1 Il biopic come prodromo dell’autobiopic
La definizione del biopic o film biografico come genere cinematografico è di conio piuttosto recente. Come scrive infatti Altman: “i film che noi oggi definiamo biopics (con la sicurezza che può dare solo il senno di poi) attraversarono un periodo in cui il loro stato di genere fu molto meno certo – precisamente perché era in corso di evoluzione” (Altman 2004: 206).1 Nondimeno nell’epoca contemporanea sembra oramai essersi consolidata una forma di produzione audiovisiva dedicata alle biografie di personaggi più o meno illustri, a tal punto da sfociare dallo specifico cinematografico a quello delle serie tv.
Oggi il film biografico viene affidato alle mani di grandi registi, come accade per House of Gucci (2021) di Ridley Scott o The Social Network (2010) di David Fincher, o in produzioni seriali come Freud (2020) o SanPa (2020). E il genere assume una pervasività tale da ritrarre non solamente personalità la cui notorietà si giustifica secondo paradigmi rodati, come può essere nel caso della biografia di personalità politiche (il re Giorgio VI de Il discorso del re, Tom Hooper 2010; Winston Churchill de L’ora più buia, Joe Wright 2017; o il condottiero già mitologizzato di Che – L’argentino, Steven Soderbergh 2008). Al contrario, il ventaglio di individui potenzialmente rappresentabili all’interno di un film biografico sembra estendersi senza particolari limiti. Così, può divenire un’esperienza quotidiana andare al cinema per vedere la storia del fondatore di una catena di fast food, come accade in The Founder (John Lee Hancock 2016); di uno scienziato, come per La teoria del tutto (The Theory of Everything, James Marsh 2014); di una pattinatrice su ghiaccio, come per Tonya (I, Tonya, Craig Gillespie 2017); o, perché no, dell’inventrice del mocio come accade in Joy (David O. Russell 2015). Il biopic, pertanto, non è più l’intercettore del mito, bensì assume la conformazione dell’istanza mitizzante stessa, capace di conferire un certo statuto di notorietà a chi, altrimenti, sarebbe destinato all’anonimato.
La tendenza alla moltiplicazione di film di questo tipo, sia per quantità che per spettro dei personaggi “biografabili”, è già di per sé dimostrativa di un certo cambiamento nella “dieta mediale” del pubblico. È da qui che si ricava il primo elemento del biopic che ne fa prodromo ideale di ciò che definiremo come autobiopic. Se ogni storia è in qualche modo il racconto, anche, di una o più vite, con il “turn biograficistico” si è verificata un’inversione di tendenza: non più la vita è funzionale allo svolgimento di una storia, ma la storia è veicolo per il racconto (e quindi un certo svolgimento) di una vita. In effetti i film biografici sembrano tendere a privilegiare quella che più che un’operazione estetica (i biopic di fatto non implicano automaticamente l’aderenza a un particolare canone stilistico, anzi nella quantità spesso si rivelano piuttosto piatti dal punto di vista espressivo, privilegiando il lato diegetico) appare come una direzione ideologica. Perché infatti una persona sia “candidabile” a un biopic essa deve, in qualche modo, avere visto, fatto, vissuto o assistito a qualcosa di incredibile. Deve, in altri termini, essere degna di nota. E tuttavia né dignità né incredibilità del fatto esperito sono oggettivi, ma soggiacciono ai modi attraverso i quali le singole culture selezionano, in determinati tempi, degli ordini di rilevanza.
Il protocollo ideologico di fondo appare dunque una sorta di versione rimaneggiata dell’American Dream, per il quale chiunque può vantare di aver preso parte a qualche evento sbalorditivo, tale da essere romanzato. “Siamo tutti speciali” sembra suggerirci surrettiziamente e con una certa malizia individualista la cornucopia di biopic contemporanei, ed è anche da qui che deriva la tendenza all’autobiografismo contemporaneo, inteso come volontà collettiva spinta da una pulsione individualistica al racconto e all’esaltazione del sé in una sorta di contorta, personale memorialistica del presente (in fondo anche il social web, dalla blogosfera a TikTok, induce alla ricerca spasmodica di un posizionamento nella “plenitudine digitale”, Bolter 2019). Così se Joy Mangano, inventrice di una particolare scopa, non era considerabile come pertinente per un certo tipo di cultura cinematografica fino all’era postmoderna, da lì in poi, nella “wave biograficistica”, alcuni elementi del suo vissuto l’hanno resa invece un soggetto biografabile: è una donna e in quanto tale partecipa di una delicata battaglia per la rivendicazione di equi diritti, ha inventato un oggetto di uso comune che la gran quantità dei suoi possessori dà per scontato, ha dovuto superare una serie di avversità per coronare i suoi sogni di successo. Poco importa che tutti questi punti siano egualmente veritieri: ogni biografia si fonda infatti su un calibrato compromesso fra vero e verosimile, fra realistico e drammatizzato. D’altronde, semplicemente ruotando la prospettiva sul soggetto narrato, che è immediatamente trasformato in oggetto, si può ad esempio darne un’immagine positiva o negativa, a prescindere dalla fattualità che soggiace al racconto: “Eppure proprio l’epoca della crisi del soggetto sta rilanciando un’antica domanda: fino a che punto la narrazione e l’opera d’arte in generale rispecchiano la figura e la biografia dell’autore? Fino a che punto l’opera può essere documento e la fiction può diventare auto-fiction?” (Carmagnola 2019: 206).
