1 Tracce precedenti alla ricerca italiana degli anni Novanta su razza e razzismo
Lo studio delle costruzioni discorsive e visuali dell’Altro coloniale e della superiorità razziale italiana, ha guadagnato interesse in vari campi del sapere. Nel suo articolo La produzione teorica su razza e razzismo dal 1990 a oggi. Una panoramica sul caso italiano, Giulia Fabbri (2021) rileva che, a partire dagli anni Novanta la produzione teorica su razza e razzismo in Italia non guarda più solo al razzismo antiebraico. In particolare, la mostra e catalogo La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, curati dal Centro Furio Jesi di Bologna nel 1994, segnano l’inizio di un diverso corso di studi, che darà ampio spazio al razzismo coloniale, alle costruzioni visuali della propaganda fascista per la costruzione di un immaginario collettivo in Italia. Già nel 1997 l’antropologa Paola Tabet (1997) sostenne che la traduzione nel contesto italiano degli orientamenti e posizionamenti dei Cultural Studies e degli studi postcoloniali, segnò con la mostra La menzogna della razza del 1994 una svolta in Italia nell’ambito degli studi su razza e razzismo. Per Tabet “fino alla fine degli anni ottanta il sistema percettivo razzista (come lo definisce Guillaumin 1972), relativamente poco o superficialmente messo in discussione dopo la perdita delle colonie e la caduta del fascismo, è rimasto latente” (Tabet 1997: 13).
Tuttavia, mostreremo come alcune prime interessanti tracce, in particolare su pratiche visuali che hanno partecipato alla costruzione inferiorizzante dell’altro e dell’altra nelle colonie italiane in Africa, così come in madrepatria, sono rintracciabili nei primi anni Ottanta. Queste tracce riflettono sul rapporto tra storia e immagini, e sull’influenza, tanto del contesto sulla produzione, circolazione e consumo delle immagini (Campassi e Sega 1983), quanto delle immagini sul contesto socio-culturale. Tra queste tracce rileviamo il catalogo della mostra di taglio storiografico Si e no padroni del mondo. Etiopia 1935-36. Immagini e consenso per un impero, curato da Adolfo Mignemi (1982a), che ha preso in esame il razzismo del periodo fascista, con un’ampia ricostruzione del rapporto tra colonialismo fascista, propaganda e ruolo delle immagini. Del 1981 e del 1983 sono i due numeri monografici della Rivista di storia e critica della fotografia, dedicati a fotografie e colonialismo.1 Questi materiali costituiscono una novità rispetto agli studi storici precedenti, anche per il tentativo di im-piegare le immagini fotografiche e non solo, come documenti da interpretare per ottenere stimoli e informazioni utili allo storico (Labanca 1988, Messina 1987, Morawski 1982, Triulzi 1988).
Prime immagini dell’archivio coloniale italiano,2 impiegate per evidenziare lo sguardo sessualmente orientato nelle fotografie scattate a donne africane nelle colonie e le conseguenze reali come il fenomeno del madamato e dello sciarmuttismo, vengono pubblicate nel primo numero della rivista trimestrale di fotografia Phototeca, del 1980. Il terzo e il dodicesimo numero di Phototeca, quest’ultimo interamente dedicato al colonialismo, sono rispettivamente del 1981 e 1983. In quest’articolo ci concentreremo in particolare sulla rivista Phototeca, per lo sguardo che offre sulle pratiche visuali dominanti e sulla relazione vedere/potere, per l’interesse verso “il carattere situato e costruito di ogni rappresentazione visiva” (Somaini 2016: 21), verso i processi di produzione, distribuzione, circolazione e consumo delle immagini, e verso l’uso sociale delle immagini. Una prospettiva, questa, in linea con quanto andranno sviluppando i Visual Culture Studies negli anni Novanta.
