Confrontarsi con delle pietre miliari della storia dell’audiovisivo globale è un’operazione inevitabilmente complicata, tanto più se l’oggetto delle proprie riflessioni ha finito per segnare un’epoca, guadagnandosi come nel caso di Twin Peaks la fama di serie “culto”. Eletta dalla pubblicistica (e non solo) a spartiacque tra due ere televisive, celebrata per il distacco stilistico con opere variamente assimilabili, acclamata all’unanimità dalla critica: pur senza sconfinare dall’ambito accademico, provare a scandagliare la creatura di David Lynch, regista tra i più apprezzati della sua generazione, si presta per sua natura al rischio di equivoci e fraintendimenti. Pericolo che, insieme a quello di scadere nell’ovvio, o nel già detto, gli autori di Black Lodge. Fenomenologia di Twin Peaks hanno abilmente scampato. Pubblicato nel 2021 tra i “Binge Watchers” di Avanguardia 21 Edizioni, il volume, curato da Mario Tirino e Adolfo Fattori, muove dall’assunto che Twin Peaks, da molti considerato come uno dei prodotti più innovativi di sempre, abbia inesorabilmente cambiato il volto della tv statunitense, imponendosi come un lampo nella programmazione del tempo.
Dove eravamo rimasti?, verrebbe da chiedersi. In effetti, l’occasione per la redazione del saggio è offerta dalla distribuzione, nel 2017, della terza serie del titolo, ventisette anni dopo la prima stagione, in un panorama mediale profondamente mutato. Black Lodge contribuisce a far luce anche su questo passaggio, indagandone le strategie industriali e testuali, a partire dalla committenza dell’emittente via cavo Showtime, che così completa e conclude (?) il ciclo di vita di un’opera originariamente concepita in accordo con ABC, ancora autonomo da Disney. Un dato, questo, di per sé già piuttosto significativo, se si pensa alla straordinarietà di una serie consegnata al trionfo dalla televisione lineare e poi inevitabilmente diventata appannaggio di una certa nicchia di pubblico (in Italia l’ultimo capitolo è stato proposto da Sky Atlantic).
Il testo si muove attorno a più nuclei concettuali, dando vita a una struttura polifonica particolarmente adatta per mettere in luce le innumerevoli stratificazioni - tematiche quanto produttive - di un viaggio metafisico fra i segreti del male, fuso e confuso con il bene, in un gioco allucinato che annulla il tradizionale binomio buoni-cattivi. L’analisi non poteva che partire dal locus della messinscena, un universo parallelo che, nell’architettura di Lynch e Frost, trascende la città delle cime gemelle per toccare atmosfere surreali e sovrannaturali, pervase da occultismo, gnosi, folklore e paranormale. È la quintessenza del post-moderno, suggeriscono gli autori, che in questo cortocircuito spazio-temporale finisce per interessare anche le geografie fruitive del pubblico, tra eterotopie e superamenti di limen (Fattori; Napolitano; Tirino e Cicinelli). Lo studio passa poi in rassegna gli aspetti estetico-visuali dell’opera, nel gorgo di una spirale in cui niente è quel che sembra, che disorienta personaggi e spettatori anche a causa di decine di sotto-trame collaterali (Corigliano; Teti e Tirino; Vannini). Altri contributi (Pintor Iranzo, Ribaldo) approfondiscono uno dei topoi tradizionalmente associati alla poetica lynchiana, che più da vicino riguarda le audience. Ingaggio, reclutamento e sfruttamento dei fan: si comprende qui come il “sistema Twin Peaks” abbia fin dal principio previsto il ruolo collaborativo del pubblico, chiamato non solo a decifrare il paradigma di realtà in cui agiscono i protagonisti, ma pure a plasmare e sostenere nuove modalità di fruizione, accuratamente tracciate dalle studiose e dagli studiosi coinvolti. Attenzione, poi, allo stravolgimento del sistema dei generi di cui la serie si è fatta portatrice, in un riuscito mélange di horror, thriller psicologico, detective story, giallo deduttivo, fantascienza e soap opera (almeno in forma parodica). Come viene notato in due dei saggi che compongono la collettanea (Del