Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.23 (2023), 157–165
ISSN 2280-9481

L’(anti)televisione di Jean-Luc Godard e Anne-Marie Miéville: Six fois deux émissions télévision cinéma (1976) e France tour détour deux enfants (1978)

Alberto ScandolaUniversity of Verona (Italy)

Alberto Scandola is professor of Film Studies at the University of Verona. He co-directs the “Actors Studio” series (Kaplan) with Giulia Carluccio and is deputy director of Limen (Center for Research on the Fantastic in Performing Arts, University of Verona). His research interests include Star Studies, Actor Studies, Italian Cinema. Among his essays: L’immagine e il nulla. L’ultimo Godard (2014), Greed (2018) and Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità (2020).

Ricevuto: 2022-12-04 – Pubblicato: 2023-07-20

The Anti-television of Jean-Luc Godard and Anne-Marie Miéville: Six fois deux émissions télévision cinéma (1976) and France tour détour deux enfants (1978)

Abstract

The television series Six fois deux émissions télévision cinéma (1976) and France tour détour deux enfants (1978), written, producted and directed by Jean-Luc Godard and Anne-Marie Miéville, retain, after half a century, much of their poetic and political force. The main goal of Sonimage, the experimental audio-visual laboratory established by Godard and Miéville in the 1970s, is to reflect on a civilization living under communication. Godard and Miéville, operating within a Post-Structuralist framework, use video as a research tool through which to analyze contemporary communication processes.  The objectives of this article are twofold: firstly to examine the aesthetics of two television series and secondly to investigate the purpose of the Sonimage project, aimed to unmask the hypocrisy of a medium which, if not used to simply tell stories, is reduced to a speaker of the Power. Once again Godard proves that, even on the television screen, a face is nothing but an image and a word is simply a sound.

Keyword: Television; Sonimage; Reality; Language; Mirror.

«E poi ci sono le due serie televisive, che generalmente vengono messe da parte perché la gente non sa esattamente cosa farci». (Witt in Hitchman 2015). Così di recente Michael Witt, passando in rassegna la filmografia di Jean-Luc Godard in occasione di una retrospettiva organizzata dal BFI, ha descritto l’imbarazzo e la difficoltà avvertiti dagli addetti ai lavori davanti a due opere che – oltre quarant’anni dopo – conservano ancora parte della loro forza poetica e politica.1

Gli obiettivi di questo articolo sono due: in primo luogo esaminare le (singolari) modalità produttive che hanno portato alla realizzazione di questi due ‘oggetti misteriosi’ della filmografia godardiana e in secondo analizzare gli elementi più innovativi – e per certi aspetti rivoluzionari – di un progetto inteso a demistificare la televisione come finestra trasparente sul mondo. Come ha osservato Fabio Alcantara, «quello realizzato con le due serie si contrappone dunque da un lato, con ogni evidenza, agli usuali processi di semplificazione linguistica tipici dell’immagine televisiva, e, nel contempo, configura una televisione della complessità fondata sulle molteplici possibilità costruttive che pertengono alla composizione elettronica» (Alcantara 2020: 183).

Commissionate dall’Institut National de l’Audiovisuel e inserite nel palinsesto domenicale di France 3, le serie televisive Six fois deux émissions télévision cinéma (1976) e France tour détour deux enfants (1978), oggi disponibili gratuitamente in streaming,2 sono forse il fiore all’occhiello del laboratorio Sonimage, società di produzione fondata all’inizio degli anni Settanta da Jean-Luc Godard assieme a Anne-Marie Miéville, compagna d’arte, di vita e soprattutto di pensiero. Oltre che una svolta tecnologica, identificabile nel passaggio dall’immagine di celluloide all’immagine elettronica e nel conseguente mutamento dei tempi e modi di produzione, Sonimage rappresenta anche una cesura ideologica con il passato. Nel 1973, dopo la rottura con Jean-Pierre Gorin, la logica maoista che aveva ispirato la militanza del Groupe Dziga Vertov cede infatti il passo a una ricerca visiva e sonora dove il femminismo si intreccia con la psicanalisi e l’interrogazione sull’immagine, per la prima volta low-fi, diventa occasione per un’analisi lucida e rigorosa dei processi che regolano (e al contempo rendono impossibile) la comunicazione nella società dei consumi. Una società, quella incarnata dai non-attori intervistati in Six fois deux, fondata su microcellule alienanti quali la fabbrica (il lavoro) e la famiglia (l’amore), dove la libertà dell’individuo, come dimostra il disegno della griglia sovrimpressa sui corpi di Nous 3, è fortemente limitata, quando non compromessa.