2 Uno scomodo precedente, Phototeca
Il primo numero di Phototeca è stato pubblicato nel 1980 con il titolo Ladri, puttane & pocodibuono. La scelta delle immagini è in linea con quanto proposto dai Cultural Studies e più tardi dai Visual Culture Studies, in quanto non vengono preferite immagini artistiche alle non artistiche, o che alimenterebbero una distinzione tra cultura alta e cultura bassa. L’interesse di Phototeca sembra rivolto al significato culturale delle immagini e della visione.
Il primo numero di Phototeca è teso a “mostrare il vedere” (Mitchell 2008: 51), e a mostrare la costruzione dell’Altro nelle immagini fotografiche, che altrimenti sembrerebbero invece registrare obiettivamente ciò che è naturale. In altri termini, ciò che è percepito come naturale in un contesto, è invece un “prodotto dello sguardo” (Scacchi 2017: 19). Ne Le stimmate del galeotto, Giorgio Colombo (1980) denuncia il sistema di catalogazione del deviante, che poggia sulla fisiognomica. Il riconoscimento del deviante, e dunque la sua catalogazione poggiano sui suoi tratti fisici. Questi mostrano la devianza dalla norma, e la fotografia registra tale devianza, mostrandola, rendendola evidente. Un’evidenza basata sulla contrapposizione tra norma e devianza, tra chi è ritenuto normale e chi anormale. La fotografia ri-producendo una particolare realtà, la classifica, la identifica. In altri termini, tale particolare realtà viene costruita all’interno di un sistema che ha stabilito cosa è la norma, e opera rispetto a essa. È dunque chi classifica, chi cataloga, chi fotografa, a costruire l’Altro, l’anormale, il deviante, attraverso la sua lente, non riconoscendo l’alterità dell’altro. La violenza dello sguardo oggettivante (tanto più se si pensa alla registrazione obiettiva della fotografia), dello sguardo di chi punta il suo (essere) obiettivo per catturare l’altro (Grechi 2016), costruisce l’identità che l’Altro deve assumere per essere ri-conosciuto socialmente. In questa scienza del visibile, sostiene Colombo, la produzione del sapere è inestricabilmente legata al potere. “È il ‘potere disciplinare’ di cui parla Foucault, che ‘si esercita rendendosi invisibile; e, al contrario, impone a coloro che sottomette un principio di visibilità obbligatoria’” (Colombo 1980: 129). La fotografia rende visibile l’immagine identitaria con la quale un individuo deve essere socialmente riconosciuto, ma non rende visibile il processo epistemico di costruzione identitaria.
La costruzione dell’altro, o meglio dell’altra, della “sciarmutta nella storia d’Italia” (Gilardi 1980: 156) viene anche evidenziata da Ando Gilardi. Alcune fotografie e frammenti di testi dell’archivio coloniale italiano evidenziano lo sguardo sessualmente orientato nella costruzione della donna colonizzata. Uno sguardo generato e alimentato anche dagli organi di stato. Nel numero 3 della rivista Phototeca, del 1981, vennero pubblicate 175 citazioni delle direttive del Ministero della Cultura Popolare, sull’uso strategico della fotografia nell’informazione, da parte del regime fascista. Alcune di queste direttive riguardavano la costruzione visuale del modello della donna italiana fascista e della donna africana. La desoggettivazione della donna italiana emerge chiaramente in una disposizione dell’Ufficio-Stampa del 1933, nella quale si legge che la “vera donna” deve assolvere alla sola funzione riproduttrice. La disposizione vieta la pubblicazione di fotografie di donne magre, “serpenti che rappresentano la negazione della vera donna la cui funzione è di procreare figli sani” (Sisti 1981: 180). Ancora, il Sottosegretario di Stato per la Stampa e Propaganda, in una disposizione del primo marzo del 1935, vieta fotografie di donne in costume succinto; “ha detto il conte Ciano sono antidemografiche” (Sisti 1981: 180). Diverso era per le fotografie delle donne africane, dal momento che assieme all’idea di facili guadagni nelle terre africane, esse partecipavano alla costruzione dell’immaginario maschile italiano, per guadagnare adesioni alla missione coloniale. Le donne africane erano rappresentate