In effetti a questo panorama cangiante e, oggi, imperante, si affianca un filone più sottile, ma di estremo interesse: il cinema autobiografico, o, potremmo dunque dire, l’autobiopic.2 Questo infatti, secondo alcune dimensioni, sembra sovrapporsi con il biopic tradizionale ma, fondandosi sul racconto di una vita – o meglio di alcune sue porzioni altamente selezionate – da parte di chi quella vita stessa l’ha (o l’avrebbe) vissuta, richiede un ulteriore investimento analitico, che potrebbe anche minare alcune delle più granitiche certezze in seno all’analisi filmica tradizionale.
Sostiene a proposito Todorov che:
L’autobiografia costituisce un altro genere tipico della nostra società che è stato descritto con precisione sufficiente da permetterci di interrogarlo nella nostra prospettiva attuale. Per formulare le cose semplicemente, l’autobiografia si definisce in base a due identità: quella dell’autore col narratore, e quella del narratore col personaggio principale. Questa seconda identità è evidente: il prefisso ‘auto-’ la riassume e permette di distinguere l’autobiografia dalla biografia e dalle memorie. La prima è più sottile: essa separa l’autobiografia (come la biografia e le memorie) dal romanzo, quand’anche quest’ultimo fosse impregnato di elementi tratti dalla vita dell’autore. Tale identità separa, insomma, tutti i generi ‘referenziali’ o ‘storici’ da tutti i generi ‘finzionali’: la realtà del referente è chiaramente indicata, poiché si tratta dell’autore stesso del libro, persona iscritta allo stato civile della sua città natale. Ci si trova dunque di fronte a un atto linguistico che codifica al contempo proprietà semantiche (è quanto implica l’identità narratore-personaggio: bisogna parlare di sé) e proprietà pragmatiche (grazie all’identità autore-narratore, si pretende di raccontare la verità, non una finzione). In questa forma, tale atto di parola è estremamente diffuso al di fuori della letteratura: lo si pratica ogni volta che ci si racconta ([1978] 2002: 108).
Se infatti in sede ermeneutica è pratica consolidata quella di rifarsi, almeno nella prassi, alla tripartizione delle intenzioni del testo fornita da Eco (1990) per la quale in un film si avvicenderebbero concomitantemente intentio auctoris, operis e lectoris, è tendenzialmente comune considerare come pertinente esclusivamente il contenuto interno dell’opera, con la sua autonomia e un proprio piano d’immanenza. In altri termini, guardando un biopic come Richard Jewell (2019), dedicato alla storia dell’omonima guardia di sicurezza impegnata durante le Olimpiadi di Atlanta del 1996, il fatto che ci sia Clint Eastwood dietro la macchina da presa non dovrebbe interessarci, perché è il film a parlare per sé. Stesso dicasi, ad esempio, per Zero in condotta (Zéro de conduite, Jean Vigo 1933), Lo specchio (Zerkalo, Andrej Tarkovskij 1975), Persepolis (Marjane Satrapi e Vincent Parannouad 2007) e moltissimi altri. Sarebbe a dire che il principio è transtorico e transnazionale. Al contrario, va rilevato come una tradizione critica faccia invece della autorialità un principio essenziale, tale per cui un film si dice tarantiniano oggi anche se non è di Quentin Tarantino. Al di là di questo tipo di considerazioni, è lecito dunque chiedersi se sia altrettanto profittevole escludere dal proprio orizzonte la soggettività enunciativa che è dietro il film quando questo è presentato come autobiografico e se ciò non vada a detrimento della stratificazione di significati potenzialmente rintracciabile con l’indagine, secondo un classico “principio di carità ermeneutica”.3 La risposta in questo caso è negativa, pena il decadimento stesso della categoria autobiografica: affinché sussista (e questa, lo ricordiamo, ci è fornita dal testo), si dà come pertinente la vita dell’autore, vita la quale è da intendersi a sua volta come un costrutto testuale; in altri termini, un autobiopic deve essere in relazione con un’idea di vita rispetto a chi lo ha prodotto, a prescindere che questa relazione sia di implicazione (e quindi l’autobiopic si dà come racconto “veritiero”) o di “implicatura” (e quindi l’autobiopic si dà come racconto mistificato). E al contempo va rilevato come l’identità stilistica, che si inscrive nell’opera e poi nel corpus di opere di una singola istanza autoriale, è in qualche modo traccia (vera, verosimile o falsa, poco interessa) a sua volta di una specifica immagine (auto)biografica, che può naturalmente essere attesa o disattesa dalle occasioni epitestuali in cui l’autore parla di sé. In altri termini, se ci si muove nel contesto borderline in cui si considera testo la somma dell’opera cinematografica e dei discorsi che l’autore fa pubblicamente su di essa (e più precisamente del suo rapporto con essa), sussiste un nesso retorico fra la riservatezza notoria di Terrence Malick e il suo cinema intimista (e in effetti fra i due contesti fenomenologici corre una certa coerenza) così come fra i personaggi di Tim Burton e la sua immagine pubblica, ma non è necessario né scontato che il collegamento sia sempre così evidente.
