetti, contributi teorici, nonché un numero speciale (maggio 1948) interamente dedicato al neorealismo, alle sue origini e alle sue evoluzioni. Tale attività di raccordo e scambio si basa sulla diretta conoscenza dell’ambiente cinematografico italiano e sulla convinzione che “in Europa, se non nel mondo, è a Roma che il cinema ha la sua testa” (Auriol 1948d: 54). L’autorevolezza de LRdC su tale argomento si fonda peraltro su una rete di collaborazioni che coinvolge figure di rilievo del mondo culturale italiano, chiamate a contribuire alla definizione di un’idea del tutto peculiare del cinema della penisola. Nel contesto irrequieto della guerra fredda, la postura critica di Auriol si distingue per un distacco quasi elitista e per l’aderenza ad un paradigma estetico che mira a legittimare il cinema nel contesto delle arti, nobilitando la figura del cineasta ed equiparandola a quella del pittore e dell’uomo di lettere. Rifiutando di accettare una separazione manichea tra “documentarismo” e “poesia”, Auriol sostiene che la novità del neorealismo consiste proprio nel raggiungere un delicato compromesso tra oggettività ed espressione, tra la crudezza del reale e l’elaborazione di una visione personale. Egli si differenzia nel panorama critico francese per una serie di caratteristiche che possiamo riassumere in tre aspetti correlati tra loro: la strenua ricerca del compromesso tra differenti posizioni teoriche, la messa in discussione della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, la spiccata attenzione per gli elementi di mise en scène a scapito di ogni velleità realista. Come vedremo, questi tre tratti essenziali hanno modo di emergere particolarmente in relazione al cinema italiano, che tra 1946 e 1950 suscita un particolare interesse in Francia, connotandosi però anche per alcune profonde contraddizioni.

In particolare, va notato il suo rifiuto di prendere parte al cosiddetto débat sur le réalisme. In questo senso, la sua collocazione appare distante sia dalle posizioni contenutiste di Georges Sadoul, per il quale il neorealismo non sarebbe che la concretizzazione cinematografica dell’esperienza resistenziale, sia dallo spiritualismo di André Bazin e Amédée Ayfre, che leggono il neorealismo filtrandolo attraverso l’ottica della fenomenologia.8 Animato da autentica cinefilia e servendosi di una prosa fortemente evocativa, Auriol promuove un compromesso tra le due posizioni ma soprattutto sostiene una lettura del neorealismo libera da convenzioni dottrinarie. Così, occupandosi di un autore-simbolo del campo comunista come Giuseppe De Santis, egli si sente subito in dovere di prendere le dovute precauzioni: “I nostri lettori sanno che siamo distanti dalle contingenze dell’attualità e dalle dispute tra varie personalità e solamente interessati all’arte e al mestiere del cinema considerato come un linguaggio in formazione” (Auriol 1948a: 54).

Per quanto riguarda la conciliazione promossa da Auriol tra riflessione teorica e attività pratica, numerosi sono gli interventi critici tesi a “provare al produttore e al regista di film che l’arte non si separa dal mestiere” e a “impedire all’artista che ‘vede’ di allontanarsi dal tecnico che ‘esegue’” (Auriol e Tual 1946: 5). Ispirandosi all’idea di caméra-stylo teorizzata da Alexandre Astruc (Astruc 1948: 5), Auriol preconizza la nascita di un autore di film capace di padroneggiare i vari aspetti del fare cinema, dalla scrittura alla messa in immagine fino al montaggio, sottomettendo tali discipline a un accurato controllo della drammaturgia.9 L’insorgenza di questa nuova generazione di cineasti, che Auriol preannuncia con toni quasi messianici, sarebbe ravvisabile a Hollywood, in Francia e in Italia:

[…] tutto deve tendere ad eliminare dalla nostra arte la pura e semplice imitazione della natura. Il cineasta deve proiettare sullo schermo la sua visione, egli deve vedere per gli altri, far vedere. E tanto meglio (per il suo produttore) se avrà la forza di fare la sintesi di ciò che vogliono (o sanno) vedere le masse (Auriol 1948e: 3).