Come ha osservato Alberto Farassino, Godard e Miéville non vogliono fare dei film per la televisione. Vogliono fare la televisione e la televisione significa durata, «continuità e insieme differenza della programmazione che si oppone alla chiusura e replicabilità della proiezione cinematografica» (Farassino 2001: 152). La televisione, si sa, lavora sul tempo, anzi, «deve creare il tempo» (Godard 2007: 208), un tempo utile a riempire il senso di vuoto generato, in particolar modo negli adulti, dall’adempimento degli obblighi lavorativi e familiari. Ha ragione Constance Penley: «Another important difference of France/tour/détour/deux/enfants from “normal” television lies in its notion of time. To mark that it has another time than television time, each part of the series is called a “movement”, rather than a “program”, taking its temporal term from music instead of television, and placing the emphasis on composition» (Penley 1982: 43). Ma ciò che è mancato, nella televisione del ventesimo Secolo, secondo Godard non è stato tanto il tempo, quanto lo sguardo: «Il cinema non guardava tanto il mondo, quanto il mondo che lo guardava. E quando è arrivata la televisione quest’ultima ha preso subito il posto del mondo e non l’ha più guardato. E quando guardi la televisione non ritieni che la televisione ti riguardi» (Godard 2007: 210). Per «prendere il posto del mondo» la televisione ha dovuto filmarlo negandosi come istanza narrante e dunque finzionale. L’obiettivo di Sonimage è dunque demistificare la trasparenza dell’immagine televisiva evidenziandone piuttosto, attraverso manipolazioni elettroniche quali il ralenti o la sovrimpressione tra figure umane e parole, le infinite potenzialità affabulative, narrative e pedagogiche.

Studi abbastanza recenti, come quelli di Catherine Grant3 e Jerry White,4 hanno cercato di evidenziare l’importanza del contributo offerto da Anne-Marie Miéville – all’epoca fotografa di scena con un passato da cantante – all’immaginario di un artista del quale invece Gilles Deleuze, nella celebre intervista rilasciata ai «Cahiers du cinéma» al termine della messa in onda di Six fois deux, esaltò la profonda solitudine creatrice: «Godard riesce a parlare con degli operai e non è né un padrone, né un operaio, né un regista con degli attori […] E riesce in questo non perché si adegua ai diversi linguaggi, ma perché la sua solitudine gli conferisce una grande abilità, un grande popolamento» (Deleuze [1976], 1990: 65). Fu Godard stesso, del resto, a demistificare la politique des auteurs ricordando che «il cinema si fa come minimo in due o in tre, in due grandi sezioni, il negativo e il positivo, l’andata e il ritorno, il guadagno e la perdita. Sempre in due» (Godard 1982: 11).

Durante i cosiddetti années Karina Godard ha spesso affrontato il tema della prostituzione, in chiave sia sociologica che filosofica (Vivre sa vie, Questa è la mia vita, 1962), ma l’attenzione e la delicatezza rivolte ad alcune delle protagoniste dell’episodio Six fois deux 4b Nanas, ragazze madri spesso costrette a vendersi per vivere, dimostra quello che Laura Mulvey ha definito «un passo in avanti» in materia di gender da parte di un cineasta che «alterna continuamente l’analisi delle immagini della donna con un’analisi che utilizza queste stesse immagini. A partire dalla collaborazione con Miéville, però, questa alternanza sembra cessata, dal momento che al centro della riflessione sono stati posti anche i problemi della sessualità maschile» (Mulvey, 1980: 87). Come ha osservato Witt, uno degli obiettivi di Sonimage fu quello di sperimentare una pratica lavorativa in cui le divisioni del lavoro e dei sessi si dissolvessero in una «riflessione sul piacere di condividere il lavoro con un partner che si ama» (Witt, 1998: 10). Del resto – lo diranno più tardi i personaggi di Passion (Jean-Luc Godard, 1982) – i gesti del lavoro sono uguali ai gesti dell’amore, visto che per entrambe le attività viene impiegato il verbo faire. Diversi studiosi – nessuno dei quali è riuscito a strappare una sola dichiarazione a Miéville in merito alla modalità di lavoro con il compagno – hanno evocato, come modello di riferimento per Sonimage, la coppia Danièle Huillet-Jean-Marie Straub, ma Godard ha precisato che «se gli Straub pedalano in tandem, noi utilizziamo due biciclette diverse» (Godard in White, 2013: 13).

