Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.21 (2022), 163–177
ISSN 2280-9481

La scoperta del “Terzo Mondo”: le politiche di programmazione degli antifestival italiani (1960-1976)

Andrea GelardiUniversity of St Andrews (UK)

Andrea Gelardi earned his PhD at the University of St Andrews in March 2022. His doctoral research focused on film festivals and the historical dynamics of both the discovery and re-discovery of world cinema. The project was funded by the AD Links Foundation and the Russell Trust. His work has been published on Imago, Alphaville, Frames Cinema Journal and Excursions

Ricevuto: 2022-02-26 – Versione revisionata: 2022-04-27 – Accettato: 2022-04-27 – Pubblicato: 2022-07-14

The Discovery of the “Third World”: The Programming Policies of the Italian Antifestivals (1960-1976)

Abstract

This paper explores the micro-histories, organization developments and programming policies of the Italian antifestivals between 1960 and 1976. It analyses how and why the antifestivals were created as a deliberate rupture with the conventional festival model, in the attempt to emancipate the appreciation of films from commercial and diplomatic interests, and to provide visibility to the then-emerging cinematic waves: Underground Films, Yugoslav Black Wave, and Third World Cinema. In particular, this exploration hinges on the ways these festivals heralded the discovery of Third-Worldist Latin American cinema as both an aesthetically innovative cinematic wave and a political act of intervention and solidarity.

Keyword: Antifestivals; Third World Cinema; Film Festival Programming; Third-Worldism; Film Festivals.

1 Introduzione

In una calda notte del tardo giugno 1964, un maresciallo dei carabinieri denuncia Glauber Rocha al pretore della sezione distaccata di Porretta Terme, dopo aver trovato il regista brasiliano a vandalizzare la piscina comunale in stato di ebrezza. Renzo Renzi, Gianpaolo Testa e Gianni Amico, organizzatori e animatori della terza edizione della Mostra Internazionale del Cinema Libero di Porretta Terme, sono quindi costretti a intervenire per tenere Rocha fuori dai guai e permettergli, solo qualche giorno dopo, di alzare il primo premio della Mostra porrettana. In concorso con Il dio nero e il diavolo bianco (Deus e o Diablo na Terra do Sol, 1964), Rocha ottiene all’antifestival di Porretta Terme uno dei primi, significativi riconoscimenti da parte della critica internazionale,1 ribaltando la parziale stroncatura ricevuta qualche mese prima al festival di Cannes. Alla Croisette, infatti, il secondo lungometraggio di Rocha aveva suscitato non poche perplessità tra alcuni critici che, come Ernesto G. Laura, avevano espresso dubbi riguardo lo stile del giovane regista brasiliano: “Dal film, non si trae alcuna conclusione, malgrado gli intenti sociologici e documentari di partenza e la stessa tragedia viene sommersa dal disgusto fisico, vanificandosi” (1964: 45-46; si vedano anche Playfair 1964: 169; Legrand 1964: 109; Moullet 1964: 11). La giuria della Mostra di Porretta sceglie invece di omaggiare il film con il primo premio, la Najade d’Oro. La premiazione del film di Rocha a Porretta Terme è qui descritta come fatto sintomatico di un ampio moto di trasformazione che, tra gli anni Sessanta e Settanta, investe la cultura cinematografica europea e nordamericana, segnando una progressiva apertura nei confronti del Cinema Nôvo brasiliano2 e, più in generale, del cinema politico di autori provenienti dal “Terzo Mondo”, per usare un’espressione in voga in quegli anni.3 Come ha spiegato Robert Stam, fu proprio per il tramite dei festival europei e dei loro programmatori che alcuni cineasti Terzo Mondo, aggiudicandosi premi e conquistando il favore della critica, poterono approdare sugli schermi del “Primo Mondo”, venendo quindi inclusi nelle storie e nei canoni del “world cinema” (1999: 120).

All’interno di questo complesso processo di riconoscimento e mediazione, di incontri e fraintendimenti, la Mostra porrettana e i cosiddetti antifestival italiani hanno svolto un ruolo importante. Hanno infatti contribuito all’elaborazione di nuovi paradigmi critico-interpretativi e teorici nell’ambito della cultura cinematografica internazionale, offerto visibilità a produzioni sperimentali e cineasti emergenti e, soprattutto, dato centralità alla natura politica e militante del fare, guardare e parlare di cinema. Sebbene l’ipotesi di Stam abbia già trovato riscontro negli studi dedicati ai principali festival europei quali Cannes, Venezia e Berlino (de Valck 2007; Andrew 2009; Dovey 2015; Talbott 2015), le microstorie e le politiche di programmazione degli antifestival rimangono in ombra all’interno dei cosiddetti film festival studies e della storia del cinema, ad eccezione dei primi e importanti rilievi proposti da Daniele Ongaro (2005) e Stefano Pisu (2016).4

Questo articolo intende fornire una visione d’insieme delle storie degli antifestival nel periodo compreso tra il 1960 e il 1976 (due date che segnano rispettivamente esordio e tramonto del modello antifestivaliero) e analizzarne le logiche di organizzazione interna e le strategie di programmazione. Concentrandosi sul caso della Mostra di Porretta e dando altresì attenzione alla Rassegna del Cinema Latino-Americano ligure e alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, verrà quindi messa in rilievo la funzione innovatrice degli antifestival, luoghi di intersezione e creazione dei “nuovi cinema”, in particolare di quelli del Terzo Mondo, nell’intento di contribuire a una lettura critica di queste manifestazioni e delle loro forme di autopoiesi (anti)istituzionale (de Valck 2007: 30-31; Iervese 2016).5 Infine, verrà analizzato il modo in cui la scoperta di nuovi autori e nuove correnti istituzionali abbia costituito una risposta a particolari necessità di autodefinizione, da parte degli antifestival, all’interno di un panorama festivaliero in rapida espansione, caratterizzato da una crescente competizione (de Valck 2007: 166-170; Pescatore 2002: 520-524). Si vuole dunque dimostrare come il meccanismo – retorico e pratico – della scoperta cinematografica fosse strutturalmente legato alle ambizioni e speranze politiche di una parte della cultura cinematografica italiana ed europea, animata in quegli anni dal discorso terzomondista di sinistra. La scelta di tale caso di studio è, in primo luogo, dettata dall’importanza della storia dei festival italiani – certamente una delle più dinamiche e floride nello scenario mondiale – e della contro-cultura degli antifestival che, nel periodo qui esaminato, contribuirono in modo decisivo a una riconfigurazione delle politiche culturali dei festival internazionali. A questa ragione d’interesse si unisce un intento di carattere strettamente metodologico. Più precisamente, si intende contribuire ad una rilettura di processi storiografici, canoni estetici e gerarchie critiche tramite l’osservazione incrociata delle storie e delle istituzioni del cinema.6 In questo senso, l’articolo rivela come all’interno di determinati spazi festivalieri i processi interni di scrittura della storia del cinema abbiano preso forma, contaminati da particolari tensioni sociali, geopolitiche e ideologiche.