calde, appassionate, sessualmente voraci. Esse erano contrapposte “alla donna bianca, angelo del focolare e sposa prolifica ed esemplare. La negra può fare ciò che alla bianca è proibito, è un essere inferiore, […] ognuno può andare in colonia e là diventare un padrone” (Arslan 1979: 66, citato in Mignemi 1982b: 67). Difficile, secondo Angelo Schwarz, accreditare a queste immagini semplicemente “un erotismo, una esperienza ai limiti dell’essere e del desiderio dell’uomo occidentale”. Piuttosto, ciò che permea tali immagini è il violento desiderio di “sovranità coloniale e penetrazione della donna non bianca” (Schwarz 1981: 6). Tuttavia, già a partire dal 1936 il regime muterà posizione sulle relazioni tra la popolazione italiana e la popolazione africana nelle colonie. Ad esempio, una disposizione del Ministero per la Stampa e Propaganda, del 4 gennaio del 1936, vieta di pubblicare fotografie “che dimostrino intimità dei nostri soldati con abissini. […] Si dia l’impressione di benevolenza da parte dei nostri soldati verso gli indigeni, ma non di cordialità, di protezione ma non di affetto” (Sisti 1981: 181). Nelle parole di questa disposizione emerge la distanza che gli italiani devono tenere dai colonizzati. Una distanza che decreta la loro superiorità e che porta a guardare ai colonizzati come corpi inferiori da tutelare. Siamo agli inizi del 1936, ma già nel corso dello stesso anno le relazioni con le razze inferiori cominceranno ad essere espressamente vietate per conservare il prestigio della superiorità della razza italica.
Ma è soprattutto il dodicesimo numero di Phototeca, dal titolo eloquente Bianco & Nera, ad essere interamente dedicato al colonialismo. Phototeca 12 è stato pubblicato nel 1983. In Te la do io la Civiltà! Riusciranno i nostri eroi a riparare il selvaggio e mettere in moto l’Africa?, Enrico Castruccio (1983) prende in esame Gli Italiani in Africa di Maffio Savelli, una pubblicazione settimanale avviata nel 1884, quale esempio di costruzione di un immaginario coloniale in Italia. L’africano, in un passo di Savelli, viene offerto al lettore italiano quale “selvaggio” che vive nell’ozio infecondo, e tuttavia interrotto da ciò che più l’africano adora: guerre, amori, rapine e carneficine. “E che cosa vuole l’europeo se non strapparli a quell’ozio infecondo” (Castruccio 1983: 29). Emerge qui la logica coloniale europea condannata da Michel Foucault (1976) prima, si pensi al disciplinamento del soggetto pigro e deviante attraverso l’obbligo al lavoro nella casa di forza di Gand, e da Achille Mbembe poi: “Quale modo migliore di fare imparare al Negro a essere libero che costringerlo a lavorare?” (Mbembe 2005: 210-11).
Dell’immaginario coloniale popolare italiano fanno parte anche le veneri nere. Tra queste, Joséphine Baker. Nel suo contributo No banana in Phototeca 12, Ando Gilardi (1983a) critica Baker per aver appoggiato il “compromesso storico fra la grossa borghesia industriale e bianca, e la piccola avida e corrotta borghesia ‘artigianale’ e ‘burocratica’ dei reduci tornati in sede (in Algeria, in Indonesia, in Sudan…)”. Nel testo Gilardi afferma che le “veneri nere” dopo Joséphine Baker “non ci interessano perché non vogliono dire più niente” (Gilardi 1983a: 74). Emerge un limite in quanto afferma Gilardi sulla scarsa rilevanza delle “veneri nere” dopo Baker. Si pensi ad esempio a quanto sosterrà più tardi Gaia Giuliani (2017) sulla popolarità della “venere nera”, come figura della razza (Giuliani 2015), nei prodotti cinematografici soft porno interrazziali dei primi anni Settanta, come ad esempio nei film diretti da Luigi Scattini con l’attrice eritrea Zeudi Araya, da La ragazza fuoristrada (1973), Il corpo (1974), a La ragazza dalla pelle di luna (1972). Ma anche a film come Emanuelle nera (1975) di Albert Thomas e Emanuelle nera-Orient Reportage (1976) di Joe D’Amato, con l’attrice indonesiana-olandese Laura Gemser, in cui, sostiene Giuliani, il modello di sessualità interrazziale libera, paritaria proposto, non si preoccupa di problematizzare tale parità, e non mostra influenze del passato coloniale.