Dati questi presupposti, Auriol rileva come la capacità di coniugare razionalità e istinto sia uno dei caratteri principali dei migliori registi italiani e l’espressione di un vero e proprio spirito di popolo, che si manifesta nelle arti più nobili come nell’artigianato popolare. Attenendosi a quest’ottica, egli confuta l’esistenza della nouvelle école italienne tanto celebrata da numerosi colleghi francesi, sostenendo piuttosto un paradigma autoriale che rispecchierebbe “la ricchezza di un tesoro ereditato da generazioni secolari di un popolo di drammaturghi in potenza, di narratori e di poeti nati” (Auriol 1948d: 62). Ad esempio, nell’articolo già citato su De Santis, Auriol rimprovera all’autore di Caccia tragica (1947) l’adozione di uno stile appesantito da influenze estranee, augurandogli di sviluppare al più presto un linguaggio più autentico : “Più documentarista e fabbricante di un piccante pittoresco che direttore di attori e narratore, questo tecnico stravagante […] deve ora acquisire una visione del mondo e una sensibilità personali […]” (Auriol 1948a: 56).

Strettamente connesso con l’aspetto appena trattato, il terzo tratto di peculiarità del profilo critico di Auriol corrisponde alla valorizzazione degli elementi di messinscena nel neorealismo e al rifiuto di una banale quanto ingenua interpretazione in chiave naturalistica o documentaristica.

Stanchi di naturalismo e appesantiti dalla logica, saremmo pieni di curiosità o almeno di cordiale indulgenza per un lirismo che, qui in Francia, si gonfia evidentemente troppo in fretta d’aria impura e si sovraccarica di ornamenti di un pittoresco facilmente convenzionale e volgare o, al contrario, di una preziosità esorbitante (Auriol 1948d: 55-56).

Già all’indomani del primo Festival di Cannes, Auriol parla di Roma città aperta nei termini di una “produzione strutturata molto solidamente, di voluta violenza, arricchita da dialoghi autentici quanto gustosi, che trae profitto da una probabile intesa perfetta tra regista, operatore e interpreti” (Auriol 1946b: 67). L’analisi del Rossellini dell’immediato dopoguerra si rivela, per Auriol, fondamentale su un piano teorico in quanto lascia intravedere l’incarnazione di un nuovo esempio d’autore completo, che non si lascia soverchiare da un realismo a tutti i costi poiché “il ‘dal vivo’ deve essere ricostituito, composto, realizzato, messo in scena, ed è l'artista che rimane protagonista e vince, se ne ha la forza, l'abilità, il talento o il genio” (Auriol 1946c: 49).

Di certo, la realtà appare raramente meno “manomessa”, artificiosa e camuffata che in Paisà. Ma quando Rossellini mette in scena due inglesi in maniera tale che questi due personaggi inglesissimi concentrano semplicemente nel loro aspetto, nel loro comportamento e nelle loro rare parole l’attitudine stessa della loro intera nazione di fronte alla guerra, ciò prova che egli è capace di ricomporre dei personaggi dopo averli selezionati e di modellare la realtà per darle quell’apparenza che è il compimento del suo progetto (Auriol 1947a: 14).