Alla luce di tali rilevazioni l’autobiografia cinematografica si configura come un’operazione con specifiche caratteristiche strutturali, in quanto essa è: una forma di racconto del sé, per immagini, giocoforza “parziale” (e appunto non necessariamente veritiero, quindi ancor più rilevante poiché nel discrimine, se rintracciabile, fra verità e menzogna si situa il filtro distorsivo che può essere analizzato alla luce di molti aspetti); una manovra di autoselezione, o meglio di auto-pertinentizzazione, del proprio vissuto, che si traduce in sottofiloni – autobiografia politica, autobiografia intellettuale, autiobiografia emotiva, autobiografia scientifica, autobiografia spirituale – e da cui consegue una riflessione specifica sull’estetica delle “salienze” (che cosa è più pertinente in un certo contesto? E perché? Cos’altro viene dunque sacrificato?); una modalità di significazione ex post, a ritroso, dell’esperienza, cui vengono applicati specifici protocolli “destinali” (le cose sono andate così perché… io sono così perché…);4 una occasione di auto-esaltazione o condanna, mistificazione, manipolazione, distorsione, anamorfosi; una specifica tipologia di narrativizzazione del passato, che viene “evenemenzializzato” (reso evento),5 o se vogliamo un processo delicato in cui l’impalpabilità dell’esperienza è veicolata per immagini ossia ipostatizzata e, con il mezzo cinematografico, potenziata da soluzioni particolarmente icastiche; un tentativo di dare un “senso” (anche nel non-senso) a una vita – nello specifico, quella di chi scrive/dirige il film – e quindi una costruzione identitaria di qualche tipo.
Se dunque un’autobiografia ci appare come fine a se stessa, se manca una qualche forma di effettiva “incisività”, essa costituisce una sorta di ossessione fallimentare:
For just as autobiographies, by their thematic insistence on the subject, on the proper name, on memory, on birth, eros, and death, and on the doubleness of specularity, openly declare their cognitive and tropological constitution, they are equally eager to escape from the coercions of this system. Writers of autobiographies as well as writers on autobiography are obsessed by the need to move from cognition to resolution and to action (De Man 1979: 922).
Con ciò s’intende che un’autobiografia non è solo un resoconto, cioè un testo con una presunzione di oggettività, che traspare dalla piattezza dell’esposizione fattuale (saranno semmai i fatti a parlare con una propria “urgenza”), ma al contrario è un testo “impaziente”, a volte fuori schema, “attivo” nella misura in cui non riporta una vita ma in qualche modo scrivendola la “impone”.
Se trasportiamo queste considerazioni, mosse nell’ambito della letteratura, al contesto cinematografico, il quadro generale si rende maggiormente stimolante. L’autobiopic è rilevante perché non si limita al racconto di una vita, ma lo fa spogliandosi definitivamente della falsa pretesa dell’oggettività (un’autobiografia con filtro oggettivante è possibile?) e anzi al contrario esponendoci a uno sguardo ipercompetente rispetto all’oggetto della narrazione (o almeno, così convinto di essere: siamo davvero i più titolati a parlare di noi stessi?); con ciò il film autobiografico diviene il luogo in cui il cineasta è costretto a più d’una torsione metacinematografica, dal momento che è inevitabile considerare non solamente i fatti raccontati, ma anche il modo in cui il “patto autobiografico” (Lejeune 1975) è posto come istanza necessaria alla mediazione.6
Nelle forme poi dell’autofiction a volte il discrimine fra autorialità e attorialità si rende ancora più sottile: Chiara Ferragni - Unposted (2016) è ad esempio lo strano caso di una autobiografia girata per mano altrui; il film è di Elisa Amoruso, ma ci appare più come il racconto in prima persona della nota influencer (anche per via di un utilizzo specifico degli home movies al suo interno). Lo and Behold (2016) sembra essere il racconto di una serie di fatti legati alla nascita e allo sviluppo di internet, ma quanto in realtà non è piuttosto il resoconto dello sguardo manifestamente situato e parziale di Werner Herzog su tali realtà fenomeniche? E se una tale interpolazione della prospettiva sullo scopico, del percetto sull’oggetto, innerva il film, allora esso non è in qualche modo un’autobiografia?
2 La relazione fra autobiopic e metafilm, attraverso Charlie Kaufman
Charlie Kaufman è anzitutto un nome. Considerandolo senza possedere alcuna informazione su chi sia, se sia uno pseudonimo o un eteronimo, quanti anni abbia, il suo genere, le sue esperienze, i suoi film ci dicono anzitutto che ne è il firmatario, come sceneggiatore e/o regista. Charlie Kaufman è così anzitutto il criterio di pertinenza pretestuoso, o pre-testuale, che tiene legato assieme un corpus filmografico. Ci è fornito deitticamente, extratestualmente. E però anche paratestualmente.