Son più Image, dunque, ma anche masculin più féminin. Non è un caso che il prodotto più «ostico» (Aprà in Turigliatto, 2011: 92) e al contempo più noto di Sonimage si intitoli Numéro deux (1975)5, dove il due allude a una sorta di seconda partenza – rivoluzionaria almeno quanto quella di À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1959) –, al numero degli sguardi in gioco (Godard e Miéville), alla dialettica maoista («l’uno che si divide in due») e alle due dimensioni scelte dagli autori come terreno della riflessione: il qui e l’altrove (Ici et ailleurs, 1974, 16 mm e video), ovvero la Francia e la Palestina ma anche Grenoble e Parigi, l’amore e il lavoro, la televisione e il cinema. La scelta di installare la sede operativa a Grenoble, provincia situata esattamente a metà strada tra Parigi e la Svizzera (terra d’origine della coppia), indica innanzitutto la volontà di lavorare ai margini del broadcasting commerciale,6 smascherando l’ipocrisia di un medium che, qualora non venga utilizzato per raccontare semplicemente delle storie, si riduce semplicemente ad altoparlante del Potere: «Se il cinema è pensiero – confida Godard a Serge Daney nel 1987 – la televisione è discorso politico o mercantile» (Godard, 1987). Un discorso di cui la coppia Godard-Miéville mette finalmente a nudo il linguaggio, riscrivendo e reinventando quelli che ancora oggi restano tre dei format più diffusi non solo in Europa: l’intervista (Six fois deux émissions télévision cinéma: fig. 1), il telegiornale e il reality (France tour détour deux enfants), genere che nel 1978, però, non aveva ancora un nome. Impossibile esaurire in questa sede tutte le questioni teoriche, filosofiche e sociologiche sollevate da due serie che cercano di fare ciò che è proprio del cinema, ovvero «illuminare una situazione» (Alcantara, 2020: 202). Limitiamoci dunque a tracciare alcune linee interpretative utili a evidenziare la modernità (e soprattutto l’attualità) del progetto.

Fig 1. Un fotogramma tratto da Six fois deux/Sur et sous la communication, Part 3B: Marcel

1 La televisione ci ri-guarda

La riflessione, inerente a questioni di economia, politica e società, e il racconto, affidato in prima persona a individui, come il contadino Luison (1b Luison) o il matematico René (5b René[e]s), che parlano del loro lavoro guardando negli occhi la telecamera. Su questo asse duale (a e b, ovvero pubblico e privato) si regge la struttura compositiva di Six fois deux, la cui messa in onda, nell’estate del 1976, fu fatta precedere da una sorta di avvertimento per il pubblico: «Questa trasmissione non presenta le caratteristiche abituali dei nostri programmi». France 3, insomma, non condivise fino in fondo l’impronta sperimentale di un’operazione che non assomigliava a nulla di quanto prodotto in precedenza. Una serie – ricordava Umberto Eco – procura godimento nello spettatore in virtù di espedienti quali la ricorrenza di uno schema narrativo costante e la presenza, continua, di un sistema bene definito di personaggi (Eco in Casetti 1984). Nulla di tutto questo è previsto in Six fois deux, video-archivio di immagini fisse, mobili e rallentate più vicino all’inchiesta o al conte philosophique che a ciò che oggi definiamo storytelling. Per Godard e Miéville fare informazione significa infatti «rifuggire alla trasparenza del mondo della comunicazione contrapponendo alla televisiva strategia della realtà che occulta mostrando, la pratica della composizione cinematografica: l’ambiguità di uno sguardo (giusto uno) sul mondo» (Alcantara 2020: 190).