2 Anti-Venezia? Genesi e identità degli antifestival

Il 1960 fu un anno di forte tensione per la vita politica italiana, agitata dalle contestazioni al governo Tambroni, con importanti echi nella cultura cinematografica nazionale.7 Lo stesso anno, l’allora ministro del Turismo e dello Spettacolo, Umberto Tupini, aveva nominato alla direzione della Mostra del Cinema di Venezia Emilio Lonero, critico cinematografico legato agli ambienti cattolici e democristiani, e intrapreso un processo di riforma interna della Mostra. Se queste manovre “politiche”, come ricorda Riccardo Triolo, avevano gettato ombre sulla XXI edizione della Mostra fin dai suoi preparativi, fu la conclusione dell’evento a generare un vero moto di indignazione nell’opinione pubblica (2012: 207-213). La critica italiana, in particolare quella orientata a sinistra, si scagliò compatta contro la giuria che aveva deciso di assegnare il Leone d’Oro a Passage du Rhyn (Il passaggio del Reno, 1960) di André Cayatte e non all’opera di Luchino Visconti, Rocco e i suoi Fratelli (1960): un verdetto, questo, che rivelava la mancanza di autonomia di giudizio della Mostra (Casiraghi 1960) e, a detta di alcuni, rappresentava l’ennesimo tentativo “dei vari governi democristiani” di controllare e moralizzare il cinema italiano (Aristarco 1961: 6). Ancora nel 1961, Guido Aristarco tornava sulla bocciatura dell’opera di Visconti, uno scottante “caso censorio”, per dare corpo a una riflessione intorno ai condizionamenti politici esercitati sul cinema nazionale, a partire da un’istituzione fondamentale come la Mostra veneziana:

Proprio in un momento in cui Visconti, Antonioni, Fellini stavano per portare a termine opere quali Rocco, L’avventura e La dolce vita […], Tupini accusava il cinema italiano in blocco di pornografia […], la quale era ed è sì presente in molti dei nostri film, ma appunto in quelli facenti capo a una corrente ‘diversiva’, ai ‘cascami’ del neorealismo così sollecitati dalla Direzione generale dello spettacolo per non far vivere le idee, per respingere uno rispecchiamento realistico della realtà nazionale. Appariva quindi evidente, anche se nascosto dietro a una pretesa ‘moralizzazione’, il fine vero dell’intervento tupiniano: assumere nei confronti del risveglio del nostro cinema ‘poteri eccezionali’. Si poteva insomma ravvisare in esso quello analogo di Polverelli, che fu l’ultimo gerarca del film italiano durante il ventennio (Aristarco 1961: 6-7).

Se le pressioni della sfera politica e della Direzione generale dello spettacolo destavano forti preoccupazioni all’interno della cultura italiana già da diversi anni (Brunetta 2007: 3-4), la contestazione alla direzione Lonero contribuì a mettere le basi per un ripensamento partecipato del ruolo e dell’identità stessa dei festival cinematografici rispetto al modello veneziano, costretto in anguste dinamiche politico-istituzionali e ancorato all’originale statuto di epoca fascista.8 Unitamente alla necessità di dare maggiore libertà e sostegno alle opere che investigassero in modo autonomo le “realtà” sociali e politiche nazionali – come notava Roberto Rossellini in una lettera indirizzata nel 1959 al ministro Tupini,9 la questione di svecchiare la formula festivaliera e creare nuove forme di circolazione, discussione ed elaborazione della cultura cinematografica si impose, con forza, sul finire degli anni Cinquanta.

In questo senso, si vennero ad articolare precise tendenze antistituzionali volte, da un lato, a emancipare i luoghi deputati alla valorizzazione del cinema tanto dalla sfera governativa quanto da interessi puramente commerciali e turistici e, dall’altro lato, a dare centralità al cinema, al suo sviluppo formale, al suo valore sociopolitico, ma anche alla scoperta di “nuovi” cineasti, marginalizzati dai circuiti distributivi commerciali così come dai principali festival nazionali. È all’interno di questo contesto che furono ideati e organizzati gli antifestival. In particolare, i primi passi teorici di questa contro-cultura festivaliera furono mossi nel 1959, quando, durante una conferenza tenutasi alla prima edizione del Festival dei Popoli di Firenze, Cesare Zavattini, discutendo con Ernesto De Martino, Edgar Morin e Jean Rouch, aveva sottolineato la necessità di rinnovare le organizzazioni festivaliere, la cui azione doveva necessariamente rimanere del tutto indipendente dal controllo delle autorità politiche, se voleva incoraggiare lo sviluppo di un cinema attento alle questioni sociali e politiche e, dunque, contribuire allo sviluppo sociale delle masse (Basso 2003: 16; Tasselli 1982: 23). Raggiunto a Roma lo stesso anno da Gian Paolo Testa e Paolo Grieco, Zavattini aderì, insieme a Leonida Repaci, al progetto della Mostra Internazionale del Cinema Libero di Porretta Terme.

La Mostra porrettana assunse fin da subito una postura dialetticamente alternativa e antitetica al modello veneziano, senza volere entrarvi in competizione e ispirarne piuttosto una trasformazione dall’esterno. Tale identità antistituzionale prese corpo edizione dopo edizione attraverso una serie di scelte innovative che concernevano per l’appunto l’organizzazione interna, le politiche di programmazione e le forme di auto-narrazione. Dal punto di vista organizzativo, la Mostra si fondava sull’impegno di alcuni membri della comunità porrettana e vari intellettuali e critici cinematografici che si avvicinarono alla proposta culturale dell’antifestival fin dalla sua prima annata. Tra questi, Ugo Casiraghi, Mino Argentieri, Gianni Toti e Lino Miccichè, il quale collaborò direttamente alle prime edizioni del festival porrettano, da cui prese le mosse per la successiva creazione dell’antifestival pesarese. Costituito dunque da volontari con poca o nessuna esperienza nell’organizzazione di eventi, il Comitato Direttivo della Mostra si muoveva tra ristrettezze economiche e ostacoli burocratici, che facevano però da contraltare a una effettiva possibilità di autonomia gestionale, ispirato dal principio di “auto-governo degli intellettuali”.10

Questa radicale scelta di “povertà” e indipendenza, sebbene costringesse la Mostra a un costante stato di crisi, spinse gli organizzatori a farne un evento biennale, alternando al festival dei convegni che coinvolgevano registi, teorici, critici e il pubblico e strutturavano tematicamente la ricerca della Mostra porrettana: tra questi, Critica e Cinema oggi, in Italia (Porretta Terme; 9-12 settembre, 1963), Il cinema italiano di fronte agli anni ’70 (Bologna; 14-17 settembre, 1967), Il cinema politico italiano fra contestazione e consumo (Bologna; 8-10 dicembre, 1972) e, ancora, Erotismo, Eversione, Merce (Bologna; 15-17 dicembre, 1973). Questi momenti di confronto ed elaborazione critica, teorica, metodologica e storiografica, che si legavano e indirizzavano le esplorazioni della Mostra nei territori del cinema mondiale, avrebbero ispirato Miccichè e Bruno Torri nell’organizzazione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, i cui convegni, come è noto, diedero un contributo essenziale allo sviluppo delle teorie di stampo semiotico e strutturalista (Miccichè 1989a; Stam, Burgoyne and Flitterman-Lewis 1992: 48-49; Casetti 1993: 15-22).

