Come osserva Gabriele D’Autilia nella prefazione al libro di Caterina Martino, non si tratta dell’ennesimo volume sui film di Kubrick, rivolto ad ampliare la letteratura scientifica sul regista; piuttosto, il saggio contribuisce allo studio della cultura visuale come “luogo franco” del legame tra la fotografia e il film attraverso uno degli autori cinematografici per eccellenza.
Considerando i film di Kubrick come oggetti teorici stratificati, dotati di una struttura complessa e attraverso un approccio filologico, Martino rivela il pensiero fotografico del cineasta soffermandosi su tre aspetti: i collegamenti con le opere di fotografi appartenenti alla Photo League newyorchese, o riconducibili alla New York School of Photography; la presenza di forme fotografiche; le modalità configurative, narrative e teoriche.
Seguendo un ordine cronologico, l’autrice sviluppa l’analisi in cinque capitoli, individuando tre differenti fasi: anni del fotogiornalismo (1945 – 1950); i documentari e i primi lungometraggi (1951 – 1955); i feature film (1957 – 1999).
Il primo capitolo è dedicato alle realtà fotografiche di New York nel periodo in cui Kubrick si forma come fotografo: la Photo League, la New York School of Photography, le riviste di fotogiornalismo, la street photography.
Composta da fotografi quali Weegee, Arthur Rothstein, Lisette Model ecc. la Photo League utilizza la fotografia come strumento di informazione sociale, sostituendo alla rappresentazione oggettiva delle classi meno agiate una rappresentazione sentimentale derivante dal coinvolgimento diretto del fotografo nella scena. Ad accomunarli è l’approccio collaborativo nel contesto urbano di New York, una ricerca fotografica umanitaria e formale e la Jewishness condivisa dai c.d. ebrei americani di seconda generazione (Deborah Dash Moore). I legami con alcuni membri (Rothstein, Wegee) e l’appartenenza di Kubrick alla terza generazione di ebrei americani gettano nuova luce sulla Jewishness del regista, solitamente approfondita e limitata a letture sintomali dei suoi film. Kubrick richiama l’ebreo gentile di Edgar Morin, un ebreo/non ebreo dalla tripla identità (ebreo, americano, inglese) la cui relazione con i Leaguers è rintracciabile nella sensibilità verso le storie degli emarginati, dei freaks e di un’umanità apparentemente insalvabile.
Identificata tra le componenti essenziali del rinnovamento della fotografia americana del periodo, la Jewishness accomuna un altro gruppo di fotografi, la New York School of Photography – Diane Arbus, William Klein, Garry Winogrand. Sintetizzando tre insegnamenti fotografici (i reportage di Lewis Hine, la documentazione architettonica della metropoli e lo sguardo etico della Photo League), il gruppo offre una rappresentazione “neorealista” della città. Il “salto dalla fotografia al cinema” configura tale esperienza come un rito di passaggio per questo gruppo di fotografi ebrei newyorkesi evidenziando la continuità tra le due forme mediali dal momento che già il photo essay costituisce “un esercizio sulla narrazione fotografica che si avvicina allo stile e ai modi di quella cinematografica” (p. 38). Alla luce dei collegamenti diretti e indiretti tra questi e Kubrick, l’autrice suggerisce che la transizione al cinema del giovane fotoreporter sia dovuta al senso di appartenenza del regista a questa comunità intellettuale.