Come ha osservato Adriano Aprà, il sottotitolo citato in molte filmografie (Sur et sous la communication) non compare nei titoli di testa, ma è un semplice gioco di parole pronunciato nella puntata 6a Avant et après. La seconda parte del titolo – scritto in carattere maiuscolo nei titoli di testa – indica invece i nomi delle due forme espressive in gioco, ovvero télévision e cinéma, due universi accostati senza congiunzione, come in una sorta di montaggio parallelo. Sin dal paratesto, del resto, Godard esibisce la materia del dispositivo, ovvero la plastica (un videoregistratore) e la carne (la sua e quella dei corpi filmati). Si consideri la cornice che fa da sigla di apertura e di chiusura in ogni puntata. Una mano – quella di Godard – inserisce una videocassetta in una console SECAM e manipola il tempo del materiale ivi contenuto, premendo prima il tasto ‘play’ e poi, durante i brevissimi titoli di coda, il tasto ‘stop’. In altre parole: se il cinema, negli anni Karina, era il cinema, la televisione oggi altro non è che la televisione, un medium che, nonostante l’apparente impressione di (im)mediatezza, non rivela il vero ma soltanto le forme della sua rappresentazione, ovvero le immagini, sgranate a causa della bassa definizione, e i suoni, il più delle volte tutt’altro che fedeli a quelli reali. Ciò che audiovediamo, inoltre, non è solo il prodotto dell’accostamento (non sempre sincrono) tra son e image, ma anche son image, ovvero, letteralmente, «la sua immagine», quella di un demiurgo – Godard – che non sta solo dietro la telecamera, ma anche davanti. Si veda a questo proposito l’episodio 2b Jean-Luc, nel quale il regista discute del suo lavoro con un giornalista di «Libération». I corpi e i volti che, attraverso il piccolo schermo, entrano nelle case dei francesi – almeno di quelli sufficientemente disposti a una fruizione intellettuale dell’offerta televisiva – sono oggetto di una configurazione che, se da un lato manipola il visivo con ralenti ed effetti grafici, dall’altro restituisce al sonoro, e in particolare alla parola, una durata assolutamente inedita per lo spettatore televisivo degli anni Settanta. E tutto questo con un unico scopo, quello di indurre chi guarda alla discussione: «L’obiettivo – ha spiegato Godard – è fare in modo che le persone possano parlare […], che possano esprimere anche la loro noia o il loro fastidio…Questo è ciò che non fa la televisione normalmente, perché la televisione di solito fa tacere quando bisogna parlare e invita a parlare quando bisognerebbe tacere» (Godard 1975: 15). La televisione che Sonimage denuncia è la finestra, apparentemente neutra, su un mondo che non si accorda più ai nostri desideri (come invece faceva il cinema), ma a quelli del Potere. E il Potere, come dimostra nello stesso 1976 il Foucault di Sorvegliare e punire,7 programma e condiziona non solo la gestualità o la sessualità, ma anche il linguaggio, assottigliando le infinite sfumature di senso che legano le parole alle cose. Si consideri l’episodio 2a Leçons de choses: sono sufficienti due voci off e due tazzine di caffè, reminiscenza di una vocazione filosofica mai sopita (Deux ou trois choses que je sais d’elle, Due o tre cose che so di lei, Jean-Luc Godard, 1966), per impartire al telespettatore lezioni sulla precarietà del linguaggio verbale e sull’ambiguità di quello iconico. La locuzione Leçon de choses indica un principio educativo teorizzato nella Francia di fine Ottocento e finalizzato a trasmettere agli alunni un’idea astratta a partire dall’osservazione di un oggetto concreto. Godard e Paulo, il suo assistente operatore, commentano una serie di immagini in movimento tra loro apparentemente slegate come un gruppo di bambini dietro il cancello di una scuola, un fiume di campagna, un uomo che passeggia con un cane, alcune donne al mercato, l’interno di una fabbrica, una lampadina, un merluzzo, una mela. Nella loro rosselliniana semplicità figurativa, questi brevi tableaux evocano le vedute Lumière, come se Godard volesse dirci che l’adozione di una tecnologia nuova (il video) può garantire ancora, ottant’anni dopo, di catturare lo straordinario dell’ordinario. Come suggerisce Paulo, però, le parole non sono più sufficienti a definire le cose e lo «straordinario» va ricercato non più nell’impressione di realtà delle immagini in movimento, quanto nella loro apertura ad altri significati. Il turning point che ha spezzato il legame tra le parole e le cose – Godard lo ripeterà nelle Histoire(s) du cinéma (1988-1998) – è stato l’Olocausto e soprattutto l’incapacità del cinema di documentarlo e criticarlo. Ecco che allora l’immagine di un gruppo di bambini dietro il cancello di una scuola non può non evocare l’ambiguità della posizione di chi, trent’anni prima, era fuori dai cancelli del lager. «Quelli che non erano dentro – dice Paulo in voce off, spegnendo l’ennesima sigaretta – erano per forza fuori». Godard non capisce e allora Paulo precisa: «Guarda, tra i bambini, quelli che ci guardano: ci vedono davanti alle reti che sono dietro di loro, e tra il dentro e il fuori non c’è che un passo». Allo stesso modo, quella che appare una semplice piazza del mercato si rivela, secondo Paulo, la «piazza dell’incendio» (perché i prezzi «bruciano»), il fiume che bagna la campagna altro non è che «una lunga storia» e l’interno di una fabbrica è da guardare come un film porno, perché i gesti degli operai sono identici a quelli dell’amore… ma l’amore è stato ucciso dal lavoro.