La necessità di mantenere bassi i costi di gestione, unitamente all’impegno sul piano della ricerca metodologica e teorica, si tradussero inoltre nella decisione di abolire la giuria e le relative pratiche di premiazione, a partire dalla quarta edizione del 1966.11 Una svolta tanto ambiziosa quanto pericolosa per la Mostra, che, rifiutando la natura competitiva tradizionalmente associata a questo tipo di eventi, rischiava di vedere il proprio ruolo gravemente ridimensionato all’interno del circuito festivaliero internazionale, divenendo meno appetibile agli occhi degli autori internazionali. Tuttavia, la scelta di dismettere il rito della premiazione, ovvero il gesto simbolico per eccellenza di queste istituzioni, si accompagnava a una strategia di programmazione tematica che faceva della Mostra un evento di ricerca e informazione. Accanto alle retrospettive, le personali e le panoramiche, che presentavano le storie e gli ultimi sviluppi delle new waves internazionali, a partire dal 1966 i programmatori introdussero nella Mostra delle rassegne d’informazione geopolitica, come quelle dedicate ai cinegiornali cubani e ai documentari cinematografici sulle guerre di liberazione allora in atto in Vietnam, Guinea-Bissau e Venezuela. Attraverso queste scelte mirate di programmazione tematica, la Mostra riusciva a coniugare la valutazione di fenomeni cinematografici internazionali con un interesse più strettamente geopolitico, volendo sensibilizzare il suo pubblico mediante le dirette testimonianze dei conflitti che interessavo le popolazioni del Terzo Mondo. Queste scelte precorsero alcuni processi di parziale trasformazione interna che coinvolsero Cannes, Venezia e Berlino, pressate dalle contestazioni del 1968 (Stapleton and Robinson 1983: 15-16).12

Sotto il profilo dell’autonomia gestionale, la Mostra porrettana dovette inoltre ripensare le modalità di selezione e reperimento delle pellicole. Se i maggiori festival ricevevano le proposte da comitati nazionali, incaricati dai rispettivi ministeri della cultura, degli esterni o del commercio (Latil 2005; Andrews 2009; Fehrenback 2020), l’antifestival tentò di districarsi da queste strettoie diplomatiche con l’apertura a proposte indipendenti, al di fuori della mediazione di apparati governativi interni o esteri. Con una statura internazionale ben inferiore rispetto ai cosiddetti festival Classe-A, la Mostra porrettana faceva le sue scoperte ricorrendo agli sguardi dei suoi programmatori, in contatto con produttori e distributori indipendenti, registi e altri organizzatori di festival. La rete relazionale e il gusto dei programmatori così come le collaborazioni con gli organizzatori di altri (anti)festival divennero così l’elemento centrale nella creazione di valore e nel carattere distintivo della Mostra porrettana, come del resto avveniva negli altri antifestival: una tendenza che andò accentuandosi nel panorama festivaliero internazionale durante la cosiddetta “era dei programmatori”, tra anni Settanta e Ottanta (de Valck 2007: 167-170).

A questo riguardo, si consideri la collaborazione con gli organizzatori della Rassegna del Cinema Latino-Americano, padre Adriano Arpa e Gianni Toti, che permise alla Mostra porrettana di ospitare e presentare alcuni importanti rappresentanti del cosiddetto Nuovo Cinema Latino-Americano (Martin 1997), tra cui Torre Nilson, Fernando Ayala, Eliseo Subiela e Rocha. Fondata nel 1960 e collegata all’attività della fondazione cattolica Columbianum di Genova (1958), la Rassegna rappresentò un’importante piattaforma nazionale ed europea per la diffusione della cultura e del cinema sud-americani, in un momento storico in cui la regione attirava l’interesse internazionale per via dei fermenti antimperialisti che l’attraversavano (Scarpellino 2013: 125-126). La Rassegna fu infatti concepita e organizzata allo scopo di connettere – culturalmente e politicamente – Italia e nazioni del Sud America. La manifestazione era inquadrata all’interno dell’attività del Columbianum, una fondazione culturale fondata nel 1958 sull’esperienza del precedente gruppo genovese Cineforum, diretta dal critico letterario Amos Segala e il padre gesuita Angelo Arpa a cui si associò Gianni Amico, cinefilo e profondo conoscitore del cinema latino-americano (Pereira 2007: 128-131). Attiva dal 1960 al 1965 e svoltasi tra Santa Margherita Ligure (1960-1961), Sestri Levante (1962-1963) e Genova (1965), la Rassegna offriva, per la prima volta in Italia ed Europa, una lettura approfondita della cultura e del cinema latino-americani attraverso conferenze, cicli tematici e retrospettive che raccoglievano i più importanti film, da un punto di vista artistico e sociale, prodotti nel sub-continente (Fernández Cuenca 1960: 69-70). Infatti, l’attività del Columbianum così come le politiche di programmazione della Rassegna si fondavano sull’idea che il cinema fosse uno strumento di conoscenza di altre culture e del mondo. A questa premessa teorica si associava l’interesse nei confronti di film che documentassero le realtà sociali e politiche dei paesi sud-americani, prediligendo dunque opere con un registro estetico-formale realista (Hennebelle 2004: 47).

Sul versante dei contatti con il cinema terzomondista latino-americano, altrettanto importante fu la presenza in giuria di Zavattini. Collaboratore dell’Instituto Cubano de Arte e Industria Cinematográficos (ICAIC),13 Zavattini era stato invitato a Cuba nel 1959 da Alfredo Guevara, direttore dell’Istituto, per organizzare L’Officina Cubana, una serie di seminari rivolti a sceneggiatori e registi cubani, durante la quale assistette José Massip e Julio García Espinosa nella realizzazione del loro primo lungometraggio, Il giovane ribelle (El Joven Rebelde, 1961), presentato nel 1962 al Porretta Terme. Il sodalizio tra la Mostra e la nascente cinematografia cubana si rafforzò nel corso degli anni Sessanta, come dimostrano le sezioni e le pubblicazioni specializzate dedicate al Nuovo Cinema Cubano e ai documentari di Tomàs Gutierrez Alea, Manuel Octavio Gomez e Santiago Alvarez, prodotti dall’ICAIC tra il 1962 e il 1966 (Garcia Espinosa and Rodriguez Alemán 1966). Le collaborazioni con le riviste cinematografiche internazionali furono – per la Mostra – un altro importante canale di accesso alle più recenti produzioni cinematografiche. In particolare, nell’edizione del 1971, i redattori delle riviste francesi Positif, Cinéma ’71, Cahiers du Cinéma e Cinéthique curarono quattro selezioni dedicate alla storia del cinema politico e militante, includendo una selezione che partendo da La sesta parte del mondo (Šestaja ćast’mira, 1926) di Dziga Vertov giungeva alle più recenti sperimentazioni nel cinema collettivo e militante terzomondista come, ad esempio, Soleil Ô (1970), la prima opera di Med Hondo realizzata con il gruppo Griot-Shango, che fu proposta dai rappresentanti della redazione di Cinéma ’71, Marcel Martin e Guy Hennebelle.14

