Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.21 (2022), 219–221
ISSN 2280-9481

La morte corre sullo schermo. Giuseppe Previtali, L’ultimo tabù. Filmare la morte fra spettacolarizzazione e politica dello sguardo, Meltemi, Milano 2020

Mirko LinoUniversità degli Studi dell’Aquila (Italy)

Pubblicato: 2022-07-14

Il rapporto tra cinema e morte violenta si articola lungo una serie intense fascinazioni che trovano nelle raffigurazioni estreme di corpi martoriati, feriti, decapitati gli strumenti per misurare i perimetri dell’inguardabile e saggiare la relazione dello sguardo spettatoriale con gli infiniti risvolti dell’osceno. Sottogeneri quali i mondo e gli snuff movie, analizzati nel presente volume, incanalano una medesima pulsione scopica, debordante quanto disarmante, che sfocia negli eccessi del visivo, del disgusto e dello shock. Non solo, dunque, questi sottogeneri maneggiano la materia calda della morte esibita senza filtri, ma accostati allo shock dei video della propaganda jihadista rilanciano i percorsi di una riflessione teorica attenta a cogliere l’esondazione della morte filmata, colta “sul vivo”, oltre i territori del cinema estremo, cioè nella mediatizzazone della realtà geopolitica relativa all’estremismo islamico.

Ed è proprio lungo le esondazioni dello sguardo e le sue canalizzazioni politiche che si inseriscono le argomentazioni del saggio di Giuseppe Previtali. L’analisi dell’autore, infatti, costruisce attorno al tema visivo del vedere morire i collegamenti tra cinema estremo e i video dello Stato Islamico. L’atto di vedere la morte, nella sua irriducibile materia grezza e nella sua ossessiva ricorrenza, viene analizzato a partire da alcune coordinate di campo: quello dei generi cinematografici, (la con-fusione tra documentalità e fiction nel mondo e nello snuff movie), quello della cultura visuale (le relazioni tra immagine e referente), e quello degli intrecci tra esperienza estetica e costruzione politica. Previtali, che recentemente ha curato un volume che approfondisce ulteriormente parte dei discorsi avviati in quello qui recensito1, fornisce una mappatura precisa dei generi cinematografici che descrivono la feticizzazione del cadavere, i modi della sua messa in forma (o messa in morte) e i tropi visivi che lo circondano, arrivando a definirne le linee linguistiche principali. In tal modo, l’analisi getta le basi per uno snodo che amplia e problematizza ulteriormente il quadro della cultura visuale occidentale: la costruzione dell’autenticità della morte nei mondo e negli snuff movie offre, infatti, si presta a offrire un prezioso orientamento nella comprensione delle strategie insite nella mediatizzazione della morte nel fondamentalismo islamico. A tal fine, la riflessione espunge i rischi di un facile orientalismo, e traccia, piuttosto, gli snodi di una comparazione meticolosa tra il modo di allestire le immagini del racconto mediale della guerra tra Occidente e Medio Oriente, tutta incentrata sulla assenza/presenza, rimozione/esposizione delle immagini del corpo che muore.

Pertanto, l’analisi del mondo movie articolata nel primo capitolo fornisce una ricognizione storica ed estetica dell’attrazione verso l’osceno, prestandosi a delineare un primo quadro teorico. Ricostruendo in prima istanza la controversa ricezione critica che ha sin dalle prima battute definito il genere, la riflessione procede verso la decostruzione delle strategie retoriche impegnate a restituire una autenticità documentale fittizia. Ed è proprio sul solco di questo effetto di veridizione costitutivo del mondo movie che l’autore nei capitoli successi amplia l’indagine interessandosi allo snuff movie, giungendo poi ad affrontare i modi estremi della messa in morte dei video delle decapitazioni girati dall’IS.

Il secondo capitolo quindi si focalizza sullo snuff movie, uno dei tanti sottogeneri del film di exploitation che intensifica ancor di più l’erosione dei confini tra documentazione del reale e costruzione finzionale. A partire dagli anni Settanta, lo snuff ha costruito la propria leggenda elargendo l’idea di un vedere proibito, di un cinema illegale, costituendosi così, assieme ai mondo movie, come un contenuto rivolto a un preciso progetto di esperienza spettatoriale. L’idea trasmessa allo spettatore di poter assistere alla cronaca di una morte violenta, senza filtri e artifici, trova nell’analisi di Previtali una lettura intrigante. Lo snuff viene definito come genere asintotico, che rincorrendo l’ideale di una fittizia trasparenza del medium mette in campo una serie di artifici retorici che alludono però all’impossibilità antropologica del visivo occidentale di filmare l’autenticità della morte. Come viene illustrato puntualmente in queste pagine, lo snuff è sì un genere che tecnicamente non esiste, ma proprio per questa intrinseca fantasmaticità, diviene un obitorio visuale, necessario al cinema per saggiare i propri limiti e i modi di rendere la violazione degli stessi sempre più spettacolare – dove con questo aggettivo si intende la capacità di ciò che viene ripreso di apparire brutalmente reale. L’analisi, allora, dopo aver esplorato le diverse possibilità formali degli snuff (shockumentary, meta snuff, ecc.) indaga il senso profondo della cultura visuale di questo meta-genere, rivolgendosi alla dialettica tra eccesso visivo e assenza (o inafferrabilità) del referente: “la continua produzione di oggetti culturali che cercano di attualizzarne il mito […] non sarebbe altro che un sintomo del bisogno culturale radicato di identificare una regione oscura, un resto osceno del visibile”. (95)

Se i primi due capitoli tracciano con precisione le genealogie della pulsione scopica della “morte autentica” nel cinema, focalizzando il discorso sui codici dei mondo e degli snuff movie, il terzo capitolo, chiamato emblematicamente “Intermezzo”, diviene il momento di maggior respiro teorico, in cui vengono impostati, e problematizzati, i raccordi estetico-formali che muovono dai sottogeneri trattati nei primi due capitoli a uno sguardo attento sulla comunicazione mediale dello Stato Islamico, oggetto di analisi del quarto e ultimo capitolo.

Lo shock delle immagini delle decapitazioni dei nemici dello Stato Islamico (dissidenti, militari della Coalizione, ecc.) viene inserito nel contesto più ampio di una strategia di produzione simbolica che passa ferocemente lungo le interfacce della rete. A partire dalla doverosa contestualizzazione della ricezione occidentale dei video jihadisti, la tesi dell’autore si incentra sulla feticizzazione del cadavere come elemento di una grammatica visuale con cui organizzare una contro-narrazione della guerra: le morti autentiche che popolano i video jihadisti dell’IS si presentano, dunque, come il contraltare, tutto materico e ingombrante, artigianale e agonico, dell’assenza del vedere morire che contraddistingue l’esangue mediatizzazione occidentale della lotta al terrorismo islamico.

L’autore non ha paura di “sporcarsi gli occhi” maneggiando un vasto materiale visivo di difficile reperimento e ostica visione. L’osceno non viene idealizzato, ma viene trattato come uno specifico strumento epistemologico con cui comprendere i bisogni del visivo e le violazioni dei suoi limiti. Grazie a un’impostazione sempre lucida e consapevole dei quadri teorici a cui si richiama, il saggio riesce a illuminare il senso profondo della fascinazione visuale del cinema e dei media verso la morte, e a dimostrare come l’estetica dell’estremo fornisca un problematico accesso diretto alla densità del reale.


  1. G. Previtali, L’altra metà del conflitto. La comunicazione jihadista da Al-Qaeda allo Stato Islamico, Meltemi, Milano, 2022.↩︎