Tra le fotografie di veneri nere nel contributo di Gilardi, vi è anche quella impiegata per la pubblicità di una moto Bianchi degli anni Trenta (Fig. 1). Negli anni Trenta il marchio Bianchi pubblicizzava un suo nuovo modello di moto “mostrando una sexy indigena in topless, a cavallo di una 250 con ‘telaio elastico’ e cammello d’ordinanza sullo sfondo”.3 In Gender, Race and the Colonial Archive, Gaia Giuliani (2016), nel solco di Fatimah Tobing Rony (1996), rileva in Italia un “regime scopico” (Jay 1988) che produce soggetti razzializzati, ma al contempo include tali soggetti nella stessa Nazione che li razzializza. L’inclusione poggia sullo sguardo epistemico che ri-conosce l’Altro come “The good savage, the little brown victim, as well as the Mammy are thus deployed to contain the ‘unmasterable’ Jezebel and Sapphire” (Giuliani 2016: 2). Ciò che emerge nella pubblicità della Bianchi, è l’immagine della Jezebel, sessualmente prorompente alla guida di un simbolo del progresso. La donna, con la pelle scura, vergine e selvaggia, erotizzata, è tanto più attraente quanto più nega il suo stato selvaggio d’origine (palma e cammello dal quale prendere le distanze in velocità) e quanto più si intreccia all’immagine del progresso occidentale (la moto). Tuttavia, i seni scoperti, il sorriso, e lo stesso cammello riportano all’immagine del “good savage”, dell’innocenza. Quel corpo femminile deve rimanere corpo selvaggio, soprattutto per il piacere dello sguardo maschile a cui la pubblicità sembra essere rivolta.4
Nel numero dodici di Phototeca, letture della logica coloniale italiana, del suo razzismo coloniale, come nelle fotografie di veneri nere ottentotte (e rievocazioni contemporanee come la fotografia tratta dal catalogo Jungle Fever di Jean Paul Goude del 1982, inserita in Phototeca 12: 107), sono inserite in un contesto più ampio. Nel suo contributo Giorgio Placereani (1983) critica la stereotipizzazione degli indiani costruita dagli inglesi nei film sul colonialismo inglese in India. Critica anche il cinema italiano coloniale, ritenuto non solo provinciale rispetto al più popolare cinema americano, ma necessario alla copertura di crimini di guerra nell’immaginario collettivo. “È che il cinema coloniale italiano aveva un’urgenza giustificativa che a quello americano mancava. […] soprattutto perché alla fine degli anni Trenta gli italiani avevano appena vinto la guerra d’Etiopia (usando i gas)” (Placereani 1983: 138). Dunque, se per un verso Placereani scrive di italiani poveracci, di società e cinema provinciale per connotare il cinema coloniale italiano, per un altro l’urgenza giustificativa dell’uso dei gas nella guerra d’Etiopia (Fig. 2) prende le distanze dall’alimentazione del mito italiani brava gente.