Quando all’inizio di un film vediamo scritto “di Charlie Kaufman”, il paratesto ci suggerisce che quanto stiamo per visionare è diretto, pensato, ideato da lui. Se immaginiamo di guardare i titoli di testa, “a priori”, o di coda, “a posteriori”, questo nome si pone come effettiva e in qualche modo demiurgica isotopia. D’altronde il paratesto altro non è che un pezzo di film che il senso comune tende a declassare, ma che invece il nostro taglio analitico identifica piuttosto come surclassante, cioè come definitorio della classe dal “di sopra”. È come se la mano di chi scrive – per propria stessa dichiarazione – si riversasse nella scrittura. Tuttavia questo dato non è bastevole a codificare una categoria nuova, come quella di autobiopic, poiché è di fatto la parafrasi di quella che alcuni hanno chiamato politique des auteurs, o che più generalmente risponde al nome di “cifra” (di cui i credits costituiscono una sorta di concrezione convenzionale).
Guardare un film dunque è di rado un’operazione totalmente asettica. Non si guarda il film, specie nella società contemporanea, in una camera anecoica o stagna, priva di ogni influenza esterna. Il sistema di attese di cui il film è pregno è già attivato da complessi apparati inferenziali costruiti prima dell’inizio del film stesso: sistemi di recensioni, pubblicità, teorie e speculazioni varie, gli stessi titoli di testa (tutto, insomma, l’ecosistema di epitesti e peritesti),7 se scegliamo di considerarli come una forma-contenitore più che una porzione della sostanza-film. Tutto quello che oggi viene comunemente considerato come motore dell’hype fa già parte dell’esperienza mediale in piena regola, la cui architettura è nelle “soglie” del film, sempre più dense.8
Così, se dovessimo confrontarci con l’opera omnia di un regista avremmo due scelte: la prima, più artificiosa ma “classica”, è simulare la non conoscenza dei dati extratestuali; la seconda è considerare il film come l’epicentro di una galassia mediale che vi gravita attorno. In questo caso opteremo per la prima via, pur premettendo come la scelta di Kaufman sia debitrice della seconda: nei lavori di questo autore invero sussiste una costante consapevolezza metatestuale che in qualche modo rende particolarmente pregnante la questione dell’autobiografia. Alcune opere omnie sono cioè più manifestamente autobiografiche di altre, sebbene in generale ogni corpus di un singolo autore, considerato come testo in quanto tale, ci dica qualcosa dell’autore stesso, finanche in situazioni di particolare eterogeneità. In questo senso il lavoro di Kaufman sembra condividere questa pulsione al racconto del sé, tematizzato attraverso personaggi diversi ma accomunati da alcune tendenze, così come nella delineazione di una poetica cervellotica e autoriferita ai limiti della masturbazione intellettuale. Che sia un’autobiografia veritiera, questo è tutto da dimostrare, ma senz’altro è – quantomeno – un’autobiografia se non del sé, di un sé:
Charlie Kaufman has said, “I don’t like talking about myself” and “I don’t consider myself a public person.” Yet asking “Who is Charlie Kaufman?” is just the right sort of question for understanding what he has done or accomplished in his work. In a less literal sense, Charlie Kaufman is the subject of his work, but not the Charlie Kaufman you think he means. He’s not talking about himself, but about versions of himself, which may or may not have any correlation to his actual life. He is aware of how autobiographical experience can be transformed through art into something extremely depersonalized. One should be careful not to commit the fallacy of watching Kaufman’s films for clues to his personal life. It’s better, more useful, and truer to his craft to think of the dynamic and sustained use of reflexivity in Kaufman’s work. Part of what constitutes Kaufman’s greatest contribution to philosophical thinking is found in the way he shows how a certain kind of self-responsiveness to one’s experience can point outward to a world beyond oneself and to the created nature of everything—including oneself and others. The emphasis is not on him, but on his manner of self-awareness, for it is in that space that we find the philosophical tension, intrigue, and, ultimately, insight of his work (LaRocca 2011: 7).
E ciò non si evince se ci si approccia a un singolo film: un singolo film già farà emergere una serie di caratteristiche, ma è il corpus intero, man mano che lo si visiona, a rendere salienti certi tratti, a consolidarli e a confermarci di volta in volta sempre più che – a meno che non si tratti di una costruzione artificiosa di un’intera altra vita – l’opera kaufmaniana costituisce anzitutto un ecosistema autobiografico.
Il primo film sceneggiato da Kaufman è Essere John Malkovich (Being John Malkovich, Spike Jonze 1999). Qui il protagonista, Craig Schwartz, è un marionettista fallito, con una moglie che si scopre lesbica e con cui intrattiene un rapporto disfunzionale. Si impostano così una serie di coordinate: la forte mise en abyme, tematizzata metacinematograficamente attraverso un personaggio che di professione “crea mondi”; il fallimento consustanziale a un individuo che, pur avendo una sensibilità artistica si sente estraneo alla società che suo malgrado lo ospita; una specifica conformazione del rapporto con le donne, improntato verso una incomunicabilità di fondo (la moglie infatti preferisce vivere con delle scimmie) e sessualmente represso. La storia dunque si configura come il volo icaresco verso un sogno di gloria, quello di essere un famoso e riconosciuto marionettista, che si espleta mediante un varco magico che porta Craig e chiunque altro voglia, per un tempo limitato, nel corpo di John Malkovich, delineando una ulteriore stratificazione metacinematografica. Acquisisce perciò una rilevanza sensibile anche il tema del corpo, dal momento che Craig vive una forma di embodiment in senso pieno, volendo una sorta di ipermimesi resa dalla ricorsività del suo ruolo (prima marionettista che controlla pupazzetti, poi marionettista che controlla il corpo di un grande attore), per qualche momento provando il godimento dell’uscita di sé. E però il finale per lui si rivela tragico, definendolo come un inetto cui è interdetta ogni forma di felicità, per colpa al contempo delle sue ossessioni, della società, e di uno strano gioco di circostanze.
