Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.21 (2022), 239–244
ISSN 2280-9481

Cronache familiari post-pandemiche. 72° edizione del Festival del Cinema di Berlino

Cinzia CattinDeutsche Kinemathek Museum für Film und Fernsehen (Germany)

Pubblicato: 2022-07-14

Grazie ai molti tamponi, gli infiniti controlli e i numeri d’ingressi in sala rigorosamente dimezzati, questa edizione del Festival di Berlino si è potuta svolgere nelle sale cinematografiche nonostante il picco delle infezioni da Covid-19 in Germania fosse ancora molto alto. Non tutti hanno salutato favorevolmente questa decisione.

Lo scontento ha interessato più gli addetti ai lavori che non il pubblico, quest’ultimo felice di poter ritrovare l’atmosfera frizzante da festival che non c’era stata l’estate scorsa, quando i film erano stati presentati al pubblico solo mesi dopo l’assegnazione dei premi da parte della giuria. Quest’anno si è preferito scegliere la via del compromesso e accorciare i tempi, così che a metà manifestazione già si conoscevano i vincitori.

Come ogni anno, senza la presunzione di aver visto tutti i film – ma la consapevolezza di averne visti tanti! – si cerca di fare un bilancio, trovare una linea comune, per quanto possibile dare un quadro d’insieme. E certo, una tendenza generale, ricorrente in tutte le sezioni di questo festival, che definirei ‘quasi post-pandemico’, esiste. Proprio come molte persone a causa del virus si sono andate a isolare in spazi più vasti fuori dalle città, così anche la cinematografia, quasi a dare una cesura con il passato, esce volutamente dai centri urbani e trova nella campagna, o negli spazi limitrofi e periferici, terreno fertile per narrazioni di storie quotidiane. Ma un quotidiano che non ha nulla a che fare con il banale.

Si concentra su un’analisi dei rapporti nei nuclei familiari, sia pure sull’intimità delle relazioni madre-figlio, moglie-marito (Grand Jeté, Ta farda, Yin ru chen yan, Baqyt, Father’s Day), come anche sulla coralità di quelli più allargati (Alcarràs, Robe of Gems, La ligne, Nana, Alle reden übers Wetter, Fogaréu).

Con la famiglia posta come punto di partenza della narrazione, diviene centrale anche il ruolo della donna, quest’ultima vista sì tradizionalmente, come madre e moglie, ma il suo ruolo si arricchisce di molte e diverse interpretazioni e punti di vista. I temi, le storie e quindi molti ruoli principali sono affidati a donne e tante - senza fare statistiche salta subito all’occhio - sono le registe donna. Di conseguenza, a loro vanno molti dei premi in tutte le sezioni della manifestazione.

Senza dimenticare l’orso alla carriera dedicato alla poliedrica attrice Isabelle Huppert e una retrospettiva che porta luce sulla carriera cinematografica di tre grandi attrici nel periodo d’oro della commedia hollywoodiana: Mae West, con la sua prorompente sessualità, che non risparmia battute taglienti e a doppio senso; Rosalind Russel, la perfetta segretaria di screwball comedy; e la moderna sensualità elegante di Carole Lombard.

Cominciamo dai film in concorso dove, nella metà dei film presentati, si parla di famiglia.

Carla Simón, regista del film spagnolo vincitore dell’orso d’oro, Alcarràs (2022), durante la conferenza stampa tende a precisare, che per quanto il suo sia un film volutamente centrato sulla famiglia tradizionale, anche nella ‘sua’ famiglia (il film è in parte autobiografico), ha voluto mettere in risalto il ruolo chiave delle donne in una società tipicamente patriarcale come quella catalana. Ruolo che consiste nel difficile compito di mantenere gli equilibri e la pace fra gli individui di un clan allargato, com’è sempre stato nella comunità contadina.

