Per uno strano scherzo del destino, il Covid aveva svuotato il Lazzaretto Vecchio, ovvero il luogo che la città di Venezia riservava alle quarantene, ma anche, da qualche anno, quello che il festival del cinema dedicava alla Realtà Virtuale. Nel 2022 si riparte da lì, da quell’isoletta che circoscrive e valorizza le produzioni più nuove in un ambito, quello della VR, che si muove fra cinema, videogioco, esperienza e azione: a volte ci si limita a guardare, a volte si gioca, a volte ci si muove/gesticola/sposta, a volte più di una cosa insieme. Al Lazzaretto si vede passare un pubblico molto più internazionale rispetto a quello abituale della mostra del cinema - curiosi, addetti ai lavori, persone che sbarcano al Lido solo per la VR, nerd appassionati all’evoluzione tecnologica degli headset. Una piccola comunità nascente. Da segnalare anche il cambio nel nome della sezione: non più “Venice Virtual Reality” ma “Venice Immersive”, segno di un mutamento anche culturale nella percezione di cosa stia diventando quel medium, di quale forma definitiva possa assumere, preso tra spinte commerciali, intenti dei media tycoons e ambizioni artistiche o narrative.
Per parlare delle proposte più interessanti partiamo da Ascenders (regia di Jonathan Astruc, produzione francese). È un’esperienza interattiva in cui gli avatar dei giocatori devono collaborare per sfuggire a uno tsunami scalando una specie di montagna sacra. Per salvarsi bisogna realizzare delle vere e proprie task “manuali” collaborando con altri cinque giocatori. La sensazione di minaccia incombente si supera attraverso il mutuo aiuto. L’esperienza prevede uno spazio di movimento piuttosto ampio e libero, senza mai ricorrere al teletrasporto. Il non sentirsi legati, il vedere gli altri partecipanti, la straniante, affascinante percezione del proprio corpo trasformato in avatar sono tutte carte vincenti che le media industries stanno perfezionando. Shores of loci (regia di Ellen Utrecht) è il futuro dei puzzle, un rompicapo in tre dimensioni in cui si chiede al giocatore di incollare, livello dopo livello, dei pezzi di città fluttuanti. Coinvolgente come tutti i puzzle, si vorrebbe restare a lungo dentro l’esperienza per arrivare a sistemare tutto. Dazzle: a re-assembly of bodies (Ruth Gibson, Bruno Martelli, Alexa Pollmann e Bine Roth) è una combinazione tra VR e danza: al partecipante viene proposto di sedere a guardare e basta, come davanti a un balletto; oppure di partecipare attivamente sulla scena interagendo con le danzatrici. Scenografia e costumi reali in stile Bauhaus incontrano un'estetica digitale low-fi basata sul bianco e nero. Osservato da spettatore esterno, l'ibrido non appare particolarmente riuscito: non si riesce ad apprezzare la danza, vista la presenza di elementi piuttosto statici in mezzo ad essa (i partecipanti non-attori), né si riesce a veder bene quel che succede nel virtuale. Vista da fuori, la VR fa sembrare tutti ridicoli e/o imbranati. Rock Paper Scissors (diretto da Alex Rühl) riproduce in realtà virtuale le dinamiche decisionali tra genitori e figli. Nel mondo di Rock Paper Scissors ogni piccola scelta di vita si basa su un confronto a carta-sasso-forbici, dove con le mani del partecipante entrano in modo decisivo nella VR e quindi nelle scelte familiari grazie a (così si dichiara) “the latest hand-tracking technology”. Come in un libro-avventura, le scelte narrative sono il frutto di queste sfide.
A fianco a questi giochi interattivi stanno le esperienze di pura visione. Alcune sono realistiche, come All that remains (diretto da Craig Quintero), una delicata riflessione, dall’impronta teatrale, sul tema della vicinanza dei corpi. Altre ricostruiscono scenari ipermediali, figli dell’estetica digitale, come All unsaved progress will be lost, di Mélanie Courtinat. Lo spettatore è l’unica presenza umana rimasta su un pianeta abbandonato, astratto e ipermediato. Tutte le sue convinzioni saranno tuttavia ribaltate da un plot twist finale.
L'esperienza più strampalata ma probabilmente anche interessante è quella offerta da Okawari, di Landia Egal e Amaury La Burthe. Si entra in un ricostruito ristorante giapponese, ci si siede a un vero tavolo e si indossa l'headset. A quel punto si inizia un'esperienza che ha degli elementi di gaming: bisogna ordinare da un menù e mangiare più degli altri tre partecipanti per prendere punti e dominare la classifica. A un certo momento il gioco svolta però in critica sociale, visto che si è costretti a scegliere tra proseguire l'esperienza virtuale o uscirne per andare in cerca di qualcosa di vero. Se si resta dentro la VR si viene teletrasportati su una spiaggia tropicale, davanti a un tramonto che non tramonta mai, e lì ci si beve un colorato cocktail virtuale. Se si esce, il visore si trasforma in modo da permettere di vedere in trasparenza la realtà al di fuori. Al partecipante viene offerto un acino d'uva passa, unico alimento realmente deglutito dopo un'abbuffata che alla fin fine è rimasta solo acustico-visiva. Il dilemma è prevedibile ma attuale: optare per la realtà o per il metaverso? Per un tramonto infinito o per lo stand in compensato in cui ci si trova veramente? Per un cocktail bello ma falso o per una penosa uvetta? Nella VR puoi abbuffarti, ordinare pietanze gourmet, persino lanciare in giro i piatti, ma il cibo è tutto finto, non c’è niente di vero; d’altro canto, la realtà vera è vera ma appassita, assai poco spettacolare. Cosa è meglio? La scelta del pubblico, a quanto dichiarano i registi interrogati in proposito, è 50 e 50.