L’esigenza giustificativa dell’esportazione del modello superiore occidentale e delle invasioni coloniali, permea anche la storiografia occidentale. “Solo recentemente, con il superamento di una visione piattamente eurocentrica, un dubbio ha cominciato ad insinuarsi nella tronfia certezza del mondo occidentale di essere l’unico e ottimo portatore di sviluppo e di civiltà” (Cacciò 1983: 167). Nel suo contributo sull’espansione coloniale europea e americana in Giappone, Marina Cacciò (1983) mette in parallelo due considerazioni sui giapponesi, una del gesuita italiano Alessandro Valignano del 1583, e l’altra del primo ambasciatore inglese in Giappone, Sir Rutheford Alcock. La distanza di tempo tra le affermazioni dei due diversi soggetti non diversifica la considerazione che entrambi hanno dei giapponesi. Una considerazione denigratoria che guarda ai giapponesi come a soggetti strani, indecenti, bizzarri nei loro usi, nei principi morali, nel modo di dirigere la scrittura e la lettura. Conclude Cacciò: “il colonialismo è, infatti, oltre che un fatto economico, un atteggiamento mentale e il gusto delle ‘differenze’, seppure ammantato di obiettività scientifica, rivela sempre l’ottica del razzismo” (Cacciò 1983: 173). Ciò che emerge con forza in questa affermazione di Cacciò è un atteggiamento decostruttivo della logica coloniale. Una logica che ha costruito l’Altro come inferiore in modo da costruire, per opposizione, il Sé come superiore. Una stampa è inserita nel testo di Cacciò.
Si tratta di un trittico (Fig. 3) che mostra un concerto al Conservatorio musicale di Tokyo. “Nel 1883, il governo nipponico, […] pensò bene di edificare il Rokumeikan, una sala da ballo con annessa sala da gioco, biliardi, eccetera dove l’alta società giapponese poteva offrire trattenimenti agli stranieri” (Cacciò 1983: 173). Una citazione tratta da Madame Chrysanthème5 di Pierre Loti del 1887, è inserita da Cacciò nella didascalia dell’immagine. Nella citazione, gli uomini del governo nipponico che vestono abiti occidentali, vengono ridicolizzati e considerati “simili a scimmiette” (Loti 1887, ora in Cacciò 1983: 173). L’Altro viene denigrato e inferiorizzato quando adotta forme della razza superiore. Bhabha (2001) chiama “mimicry”, l’imitazione dei comportamenti e costumi dei colonizzatori, “che rappresentano in qualche modo una parodia o, […], una ‘brutta copia’ dell’originale” (Mellino 2005: 62). Tuttavia, il giudizio di Loti sembra piuttosto dipendere dall’arroganza eurocentrica di chi è convinto di essere l’unico a poter indossare certi abiti nel modo giusto e sapersi comportare nel modo giusto, tanto che dell’Altro che mutua, scambia abiti, usanze e comportamenti con altri, non vi è riconoscimento dell’agency. A tal proposito Loti ridicolizza anche le donne giapponesi, le quali “ballano come automi, senza la minima iniziativa personale” (Loti 1887, ora in Cacciò 1983: 173).
Anche l’adozione della lingua del modello di razza superiore, diviene motivo di ridicolizzazione dell’Altro, in particolare dell’Altro colonizzato. Una stereotipizzazione verbale assegnata agli africani o afroamericani “si incontra sovente nelle sonorità cinematografiche delle vie ventose in fuga o delle radici incatenate o anche delle capanne imbiancate” (Sisti 1983a: 123). Si tratta di un uso, in particolare nel cinema, della lingua italiana sgrammaticata, con i verbi coniugati all’infinito, che Sergio Sisti denuncia nei due testi in Phototeca 12: Buana imbordare fodo (Sisti 1983a) e Sferica devozione alla liquerizia (Sisti 1983b). Tuttavia, nei due testi, Sisti finisce per confezionare la critica con l’oggetto stesso della critica. Pur denunciando l’uso strumentale della lingua rozza e stereotipata che condanna al cinema, Sisti impiega la stessa stereotipizzazione verbale per una caratterizzazione irriverente e dissacrante dei suoi testi in Phototeca 12. Allo stesso modo Sisti evidenzia con respiro critico l’impiego di una donna nera corpulenta e desessualizzata come domestica, la Mammy, nel