Nella famiglia Solé, l’autorità del vecchio padre viene a mancare quando diventa chiaro che il suo accordo sulla cessione del terreno, che per decenni la famiglia ha coltivato a pesche, consiste solo in una stretta di mano con il proprietario terriero con cui il nonno era in amicizia. Un contratto scritto non è mai stato stipulato. Il frutteto di famiglia sarà sradicato e il terreno, ricoperto da pannelli solari, adibito all’economicamente più redditizia produzione di energia solare. Alla famiglia Solé è proposto un doloroso cambiamento: dovrà occuparsi della supervisione tecnica dei pannelli. L’unità del nucleo vacilla: i giovani della famiglia più aperti all’evoluzione verso una nuova economia, sarebbero propensi ad adattarsi alla novità, la vecchia generazione invece si radica in un totale rifiuto e provoca una divisione interna che porta alla rottura fra i due fratelli. La storia di finzione rasenta molto il realismo documentario grazie ad una ben dosata regia e una scelta accurata dei protagonisti. Gli attori stessi, non professionisti, sono stati scelti fra gli abitanti della campagna nella regione di Alcarràs, parlano l’accento catalano locale e sanno - in pratica da sempre - guidare un trattore.

Ancora in campagna, qui si tratta dell’entroterra messicano, è ambientato il film: Robe of Gems (2022) della regista messicana Natalia López Gallardo, premiato con l’orso d’argento. In un montaggio non lineare s’intrecciano i destini di tre donne, la ricca Isabel, la sua collaboratrice María e la poliziotta Roberta. Tutte e tre si trovano coinvolte, anche se per motivi diversi, nella stessa ragnatela di rapimenti e ricatti della malavita locale e rischiano di perdere la cosa a loro più cara. Nel dilatare del tempo e nello sfuocare delle immagini si perde la percezione della realtà, fino a sprofondare sempre più al livello del sogno. Il film risente molto dell’interazione artistica con il regista Carlo Reygadas, con il quale López Gallardo è legata privatamente e professionalmente.

In particolare quattro film in concorso raccontano di figure di madri e la storia della loro emancipazione femminile in un passato più o meno recente. Nana (Before Now & Then, Kamila Andini, 2022), si è abituata a subire i tradimenti del suo secondo marito pur di salvaguardare la facciata di famiglia felice, nella tradizione della ricca borghesia indonesiana. È proprio grazie all’ambigua intimità con l’amante del marito che si rende conto di quanto le sue libertà siano limitate alla vita domestica. Quando accidentalmente ritrova l’amato primo marito, partito soldato e creduto morto, decide che è arrivato il momento di dare una svolta alla sua vita e scegliere per la propria felicità. Il film accenna solo brevemente alla situazione politica durante la guerra d’indipendenza indonesiana mentre preferisce affidarsi a risvolti poetici e musicali che ricordano molto In the Mood For Love (Won Kar Way, 2000).

Nella cornice di una Parigi anni ottanta, quella meno conosciuta dei sobborghi e dei condomini di periferia, che non quella dei boulevard, troviamo Elisabeth (un’insolita Charlotte Gainsbourg) in The Passengers of the Night (Les Passagers de la Nuit, Mikhaël Hers, 2022). Separata da poco e madre di due figli ormai adolescenti, Elisabeth è alle prese con una sofferta ricerca d’indipendenza e autonomia. Grazie ad un lavoro in un programma radio notturno - da cui il titolo -, si lascia alle spalle la sua precedente vita di casalinga e si apre a nuove esperienze sentimentali.

Anche in Call Jane (id., Phyllis Nagy, 2022) la protagonista Joy (Elizabeth Banks) è una tranquilla casalinga della Chicago di fine anni sessanta. Dopo essere ricorsa di nascosto dal marito a un aborto clandestino, Joy decide di aiutare attivamente il gruppo illegale di abortiste cui si era rivolta, anche a rischio di compromettere la quiete familiare.

