La notte dei simulacri. Sogno, cinema, realtà virtuale di Giancarlo Grossi si pone l’ambizioso compito di delineare un’archeologia di quell’immersività che, dalla fine del XVIII secolo, lega in un nodo gordiano l’avvicendarsi dei media al sogno e alla sua esegesi. Se la proficuità di questo avvicinamento è già stata suggerita dagli studi di Roberto Diodato (Estetica del virtuale, 2005) e Pietro Montani (Tre forme della creatività. Tecnica, arte e politica, 2017), la ricerca di Grossi ne costituisce la prima trattazione estensiva. Non che l’intimo rapporto tra sogno e media non fosse mai stato considerato: già Walter Benjamin in Kitsch Onirico (1927) ne riconosceva l’interesse, auspicando una “storia del sogno” ancora da scrivere. È probabilmente questo autorevole antecedente a motivare la scelta cronologica di Grossi, che raccoglie l’invito benjaminiano analizzando la peculiare esperienza estetica in gioco tanto nel sogno quanto nelle esperienze mediali immersive a partire dal XIX secolo – benché lo studioso lasci intendere, citando gli studi di Werner Herzog sulla cave art, come questo non ne costituisca il punto di partenza assoluto.
La ricognizione storica è inaugurata dalle fantasmagorie e dai panorami, dispositivi che minano la fruizione frontale sino ad allora tipica dell’esperienza artistica, invitando piuttosto all’immersione in quello che andava configurandosi come un’immagine-ambiente mediale. Non è un caso, dunque, che Robertson intitoli una fantasmagoria proprio Le Rêve ou le cauchemar (1802), a sottolineare l’implicita identificazione “del suo spettatore prototipico con il sognatore” (p. 31). A questo si accompagna, in quegli stessi anni, l’interesse crescente degli “psicologi addormentati” alla genesi delle prime immagini immersive – quelle oniriche – descritte proprio nei termini di panorami mobili. In questo intreccio chiasmatico, Grossi scorge l’inizio di una storia nella quale, da un lato, l’esperienza mediale reca in sé le eco di quella onirica; e, dall’altro, il sogno viene pensato in termini mediali.
Un sodalizio che sembra rinnovarsi, secondo modalità certo differenti, con la comparsa del cinema, che interiorizza la propria radice onirica sublimandola all’interno dello schermo, scoprendosi così, al pari della coeva psicoanalisi, “principale strumento di materializzazione del sogno” (p. 71).
Il criterio cronologico può tuttavia non bastare a giustificare questo avvicinamento, che resta non di meno problematico: se, da un lato, essi danno vita ad un “mondo nuovo”, quello delle “tecnologie del sé che determineranno i caratteri della soggettività novecentesca” (p. 55), dall’altro è opportuno chiedersi se la categoria foucaultiana di tecnologia del sé sia adatta a sussumere tanto la psicanalisi, strumento epistemologico, quanto il cinema, dispositivo artistico-mediale, riconciliandone le diverse essenze e funzioni.
Ebbene, uno dei tratti peculiari dell’esperienza cinematografica è la re-istituzione di quella distanza dall’immagine, ridotta dai primi media immersivi. Se l’esperienza dei panorami era immersiva in quanto l’immagine era talmente sconfinata da non potere essere interamente abbracciata con lo sguardo, questa eccedenza sembra venire a mancare nel cinema, dove emergono “due spazi separati, uno luminoso dove vivono le immagini in movimento e un secondo, oscuro, dove i corpi sono sdraiati in stato di sotto-motricità e gli sguardi si liberano e potenziano” (p. 56). Seppur depotenziata, l’immersività è tuttavia preservata sotto altre vesti: non più immediata e corporea, bensì de-corporeizzata. Ne deriva una modalità fruitiva paradossalmente più simile a quella onirica: nello spettatore cinematografico, scisso dal proprio “io”, con mobilità limitata, chiamato a farsi “pura visione”per diventare un tutt’uno con lo sguardo della cinepresa, riecheggia il sognatore.
Il ricco excursus proposto ne è viva testimonianza: da Zecca a Keaton, fino a Cronenberg e Nolan, passando per Cocteau e Kurosawa, viene illustrato il transito dello schermo da superficie di materializzazione del sogno a soglia-finestra verso un ambiente onirico. Sono sperimentazioni come eXistenZ (1999) e Inception (2010) a introdurre nell’intreccio cinematografico il dispositivo della macchina dei sogni – teorizzato da Edgar Morin in Le cinéma ou l’homme imaginaire (1956) –, che segna il definitivo trapasso verso gli ambienti immersivi. Capace di “permettere l’accesso al subconscio come se si trattasse di uno spazio concreto, sensorialmente complesso e stratificato” (p. 98), la macchina dei sogni, innestata nel corpo dei personaggi, realizza al contempo la vocazione dello schermo a soglia verso un ambiente onirico, e il mito di un sogno condiviso, trasformando un’esperienza privata in un’ambiente fruibile collettivamente.
Se nei Passages (1982) Benjamin affermava che “ogni epoca non solo sogna la successiva, ma sognando urge al risveglio”, quella del cinema post-moderno reca già in sé gli elementi del trapasso verso le prime sperimentazioni virtuali immersive. Rappresentative, a questo riguardo, sono Osmose (1995) e Ephémère (1998) di Char Davies, che trasformano “l’utente in un immersant” (p. 115). Dotato di un casco e di una tuta munita di sensori che ne registrano l’equilibrio e il respiro, l’utente, al pari del sonnambulo, è invitato a muoversi in un ambiente virtuale dalle reminiscenze bachelardiane e a interagirvi, modificandolo mediante biofeedbacks. Si inaugura così una nuova modalità fruitiva: l’utente non assiste più alla rappresentazione dell’attraversamento di una soglia, ma la attraversa con il proprio corpo, rivestito con le apposite protesi – gesto nel quale, osserva Céline Tricart in The Key (2019), riecheggia quello di indossare una maschera e una camicia da notte. Una modalità fruitiva paradossale che, alla vestizione protesica – dunque vincolante – dell’utente, contrappone una libertà di esplorazione, in cui riecheggia quella onirica.
È proprio la componente interattiva a rendere l’esperienza del virtuale la più simile sinora a quella del sogno: “nel medium immersivo l’agency dell’utente partecipa direttamente alla costruzione del mondo esperito a livello cognitivo e sensoriale. Si realizza così quell’identità di immaginazione e percezione propria dello stato onirico, quando il sognatore è al contempo autore e spettatore delle proprie esperienze” (p. 120). Dunque, se Grossi ha operato una ricostruzione genealogica del rapporto immersivo comune a media e sogno, gli ambienti virtuali sembrano invitarci a compiere un passo ulteriore. Questi ultimi, infatti, costituiscono, da un lato, lo stadio più avanzato di una storia dell’immersività e, dall’altro, l’indice di una nuova frattura nella modalità fruitiva, a sancire forse l’inizio di un’altra storia che lega, ancora una volta, sogno e media: quella dell’interattività.