Tuttavia, col passare dei mesi, la conoscenza dell’ambiente produttivo italiano e la volontà di promuovere una lettura “formalista” del neorealismo spingono Auriol a relativizzare l’importanza della figura di Rossellini, che sarebbe “stato innalzato abbastanza da poterlo far scendere, senza disonorarlo, dalla sua terrazza d’onore a un livello inferiore, dove la sua testa non sia più persa tra le nuvole ma familiarmente offerta al fuoco di una torcia elettrica” (Auriol 1948g: 64).10 Il desiderio di riformulare le gerarchie di gusto relative al cinema italiano spinge Auriol a rifiutare la dicotomia tra film colto e film popolare e ad interessarsi ad una serie di film ed autori ritenuti meno aderenti al dettato neorealista.11 Tra questi possiamo citare Luigi Zampa e i suoi Vivere in pace (1947) e L’onorevole Angelina (1947), capaci di compendiare senza contraddizioni la durezza della cronaca coi toni della commedia strapaesana, tenendosi prudentemente alla larga dagli eccessi: se nel primo Auriol elogia il rifiuto dei luoghi comuni (“niente traditori melodrammatici né figure ritagliate dai quotidiani della sera in questa storia depurata da ogni partito preso […]” (Auriol 1947c: 67)), del secondo film apprezza “l’indipendenza di spirito e la leggerezza del tono, la fluidità dei dialoghi sempre gustosi e infine la presenza, l’autorevolezza e la verve di Anna Magnani [che] salvano L’onorevole Angelina dalla banalità di un reportage romanzato” (Auriol 1948a: 58). Proprio in opposizione ai timori che certo cinema italiano dimostrerebbe nei confronti della mise en scène, Auriol colloca Luchino Visconti alla testa dei propri cineasti di riferimento, presentando Ossessione (1944) ben prima che il film circoli sugli schermi francesi12 e celebrando il regista milanese come “pittore della realtà, ricercatore di fatti veri, collezionista di note giuste [che] trasfigura tutto quello che tocca: attori, case, oggetti, luce, polvere, che diventano elementi simbolici del suo personale lirismo” (Auriol 1948b: 67). Quanto a La terra trema, che Auriol vede alla Mostra di Venezia, il film rappresenta la punta più avanzata del cinema d’autore da lui teorizzato ed eleva “l’arte e il mestiere del cinema più alti che qualsiasi poeta esploratore armato di cinepresa e, in nessun caso, non si potrà dire che egli abbia fatto un documentario o un documentario romanzato” (Auriol 1948d: 64).

La preferenza accordata a Visconti si accompagna alla progressiva presa di coscienza di un necessario ritorno ad una stabilità produttiva supportata da adeguate strutture industriali, in quanto gli italiani “non possono continuare a vivere di fortuna e ad approfittare della moda, a contare solo su alcuni colpi di genio e, in definitiva, sull’ingegno, sul coraggio e sulle acrobazie dei loro artisti e artigiani” (Auriol 1948d: 57). Pur apprezzando l’abilità tipicamente italiana nel mescolare “naturale”13 e lirismo, Auriol mette in guardia dai rischi connessi al lasciar prevalere una delle due tendenze: da un lato “una tale libertà, generosità e semplicità possono condurre all’esuberanza, e poi all’enfasi e al ridicolo, tra le mani di individui maldestri o di approfittatori della pubblica sensibilità […]” (Auriol 1948d: 63), mentre dall’altro il metodo rosselliniano può far cadere “nel giornalismo cinematografico e nella demagogia artistica” (Auriol 1948d: 64).14 Come affermerà sulle colonne di Cinema in un articolo postumo, “il cinema che non suggerisce altro che l’immagine descrittiva non è che ordinario giornalismo” (Auriol 1950d: 232).

4 Difendere e diffondere un altro neorealismo

La travagliata esistenza e l’epilogo de LRdC, che non soddisfa le aspettative commerciali di Gallimard,15 spingono Auriol a proseguire il suo lavoro di mediazione franco-italiana nel campo della distribuzione e dell’animazione culturale. Tali attività si iscrivono coerentemente nella politica già perseguita dalla rivista in termini di cinema italiano, che aveva il preciso scopo di scongiurare l’inaridimento dello stile e dei soggetti: “Dallo spaccato di vita tornato di moda a Roma, rischiamo l’assalto di dispositivi che sezionano la vita; su uno schermo, ovviamente, trasformato in pozzanghera per riflettere solo rovina, vizio e crudeltà” (Auriol 1948h: 65). Consapevole dell’insufficienza di un lavoro teorico, il critico decide di spendersi nell’adattamento di film italiani per il mercato francese,16 organizzando proiezioni di opere capaci, a suo avviso, di diffondere un modello di realismo senza deludere le aspettative del grande pubblico.