Un’altra centrale figura di madre è Rabiye in Rabiye Kurnaz vs George W. Bush (Rabiye Kurnaz gegen George W. Bush) di Andreas Dresen. Grazie a questa interpretazione Meltem Kaptan vince l’orso come miglior attrice. Un secondo premio, l’orso d’argento per la sceneggiatura, va all’autrice e produttrice Laila Stieler, con la quale Dresen ha spesso lavorato. Il film riassume la campagna di pressione internazionale, iniziata nel 2001, che ha permesso a Rabiye Kurnaz, assistita dal suo avvocato, di riportare a casa il figlio, rinchiuso nel campo di prigionia di Guantánamo. Questo fatto di cronaca non ha purtroppo perso di attualità, in quanto, ancor oggi, sono pur sempre trentanove i prigionieri detenuti nel lager americano dislocato a Cuba.

Molti dei film in competizione, pur non avendo ricevuto premi, meritano senz’altro una citazione.

Uno fra questi, il dramma A Piece of Sky (Drii Winter, Michael Koch, 2022), girato sui pendii montani delle Alpi svizzere. Marco (Simon Wisler), è un giovane robusto che lavora sodo, il suo fisico trasmette la stessa forza dei massi di montagna che deve spostare. Anna (Michèle Brand), fisicamente più fragile ma già mamma di una bambina, lo sposa anche per questa sicurezza fisica che Marco le trasmette. Quello che sembra iniziare come un tipico Heimatfilm si trasforma in tragedia quando al novello sposo è diagnosticato un tumore al cervello. I ruoli s’invertono. A occuparsi di Marco ora è Anna, la quale cerca tra mille difficoltà di rimanergli vicino. La grandiosità del panorama regala al film degli intervalli, quasi delle pause all’evolversi del dramma, mentre la montagna stessa, diventata elemento protagonista del film, risalta in contrasto alla quotidianità della vita nel piccolo paese, dove Anna si adopera per aiutare Marco. Anche qui, come in Alcarrás, gran parte del realismo, cui il film deve la sua intensità, è affidato alla bravura scenica di attori non professionisti. Drii Winter, che non manca di aspetti interessanti, riceve una menzione d’onore da parte della giuria, ma avrebbe potuto meritare qualcosa di più.

Anche il dramma The line (La Ligne, Ursula Meier, 2022) si svolge in Svizzera, durante l’inverno. La regista Ursula Meier, già conosciuta per Sister (L’enfant d’eh haut, 2012) ci mette a confronto con una situazione di violenza al femminile in una ben situata famiglia borghese. L’aggressività di Elisabeth (Stéphanie Blanchoud), la figlia maggiore, nasce dal profondo narcisismo della madre (Valeria Bruni Tedeschi) e nemmeno l’amore per la musica - la madre è pianista, la figlia compone canzoni – riesce più a tenerle unite. Come in Sister (e come vedremo anche in Grand Jeté) ci troviamo di fronte ad una figura di madre incapace di sentimenti materni; questi, sono sostituiti o compensati, con l’appagamento sessuale per ragazzi più giovani. Lo stesso tema è presente anche in AEIOU – A Quick Alphabet of Love (AEIOU – Das schnelle Alphabet der Liebe, Nicolette Krebitz, 2022) dove la protagonista Anna (Sophie Rois), si abbandona ad una pazza relazione con un suo studente.

Certo ci sono in concorso anche eccezioni a questa tendenza post-pandemica. Oserei dire che in direzione opposta si muovono i registi più affermati dell’edizione, come lo sono Hong Sangsoo, Paolo Taviani, François Ozon e Rithy Panh, i quali tendono a un maggior estetismo, fino talvolta a reiterare i canoni stilistici a loro più cari e senza paura di cadere nella ripetitività.

È il caso di The Novelist’s Film (So-seol-ga-ui yeong-hwa, 2022). Sangsoo, premiato con l’orso d’argento, non si allontana dallo stesso schema narrativo – a quanto pare comunque vincente! - ricco di spunti rohmeriani di The Woman Who Ran (Domangchin yeoja, 2020) con il quale già due anni fa aveva vinto alla Berlinale.