Sebbene non ci fossero richiami diretti al coevo Free Cinema britannico, peraltro oggetto di un’ampia retrospettiva a Porretta nel 1966, idee di un cinema “libero” e “nuovo” ebbero una forte risonanza internazionale in quegli anni. Il concetto di “cinema libero”,15 a cui la mostra porrettana era dedicata, incarnava retoricamente la volontà di emancipare l’azione culturale del festival dalle interferenze politiche, diplomatiche e commerciali. Nel Bando di Concorso e Regolamento della terza edizione della Mostra di Porretta Terme, svoltasi nel 1964, troviamo questa definizione del cinema “libero”:

La Mostra ha lo scopo di segnalare e di incoraggiare: a) i films che, per particolari esigenze di libertà espressiva, siano nati con formule produttive eterodosse rispetto alla produzione dei loro Paesi; b) i films che contribuiscano all’evoluzione del linguaggio cinematografico; c) i films che, assumendo un preciso impegno di rottura nei confronti di ogni schematismo, costituiscano una originale proposta culturale. (Mostra Internazionale del Cinema Libero 1964)

La “teoria del cinema libero” (Boarini e Bonfiglioli 1981) esemplificava il proposito degli animatori della Mostra porrettana di rendere quanto più indipendente il processo selettivo dalla mediazione degli uffici ministeriali e, programmaticamente, dare spazio alle opere sperimentali e documentarie così come ai corti cinematografici, allora trascurati dai grandi festival, e alle nascenti cinematografie internazionali, come quella dei paesi del Terzo Mondo.16 Espressioni quali cinema “libero”, “giovane” o “nuovo”, non vanno dunque lette come qualità intrinseche delle opere selezionate ma quali parti integranti di una strategia discorsiva volta a ricavare per la mostra uno spazio di differenza, tra le manifestazioni che andavano nascendo in Italia negli anni Sessanta (Brunetta 2007: 39).

La prima edizione, apertasi il 24 luglio 1960 con la proiezione de I figli degli altri (Other People’s Children, 1958) del georgiano Tengiz Abuladze, ospitava una giuria composta da nomi illustri della cultura italiana quali Carlo Emilio Gadda, Giuseppe Ungaretti, Mario Soldati e Vasco Pratolini, accanto alle più importanti personalità del neorealismo italiano: Alessandro Blasetti, Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti e naturalmente Zavattini. Incaricata di assegnare la Najade d’Oro al film “più interessante e nuovo” (De Carlo 1960), la giuria così composta valeva a stimolare l’attenzione della stampa e della critica specializzata e, parallelamente, tracciava una linea di continuità ideale tra le forme e l’etica del cinema neorealista e quelle del cinema “libero” che la Mostra si proponeva di scoprire. Accanto alle sezioni parallele dedicate a soggetti cinematografici originali e al documentario, la Mostra presentava così un ventaglio di opere proposte da autori, più o meno noti, provenienti dal Sud America, Stati Uniti, Europa e anche dal di là della cortina di ferro. Tra i film in concorso vi erano Il Sequestratore (El Secuestrador, 1960) e Il capo (El Jefe, 1958) rispettivamente degli argentini Leopoldo Torre Nilson e Fernando Ayala, Una lezione d’amore (En lektion i kärlek, 1954) di Ingmar Bergman, L’abisso della violenza (Na garganta do diablo, 1960) del brasiliano Walter Hougo Khoury e Romeo, Giulietta e le tenebre (Romeo, Julie e tma, 1960) del cecoslovacco Jiri Weiss, che si aggiudicò il primo premio. Fu proprio grazie alle sue “libere” scelte di programmazione che il festival di Porretta seppe guadagnarsi, già a partire dalla prima edizione, alcune etichette tanto accattivanti quanto emblematiche: “il festival maledetto dai burocrati” (De Carlo 1960), “il festival dei maltrattati” (Surchi 1960) e il “festival anticonformista” (Cussini 1960).

Anche l’etichetta “antifestival” riguarda più precisamente la Mostra porrettana, la quale venne così presentata al pubblico da Zavattini e Repaci durante una rassegna stampa tenutasi l’11 Giugno 1960 a Roma.17 Questa scelta si dimostrò fortunata dal momento che questo termine catturò l’attenzione dei giornalisti, trasmettendo quel distintivo senso di rottura antistituzionale che gli organizzatori della Mostra cercavano di proporre (Blasi 1960; Settimelli 1960). Sebbene la Mostra pesarese, la Rassegna ligure e il Festival dei Popoli non abbiano attivamente assunto il titolo di “antifestival” per sè, si deve a Daniele Ongaro la scelta di utilizzare tale termine-etichetta per la prima storicizzazione fatta di questi festival cinematografici e della loro azione culturale (2005: 107-112). Qui, si sceglie – e propone – di recuperare questo termine per sottolineare la coerenza alla base di questo gruppo di festival cinematografici italiani, accomunati da precisi obiettivi nei confronti della cultura cinematografica internazionale e dall’utilizzo dell’evento-festival come strumento di azione sociale e politica. In questo senso, il termine antifestival viene qui preferito all’alternativo “contro-festival”, più comunemente utilizzato per descrivere gli eventi collaterali che, tra il 1968 e i primi anni Settanta, vennero organizzati a latere dei maggiori festival cinematografici, volendo criticarne la struttura e le politiche interne: tra questi, il contro-festival in Campo Santa Margherita, organizzato durante la Ventinovesima edizione della Mostra veneziana, o il Forum della Berlinale.

3 Bussole di pellicola: direzioni ideologiche e dinamiche delle scoperte cinematografiche

Nel novero degli antifestival sono generalmente considerate la Mostra di Porretta, la Rassegna del Cinema Latino-Americano di Santa Margherita Ligure e la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, ai quali si potrebbe accostare, per impegno di ricerca e natura antistituzionale, il Festival dei Popoli di Firenze. Queste manifestazioni non soltanto condividevano alcuni principi di organizzazione interna (la programmazione tematica, l’assenza di premi e giurie, la produzione di letteratura specializzata, l’organizzazione di retrospettive sul cinema e di tavole rotonde, convegni e conferenze dedicate alla teoria e alla critica cinematografica) ma anche un preciso interesse nei confronti dei paesi del Terzo Mondo. Riferendosi alla Mostra di Pesaro a vent’anni dal suo esordio, Julianne Burton-Carvajal ha sottolineato come fu in quella sede che per la prima volta gran parte del cinema terzomondista latino-americano poté essere vista e discussa dalla cultura cinematografica occidentale (1975: 33-35). Un’osservazione, questa, da estendere all’insieme degli antifestival italiani e che suggerisce l’importanza di esaminare l’azione di queste istituzioni nei confronti di cinematografie la cui diffusione e conoscenza è a lungo rimasta legata alla mediazione dei festival internazionali.18 Ormai alle porte degli anni Novanta, Miccichè ricordava come:

Quando, nel primissimo autunno del 1964, iniziammo il lavoro di preparazione della prima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro eravamo consapevoli che occorreva agire, nello stesso tempo e con pari sforzi, sul cinema e sulla cultura cinematografica. […] tra Porretta Terme, S. Margherita/Sestri e Pesaro dove stavamo approdando, [avevamo] puntato ad un uso ‘tendenzioso’ e ‘militante’ dei cinefestival, che ci offriva il destro a più concreti raffronti fra ‘estetiche’ e ‘politiche’ del ‘nuovo cinema’, soprattutto tenendo conto di quanto altrove, nella vicina Francia o nel lontano Terzo Mondo, si andava facendo (1989b: 7).