Con lo spirito di contraddizione che lo contraddistingue, Auriol contribuisce in particolare alla circolazione del cinema di Alessandro Blasetti, che negli anni successivi al conflitto è guardato con sospetto da molta critica francese.17 Le sue numerose lettere al regista, conservate alla Biblioteca Renzi della Fondazione Cineteca di Bologna, provano che il suo lavoro di adattamento linguistico di Fabiola non si limita a una mera opera di traduzione, ma si configura come una vera e propria rielaborazione : Auriol propone modifiche ai personaggi, seleziona personalmente i doppiatori adeguati e apporta persino modifiche al montaggio al fine di facilitare la ricezione del film da parte del pubblico francese. Si tratta, a suo avviso, di agevolare “la comprensione della storia da parte di uno spettatore particolarmente impregnato di logica e propenso alla discussione in Francia” (Auriol 1949a). Dopo quest’opera di adeguamento culturale, la missione di Auriol prosegue con un lavoro di mediazione critica sul campo : in occasione della presentazione di Fabiola alla stampa, Auriol interviene personalmente per “illuminare un po’ i critici a comprendere lo spirito” (Auriol 1949b) con cui l’opera è stata realizzata. Proprio per evidenziare la sostanziale coerenza del percorso blasettiano, oltreché per mettere in luce le vere radici del neorealismo, poco dopo l’uscita di Fabiola Auriol organizza (assieme a Lo Duca) la proiezione parigina di 1860 (1933), che ha luogo a fine giugno 1949 presso il Musée de l’Homme. Scrive Auriol a Blasetti:

Carissimo amico, la presentazione di 1860 ha dunque avuto luogo, ieri, in presenza di un pubblico di prima scelta. Siccome c’erano circa trenta giornalisti tra il pubblico, ho loro imposto – a guisa di introduzione – una specie di apologia di Blasetti […]. Non ho potuto evitare di evocare ricordi personali e di ironizzare sulla loro paura di sbagliarsi su Fabiola, film “inquietante” perché difficile da classificare in una categoria […] (Auriol 1949c).

All’interno del variegato panorama italiano, il cinema di Blasetti spicca come efficace compromesso tra industria e arte: se il regista non teme di fare ricorso a modelli di genere, il risultato finale è comunque profondamente personale ed è soprattutto espressione sincera di un’istanza autoriale. Proprio per questo, per Auriol, 1860 anticipa il cinema del dopoguerra, in quanto esso racconta la grande storia con una resa minuziosa dei dettagli, amalgamando il racconto diretto della realtà con una composizione articolata delle inquadrature.

Estraneo alle polemiche italiane riguardanti le evoluzioni del neorealismo, Auriol sceglie di promuovere quei cineasti italiani che fanno della contaminazione tra tradizione e innovazione il loro punto di forza. In una lettera a Frank del 18 gennaio 1950, egli racconta di aver

fatto acquistare da Francia e Inghilterra, e persino in America (da [William] Sassoon) il nuovo film di [Renato] Castellani: È Primavera, che è un successo raro, un rinnovamento del neorealismo in cui, finalmente, il regista esprime la propria anima raccontando con la cinepresa una storia ricca di osservazione, di fatti ma anche di invenzioni (Auriol 1950b).

Auriol presenta il film a Parigi nel corso di una serata di gala, in presenza dello stesso Castellani e dell’ambasciatore Quaroni, celebrando anche sulla stampa specializzata italiana questa “commedia dove il preteso fatto di cronaca è divenuto ricca materia romanzesca” (Auriol 1950d: 232). Vero e proprio “romanziere dello schermo”, Renato Castellani conferma le idee di Auriol riguardanti la figura dell’autore di cinema, per il quale “il neorealismo non è un fine, né una formula magica, ma un mezzo pratico per tradurre il proprio pensiero” (Auriol 1950c: 30). Saranno gli ultimi contributi del critico alla diffusione di un’idea di cinema capace di sostenere le istanze della modernità senza recidere i legami con la tradizione.

5 Conclusioni

Al termine di questa disamina, la figura di Jean George Auriol appare caratterizzata da una serie di elementi che lo definiscono come fautore del dialogo tra posizioni differenti, in dinamiche di scambio che si articolano a livello geografico, generazionale, estetico e critico. In una lettera del 17 gennaio 1952 indirizzata a Cesare Zavattini, André Bazin scrive che “il povero Jean George Auriol non si sbagliava: la felicità è vivere tra Parigi e Roma” (Bazin 1952). In effetti, come abbiamo notato, tutta la sua carriera è improntata alla ricerca di una transnazionalità che nell’Europa lacerata del dopoguerra appare quanto mai necessaria. In questo periodo, le relazioni diplomatiche tra Francia e Italia si giocano spesso sul campo cinematografico e vedono Auriol impegnato in prima fila nella costruzione di legami duraturi che preludono allo sviluppo di una florida stagione di coproduzioni.