Le prime occorrenze rilevanti qui ci mostrano dunque un protagonista, visibilmente sciatto, eppure creativo, disagiato, cervellotico, dedito ad arti “minori” o comunque “strampalate”. Un deviante in piena regola. Allontanandoci dal versante diegetico siamo ugualmente di fronte a un film cerebrale e caotico, costruito sulle atmosfere di un dramma delicato (l’elegiaca sequenza del dialogo tra marionette, con la sua musica e la sua regia, è di rara poeticità), implausibile da un punto di vista ontologico (un varco nascosto in un ufficio che trasporta nel corpo di un attore famoso). Si intravede già, inoltre, una qualche critica a una Hollywood sotterranea, in cui gli attori appunto non sono che simulacri.
Synecdoche New, York esce quasi dieci anni dopo, nel 2008. Qui Kaufman è sceneggiatore e regista, e la storia è, sostanzialmente, la stessa. Quella di una tensione atavica fra le intentiones del testo, che ci racconta di un autore intrappolato attorno agli stessi temi per almeno una decade. La trama è naturalmente tortuosa:
Vi sono il tema dell’io che non può trovare un posto nel mondo, della non-accettazione della realtà, del rapporto fra aspirazioni e possibilità, dell’inettitudine di matrice sveviana e dell’abulia. Il fulcro è sempre e comunque la possibilità o meno da un lato di decidere del proprio destino, dall’altro di esercitare un controllo su quest’ultimo senza invischiarsi in una spirale autodistruttiva ove la dimensione meta- distrugga la possibilità di una messa in ordine. I personaggi di Kaufman sono sempre grigi, ossessivi e repressi, e si trovano mescolati in vicende assurde di cui sono corresponsabili. Il loro tentativo di generare un ordine di cui siano padroni si scontra sempre con una degenerazione in cui la ricerca di una necessità egocentrata si fonde con un universo di possibilità. Sono personaggi che vivono una personale discrasia poiché tutti in qualche modo autori capaci di esercitare un dominio sulle loro rappresentazioni, ma oppressi dalla loro foga metalinguistica che li fa autoconsiderare come personaggi eterodiretti (Surace 2019: 282).
In Synecdoche, New York abbiamo dunque nuovamente un protagonista, Caden Cotard,9 uomo genialoide, prostrato da un senso di inadeguatezza e di bruttezza, ipocondriaco. Anche in questo caso il cerebralismo è portato alle sue estreme conseguenze, a partire dall’esercizio metacinematografico che qui passa attraverso la professione di Caden, regista teatrale. I film di Kaufman sono oramai consolidati in quanto testi sullo scrivere testi, discorsi sui discorsi, come vedremo anche per Il ladro di orchidee (Adaptation, 2002, ancora Jonze alla regia). Il metafilm si configura pertanto non più solo come “giocattolo” postmoderno, ma come luogo esplorativo, di discesa nel sé e nel proprio vissuto, che però nel caso di Kaufman conduce programmaticamente a nulla se non al maelström. Il tema dell’incomunicabilità si rende granitico, dal momento che Caden reitera in un loop lo spettacolo della propria vita senza riuscire a definire anzitutto con sé chi egli sia. La dimensione grottesca è il preludio alla tragedia di un autore in quanto dio fallito, incapace di governare i propri stessi, caduchi apparati memoriali (tema già esplorato in Se mi lasci ti cancello, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, 2004, questa volta diretto da Michel Gondry). E ancora questa mania di controllo è, nella coazione a ripetere, una forma di autodistruzione che già Caden sperimenta sul proprio stesso corpo, autodescritto mediante il focus sulle sue componenti più oscene, le feci, e con enfasi sull’irsutismo, tema portante già in Human Nature (2001, ancora Gondry). Torsioni cerebrali si flettono sulla storia di un corpo che non sa accettare la propria fisicità, o che proietta le proprie frustrazioni sugli altri. In Human Nature è infatti un brillante, e a suo modo visionario, scienziato la vittima delle proprie ossessioni, a tal punto da perdere prima la donna che lo ama, e poi la vita (il racconto è infatti la prosopopea di lui che narra da defunto). La scrittura che genera scrittura modellizza un sistema culturale tipicamente autodescrittivo,10 che soffoca la necessità di mettere un punto, un’altra delle chiavi del cinema kaufmaniano, che rivela con una certa sincerità il sentire del suo stesso autore.