Nelle parole di Miccichè è possibile trovare un diretto riscontro di quel fronte comune che gli antifestival costituirono nella prima metà degli anni Sessanta. L’azione comune degli antifestival si mosse nel senso di una politicizzazione degli spazi di visione e discussione del cinema. L’elaborazione critica sugli sviluppi poetico-formali dei “nuovi” cinema e riflessione geopolitica erano infatti strettamente compenetrate negli sguardi offerti dai programmatori degli antifestival, che facevano del momento espositivo un’occasione di incontro ma anche di scontro.19

Nel segno dell’incontro e del dialogo si può considerare, ad esempio, l’incontro con Med Hondo e i rappresentanti del Fronte Polisario, svoltosi durante la tredicesima edizione della Mostra di Pesaro, dopo la proiezione del documentario partecipativo Avremo tutta la morte per dormire (Nous Aurons toute la Mort pour dormir, 1977). Il documentario era stato selezionato in quanto testimonianza diretta del violento conflitto esploso, nei primi anni Settanta, tra il Fronte Polisario e l’esercito marocchino e quello mauritano.20 L’opera dava voce alle popolazioni nomadi del Sahara nord-occidentale, vessate prima dal regime franchista e – in seguito all’incauto processo di decolonizzazione – dalle armate degli stati limitrofi. Come riportava allora dalla Mostra pesarese Sauro Borelli, critico de l’Unità: “Hondo mette qui il suo talento e la sua passione politica interamente al servizio del suo popolo, fornendo […] una nuova arma per la mobilitazione internazionale contro le manovre sopraffattrici e liberticide dell’imperialismo […]. La stessa che il rappresentante del Fronte Polisario […] ha presentato con lucidità e vigore nel corso della conferenza stampa” (1977). Un altro esempio particolarmente significativo della scoperta del cinema terzomondista da parte degli antifestival fu il convegno Terzo Mondo e Comunità Mondiale, tenutosi a Genova nel 1965 in occasione della quinta e ultima edizione della Rassegna del Cinema Latino-Americano. Il convegno costituì un importante momento di dialogo per diversi intellettuali provenienti dall’Africa francofona, dall’Europa e dal Sud America, durante il quale si mise in luce la funzione di letterati e cineasti per i movimenti di liberazione nazionali in Sud America (Pappagallo 2017: 184). Fu proprio in quest’ambito che vennero allestite una retrospettiva sul Cinema Nôvo accanto a una panoramica delle ultime opere della scuola di Bahia. Carlos Diegues, Nelson Pereira dos Santos e Leon Hirzman ricevettero le lodi della critica europea per aver offerto uno spaccato delle condizioni di vita delle fasce meno abbienti della popolazione brasiliana (Pèrez Turrent 1965; Scandolara 1965): un tale riconoscimento critico arrivava, non per caso, dopo che il regime militare dei Gorillas si era insediato nell’aprile 1964, mettendo il paese al centro dell’attenzione geopolitica internazionale.21

Questi sono solo alcuni esempi dell’uso “tendenzioso e militante” che venne fatto degli antifestival. Coerentemente con gli obiettivi teorici dei cineasti terzomondisti,22 i film venivano selezionati e presentati al pubblico in modo tale da fornire elementi di pre-testo utili ad alimentare forme di incontro, dialogo e scambio, con l’ambizione di mostrare e sostenere “le lotte di classe in tutto il mondo”, come sottolineato su Framework dal critico Don Ranvaud con riferimento alla programmazione di Pesaro (1982: 35). Come delle bussole di pellicola, le scoperte cinematografiche degli antifestival orientavano l’attenzione del proprio pubblico verso i fenomeni geopolitici più pressanti nel coevo panorama mondiale: una pratica di posizionamento strategico, questa, che attraverso precise scelte di programmazione fece di queste manifestazioni dei luoghi nodali, in Italia e in Europa, per la conoscenza delle questioni del Terzo Mondo e del suo cinema. L’ago di queste bussole seguiva così l’andamento delle correnti terzomondiste e anticapitaliste che, tra gli anni Sessanta e Settanta, andavano intrecciandosi alle speranze di rinnovamento coltivate dalla sinistra europea e, in particolare, italiana.23 Nel caso degli antifestival, il meccanismo – retorico e pratico – della scoperta cinematografica, ovvero la selezione, valorizzazione e definizione di alcuni film e autori, va dunque considerato come un atto di creazione legato a precisi scopi politici e ideologici. In tal senso, se le scoperte fecero degli antifestival un’avanguardia della cultura cinematografica europea, queste ebbero anche un considerevole impatto sulla formazione di canoni e le storie del cinema. Un esempio particolarmente calzante è la scoperta-invenzione del cinema latino-americano che, come sostiene lo storico britannico Geoffrey Nowell-Smith, non esisteva prima degli anni Sessanta, ovvero prima che il circuito festivaliero europeo non ne riconoscesse il valore sociale e culturale (Nowell-Smith 2008: 176).