cinema. Tuttavia, anche in questo caso, l’irriverenza che caratterizza il suo testo, oltre all’uso della stereotipizzazione verbale attribuita ad africani e afrodiscendenti, gioca sin dal titolo con la corpulenza della Mammy. Inoltre, l’irriverenza di Sisti gioca anche con l’associazione tra colore della pelle e liquerizia. Anche se Sisti tiene a dire che “la sfericità da rimpallo è una predisposizione mentale, quindi simbolica più che corporea” (Sisti 1983b: 182). Sisti, in Buana imbordare fodo, inserisce alcune immagini pubblicitarie come quella del Chocolat Velim o del Kakao Schokolade Pralinen Sarotti, nelle quali emerge l’intersezione tra colore della pelle, cibo e gusto. Prodotti come il cacao, o il cioccolato, e il caffè, sono stati visualmente offerti all’immaginario collettivo occidentale, in particolare attraverso pubblicità, in relazione con genere, sessualità, colore della pelle, gusto. Sedimentazioni di questa relazione, nelle sue mutazioni e ricontestualizzazioni, permeano anche nella contemporaneità rappresentazioni visive pubblicitarie (Ponzanesi 2005, Sabelli 2010, Perilli 2012). Ad esempio, la relazione fra liquirizia e corpi di donne con la pelle scura, evocato da Sisti, caratterizzava negli stessi anni Ottanta la pubblicità televisiva delle caramelle Morositas, proposta a partire dal 1986 in Italia. Il jingle dello spot cantava: “E’ morbida, è fresca, è profumata, la vera mora, la più desiderata,…”, mentre la modella, attrice e cantante francese Cannelle (Helena Viranin, la cui pelle scura potrebbe rievocare la mora coloniale) ancheggiava di spalle con un cortissimo short e una canottiera con scritta e colori della stessa confezione delle Morositas.6 Il testo del jingle si intrecciava con il processo visivo, generando un’associazione fra la caramella e il corpo della donna quali prodotti da mangiare, morbidi e gustosi, alimentando un’allusione sessuale che intersecava colore della pelle, genere, desiderio, e gusto.
Nel suo contributo, ultimo in Phototeca 12, Angelo Schwarz (1983) critica l’antropologia culturale e le immagini da questa impiegate nelle sue classificazioni, per costruire differenze discriminanti. Schwarz era il direttore della Rivista di storia e critica della fotografia (menzionata in questo articolo tra le prime tracce degli anni Ottanta sul razzismo coloniale italiano). Nel secondo numero di tale rivista, dedicato a “fotografia e colonialismo”, la redazione (1983) apprezzerà il catalogo Sì e no padroni del mondo (altro materiale menzionato in questo articolo come traccia negli anni Ottanta sul razzismo coloniale italiano), per come sul piano storiografico sono stati affrontati i problemi che il colonialismo fascista ha posto ai produttori di immagini, e sul ruolo che ebbero le immagini. D’alto canto, la stessa rivista Phototeca appare nella bibliografia di diversi contributi nel catalogo Sì e no padroni del mondo. Schwarz in Phototeca 12 sostiene che ciò che le immagini classificatorie realizzate dall’antropologia culturale hanno contributo a mettere in opera è stato uno dei peggiori colonialismi, il colonialismo “razzologico”. Soggetti fotografati e contesti “truccati”, sono costruiti in modo da farne “tipi” indicativi di diverse regioni del mondo. Sarà poi la fisiognomica a rendere saldo il rapporto tra antropologia e fotografia. L’obiettività della fotografia agli occhi dell’osservatore, insiste Schwarz, non poggia sul fatto che essa registra l’evento irripetibile, quanto piuttosto sul fatto che essa “esprime e suffraga secondo modelli culturali” (Schwarz 1983: 200). Un’affermazione, quest’ultima, che insieme ad una precedente nella quale Schwarz sostiene che “fotografie del mondo coloniale ridanno così più i colonizzatori che i colonizzati” (Schwarz 1981: 5), anticipa quanto sosterrà Alessandro Triulzi nel 1988: “Gli archivi coloniali, anche quelli fotografici, vanno spesso letti più come testimonianza della società e della cultura d’origine dei fotografi che dei soggetti e società ‘altre’ fotografate” (Triulzi 1988: 40-41).