In questi termini, Il ladro di orchidee rappresenta un’autobiopic in fieri. Il protagonista qui è il “meta-alter ego” per definizione: è Kaufman (più il fratello immaginario Donald, a cui è dedicato il film), ma interpretato da Nicolas Cage. Personaggio grigio, insicuro, nevrotico, ossessionato dalla sceneggiatura a tal punto da scriverne una sulla difficoltà di scrivere una sceneggiatura. Il film è de facto la risultante di questo corto circuito metacinematografico, ma se così fosse sarebbe un successo. Al contrario la pretesa di Kaufman di uscire dagli schemi dei codici hollywoodiani per eccellenza si sfrange consapevolmente su un finale in cui compaiono gli elementi più vituperati dall’autore nel corso del film stesso: componenti action (un rocambolesco inseguimento in auto) per le quali sostanzialmente non era stata concepita alcuna architettura diegetica che le motivasse, e la presenza di un singolare deus ex machina (un coccodrillo), come esempio calzante di conclusione malfatta di un film (proprio nel corso del film infatti si erano spese parole ignominiose nei confronti di chi adottava certi grossolani stratagemmi). L’apoteosi del fallimento di Kaufman è dunque egli stesso, incapace di scrivere un film, cioè di “scriversi una vita”, e nemmeno di trovar pace nella morte, che tocca invece al fratello immaginario Donald, la sua parte più pacificata in quanto superficiale e priva dei fardelli cervellotici che attanagliano e Charlie e la sua versione in Synecdoche, New York, la quale morirà letteralmente di stenti divorata dalle proprie cannibaliche autorappresentazioni.
Le voragini mentali di Kaufman non mancano nemmeno in film come Anomalisa (2015, sceneggiatura e regia), girato in stop motion e con un protagonista – Michael Stone – affetto da Sindrome di Fregoli, una patologia che deve il suo nome al trasformista Leopoldo Fregoli e che fa sì che chi ne soffre veda i volti degli altri come tutti uguali e si senta quindi vittima di un’orrenda persecuzione. Ne consegue l’incapacità da parte di Michael di intessere rapporti funzionali con gli altri, intrappolato in una condizione mentale ombelicale:
The program notes for Anomalisa open with the beginning of the epic poem Divine Comedies by the Pulitzer Prize–winner James Merrill: “I yearned for the kind of unseasoned telling found / In legends, fairy tales . . .” Much like Kaufman, the autobiographical poet is known for transforming private moments of his life into plays, and the initial premise of the poem mirrors Kaufman’s struggles with writing. Both writers’ personal relationships inform their work, and their writing demonstrates a great understanding of life’s inherent duality (Child 2010: 130).
In Confessioni di una mente pericolosa (tratto dall’omonima, per l’appunto, autobiografia di Chuck Barris e diretto nel 2002 da George Clooney), forse il meno kaufmaniano fra i film scritti da Kaufman, è una gigantesca bugia a mettere il protagonista nella posizione di dover sdoppiare la sua vita, da un lato celeberrimo conduttore televisivo, dall’altro sicario per la CIA. In Se mi lasci ti cancello è invece l’ambiente alternativo del sogno a condurci nei meandri mnestici di Joel Barish, deluso d’amore a tal punto da voler cancellare i ricordi condivisi con la sua amata.
E qui ancora una volta le atmosfere stravaganti rendono evidente il malessere di un protagonista depresso, micragnosamente dedito al monologo interiore, afflitto da un trauma amoroso e con una tale mania di controllo sul proprio vissuto da volerlo risemantizzare coattamente, tramite la cancellazione selettiva di alcune memorie oramai luttuose. Il film è dunque quasi del tutto ambientato dentro la mente del protagonista, così come, in un certo senso, accade per gli altri. Anche in questo caso l’attenzione non è solo alla dimensione narrativa, ma ricade su quella formale: le storie si fanno immagini, la mano di Gondry fa in modo di rendere con grande dispiego di fantasia visiva la progressiva soppressione dei ricordi di Clementine dalla mente di Joel. Ciò è un dato fondamentale, poiché Kaufman scrive per i film, essenzialmente, nella convinzione che sia il mezzo più adatto per comunicare le proprie condizioni esistenziali. Quando non scrive per i film, allora scrive un romanzo, dal titolo Antkind (2020), il cui protagonista è non a caso un bizzarro critico cinematografico alle prese con il ritrovamento di un film di tre mesi di durata. Un film “impossibile”, conchiuso in un romanzo di 720 pagine – una sorta di “novellatura” dell’archetipica verbosità degli alter ego kaufmaniani – di cui sarebbe impossibile fare il film per via della quantità di trame e sottotrame, excursus e deviazioni presenti al suo interno (cfr. Porton 2020: 8–11).