Ciò che rende particolarmente interessante questa affermazione è proprio il diretto coinvolgimento di Nowell-Smith in questo processo di riconoscimento, non solo in qualità di testimone ma anche e soprattutto di suo protagonista. In qualità di membro della giuria della terza edizione dell’antifestival di Porretta (1964), lo storico britannico aveva preso le parti di Rocha e Diegue, le cui opere erano state descritte da parte della critica come “modeste”, “sproporzionate alle ambizioni” e “sopravvalutate” (Fink 1964: 289; si veda anche Thirard 1964; Trombadori 1964). Con l’appoggio di Marcel Martin, Robert Benayoun, Elio Petri e Fernando Birri, Nowell-Smith si era scontrato con gli altri membri della giuria per l’assegnazione del primo premio a Il dio nero e il diavolo bianco, lodando “la forza di rottura che rappresenta il lavoro di Glauber Rocha e il cinema nuovo brasiliano in rapporto alla situazione del Brasile” (La Giuria in Autera 1964: 42) e sollevando così il dissenso del pubblico.24

Questa scelta tendenziosa si spiega prendendo in considerazione l’intervento che Nowell-Smith fece al convegno porrettano Il cinema libero oggi (1964), poi riproposto col titolo “Per un cinema nuovo, ma soprattutto valido” al convegno pesarese La critica e il nuovo cinema (1965):

Abbiamo idee ben chiare e ben definite su quel che crediamo dovrebbe essere il cinema – uno strumento di critica sociale, un rinnovatore di coscienza vitale, uno sfogo piacevole di energie psichica o spirituale […]. E chiediamo al film di compiere questa funzione, non soltanto nel momento in cui viene proiettato, ma anche riguardo alla cultura dell’avvenire, la società migliore, le coscienze più formate, alla cui creazione crediamo che il film debba contribuire. […] Parlando da socialista io attendo – o meglio, io spero – l’eventuale distruzione del sistema commerciale che domina il cinema inglese, e la distruzione del sistema capitalistico in generale. (1965: 93)

Le dichiarazioni di Nowell-Smith25 illuminano le matrici ideologiche della premiazione di Rocha e, più in generale, spiegano come certe affinità politiche e ideologiche furono determinanti per il successo che autori come Tomás Gutiérrez Alea, Julio García Espinosa e Rocha, egli stesso un socialista e marxista gramsciano (Nagib 2000: 10), raccolsero nel sotto-circuito degli Antifestival. Tanto la seconda e terza edizione della Mostra di Porretta (1961; 1964) quanto, in modo ancor più significativo, l’ultima edizione della Rassegna del Cinema Latino-Americano (1965) fecero del Cinema Nôvo un importante fenomeno culturale all’interno dei canoni cinematografici europei e consolidarono il sostegno della critica europea ai cineasti brasiliani (Miccichè 1986: 17-18). In questi spazi, la “violenza visiva” e “l’estetica grezza” dei cinema-novisti (Gillet 1960: 188), che aveva inizialmente disturbato il pubblico e critica europea a Cannes (Ciment 1970), veniva elevata a cifra di qualità e novità stilistica, a cui si legava il sostegno incondizionato alla lotta politica e sociale che questi cineasti conducevano per il tramite del cinema: un importante trasformazione nei gusti e nei giudizi critici che troviamo riflessa negli articoli e nelle interviste dedicate ai “nuovi” autori del cinema brasiliano su Positif, Cahiers du Cinéma e Ombre Rosse (Benayoun 1966: 1-21; Fofi 1966: 25-29; Arlorio and Ciment 1968: 18-36; Volpi 1968: 16-19). Come esclamava padre Adriano Arpa in conclusione della prima edizione della Rassegna di Sestri: “Abbiamo di nuovo scoperto l’America” (in Scarpellino 2013: 121).

4 Conclusione

Il modello gestionale degli antifestival e il loro impeto contestativo entrarono una lenta fase di declino a partire dalla prima metà degli Settanta. Una prova di questa tendenza si può trovare nella conferenza “I festival cinematografici come istituti permanenti di cultura”, svoltasi a Bologna nel giugno 1976. La conferenza, organizzata dalla Mostra porrettana in collaborazione con quella veneziana, riunì alcuni direttori dei contro-festival italiani ed europei come Ulrich Gregor, Miccichè, Boarini, Toti, Amico e padre Arpa per considerare i limiti di queste manifestazioni e ripensarne le pratiche. Da una lettura degli atti della conferenza emerge la necessità di istituzionalizzare queste anti-istituzioni, la cui veste di “povertà” e indipendenza ne metteva ora a repentaglio la continuazione. Mentre la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema avrebbe potuto continuare ad espandere i propri orizzonti di ricerca attraverso gli anni Ottanta, grazie al suo forte radicamento nella dimensione urbana di Pesaro e al solido sostegno del governo locale (De Maria 2009: 127-130), per la Rassegna ligure e la Mostra porrettana le vicende furono differenti. La Rassegna si era infatti conclusa nel 1965, in seguito all’arresto di padre Arpa e il venir meno dell’appoggio di ambienti cattolici per via di una programmazione troppo orientata a sinistra (Pisu 2016: 309), e la Mostra Internazionale del Cinema Libero aveva lentamente perso l’appoggio del comune di Porretta, venendo meno la propria base territoriale e potendo fare affidamento solamente sui sempre più esigui contributi provinciali e ministeriali (Renzi e Testa 1981: 22). Sulla spinta di queste stringenti necessità, l’istituzionalizzazione dell’antifestival avvenne sul finire degli anni Settanta, quando la Mostra venne definitivamente collegata ad un importante istituto civico di Bologna, la Cineteca, e riorganizzato tematicamente, facendo della Mostra non più un festival di scoperta ma di riscoperta storica. Nasceva nel 1986 Il Cinema Ritrovato.

Nell’aver dato questa visione d’insieme del fenomeno anti-festivaliero, delle sue microstorie e delle politiche di programmazione, si è cercato di mettere in luce le modalità attraverso cui i festival contribuiscono a dare forma e valore alle storie del cinema. Si è voluto quindi dar conto della specificità degli antifestival italiani che, attraverso precise strategie di programmazione e organizzazione interna, diedero un importante impulso alla riscrittura dei criteri di giudizio e delle gerarchie di valore della cultura cinematografica internazionale, contribuendo inoltre a gettare le basi per la riforma dei festival negli anni Settanta (de Valck 2007: 171). Su questo versante, si è voluto sottolineare come la veste di “povertà” e la natura antistituzionale costruite dagli organizzatori degli antifestival contribuirono fortemente a fare di questi spazi un luogo di primaria importanza negli sviluppi della cultura cinematografica internazionale, tra gli anni Sessanta e Settanta. Per quanto poi concerne le esplorazioni cinematografiche di questa contro-cultura cinematografica, si è cercato di mettere in luce come le loro scoperte cinematografiche non furono un semplice – né, tantomeno, oggettivo – atto di riconoscimento delle ultime produzioni cinematografiche all’interno del panorama internazionale. Al contrario, furono dei complessi gesti di mediazione e invenzione, condizionati da determinate correnti ideologiche, necessità socioculturali e obiettivi (geo)politici, ai quali corrispose un graduale ampliamento dei tradizionali orizzonti della critica e della storiografia del cinema internazionale.26

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  1. Nel 1962, Rocha si era già aggiudicato il primo premio al festival cinematografico di Karlovy Vary con il suo primo lungometraggio, Barravento (1962), che, nello stesso anno, era stato selezionato per il programma della Mostra porrettana e della Rassegna del Cinema Latino-Americano di Sestri Levante.↩︎

  2. Durante le prime tre edizioni della Mostra porrettana (1960-1964), l’espressione Cinema Nôvo non era ancora entrato nell’uso comune. Fu infatti il critico cinematografico brasiliano Ely Azeredo ad adottare questo termine per descrivere il cinema di Nelson Pereira dos Santos, Ruy Guerra, Carlos Diegue e Glauber Rocha che, per il radicamento nell’ideologia marxista, l’impegno sociale e l’impianto estetico-narrativo, si distinguevano dal cinema commerciale brasiliano, costruito sul modello dell’industria hollywoodiana da un punto di vista industriale e formale (1966a; 1966b).↩︎

