Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.21 (2022), 231–233
ISSN 2280-9481

Riflessioni e rifrazioni della mascolinità. Angela Bianca Saponari, Federico Zecca (a cura di), Oltre l’inetto. Rappresentazioni plurali della mascolinità nel cinema italiano, Meltemi, Milano 2021

Chiara TognolottiUniversità degli Studi di Pisa (Italy)

Pubblicato: 2022-07-14

Fino dal titolo, Oltre l'inetto, il volume curato da Saponari e Zecca intreccia una fitta conversazione con uno dei saggi di ambito anglo-americano dedicati al cinema italiano più influenti degli ultimi anni. Uscito nel 2004 – e curiosamente mai tradotto in italiano – lo studio di Jackie Reich Beyond the Latin Lover: Marcello Mastroianni, Masculinity, and Italian Cinema ha segnato da subito, e rimane tuttora, un saldo punto di riferimento negli studi sulla mascolinità del cinema nazionale. Come è noto la studiosa rilegge una categoria di impianto letterario, quella del personaggio maschile come inetto, ovvero incapace di agire, inadatto e a disagio nel trovare il proprio posto nel mondo, recuperandola dagli studi dell'italianista Gian Paolo Biasin dedicati al Novecento – ma che, come nota Giacomo Manzoli in uno dei testi che compongono il volume, possiede un raggio di azione ben più ampio, fino a comprendere Don Chisciotte e Amleto. Alla matrice letteraria Reich accosta la prospettiva antropologica, in particolare lo studio di David D. Gilmore Manhood in the Making: Cultural Concepts of Masculinity, pubblicato nel 1990, dal quale trae la nozione della dimensione performativa della mascolinità, riconoscibile in area mediterranea e da identificarsi in una spiccata dimensione teatrale: in breve, stando a Gilmore, l'uomo mediterraneo si trova costretto a performare la propria mascolinità in ogni occasione pubblica, recitando il proprio ruolo di maschio sul palcoscenico della vita – pena il rischio della femminilizzazione e della emasculazione simbolica.

È una prospettiva di ricerca fruttuosa, come dimostra il brillante scritto di Reich; a partire dal quale Saponari e Zecca propongono nuove direzioni di indagine, così da evitare i rischi del binarismo – la figura maschile vista o come “maschio tradizionale” o come “inetto”: tertium non datur – e dell'essenzialismo insito soprattutto nella visione gilmoriana – la “mascolinità mediterranea” come entità astorica e immodificabile.

Così i numerosi scritti contenuti nel volume, testimoni di un convegno tenuto alla Università di Bari nel dicembre 2018 a cura degli stessi Saponari e Zecca, muovono lungo sentieri molteplici alla ricerca di figure di maschilità nel cinema italiano più variegate, plurali e complesse, sulla scorta di una concezione costruzionista del gender, non essenzialista ma mutevole – ovvero storicamente situata – e intersezionale, così da intrecciare genere, razza e classe. Le diverse analisi offerte dal volume colgono allora modelli di mascolinità egemoniche che si confrontano e si oppongono a mascolinità subordinate e marginali nei diversi sottocampi, per riprendere i termini di Pierre Bourdieu, in un panorama variegato di configurazioni che illuminano momenti diversi del cinema italiano. Nella impossibilità di ripercorrerle nel dettaglio, provo a individuare alcuni fili rossi che percorrono l'ordito del volume.

I saggi contenuti nella prima parte possiedono un taglio più teorico. Autori e autrici si confrontano con il «malessere patriarcale» (Bellassai), con l'«habitus» della mascolinità (Manzoli), con la contemporaneità del movimento #metoo (Rigoletto); oppure con momenti specifici del cinema nazionale (gli anni Trenta per Biasin, la destra radicale del dopoguerra per Giori, i combat film per Antichi, il cinema balneare per Uva, i decamerotici per Marini-Maio, il caso Life Size per Missero, lo zombie movie per Lino), rintracciando in ciascuno di essi posture maschili multiformi o, al contrario, estremamente rigide, sempre comunque in stretta relazione con il contesto storico, sociale e culturale che le hanno prodotte e accolte, così da suggerire paradigmi inediti anche a partire da generi tradizionalmente ritenuti minoritari e di conseguenza meno degni di analisi.

Gli studi che formano la seconda parte presentano una serie di affondi su singole figure divistiche, calando i costrutti teorici dentro le diverse corporeità. Qui la necessità di rintracciare altre posture del maschile si fa più stringente, segnalata da abiti e corpi non conformi al binomio virilità tradizionale/inettitudine. Occhiali da sole, cappello e sigaro sfoggiati da Pietro Germi (Saponari) segnalano, secondo la studiosa, una attitudine narcisistico-esibizionista che approda a una “mascherata della maschilità”, che si rivela con più acutezza nelle figure di una identità queer indicate dalla sottoveste di seta azzurra sul corpo muscoloso di Filippo Timi (Scandola), come anche dai capelli ossigenati e dal grembiule rosa di Sordi (Cantore). La canottiera di Raf Vallone, indizio di un carattere virile e tutto d'un pezzo (O'Rawe), richiama la erotizzazione del corpo di Alessandro Borghi (Landron); quest'ultimo appare declinato, allo stesso tempo, ora in una torsione omoerotica – al pari del Maurizio Arena descritto da Landrini – ora nel corpo politico (e di martire) di Stefano Cucchi (Sulla mia pelle, A. Cremonini, 2018). Anche il corpo nudo e non conforme ai modelli di mascolinità egemonica di Renato Pozzetto è letto da Rigola come segno di una pluralità di modelli in transizione; in modo analogo Bisoni, come anche da Zecca nel saggio introduttivo, osservano le diverse declinazioni della mascolinità in Ugo Tognazzi, sospese tra affermazioni di virilità e l'uomo “senza tanti muscoli e che non sa nuotare”, come suggerisce Francesca/Catherine Spaak in La voglia matta (L. Salce, 1962). Infine, una maschilità che si rifrange nel doppio e in uno specchio deformante è all'opera nel Vittorio de Sica nei panni del conte Max (Martin), così come nelle declinazioni successive dello stesso personaggio, e anche nella galleria di interpretazioni e di apparizioni pubbliche di Valerio Mastandrea (Nicoletto), nelle quali scompare l'idea di virilità tutta di un pezzo a favore di una pronunciata e scanzonata autoironia su un corpo “come un legnetto del gelato”.

Per chiudere, Oltre l'inetto costituisce senz'altro un importante punto di arrivo negli studi sulle declinazioni del maschile nel cinema italiano; tra i tanti rilanci possibili suggeriti da queste pagine, vorrei richiamare l'urgenza di un dialogo ancora più stretto con i gender e queer studies, che affiancati alla altrettanto necessaria prospettiva della ricostruzione storica potranno condurre a ulteriori letture complesse e plurali delle configurazioni di genere nel panorama della cinematografia nazionale.