Lo stesso tema di Irradiés (Rithy Panh, 2020), film-documentario presentato due anni fa a Berlino, è riproposto quest’anno, sotto forma di film-metafora, dall’autore Rithy Panh in Everything Will Be OK (2022). Il regista cambogiano, parigino d’adozione si porta a casa il premio per l’eccezionale contributo artistico.

Paolo Taviani, nel suo, Leonora addio (2022), primo lungometraggio realizzato dopo la morte del fratello Vittorio, ricostruisce lo storico trasferimento delle ceneri di Luigi Pirandello. Dalla morte dello scrittore premio Nobel, deceduto a Roma nel 1936, esse arriveranno ad Agrigento solo nel 1962. Il viaggio romanzato dell’urna funeraria, vuole essere un tentativo, poetico ed estetico nel suo bianco e nero, di avvicinarsi alle teorie e alla letteratura pirandelliana, ma senza farne una trasposizione cinematografica, come invece avevano fatto precedentemente insieme i due fratelli cineasti in Kaos (1984).

Il film Peter von Kant (François Ozon, 2022) altro non è che un puro divertimento stilistico dedicato a Rainer Werner Fassbinder, il regista che più ha influenzato Ozon. Gli elementi del Kammerspiel in Le lacrime amare di Petra von Kant (Die bittere Tränen der Petra von Kant, R.W. Fassbinder, 1972) si ritrovano tutti in questo remake per ricordare i quarant’anni dalla morte del regista tedesco. Certamente il gioco di ripresentare elementi visivi così palesemente legati allo stile di Fassbinder è facilmente accessibile per un virtuoso del cinema come Ozon e se anche la bravura tecnica e le citazioni non ne fanno un capolavoro, il film risveglia la voglia di andarsi a rivedere l’originale.

Un breve sguardo alla sezione Panorama, conferma il trend annuale: dalle feste di compleanno (Alle reden übers Wetter di Annika Pinske) ai ritorni a casa (Fogaréu di Flávia Neves), fino all’estremo di un’incestuosa relazione madre-figlio (Grand Jeté di Isabelle Stever), passando per il tema della violenza di genere sotto il tetto domestico (Baqyt di Askar Uzabayev), o ancora il perpetuarsi delle dinamiche mafiose (Una femmina di Fancesco Costabile), ogni tensione ha un inizio e una fine in famiglia.

Spesso i problemi familiari sono generati dalle mancate promesse di un apparato sociale che non corre alla stessa velocità dei tempi che viviamo. È questo il caso presentato nel film iraniano Until Tomorrow (Ta farda, 2022) del regista iraniano, laureato in cinema in Italia, Ali Asgari. La storia di una ragazza madre di Teheran riprende un precedente cortometraggio di Asgari: The Baby (Bacheh, Ali Asgari, 2014). La giovane studente Fereshteh (Sadaf Asgari), aiutata dall’amica Atefeh (Ghazal Shojaei) deve trovare a chi affidare in tutta fretta la sua bambina di soli due mesi. Una soluzione è necessaria prima dell’arrivo dei genitori, che ignari di essere nonni, si fermeranno da lei per la notte. Inizia così un’odissea lunga un giorno, un susseguirsi di spostamenti, sui più diversi mezzi di trasporto, avanti e indietro per la capitale, alla ricerca di una soluzione temporanea, un qualcuno cui affidare il bebè. Alla stanchezza finale della protagonista corrisponde la consapevolezza che in una società senza parità di genere è difficile, se non impossibile, rompere gli schemi della famiglia tradizionale. Chi ci prova deve fare i conti con l’abuso di potere e il machismo imperante. Nonostante ciò, Ta farda, non è un film pessimista, anzi, trasmette la forza di volontà delle due giovani donne di ribellarsi a questo status quo, che volutamente le emargina. L’attrice Ghazal Shojaei è apparsa recentemente nella mini-serie televisiva Happiness (Shadi, Pouria Takavar, 2021) presentata sul canale Arte (peccato sia disponibile solo su Arte France e Arte Deutschland!).