Questo arguto confronto dialettico tra parole (off) e cose (in) permette di delineare i tratti essenziali della «pedagogia» (Daney 1976: 34) di un artista che, padrone e operaio di una fabbrica di immagini, sente l’urgenza di scuotere l’apatia del telespettatore invitandolo a guardare le immagini (televisive e non) con gli occhi chiusi, esattamente come faceva la montatrice cieca di Hélas pour moi (Jean-Luc Godard, 1993) in JLG/JLG. Autoportrait de décembre (Jean-Luc Godard, 1994). Chiudere gli occhi, secondo il precetto di Monet citato in Adieu au langage8 (Jean-Luc Godard, 2014), consente di risolvere quella dialettica tra vedere e immaginare sulla quale riflettono molti personaggi di questo cinema, da Nana (Questa è la mia vita) a Edgar (Eloge de l’amour, Jean-Luc Godard, 2001), cineasta in cerca di immagini-soglia, ovvero immagini in cui il visibile rimandi all’invisibile. Che sia fissa o mobile, dunque, l’immagine televisiva dice meno di quanto nasconde e ciò che non è immediatamente visibile – per esempio l’identità politica di quei bambini dietro il cancello – è esattamente ciò che ci ri-guarda, nel doppio senso del termine (un’ambiguità semantica conservata dalla lingua francese). Inteso come trama interna del visibile,9 l’invisibile dunque ci guarda e allo stesso tempo ci riguarda. Per questo Godard in Six fois deux – e ancor di più in France tour détour deux enfants – rallenta, arresta oppure reitera in loop scene di vita quotidiana, sia pubblica che privata, apparentemente insignificanti. Solo sfuggendo al flusso ininterrotto, tipico dei programmi della televisione commerciale, queste immagini possono guardarci, interrogarci e ri-guardarci. «Quando penso a qualcosa, penso anche a qualcos’altro» dirà il protagonista di Eloge de l’amour. Quando, nel finale della puntata 5b, guardiamo la danza casalinga di una bambina (la figlia di Anne-Marie Miéville) che, grazie agli effetti del montaggio video, penetra le porte e le pareti della stanza, guardiamo anche qualcos’altro, ovvero una metafora della leggerezza propria di un corpo non ancora legato dalle catene dell’alienazione. Anche Six fois deux, dunque, è un serie «po», ovvero poetica e politica.10 Non sono più necessari slogan maoisti, lotte in Italia o bandiere rosse. Basta solo, come dice Godard, restare a casa e accendere la telecamera: «Mi rendo conto che, dopo quindici anni di cinema, il vero film politico che vorrei realizzare sarebbe un film che mostrerebbe alla mia compagna e a mia figlia chi sono; in altre parole un film di famiglia, che resta per me la base popolare del cinema» (Godard in Witt 1998: 22).