Dopo aver ripercorso lo sviluppo del fotogiornalismo e il ruolo svolto dall’opera di Walker Evans nell’affermazione di uno stile documentario tra i fotografi newyorchesi, il secondo capitolo approfondisce l’esperienza di Kubrick come fotoreporter per la rivista Look, dove apprende i fondamenti della narrazione per immagini specializzandosi nei photo essay, confrontandosi con elementi e tecniche comuni alla regia fotografica e cinematografica (scelta del soggetto, mise en scène, montaggio, configurazione del profilmico). Esaminando le peculiarità e le influenze del fotogiornalismo kubrickiano – la narrazione fotografica come peripeteia, il ricorso a format specifici per i photo essay, la teoria del montaggio di Pudovkin – l’autrice si sofferma sulle differenti concezioni della sequenza fotografica prima e dopo l’avvento del cinema. Una “carrellata” dei racconti fotografici di Kubrick conduce alla ricca analisi di Prizefighter (1949) cui viene attribuita la funzione di storyboard per l’esordio cinematografico di Kubrick, Day of the Fight (1950). L’ambientazione nel mondo della boxe, il tema del doppio e la riproposizione di alcune scene del suo primo cortometraggio consentono all’autrice di considerare il photo essay, l’adattamento cinematografico e il primo noir del regista, Killer’s Kiss (1955) come tre versioni della stessa storia corrispondenti a tre periodi della sua carriera: fotogiornalismo, documentario, cinema.
Dal terzo al quinto capitolo è il cinema di Kubrick, dai documentari a vocazione neorealista americana al mediometraggio Fear and Desire (1953), a essere oggetto di analisi. Soffermandosi sull’operatività fotografica dietro la realizzazione del film, l’autrice sottolinea gli errori dovuti alla gestione delle immagini in movimento secondo la logica del photo essay e l’influenza del montaggio connotativo sovietico nella scelta delle inquadrature.
Altrettanto significative appaiono le relazioni tracciate tra i due film noir del regista e il suo background fotografico: le analogie tra Killer’s Kiss, la rappresentazione della metropoli nella raccolta fotografica Naked City (1945) di Weegee e il ruolo di attante svolto dalla fotografia nel film così come le “affinità elettive” con William Klein e Elliot Erwitt. Con questi ultimi il regista condivide il contesto storico e artistico di New York, l’ibridismo tra la fotografia e il cinema, l’infrazione delle regole della fotografia e del cinema classico come strumento di innovazione dei due linguaggi mediali.
Il quarto capitolo evidenzia la riflessione teorica di Kubrick sulla fotografia attraverso il medium cinematografico: l’utilizzo di fonti iconografiche di Paul Allard (Giulio Cerreti) e Ernst Fredrich della guerra per la realizzazione di Paths of Glory (1957), l’utilizzo della macchina fotografica come “strumento per produrre un immagine dell’oggetto del desiderio” in Lolita (1962), l’estetica del grottesco che accomuna Dr. Strangelove (1964) ai lavori fotografici di Winogrand, Klein e Weegee (fotografo di scena per volontà di Kubrick), l’uso della fotografia come metafora per raccontare l’evoluzione umana in 2001: A Space Odyssey (1968).
Nell’ultimo capitolo l’analisi di Shining (1980), Full Metal Jacket (1987) e Eyes Wide Shut (1999) evidenzia la riflessione di Kubrick sulle immagini (fotografiche e filmiche) in quanto «costruit[e], progettat[e], manipolat[e]» (p. 172). L’Arbus effect in Shining, il fotografo embedded di Full Metal Jacket e i riferimenti fotografici in Eyes Wide Shut (Jaques Henri Lartigue) consentono al regista di mettere in discussione l’ontologia dell’immagine fotografica di baziniana memoria.
Partendo dall’età della fotografia (1945 – 1950), Martino dimostra come l’esperienza nel fotogiornalismo sia fondamentale per comprendere adeguatamente il rapporto tra le due forme mediali nella filmografia del regista. Il libro offre delle stimolanti riflessioni sul rapporto tra la fotografia e il cinema – e sulle reciproche influenze dell’una sull’altra in relazione agli sviluppi tecnici e iconografici nei due media – rispettando la premessa di non essere “l’ennesimo […] sui film di Stanley Kubrick né sugli scatti realizzati per Look” (p. 11). Per questo motivo risultano particolarmente significativi i primi tre capitoli, dedicati all’esperienza da fotogiornalista e alle prime opere cinematografiche di Kubrick, un percorso che lo ha reso uno dei massimi esperti della narrazione per immagini.