  3. Coniato nel 1952 dal demografo francese Alfred Sauvy per identificare le nazioni non incluse nel blocco occidentale capitalista (il primo mondo) né in quello sovietico (il secondo mondo), fu in seguito alla conferenza di Bandung (Indonesia) del 1955 che il termine entrò nel vocabolario delle relazioni internazionali per descrivere il movimento dei paesi non-allineati, ovvero un gruppo che comprendeva principalmente paesi asiatici, africani e sud-americani e la Jugoslavia (Mountjoy 1980: 12-14). Con la fine della Guerra Fredda e di fronte alle crescenti differenze economiche, sociali e politiche tra i paesi africani, sud americani e asiatici, l’espressione perse gradualmente la sua capacità descrittiva, finendo per assumere un significato marcatamente deteriore che stigmatizzava particolari contesti di povertà e indigenza: fu dunque sostituito dal concetto di “paesi in via di sviluppo” e, più di recente, con quello di “Sud Globale” (Haynes 2002: 6-7). L’espressione Terzo Mondo viene qui adottata per ricollegarsi ai modi e al registro espressivo del periodo storico in esame.↩︎

  4. Nella sua storia dei festival cinematografici italiani, Ongaro ha offerto un primo inquadramento storico degli antifestival, mettendone in luce il carattere di rottura rispetto al festival veneziano e al panorama festivaliero europeo tout court (2005: 107-112). Proponendone una lettura critica all’interno dello scacchiere politico nazionale e internazionale nel periodo della Guerra Fredda, Pisu si è prevalentemente concentrato sul caso della Rassegna ligure e, più in generale, ha posto l’accento su come gli antifestival abbiano contribuito allo svecchiamento del modello festivaliero, innovando le tradizionali pratiche organizzative (attività convegnistica, dibattiti aperti col pubblico, pubblicazioni specialistiche, etc.) e proponendosi come luoghi di scoperta e di creazione del sapere cinematografico (2016: 247-259).↩︎

  5. In breve, il concetto di autopoiesi descrive i modi in cui i festival raccontano sé e il proprio operato, creando nel tempo una narrativa a supporto della propria identità e missione istituzionale. Marijke de Valck ha adottato tale concetto, inizialmente proposto da Niklas Luhman (1986), per descrivere la capacità delle organizzazioni festivaliere, osservate come sistemi sociali chiusi, di legittimare e sostenere sé stesse attraverso precisi gesti comunicativo-narrativi, nel tentativo di assicurarsi la propria continuità nel tempo (2007: 31). Nella sua analisi storica del Festival dei Popoli di Firenze, Vittorio Iervese ha spiegato come l’autopoiesi, ovvero i processi di comunicazione e la loro riproduzione, determinino le forme dell’identità e della missione istituzionale di un festival, costituendo pertanto un obiettivo d’indeagine all’interno dei cosiddetti Film Festival Studies (Iervese 2016: 148-149).↩︎

  6. A questo proposito, si veda l’introduzione di Dorota Ostrowska all’edizione speciale “Film Festivals and History” (2020), dove si sottolinea la necessità di allargare il campo d’indagine delle discipline storiche ai festival, considerato il loro ruolo di arbitri della qualità cinematografica e di attori determinanti nella circolazione internazionale del cinema.↩︎

  7. Il governo DC guidato da Fernando Tambroni è noto per essere l’unico della “prima repubblica” ad essere sostenuto da una maggioranza di centro-destra, ottenuta grazie all’appoggio del Movimento Sociale Italiano ma duramente osteggiato dal resto dei partiti in Parlamento. Le contestazioni svoltesi nell’estate del 1960 a Genova, Reggio Emilia, Palermo e Licata, alcune delle quali represse nel sangue, portarono alla crisi del governo e alle dimissioni di Tambroni il 19 Luglio dello stesso anno.↩︎

  8. Per la riforma legale dello statuto si dovette attendere il 1973 e, in particolare, il decreto legislativo 26 Luglio 1973, n. 438 che conferiva alla Biennale di Venezia una sostanziale autonomia dal governo.↩︎

  9. Si fa riferimento alla lettera di Rossellini del 7 Settembre 1959 per il ministro Tupini, alla quale si associarono sceneggiatori e registi quali, fra gli altri, Federico Fellini e Mauro Bolognini.↩︎

  10. Di matrice gramsciana (Merli 2013), questo principio di politica di gestione delle istituzioni culturali era stata ideato e messo in atto dall’amministrazione comunale di Bologna, in particolare da Renato Zangheri, assessore alle Istituzioni Culturali dal 1960 al 1964, al quale si deve la fondazione della Cineteca di Bologna e della Commissione Consultiva per le Attività Cinematografiche (Boarini, in Carugati 2003).↩︎

  11. Questa risoluzione fu proposta nel corso della conferenza dal titolo Festivals cinematografici in Italia: utili o troppi?, tenutasi a Bologna nel 1965.↩︎

  12. I principali festival europei, infatti, si videro costretti a ripensare la loro struttura interna, decidendo di aprire diverse sezioni non competitive a “nuovi” autori e sospendendo per alcuni anni l’assegnazione dei premi. Cannes, ad esempio, aprì le sezioni Quinzaine des Réalisauteur (1969) e Un Certain Regard (1978), mentre la Berlinale aprì il Forum des Jungen Films nel 1971, che era stato inizialmente fondato da Ulrich e Erika Gregor nel 1970 come un contro-festival, in opposizione alla manifestazione ufficiale. Direttore della Mostra veneziana tra il 1963 e il 1968, Luigi Chiarini scelse di interrompere per qualche anno le cerimonie di premiazione e, negli anni Ottana, sotto la direzione di Gian Luigi Rondi e Guglielmo Biraghi, la Mostra si dotò di due nuove sezioni: la Settimana Internazionale della Critica (1984) e Orizzonti (1988). Sebbene queste “nuove” sezioni parallele fossero caratterizzate da un approccio più inclusivo rispetto alle competizioni ufficiali, anche se la competizione rimaneva l’elemento centrale di queste manifestazioni.↩︎

  13. Creato nel 1959 all’Avana, l’ICAIC venne costituito all’indomani della rivoluzione cubana per organizzare l’industria cinematografica nazionale, assistere la produzione e distribuzione del cinema cubano, formare professionisti del settore e educare il pubblico alla cultura cinematografica. Presieduto da Alfredo Guevara, il centro attrasse fin da subito numerosi critici, storici e personalità della cultura cinematografica internazionale, che collaborarono con l’Istituto già dal 1959: tra questi, Agnès Varda, Chris Marker, Georges Sadoul e Cesare Zavattini. Per maggiori informazioni, si veda Chanan, Michael (2004). Cuban Cinema. Minneapolis: University of Minneapolis.↩︎