2 La natura e la metafora

Il microcosmo della famiglia, filtrato dal punto di vista di due preadolescenti privi di qualsiasi formazione attoriale (Camille e Arnaud), è al centro anche di France tour détour deux enfants, serie girata a Rolle, articolata in dodici movimenti e finalizzata a «organizzare l’ascolto e la visione» (Godard 1983: 74) all’interno di quello che lo stesso Godard ha definito un lavoro sulla lingua francese. L’impianto appare più ortodosso di quello dell’opera precedente e questo grazie alla presenza dei due bambini, costante in tutte le puntate e volta ad offrire al telespettatore ciò che ci si attende da ogni serie: la ripetizione di un tema fasciato, come diceva Eco «da novità superficiali». Al pari dei disoccupati, del resto, i bambini garantiscono la possibilità di «riabilitare la spontaneità di una relazione che, per Godard, è sempre quella dell’immagine con il mondo» (Alcantara 2020: 212). Come ha osservato Gilles Delavaud, il tema è in realtà, in questo caso, una questione di mise en scène, ovvero la separazione tra il suono (la voce off di Godard) e l’immagine (i due bambini): «Godard lavora sul binomio suono/immagine effettuando una serie di variazioni motivate essenzialmente dal desiderio di sperimentare differenti distanze possibili ­ – del regista, della cinepresa e dello spettatore – rispetto al soggetto filmato» (Delavaud 2001: 125). Tutto, ancora una volta ruota attorno al numero due. Se due sono i protagonisti, due sono anche gli ambienti: accanto alla casa/famiglia, dove si svolgono i movimenti 1, 8, 9 e 10, troviamo la scuola, al cui interno sono ambientati i movimenti 4, 5, 6 e 7.

Obscur/chimie, Lumière/Physique e Connu/Géometrie/Géographie – evidente è l’accostamento tra un aggettivo e un sostantivo – sono solo le prime tre tappe di un tour che diventa ben presto, grazie anche alla libertà di parola concessa ai due giovanissimi interpreti, un détour, ovvero una divagazione «agostiniana» (Penley 1982: 38) sulle oscurità del linguaggio verbale e sulla sua incapacità di definire i contorni delle cose. Come in Six fois deux, anche in questo caso la sigla di apertura evidenzia l’impronta metalinguistica del progetto: il bambino o la bambina che verrà intervistato/a si occupa del suono, mentre l’altro/a imbraccia la telecamera. L’obiettivo di Godard e Miéville è riscrivere i codici di format familiari come il talk-show o il reportage, lavorando innanzitutto – ha ragione Gilles Delevaud – ­ sulla variazione del punto di vista concesso allo spettatore. In alcuni episodi i bambini vengono inquadrati in figura intera, in altri in mezza figura, in altri ancora di tre quarti, e così via. In nessuna occasione, comunque, lo spettatore beneficia del controcampo, ovvero della visione del volto di Godard: in questo modo il contatto audiovisivo con il bambino si fa, in un certo senso, più intimo. O almeno così sembra, perché ben presto ci accorgiamo di come la conversazione tra Robert (alter-ego di Godard) e i due bambini sia, in realtà, una sorta di film nel film, ovvero uno spettacolo a cui, oltre a noi, assistono anche Albert e Betty, due finti giornalisti che cercano di interpretare le intenzioni di Robert e le espressioni dei due bambini. Si prenda ad esempio il primo episodio, incentrato su Camille. Nell’intimità della sua cameretta, la bambina si spoglia, indossa il pigiama e accetta di rispondere alle domande di Robert, che la invita a riflettere sulla differenza tra la luce e il buio, sul modo in cui ella percepisce l’esistenza delle cose e soprattutto sulla relazione che un corpo, in questo caso il suo, ha con la propria immagine riflessa, tanto nello specchio quanto sullo schermo. «La tua immagine – domanda Robert – ha anch’essa un’esistenza?» «Quando mi guardo nello specchio – risponde Camille – l’immagine che vedo non è qualcuno che esiste». E allora Robert rincalza: «Le persone che ora ti guardano in TV pensano che tu sia una bambina in carne e ossa oppure una bambina che non esiste»? Davanti allo smarrimento della bambina, incapace di seguire fino in fondo il filo del ragionamento, l’intervistatore misterioso conclude: «L’immagine è un oggetto, come un letto o un’altra cosa». Un oggetto che, in quanto tale, rinvia necessariamente a un altro oggetto (il referente) non necessariamente visibile e neppure percepibile con gli altri sensi. Gli anni duemila devono ancora arrivare, ma in queste parole si intravede l’urgenza di quell’interrogazione sull’ontologia dell’immagine che ispirerà tutta la produzione di Godard a cavallo tra i due millenni, da Forever Mozart (1996) a Adieu au langage.