Soffermiamoci ora su una diversione dal tema ‘famiglia’ nelle varie sezioni del festival.

Fra i documentari della sezione Panorama non è passato inosservato, sia per l’approccio al tema immigrazione secondo un punto di vista meno europeista, sia per la scelta della musica, il film No U-Turn (Ike Nnaebue, 2022). L’autore ripercorre, questa volta con la cinepresa, la stessa route africana che aveva intrapreso anni prima nel tentativo di raggiungere il continente europeo. Lungo la strada, il regista Nnaebue, si ferma a dialogare e a interrogare sui motivi che portano chi ancora oggi, con la sua stessa speranza di allora, cerca nell’emigrazione per mare, pur conoscendone i rischi, una scelta di vita fuori dall’Africa.

Non meno interessante è il viaggio nel passato, dove ci porta il documentario Nelly & Nadine (Magnus Gertten, 2022). Il regista, alla visione di un newsreel d’epoca, rimane incuriosito dai visi di prigioniere politiche arrivate in Svezia e liberate dal campo di concentramento di Ravensbrück in Germania. Cerca allora di risalire alla loro identità e s’imbatte inaspettatamente nella storia d’amore di Nadine, figlia dell’ambasciatore giapponese in Spagna e di Nelly, cantante lirica e attiva nella resistenza francese. Le loro stesse memorie, i ricordi della nipote e i filmati di famiglia permettono di risalire a una storia incredibile, che ci porta dall’Académie des Femmes di Natalie Barney, alla triste memoria dei campi di concentramento, fino agli anni più felici della coppia vissuti in Venezuela.

Anche la sezione Encounters è ricca d’interessanti proposte. Ricordiamo due opere fra le premiate dalla giuria, i film: See You Friday, Robinson (À vendredi, Robinson, Mitra Farahani, 2022) e Unrest (Unrueh, Cyril Schäublin, 2022). Nel documentario À vendredi, Robinson, la regista Mitra Farahani vorrebbe organizzare un incontro fra le due leggende del cinema Jean-Luc Godard e Ebrahim Golestan. Il progetto non si realizza ma dà l’avvio a una corrispondenza con cadenza settimanale, appunto il venerdì, fra i due. Le due personalità si scoprono essere profondamente antitetiche. Golestan abita una villa nel Sussex inglese, ama i pranzi in famiglia e si circonda di ogni comodità. Al contrario Godard, che vive solitario (o così vuol far sembrare) in un piccolo appartamento nella cittadina svizzera di Rolle, è autonomo nei lavori domestici, non ha mai smesso di fumare il sigaro e alla sua età si concede ancora qualche bicchiere di vino annacquato con l’acqua. Nonostante le opposte scelte di vita – che il film si diverte ad accentuare e porre in contrasto fra loro – una condivisa riflessione, non priva di autoironia, avvicina i due registi su temi universali quali la solitudine nella vecchiaia, la paura della sofferenza e della morte.

Il regista Cyril Schäublin, nel suo film Unrueh, ci porta in Svizzera, nel cuore dell’industria degli orologi nell’anno 1877. Le fabbriche svizzere del tempo non sono solo il centro della misurazione del tempo, ma anche l’epicentro dell’anarchismo europeo. I movimenti operai svizzeri sono così attivi da risvegliare l’interesse del giovane anarchico e cartografo russo Pyotr Kropotkin (Alexei Evstratov), il quale vi si reca in cerca d’ispirazione. Unrueh indica in tedesco-svizzero il meccanismo centrale, il ‘bilanciere’, ossia il cuore pulsante dell’orologio, come l’operaia Josephine (Clara Gostynski) spiega a Kropotkin. Nel film risalta, con particolare efficacia, l’intenzione della regia di accentuare l’effetto della ‘messa in scena’, del film in costume. La ‘realtà storica’, è riproposta in molti dettagli: il continuo richiamo all’uso della fotografia, del telegrafo, del cronometro, ci ricorda l’entusiasmo di fine secolo per le nuove invenzioni; ma anche il gioco della tombola e la diffusione di volantini, ricordano i metodi di socializzazione e organizzazione operaia più frequenti nelle fabbriche del tempo.