L’ultima – ad oggi – opera cinematografica di Kaufman, sia come sceneggiatore che come regista, è Sto pensando di finirla qui (I'm Thinking of Ending Things, 2020), ispirata al romanzo omonimo di Iain Reid (2016). Il film è un ipnagogico viaggio a ritroso nei meandri della memoria di Jake, che ripercorre alcuni momenti della sua vita mentre pensa, di fatto, al suicidio. Si tratta di una storia non lineare, claustrofobica, e naturalmente verbosa. Il viaggio di Jake con la propria fidanzata, accompagnata a conoscere i suoi, è il pretesto per la messinscena di eventi avversi e spesso nonsense, che si dispiegano in uno spazio-tempo mano a mano sempre più incoerente. Qui Kaufman torna ancora una volta sulla ruminazione del passato e sul ricordo come giogo. Il protagonista è ancora talmente abbarbicato nel proprio ego da fondersi nei panni della sua compagna, che altri non è che l’ennesima proiezione di una soggettività incerta e resa tale da traumi perlopiù famigliari e scolastici. Il film così, pur iniziando con atmosfere sognanti (un viaggio immerso in una splendida nevicata) o con l’illusione di una certa linearità, diviene sempre più chiaramente la rappresentazione di una spirale mentale da cui promana un generale senso di isolamento, di abbandono solipsistico e senza speranza a se stessi.
3 Fenomenologia dell’autobiografia cinematografica: per una definizione di autobiopic
L’esempio di Kaufman è dunque stimolante: dopo aver visto tutti i suoi film, sia quelli solo sceneggiati che quelli sceneggiati e diretti, ci sembra di conoscerne di più l’autore. È innegabile che, in un certo senso, sia così, anche se si trattasse come abbiamo accennato in precedenza di una complessa e ultraventennale macchinazione ed egli fosse tutto il contrario di come ci appare – o ci traspare – dalla sua opera. Questo punto, tuttavia, lascia il tempo che trova; non è la “vera” persona di Kaufman l’oggetto. Al contrario l’esplorazione ci è utile perché ci dà indicazioni sulla natura stessa dell’autobiopic, e sul suo rapporto con il biopic. Se entrambi i generi sembrano definire invero il racconto cinematografico di una vita, è forse ora il caso anzitutto di correggere definitivamente. Essi piuttosto delineano la narrazione di “forme di vita”, o di specifici “abiti interpretativi”:
Per esserci forma di vita, occorre che un’istanza semiotica selezioni una qualche categoria semantica […] e la ponga come dominante all’interno della propria organizzazione esistenziale, come se tutte le altre categorie debbano derivare da essa o a essa venire in qualche modo ricondotte, in un continuo gioco di espansione e di condensazione. Così, se la forma di vita dell’artista classico discende dalla categoria della compiutezza, quella dell’esistenzialista deriva al contrario dall’incompiutezza (Marrone e Mazzucchelli 2019: 4-5).
Così l’autobiopic è, più che il racconto di un pezzo del proprio vissuto, già una forma di messinscena plurivocamente filtrata, e dal filtro mediale, che nel caso del cinema o della comunicazione audiovisiva implica una serie considerevole di stratificazioni, e da una lente culturale che orienta la semantizzazione in forza di componenti assiologiche e ideologiche. Se si analizza con questo tipo di competenza Belfast (Kenneth Branagh 2021), allora si comprenderà come la radice del film autobiografico è quella di un metafilm in cui è lo sguardo, teso fra sé e il resto (il mondo, l’alterità), a determinare il racconto, in questo caso la visione incredula e vitale di un bambino nordirlandese durante i Troubles dell’agosto 1969. Se lo si fa con Napalm (Claude Lanzmann 2017) sarà evidente che le immagini di Pyongyang sono il pretesto “schermato” da uno sguardo quando innamorato quando melanconico; non è lo sguardo di Lanzmann, ma il suo meta-sguardo, uno sguardo sul suo sguardo presente e passato. Se ancora ci si avventura in casi più sperimentali come Arirang (Kim Ki-duk 2011), affascinante discesa nei ricordi del regista che si scontra però, da un certo momento in avanti, con la messinscena di eventi ambigui, ci si avvede di una malizia consustanziale alla pretesa autobiografica, un po’ come accade nello pseudo-autobiografico Joaquin Phoenix – Io sono qui! (I’m Still Here, Casey Affleck 2010), in cui l’attore con la “scusa” di raccontarsi impersona, come avrebbe fatto Andy Kaufman, un altro sé. Ne consegue una certa conformazione dell’autobiopic, che in termini strutturali prevede una sovrapposizione – da intendersi più che come “fatto” come “effetto” – di autore empirico, enunciatore e personaggio, che consente in termini ermeneutici di lavorare su uno specifico situarsi del film in base al desquamarsi (il termine rimanda non involontariamente alla trattazione dell’enunciazione filmica in Metz 1991) delle tre istanze l’una sull’altra, generando pieghe e discrasie.
Ciò vale anche per il biopic. Anche in questo caso vi è comunque un filtro soggettivo nel racconto dell’altro. Tuttavia qui istanza enunciante e istanza enunciata non corrispondono allo stesso enunciatore empirico. Non sussiste così il paradosso che si instaura nel caso del racconto soggettivo della propria stessa soggettività. Al contrario nell’autobiopic questa polimerizzazione fra il sé che enuncia e il sé che è enunciato va intesa dunque non tanto come la risposta a un’esigenza di dirsi, quanto all’urgenza di farsi da soggetto impalpabile a oggetto consistente (è una tradizionale lezione della fenomenologia quella per la quale il soggetto si reifica non in quanto guardante ma in quanto guardato).