Tessitore di relazioni transnazionali, Auriol si impegna anche in un fruttuoso dialogo con le nuove generazioni critiche, al punto che sui Cahiers du Cinéma è definito come “trait d’union vivente tra due generazioni intellettuali” (Redazionale 1952: 5). Sulla ricezione del cinema italiano e di alcuni suoi autori, Auriol costruisce un paradigma che sottostima l’idea di “cinema nazionale” per privilegiare una visione autoriale. Tale posizione, consapevolmente provocatoria, avrà particolare risonanza negli anni Cinquanta al momento dell’insorgenza della nuova generazione critica rappresentata da Doniol-Valcroze, François Truffaut e Éric Rohmer. Fedele a una posizione critica che gli permette di conciliare la riflessione estetica con la dimensione pragmatica dello spettacolo cinematografico, Auriol sostiene la necessità di abbattere le troppe frontiere che ancora ostacolano la critica del suo tempo. Il cinema italiano è per lui l’esempio perfetto di una produzione sospesa tra passato e futuro, dalla quale ripartire per offrire al cinema mondiale un nuovo modello virtuoso, rispettoso delle ragioni della critica come dei gusti del pubblico.

Bibliografia

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  1. Tutte le traduzioni dal francese sono opera di Enrico Gheller. Si ringrazia Noah Teichner per la consulenza.↩︎

  2. Fondata nel 1928, LRdC è inizialmente edita dalla Libreria José Corti ed è, a partire dal quarto numero, pubblicata mensilmente da Gallimard. Interrotta una prima volta nel 1931 e ripresa nel 1946, LRdC si distingue nel panorama pubblicistico francese per un approccio prettamente intellettuale e meno legato alle logiche commerciali, rivolgendosi ad un pubblico interessato al cinema come fatto artistico. Essa rappresenta, secondo il suo vice-caporedattore Doniol-Valcroze, un modello: “Dal 1928, Auriol aveva concepito una struttura – un grande articolo, diversi studi, la critica dei film e vari appunti – oltre a uno stile di impaginazione e illustrazione che furono imitati da tutte le riviste successive” (Doniol-Valcroze 1979: LXXXV).↩︎

  3. A eccezione di rare note biografiche apparse nell'ambito di opere enciclopediche, solo due pubblicazioni riguardanti nello specifico Jean George Auriol rimangono a tutt'oggi autorevoli, nonostante alcune lacune e l'assenza di un'analisi approfondita della sua opera: si tratta di una serie di testimonianze di ex collaboratori de LRdC raccolte da Alain e Odette Virmaux e incluse nella ristampa in fac-simile della rivista (Virmaux 1979) e di un articolo di Lucien Logette (Logette 2011).↩︎

  4. Attorno al mese d’agosto 1938, probabilmente dopo la realizzazione di Terra di fuoco, Auriol vede due film di Palermi a Roma, in proiezione privata: Napoli d’altri tempi (1937) e Partire (1938) (Auriol 1950a).↩︎

  5. Sui rapporto Montanelli-Auriol, si rimanda a Sertorio e Vignati 2014 e Vignati 2019.↩︎

  6. Va ricordato che, pur non essendo ufficialmente un film di coproduzione, Fabiola è il film che inaugura, nel dopoguerra, una feconda epoca di collaborazioni cinematografiche tra Francia e Italia.↩︎

  7. L’attività di mediazione critica portata avanti da Auriol si articola anche in diversi contributi che egli pubblica sulle riviste italiane Omnibus, Tutto, Cinema, La Fiera letteraria, Film rivista, La Critica cinematografica, Sequenze, Rivista del cinematografo. Egli contribuisce peraltro a pubblicazioni collettanee come Il film del dopoguerra 1945-1949 (1949) e La moda e il costume nel film (1950), entrambe edite da Bianco e Nero in collaborazione con la Mostra del Cinema.↩︎

