Il titolo del volume di Giulia Muggeo, Star domestiche, è un doppio gioco di parole che individua con efficacia e precisione l’oggetto dello studio: da un lato le star domestiche sono le celebrità televisive, che rispetto alle loro controparti cinematografiche sono da sempre caratterizzate come più prossime allo spettatore, quasi-membri del nucleo familiare; dall’altro le star di cui si parla sono quelle di casa nostra, i primi famosi creati dalla televisione degli esordi, nel periodo che va dal 1954 ai primissimi anni Sessanta. Si tratta quindi di un saggio di notevole specializzazione, che tuttavia riveste un interesse più generale sia perché si colloca chiaramente nel filone dei celebrity studies, sia perché traccia un solco in un’area molto poco battuta e che richiede consistenti indagini di archivio. Arricchito da una prefazione di Luca Barra e da una postfazione di Giulia Carluccio, il volume è una necessaria e benaugurante aggiunta specificamente televisiva alla collana “Actors Studio”, diretta in Kaplan da Carluccio stessa e da Alberto Scandola.
Nell’introduzione vengono subito problematizzati entrambi gli aspetti richiamati dal titolo: sulla scorta degli studi di James Bennett e Graeme Turner, Muggeo si propone innanzitutto di superare la suddivisione tra “star” cinematografiche e “personalities” televisive, spesso adottata nei celebrity studies, prendendo invece in considerazione la complessa stratificazione delle molte possibilità della fama televisiva, impossibile da ridurre a un unico modello. E lo dimostra il caso italiano, in cui troviamo “un personality system allargato, all’interno del quale si affastellano presentatori televisivi provenienti dagli ambienti più disparati, attori cinematografici e teatrali, concorrenti di quiz show, conduttori di telegiornali e così via” (p. 26). La nostra paleotelevisione, quindi, può e deve essere studiata tenendo conto dei “divi televisivi”, come propone di identificarli Muggeo, che attraverso le loro performance danno un contributo fondamentale alla creazione dell’identità di un medium ancora in fase sperimentale.
Nei tre capitoli che compongono il saggio si evitano le panoramiche e ci si getta, invece, in tre studi di caso che costituiscono tuttavia una sorta di mappa delle diverse forme di divismo: le persone comuni, innanzitutto, che diventano “eroi televisivi” attraverso la partecipazione ai quiz, in particolare Lascia o raddoppia e il Musichiere. I “quasi divi” come Paola Bolagnani, Lando Degoli o Spartaco D’Itri si collocano al centro di una rete di rimandi intermediali e sono trasformati dal sistema mediale del tempo in “veri e propri prodotti di consumo” (p. 45) attorno ai quali costruire narrazioni veicolabili anche nel cinema, nella pubblicità, sulla stampa, dal vivo. Gli eroi televisivi possono essere inquadrati sia in continuità con il progetto neorealista, per la “comune fiducia riposta dal sistema dei media in corpi e volti in grado di rimandare, con la propria semplice fisicità e presenza, a realtà del Paese fino ad allora sconosciute” (p. 41), sia come affini agli eroi dello sport, come viene reso evidente dal fatto che il lessico epico della cronaca sportiva viene spesso applicato al racconto delle imprese dei concorrenti stessi nei quiz. Il secondo capitolo affronta invece i casi di Mario Riva e Mike Bongiorno, rappresentanti di due opposte possibilità di un “galateo televisivo” appena nascente: il primo è più paterno e popolano, bonario alleato dei concorrenti del Musichiere e in generale degli spettatori, con i quali dialoga direttamente dalle pagine del Musichiere in versione rivista; il secondo, invece, è il prototipo del presentatore professionalizzato, scrupoloso nell’applicazione delle regole e di un protocollo spesso rigido proprio perché ancora in costruzione. Nel terzo capitolo, infine, si arriva al caso Walter Chiari, anima ribelle e incontenibile, che deborda dai tempi televisivi con la sua parlantina e crea spettacolo dentro e fuori dallo schermo, tra i pettegolezzi sulle sue avventure amorose, i leggendari ritardi con i quali si presentava sul set, la sua programmatica impreparazione compensata dalla capacità di improvvisare. Chiari incarna allo stesso tempo la forte continuità tra il nuovo medium e il teatro, con particolare riferimento al teatro di rivista, e la modernità di una televisione già intermediale, che rompe i confini tra tradizionali le forme di spettacolo e commenta continuamente se stessa. Particolarmente interessanti sono le analisi delle performance di Chiari come presentatore della Via del successo, del modo in cui viene riciclato il repertorio teatrale, della recitazione, dell’uso delle mani.
Alla luce di questi casi di studio, quindi, assume una luce completamente diversa anche il famoso articolo di Umberto Eco sulla Fenomenologia di Mike Bongiorno, che costituisce comunque un punto di partenza quasi obbligato. La “mediocrità assoluta” che Eco identifica come causa della fama di Bongiorno si colloca, nelle pagine di Muggeo, all’interno di una mappa molto più variegata di possibilità, mostrando così sia l’ampio ventaglio di elementi che costituiscono la fama televisiva, sia la costruzione discorsiva che crea e abbatte i divi. L’autrice ricostruisce in maniera particolareggiata il contesto all’interno del quale nasce il famoso articolo di Eco, fatto di ampie discussioni che hanno coinvolto anche Renzo Renzi, Luciano Bianciardi o Indro Montanelli.
Tutto lo studio di Muggeo si appoggia, oltre che su una minuziosa analisi dei testi televisivi, su un’interessantissima ricostruzione dell’azione parallela svolta dalle riviste, dagli house organ come Il Radiocorriere e Il Musichiere ai settimanali come L'Europeo, Oggi, Famiglia Cristiana. Si dimostra così come la fama televisiva fosse il frutto di un’estesa rete di relazioni intermediali in cui la narrazione costruita intorno ai divi veniva ampliata e perpetuata attraverso la carta stampata.