Di puntata in puntata, intanto, lo spettatore di France tour détour deux enfants diventa sempre più smarrito e confuso, perché ascolta una voce che parla di «attesa» («attesa che accada qualcosa») e invece vede immagini lavoratissime, svuotate di ogni effetto di reale e riempite di scritte colorate (fig. 2), di suoni asincroni, di rumori scelti in quanto fonti di disturbo per l’ascolto.

Fig. 2. Un fotogramma tratto da France tour détour deux enfants

«La verità – ha ragione Jacques Aumont ­– non sta da nessuna parte. Essa elabora il rapporto tra il campo, il fuori-campo e il fuori-quadro, ed è quella la premessa più importante del dispositivo di France tour détour» (Aumont (1991 [1989]: 162). Talvolta, e penso all’episodio 7 (Violence/Grammaire), l’immagine non mostra nessun elemento utile alla lettura di ciò che (non) accade. Il dialogo tra Robert e Camille è infatti preceduto da una scena di conversazione alquanto bizzarra tra un uomo e una donna, i quali parlano a turno: prima lui, poi lei. Le parole della donna, di cui vediamo solo la massa di capelli biondi, scivolano nello spazio sonoro senza soluzione di continuità e soprattutto senza alcuna giustificazione narrativa: «Tu sei bello, tu sei alto, tu sei gentile, il tuo volto è stanco, i tuoi occhi sono crudeli, il mio culo è pulito, la mia tristezza è infinita, io sono coraggiosa, il mio capo è gentile, le vacanze sono finite, il mio desiderio è immenso». Più che la confessione di un’amante al suo amato, un détour sulle infinite combinazioni tra aggettivo e sostantivo offerte dalla lingua francese.

Quelle di France tour détour deux enfants, del resto, sono immagini che appartengono ad entrambi gli ambiti del visibile recentemente indagati in Adieu au langage, ovvero la natura e la metafora. I pendolari che, all’inizio dell’episodio 2 (Lumière/Physique), escono dal métro, hanno lo stesso sguardo (in macchina) dei fotografi ripresi in un’antica veduta Lumière (L’arrivée des congressistes à Neville-sur-Saone, 1895), ma la modalità con cui Godard manipola la loro andatura, frammentandola con il ralenti, li avvicina a quegli alieni di cui parla la voce over, «mostri che escono dalla terra per mettersi al servizio dei grandi complessi industriali». E ancora: quando, alla fine dell’episodio 1, vediamo una donna incinta intenta alla toilette, vediamo anche qualcos’altro, ovvero un uno (il ventre rotondo) che evoca un due. La voce over di Albert è più esplicita: quel ventre anonimo altro non è che «il ricordo del desiderio di una coppia di essere più di uno». Inevitabile, a posteriori, pensare alla gravidanza della vergine di Je vous salue Marie! (Jean-Luc Godard, 1985), a testimonianza di come, in conclusione, la produzione di Sonimage si riveli soprattutto un prezioso carnet de notes per il cinema che verrà.

«Ci vuole una storia» dice Albert nel finale dell’episodio 1, senza sapere che queste parole di lì a poco verranno pronunciate da uno dei personaggi di Passion (il produttore del film nel film). Ma il détour filosofico che porta Godard e i suoi piccoli attori in un viaggio ai confini della comunicazione audiovisiva non prevede la narrazione di una storia, bensì una riflessione sui limiti e sulle potenzialità del linguaggio, che è qualcosa di ben diverso dalla comunicazione. «I talk show e la comunicazione quotidiana – ha dichiarato di recente l’autore – sono lingua, mentre il linguaggio è una specie alleanza tra parola e immagine» (Godard in Cohen 2014). E l’immagine, anche quella prodotta dal nastro magnetico, non è un uno ma un due, è un momento di incontro tra «due cose lontane che avviciniamo» (Godard in Comolli 1996: 44): Camille e Arnaud, il femminile e il maschile, la televisione e il cinema.