L’autobiopic rappresenta dunque per chi lo produce uno specchio deformante la cui deformazione è solo parzialmente nel controllo dell’autore, mentre per chi lo guarda implica l’esposizione a un atto allo stesso tempo di svelamento e di camouflage, che trascende l’interesse aneddotico rispetto alle vicissitudini dell’autorialità installata nel testo, così come prescinde dalla curiosità suscitata dalla diegesi. Questi dati sono essenziali per il gradimento generale dell’opera finale, definendo l’allestimento materiale dei “suppellettili” che rendono il film “succoso”, e tuttavia rischiano di offuscare l’interesse più profondo dell’autobiopic, che ha a che fare con la sua capacità di “raccontarci come ci si racconta”, cosa si elude e cosa si magnifica e in quali circostanze, cosa, di era in era e di luogo in luogo, è considerato pertinente o impertinente nell’atto di “dirsi”. E, forse soprattutto, quali sono le formule che questa sempre più diffusa pulsione alla retorica dello spettacolo del sé (secondo lo Zeitgeist contemporaneo in cui il mito della “performanza” pare diretta conseguenza del paradigma dell’individualismo) adotta o abbandona lungo la via.
Bibliografia
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Sul biopic si vedano anche, per un inquadramento iniziale: Argentieri 1984; Arlanch 2008; Brown e Vidal 2013; Cartmell e Polasek 2020.↩︎
Il tema della “finzione autobiografica” non vanta ad oggi una letteratura fitta, tuttavia vanno menzionati almeno Giliberti 2009 e il recente lavoro analitico di Pozzato 2020 in cui si riflette proprio su come attraverso la produzione di immagini si possa ricostruire una sorta di autobiografia di chi le ha prodotte.↩︎
La nozione, attiva soprattutto nell’ambito di una certa filosofia logica ed ermeneutica, è anzitutto da riferirsi a Willard Van Orman Quine e Donald Davidson. Si tratta più che di un concetto di un precetto per il quale nell’atto dell’interpretazione è necessario accordare al testo o all’interlocutore sensatezza, condicio sine qua non la buona riuscita dello scambio comunicativo. Un buon approccio riassuntivo è Gauker 1986.↩︎
La proposta di una lettura di tipo destinale dei film è teorizzata e messa alla prova in Surace 2019.↩︎
Sull’evenemenzializzazione come attività di retroazione sul passato da parte del presente si veda Žižek 2014.↩︎
In ambito letterario sono molti gli autori che, nell’atto di scrivere un’autobiografia, hanno premesso tale questione. A titolo esemplificativo, ad esempio, Chesterston scrive nella propria che “vi sono dei limiti alla degradazione e all’avvilimento, che neppure un’autobiografia può oltrepassare” (Chesterton 2010), mentre Hobsbawm nella sua autobiografia di storico precisa che “Sorge però il problema del perché una persona come me dovrebbe scrivere un’autobiografia o, più precisamente, perché altri, senza particolari collegamenti con me, o che potrebbero non aver saputo della mia esistenza prima di aver visto la copertina in libreria, dovrebbero pensare che valga la pena di leggerla […] questo libro non è scritto con quello stile da confessione intima che oggi dà ottimi risultati di vendita, in parte perché l’unica giustificazione di una simile esibizione dell’io è il genio – e io non sono né sant’Agostino né Rousseau – e in parte perché nessun autobiografo vivente potrebbe rivelare verità private su questioni che coinvolgono altre persone viventi senza urtare in maniera ingiustificata la sensibilità di alcune di loro. […] Questo libro non è stato scritto nemmeno come apologia della vita dell’autore. Se non volete capire il Novecento, leggete le autobiografie di chi sente il bisogno di autogiustificarsi, di chi perora la propria causa e anche di chi fa esattamente il contrario, cioè il peccatore pentito. Sono solo autopsie in cui il cadavere pretende di essere il medico legale. L’autobiografia di un intellettuale parla necessariamente anche delle sue idee, delle sue inclinazioni e delle sue azioni, ma non dovrebbe essere una perorazione” (Hobsbawn 2002).↩︎
Le nozioni di epitesto e peritesto, in quanto sottocategorie del più generale paratesto, si devono a Genette 1989.↩︎
Se si prende ad esempio uno dei fenomeni cinematografici contemporanei più influenti in termini di pubblico, quello del Marvel Cinematic Universe, allora stupisce come attorno ai singoli film si staglino operazioni pubblicitare che alle volte si fondano sul fare trapelare piccoli dettagli anche anni prima dell’uscita delle pellicole, così come teaser trailer e altri dispositivi paratestuali che contribuiscono a una generale “architettura dell’hype” che rientra a pieno titolo nell’esperienza generale che il fandom fa del cinema. Si tratta dunque di pensare al cinema come a un’esperienza mediale estensiva ed estesa. Per la nozione generale di “esperienza mediale” ci rifacciamo anzitutto Eugeni 2010, così come all’impostazione aperta da Gallese e Guerra 2015.↩︎
Il nome è un chiaro riferimento alla Sindrome di Cotard, malattia psichiatrica per la quale chi ne è affetto si autoconvince, in una forma di delirio, di essere morto. Cfr. Sahoo e Joseph 2018.↩︎
Sul rapporto fra culture e autodescrizione cfr. Lotman 1985.↩︎