  8. Non è casuale, ci sembra, il fatto che Auriol partecipi al convegno di Perugia nel settembre 1949 e che il suo intervento non sia incluso tra le relazioni pubblicate, ma riassunto e confutato in apertura dalla penna sarcastica di Umberto Barbaro, che bolla le tesi del francese come sostanzialmente “sbagliate”. (Barbaro 1950: 20-23). Quanto a Bazin, i punti di contatto con la visione di Auriol sono molti. Tuttavia, se il primo valorizza il cinema neorealista in virtù del suo valore essenzialmente “umanista”, lo sguardo di Auriol appare meno teorico e più pragmatico, coniugando la valutazione estetica con una riflessione sulle logiche produttive del cinema italiano.↩︎

  9. Nell’Auriol dei tardi anni ’40, tale visione dell’autore di cinema come demiurgo è centrale e lascia presagire idee che si imporranno nel decennio successivo. Auriol, peraltro, anticipa l’attitudine dei jeunes turcs dei Cahiers du Cinéma esortando le nuove leve critiche a intraprendere senza indugi la strada della regia. A tal proposito, si veda anche la seconda parte del “Diario romano” che Auriol pubblica su La Critica cinematografica di aprile-maggio 1948: “Eppure non si potrà rinunciare al fanatismo creativo dell’artista onnipotente, eredità prometea dell’umanità, che ritornando, lontano dalla realtà, nel movimento armonioso della natura, per sottomettervisi con serenità” (Auriol 1948f: 11).↩︎

  10. In una lettera a Nino Frank del 5 febbraio 1948, Auriol condanna Germania anno zero, film “incompiuto e, di fatto, impossibile da portare a termine”, “improvvisato, mal fatto”, e tuttavia “sorprendente” (Auriol 1948c).↩︎

  11. La volontà di relativizzare l’effettiva novità del cinema italiano del dopoguerra porta Auriol a moltiplicare gli sforzi per far riscoprire il passato di una produzione che sarebbe “in piena rinascita dal 1934 circa” (Auriol 1947a: 13). Inoltre, egli tiene a mettere in luce i debiti del neorealismo nei confronti del cinema francese degli anni ’30 e del primo cinema espressionista tedesco.↩︎

  12. Auriol ha modo di vedere il film a Roma, nella primavera del 1947 (Auriol 1950a). Dopo un fugace passaggio al Festival du Film Maudit di Biarritz (luglio-agosto 1949), Ossessione sarà distribuito in Francia soltanto nel 1960 (Gili 2014).↩︎

  13. Auriol diffida del termine “realismo”, che per lui non è altro che “la degenerazione dell’arte ridotta alla riproduzione pura e semplice della natura” (Auriol 1948d: 63).↩︎

  14. Prima di noi, Antonio Costa ha notato che “Auriol rimprovera a Rossellini una sorta di mancanza di metodo e di coerenza stilistica” (Costa 1996: 417).↩︎

  15. Nel difficile contesto editoriale francese del dopoguerra, la rivista si rivela troppo costosa, mentre il sostegno della case editrice viene a mancare. Si ventila il progetto di una uscita a cadenza trimestriale, ma esso non vede la luce. Nella sua corrispondenza con Guido Aristarco, Auriol si lamenta dei suoi rapporti con Gallimard e si propone di rilanciare ancora una volta la rivista in una edizione bilingue (Auriol 1949d).↩︎

  16. Dopo il lavoro su Fabiola (1947-1949), Auriol supervisiona alla fine del 1949 la versione francese di Cielo sulla palude di Augusto Genina, film pluripremiato alla 10e Mostra di Venezia, così come quella di È primavera di Renato Castellani.↩︎

  17. Agli occhi di molti, Blasetti incarna le contraddizioni del cinema italiano: se Quattro passi tra le nuvole e Un giorno nella vita sono generalmente apprezzati, La corona di ferro e Fabiola sono condannati per la loro insostenibile magniloquenza (per esempio, si vedano Néry 1947 e Sadoul 1947).↩︎