Pozzo; Iannuzzi), la cifra di Twin Peaks è da rinvenire nella sua natura di “meta-fiction”, che costantemente rivela e mette in scena i propri meccanismi narrativi, originando al contempo un folto universo citazionista e inter-testuale che procede per accumulo. Cantone si concentra invece sul portato emozionale della serie, fatto di epifanie, inquietudini e tormenti, che tanto hanno condizionato altri media e narrazioni (tra gli epigoni più recenti, si pensi alle atmosfere di Wayward Pines, 2015). Sensazioni, allusioni e richiami, spesso ermetici, diventano in questo senso cruciali nella produzione di immaginari dal forte impatto culturale, concorrendo altresì a coagulare il discorso pubblico, come testimonia l’ampio apparato bibliografico conclusivo. Filo rosso del volume sono le riflessioni sulla “funzionalizzazione dell’autorialità” alla base del successo della serie, che può contare sul prestigio accumulato non solo dai creatori dell’opera (dotati di un’ovvia “patente di artisticità” nel percepito di pubblico e intermediari), ma anche dalle molteplici professionalità via via incluse nella sua realizzazione, in uno schema di paternità “multipla e convergente”. Senza il timore di affacciarsi oltre i propri steccati disciplinari, il lavoro si chiude con una lettura psicanalitica dell’oggetto preso in esame, tra visionarietà onirica, dissociazioni lisergiche, fantasmi notturni e stati variabili di coscienza (Ficca).
Tra i valori aggiunti del testo, da segnalare in primis il suo sguardo multidisciplinare, che si muove senza frizioni tra sociologia, storia dei media, filosofia ed estetica, integrando prospettive apparentemente distanti. Merito di Tirino e Fattori è poi quello di aver posizionato Twin Peaks in una fase, l’inizio degli anni Novanta, in cui il comparto audiovisivo internazionale era intento a sperimentare nuove modalità di produzione, racconto e distribuzione della serialità, dando il via a quell’accorciamento delle distanze estetiche tra cinema e piccolo schermo tuttora in essere. Il tutto senza trascurare la resistenza, mai del tutto risolta, di certe correnti culturali nei confronti del medium tv, tanto che tra le pagine di Black Lodge si può leggere della sfida lanciata da Lynch e Frost ai vertici di ABC, nel compiacimento di giocare con e dalla stanza dei bottoni dell’industria mediale del proprio tempo. Il saggio sistematizza così le ragioni, non limitate a fattori estetici o testuali, che fanno di Twin Peaks un pioniere della cosiddetta “quality tv” - in tutte le sue possibili declinazioni (prestige, complex, post-network…) - anticipando molte delle dinamiche tipiche dell’agone seriale contemporaneo, sovrabbondante e sempre più frammentario. Altro spunto particolarmente rilevante riguarda la ricostruzione del cammino televisivo delle prime due stagioni del telefilm - allora si chiamavano così… - sugli schermi italiani, la sua collocazione in palinsesto (su Canale 5, tra gennaio e giugno del 1991), le strategie promozionali e, più in generale, il costante sostegno all’attenzione pubblica (grazie anche a un claim efficace, all’eventizzazione della messa in onda, al valore ancora una volta eccezionale della firma lynchiana). È qui che gli autori del saggio provano a grattare, per quanto possibile, sotto la superficie dei Segreti, aggiungendo qualche tassello utile a scomporre l’alone allegorico che ha classicamente accompagnato la sua circolazione, senza rinunciare a chiarire la genesi delle innumerevoli espansioni transmediali che hanno fatto di Twin Peaks un marchio dell’entertainment globale. In definitiva, è proprio questa dimensione a offrire un pretesto per ragionare sul presente, senza feticismi o (eccessive) retrotopie: Black Lodge centra così il proprio obiettivo, dimostrando con chiarezza, acume critico e profondità di vedute quanto la serie abbia ancora molto da dirci, costituendo un osservatorio da cui poter meglio inquadrare la società occidentale. Il cerchio, insomma, si chiude. Fuori dalla Loggia.