Pratiche discorsive e visuali hanno costruito l’Altro coloniale, la e il “selvaggio”, alla stregua dello “strano” e mostruoso (Grechi 2016: 71). Scrive Giulia Grechi che “la rappresentazione del corpo è un processo cruciale per la scoperta e la costruzione della differenza” (2016: 20). Tuttavia, il momento più violento nel colonialismo italiano sarà segnato dal passaggio dalla discriminazione culturale alla discriminazione politica, al razzismo di stato e alla legislatura razzista della difesa della razza. Un organo di propaganda che segnò questo passaggio fu La difesa della razza, rivista fascista pubblicata tra il 1938 e il 1943. Di questa rivista, Schwarz inserisce nel suo contributo in Phototeca alcune fotografie e didascalie. Si tratta di costruzioni visuali tese ad inferiorizzare uomini e donne delle colonie africane, in modo da costruire, per opposizione, la superiorità della razza italica. Veneri ottentotte e meticci, mostrati come strani e inferiori, rendono evidente l’irresponsabilità del mescolamento delle razze. La costruzione visuale della superiorità del modello italiano (o italico) in contrapposizione chiastica figura-sfondo con l’arretratezza del modello africano nelle colonie, è alimentata da altri due fotomontaggi tratti da La difesa della razza del luglio 1941 (Figg. 4-5).
Nella didascalia che accompagna i due fotomontaggi nella stessa rivista si legge: “Guardate come contrasta il volto di questo giovane ariano con il desolato paesaggio africano e come il mirabile sfondo architettonico respinge il volto deforme di questa negra” (Gilardi 1983b: 210-11). Conclude Schwarz che “lo stupro coloniale” è stato perpetrato tanto fisicamente, quanto attraverso immagini, di cui “il museo etnografico sarà poi la celebrazione di tanta violenza sublimata in scienza” (Schwarz 1983a: 211).
3 Conclusioni
Nei primi anni Ottanta sono rintracciabili delle prime interessanti tracce di studi storici e divulgativi non solo sull’antisemitismo, ma anche sul razzismo coloniale italiano. Questi studi hanno preso in esame pratiche discorsive e, quale novità nel contesto italiano, pratiche visuali. I diversi materiali dell’archivio coloniale (testi e soprattutto immagini) attraversati, verranno trattati nuovamente in studi italiani successivi su razza e razzismi. Per quel che riguarda la rivista Phototeca, i numeri 1, 3, e 12 hanno im-piegato immagini di veneri nere, di pubblicità di cibi e prodotti con iconografie coloniali, immagini e testi tratti dalla rivista fascista La difesa della razza, altri dalla letteratura italiana coloniale, altri ancora dal colonialismo razzologico dell’antropologia. Parte di queste immagini e testi verranno trattati nuovamente nella mostra e catalogo La menzogna della razza del 1994 e ancora nella mostra e catalogo L’offesa della razza. Razzismo e antisemitismo nell’Italia fascista (Bonavita, Gabrielli e Ropa 2005). Tuttavia, rispetto a questi materiali, Phototeca 12 ha attraversato soprattutto il razzismo culturale prefascista e fascista, non prendendo in esame il razzismo istituzionale, politico.
Anche altri materiali attraversati in Phototeca 12 verranno trattati nuovamente in proposte successive. Ad esempio, le cartoline coloniali di De Seta e le immagini e testi nelle riviste destinate a bambini e bambine, ragazzi e ragazze, saranno impiegate in alcune analisi visuali ne La pelle giusta di Paola Tabet (1997).