Nella sezione Classics si sono potute (ri)vedere alcune pietre miliari della storia del cinema, come Mamma Roma (Pier Paolo Pasolini, 1962), la satirica commedia ceca Larks on a String (Skřivánci na niti, JJiří Menzel, 1969/1990), ma anche l’opulento musical di Ken Russel Tommy (1975), tutte restaurate digitalmente per il grande schermo.

Fra queste anche una perla del tardo muto tedesco. Accompagnato da un moderno componimento musicale è stato presentato, Brüder (Fratelli, 1929), primo lungometraggio del regista Werner Hochbaum e poco conosciuto esempio di cinema proletario. Fortemente influenzato dal cinema russo, sia nel tema, sia nel montaggio, in particolare dal meglio conosciuto Sciopero (Stačka, S. Ėjzenštejn 1924), il film ricostruisce gli eventi di uno storico sciopero nel porto di Amburgo, avvenuto nell’inverno del 1896. Proprio come il sottotitolo annuncia, il regista Hochbaum, intende presentare ‘la storia umana nella storia della sua lotta di classe’. Al centro della ‘sua storia umana’ sono due fratelli, uno lavoratore portuale e promotore dello sciopero, l’altro poliziotto, rappresentante dell’ordine istituzionale. Una forte tensione emotiva nasce dalle antitetiche posizioni, queste esteriorizzate anche in immagini, in cui si ritrovano a lottare i fratelli.

Un’inaspettata scoperta in questa sezione è stata certamente la moderna favola urbana di Sozhou River (Sozhou He, Lou Ye, 2000), girata in 16 mm e con la macchina a mano. Il film, che ha avuto una circolazione prettamente europea, come lo è stata anche la sua produzione, ha subito censura in patria come molti altri film di Lou Ye. Per questo motivo, pur non essendo considerato un classico, è diventato un film di culto fra i giovani cinesi, e visibile, fino ad oggi, solo grazie a copie pirata. Lou Ye è considerato un rappresentante della così detta 6° generazione di registi cinesi, proprio per l’ambientazione dei suoi film in anonimi spazi urbani e la predilezione per storie di quotidiana sopravvivenza, in uno stile realistico molto vicino al cinéma vérité. I suoi protagonisti sono ribelli tristi ed eroi mancati dell’underground cittadino. In Sozhou He il regista Ye gioca sull’effetto straniante del cambio di registro: si passa da una narrazione soggettiva, quella della camera a mano, a una più oggettiva; le immagini, volutamente realistiche, incontrano un elemento narrativo più favolistico e si confondono nel mistero di un noir.

All’inizio del film ci viene ricordato che, ci piaccia o no quello che vedremo, si sa: la cinepresa non mente. È la voce narrante dell’operatore alla macchina da presa che racconta. Quest’ultimo ci inizia alla sfortunata storia d’amore di Mardar, un novello James Dean, che sulla sua motocicletta fa consegne per la malavita locale nei quartieri popolari di Shanghai, lungo il fiume Sozhou. Mardar s’innamora, ricambiato, dell’adolescente Moudan, figlia di uno dei boss locali. Moudan è identica a Meimei, la misteriosa sirena di cui è innamorato il narratore stesso. Pur non essendo la stessa persona (l’attrice Zhou Xou però sì, impersona entrambe le ragazze), le storie di Moudan e Meimei s’intrecciano nella vita di Mardar per districarsi tragicamente verso la fine. Quando però Meimei, come anche Moudan aveva fatto con Mardar, sparisce dalla vita del narratore, e questa volta per sempre, rimane un vago dubbio che la cinepresa/narratore ci abbia volutamente mentito e tutto sia stato solo un sogno.