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Hitchman, Simon. 21. 03. 2019. «Michael Witt on Jean-Luc Godard», New Wave Film.com: http://www.newwavefilm.com/interviews/michael-witt-jean-luc-godard.shtml (Ultimo accesso: 21 marzo 2019).

Mulvey, Laura e Colin McCabe. (1980). «Images of woman, Images of Sexuality», in Godard: Images, Sounds, Politics, edited by Colin McCabe, 87-88. London: BFI-The Macmillan Press.

Penley, Constance. (1982). «Les enfants de la Patrie». Camera Obscura, 8/9/10: 43.

White, Jerry. (2013). Two Bicycles: The Work of Jean-Luc Godard and Anne-Marie Miéville, Waterloo: Wilfreid Laurier University Press.

Witt, Michael. (1998). On Communication: The Work of Miéville and Godard as Sonimage from 1973 to 1979, PhD Thesis. Bath: Departement of European Studies and Modern Languages.


  1. Mi riferisco naturalmente a due degli aggettivi utilizzati da Godard negli anni Sessanta per l’elaborazione della teoria del film ‘Po’ : poetico, poliziesco, politico. Il primo film definito Po fu Made in USA (1966).↩︎

  2. Sulla piattaforma di Youtube sono consultabili sia Six fois deux émissions télévision cinéma (https://www.youtube.com/watch?v=qGie8UoWdRA&list=PLL2mDH-F4aNu51KQkpYqGKICSArI05n6X) che France tour detour deux enfants (https://www.youtube.com/watch?v=KI7ba2YEHuc&t=224s). Ultimo accesso : 4 novembre 2022.↩︎

  3. Cfr. C. Grant, Home-Movies: The Curious Cinematic Collaboration of Anne-Marie Miéville and Jean-Luc Godard, in J. Williams, M. Witt, M. Temple, (eds.), For Ever Godard. The cinema of Jean-Luc Godard, Black Dog Publishing Limited, London, 2004, pp. 100-117.↩︎

  4. Cfr. J. White, Two Bicycles: The Work of Jean-Luc Godard and Anne-Marie Miéville, Wilfreid Laurier University Press, Waterloo, Canada, 2013.↩︎

  5. Su Numéro deux, lungometraggio che introduce alcune delle questioni poi affrontate nelle due serie televisive (come per esempio i rapporti di genere all’interno del nucleo famigliare), si veda il dossier Numéro deux et Jean-Luc Godard, «Cahiers du Cinéma», 262-263, janvier 1976, pp. 11-40.↩︎

  6. «Quello che ho cercato di fare con Sonimage – ha detto Godard – è stato trovare un po’ di materiale per reimparare e soprattutto il tempo per comporre. Da qui la necessità di lasciare Parigi […] Bisogna lasciare Parigi per fare dell’informazione» (Godard in Anon., 1975: 12).↩︎

  7. Cfr. M. Foucault, Surveiller et punir: Naissance de la prison (1975), tr. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976.↩︎

  8. «Non dipingere quello che si vede perché non si vede nulla, ma dipingi quello che vedi» (Claude Monet). Su Adieu au langage si vedano, in particolare, A. Scandola, L’immagine e il nulla. L’ultimo Godard, Kaplan, Torino, 2014, pp. 222-242, L. Venzi, Adieu au langage, in S. Alovisio, a cura di, Jean-Luc Godard, Marsilio, Venezia, 2018, pp. 146-160 e lo speciale che FataMorganaWeb ha dedicato al regista in occasione della sua scomparsa: https://www.fatamorganaweb.it/tag/jean-luc-godard/. (Ultimo accesso: 2 dicembre 2022).↩︎

  9. Cfr. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, (1964), tr. it. Bompiani, Milano, 1990.↩︎

  10. Sui risvolti politici di ogni atto cine-fotografico secondo Godard si veda Francesco Algorìn Navarro, Un million de francos, NYFF 2013: Six fois deux y France tour détour deux enfants, de Jean-Luc Godard y Anne-Marie Miéville, Lumiere.net: http://www.elumiere.net/exclusivo_web/nyff13/nyff13_18.php (Ultimo accesso: 3 novembre 2022).↩︎