I diversi contributi in Phototeca 12 hanno combinato immagini di archivi coloniali per una lettura in contropelo che facesse parlare quei materiali, anche per evidenziare la contraddittorietà e l’ambivalenza degli usi e delle stesse immagini, in particolare fotografiche, all’interno di specifici contesti storici, sociali, culturali. Combinazioni, che nel numero 12 di Phototeca sono state im-piegate per uno sguardo sulle molteplici istanze sociali, culturali, economiche e sui diversi dispositivi in azione nelle diverse forme di razzializzazione e razzizzazione dell’Altro coloniale, alla base dell’esercizio del potere delle società geografiche in stretto rapporto con società commerciali, ma anche dei presupposti altri delle Chiese, dell’imperialismo fascista, delle motivazioni di riscatto di disoccupati e contadini, del turismo sessuale borghese. Un approccio, questo di Phototeca, che sembra muoversi nella direzione di Anna Laura Stoler (2009, 2016) nell’impiego degli archivi coloniali. Un impiego molto caro agli studi postcoloniali e visuali più recenti anche nel contesto italiano (ad esempio i lavori singoli e collettanei delle ricercatrici e dei ricercatori del gruppo InteRGRace, tra gli altri Visualità e (anti)razzismo, 2018). Tuttavia, a differenza di Stoler, l’interesse di Phototeca era rivolto ad una rielaborazione e decostruzione del periodo coloniale, che non ha guardato ad una possibile relazione del passato coloniale con i razzismi contemporanei.
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In merito alla novità di questa proposta, scrive Paolo Morawski “poco spazio si è dato sinora in Italia all’immagine come documento e stimolo al lavoro dello storico; i fondi fotografici vengono pressoché ignorati dagli storici. Opportuna e coraggiosa è quindi l’iniziativa della ‘Rivista di storia e critica della fotografia’. […] L’analisi del materiale fotografico delle colonie deve svelare così l’eurocentrismo e la prevaricazione dei bianchi operata anche tramite l’immagine” (Morawski 1982: 461).↩︎
Queste fotografie, così come quelle nel dodicesimo numero di Phototeca (1983), quelle nei numeri 3 e 5 della Rivista di storia e critica della fotografia (1981 e 1983) e del catalogo Si e no padroni del mondo (1982), anticiperanno le nuove presenze e nuove riflessioni, negli anni Novanta, sulle stesse e su altre fotografie di donne africane nelle colonie italiane (da Triulzi 1988, 1995, 1997, 1999, Goglia 1989, 1994, 1996, fino a Palma 2002, Bini 2003). In realtà, nei primi anni Ottanta vi sono altri contributi teorici sull’impiego delle fotografie degli archivi coloniali come fonti storiche (De Felice e Goglia 1981, Goglia 1981-1982, Goglia 1985). Tuttavia, questi verranno aspramente criticati da Raffaele Messina, per il quale in “tutti e tre i casi non si ha altro che una sovrapposizione delle immagini fotografiche ad una ricostruzione storiografica elaborata preventivamente e su altre basi documentarie” (1987: 130).↩︎
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Sostengono Gabriella Campassi e Maria Teresa Sega che nel periodo coloniale “la nudità, integrale o parziale, è la modalità fissa […] di fotografare, e quindi di pensare la donna nera” (Campassi e Sega 1983: 54).↩︎
Scrive Cacciò (1983) che con esso Loti inaugurò il racconto coloniale in voga nell’occidente, che si basa, mutatis mutandi se si pensa al racconto coloniale italiano, sul perduto amore della povera giapponesina sedotta e abbandonata dall’avvenente ufficiale europeo.↩︎
Come suggerisce Vincenza Perilli (2012), la mercificazione del corpo femminile, la sua rappresentazione di corpo da mangiare nell’associazione con cibi nelle pubblicità, non è un’esclusiva di donne con la pelle scura. Prima di Cannelle, nel 1984, la pubblicità delle caramelle Morositas è stata interpretata dalla showgirl e attrice italiana Carmen Russo (Carmela Carolina Fernanda Russo). Tuttavia, digitando oggi “pubblicità Morositas”, la quasi totalità di siti che la ospitano o la commentano, si rivolgono alla pubblicità con Cannelle, dicendoci della maggiore presa della versione con Cannelle sull’immaginario collettivo.↩︎