  14. Critico e storico del cinema di nazionalità francese, Hennebelle ha attivamente sostenuto il cinema politico e militante terzomondista durante gli anni Settanta, in qualità sia di teorico che di attivista del Third World Cinema Committe (Mestman e Salazkina 2015: 9). Nei riguardi di Hondo, in particolare, Hennebelle ha dato un importante contributo alla circolazione delle sue prime opere attraverso il circuito festivaliero europeo (Festival des 3 Continents di Nantes, Cannes, Porretta), dedicando vari articoli e interviste al regista franco-mauritano (Hennebelle and Cervoni 1970; Hennebelle 1970a, 1970b).↩︎

  15. Sebbene non ci siano richiami diretti al coevo Free Cinema britannico, peraltro oggetto di un’ampia retrospettiva a Porretta nel 1966, è interessante notare come idee di un cinema “libero” e “nuovo” avessero una forte risonanza internazionale.↩︎

  16. Seppur caratterizzato da una essenziale eterogeneità dal punto di vista produttivo e formale, il cinema Latino-Americano e Africano e, in parte, del Sud-Est Asiatico e i suoi rappresentanti condividevano un progetto tricontinentale di stampo politico e cinematografico, volto a sovvertire le regole dell’industria hollywoodiana e supportare il processo di decolonizzazione culturale nel Terzo Mondo attraverso la produzione cinematografica. A questo proposito, si pensi al Comitato del Cinema del Terzo Mondo, ispirato al Movimento dei paesi non allineati (Tomlinson 2003: 309-311) e creato nei primi anni Settanta allo scopo di proporre strategie distributive e produttive unitarie e facilitare il dialogo tra cineasti provenienti da diverse regioni del mondo (Mestman 2002).↩︎

  17. Ne dà notizia la redazione de Il Resto del Carlino in “Film di tutto il mondo al Festival di Porretta,” 13 Giugno 1960, p. 17.↩︎

  18. Sebbene il riconoscimento delle cinematografie politiche del Terzo Mondo sia largamente dipeso, in Europa e negli Stati Uniti, dall’attività degli antifestival, recenti studi hanno contribuito a disegnare una mappa più ampia della circolazione di queste cinematografie tra gli anni Settanta e Ottanta, mettendo in luce l’attività di altri festival e manifestazioni che furono create in Nord America, nei paesi dell’ex-URSS e in Africa (Mestman and Salazkina 2015; Razlogova 2019; Salzkina 2020). Tra questi: il Festival des Films du Monde a Montreal (Canada), il Carthage Film Festival di Tunisi (Tunisia), il FESPACO a Ouagadougou (Burkina Faso), il Festival Internazionale di Cinema Asiatico, Africano e Latino-Americano di Tashkent (precedentemente URSS, oggi Uzbekistan) e il Festival Internazionale di Cinema di Mosca (precedentemente URSS, oggi Russia).↩︎

  19. Si pensi alla presentazione alla Mostra di Porretta Terme de La classe operaia va in paradiso (1971) di Elio Petri, alla cui proiezione fecero seguito accesi dibattiti e persino disordini tra il pubblico schierato contro Petri, con la reazione inferocita di Jean Marie Straub il quale aveva chiesto a gran voce che il film fosse bruciato (Grazzini 1971).↩︎

  20. Il Frente Popular para la Liberacíon de Saguia el-Hamra y Río de Oro, ovvero il Fronte Polisario, è un movimento fondato nel 1973 con l’obiettivo di assicurare l’indipendenza delle popolazioni nomadi del Sahara occidentale, protettorato spagnolo fino al 1975, e opporsi alle pretese sulla regione avanzate dal Marocco e dalla Mauritania, quest’ultima attiva nel conflitto fino al 1979. A oggi, la situazione della zona così come dei suoi abitanti rimane incerta e gli scontri armati sembrano sulla via della ripresa. Per un’analisi storica del conflitto e dei suoi più recenti sviluppi, si rimanda a Oxford Analytica (2020). “Moroccan ‘wins’ over Western Sahara come with risks.” Expert Briefings, Available at: https://doi.org/10.1108/OXAN-DB258440 [Accessed 12 December 2021].↩︎

  21. Per una sintesi delle relazioni tra autori del nuovo cinema brasiliano e la dittatura militare dei Gorillas, si rimanda a Lennon, Peter (2000). “Hunger and the junta.” The Guardian, 30 June, Available at: https://www.theguardian.com/film/2000/jun/30/3 [Accessed 10 September 2021].↩︎

  22. Nel manifesto del Terzo Cinema di Octavio Getino e Fernando Solanas si fa esplicito riferimento all’uso del film come mezzo per attrarre e riunire un pubblico, fornire gli elementi necessari a strutturare un dialogo e coinvolgere gli spettatori in un più ampio processo rivoluzionario, da compiere al di fuori della sala cinematografica e sulla base delle testimonianze offerte dal film (1969: 33-35).↩︎

  23. L’opera di Frantz Fanon, le cui traduzioni in italiano cominciarono a circolare a partire dal 1962 (Srivastava 2015: 310-311), vennero a costituire un fondamentale punto di partenza, insieme alla prima edizione de I Quaderni del Carcere di Antonio Gramsci (Vanhove 2017: 212-213), per l’elaborazione di una sensibilità anticoloniale in Italia. Dalla prima metà degli anni Sessanta, gli intellettuali italiani cominciarono a rivolgersi con interesse al Terzo Mondo, un altrove posto tra gli eccessi del capitalismo statunitense e l’autoritarismo sovietico, alla ricerca di una fonte d’ispirazione per ripensare la propria condizione sociale e politica. Il terzomondismo diventava così un ideale di “universalismo rivoluzionario transnazionale”, per usare la definizione che ne ha dato Luca Caminati (2018: 63).↩︎

  24. Nel reportage dalla terza edizione della Mostra di Porretta, Leonardo Autera scrive sulle pagine di Bianco e Nero: “si potrebbe […] finire col manifestare la nostra perplessità per il verdetto, ad ogni costo polemico, della Giuria che ha voluto assegnare il massimo riconoscimento della Mostra, la ‘Najade d’oro’, al film brasiliano di Glauber Rocha Deus e o Diablo na Terra do Sol […] contribuendo in tal modo ad alimentare un equivoco, che dura da tempo a proposito del cinema brasiliano, per il quale si tende con facilità a scambiare per immediatezza e genuinità d’espressione ciò che è soltanto sfogo intellettualistico e rettorica di rappresentazione ammantate di impegno sociologico, assenza di misura di gusto oltre che di stile nella condotta del racconto, volontà di suggestionare lo spettatore con semplici intemperanze linguistiche” (1964: 31).↩︎

  25. A questo proposito, si consideri che Nowell-Smith fu un importante interprete e sostenitore del pensiero gramsciano nel mondo anglosassone. Ad egli si devono, infatti, la prima traduzione in lingua inglese di una selezione dei Quaderni del Carcere (Selections from the Prison Notebooks) pubblicata nel 1971, e una edizione tematica di articoli e note di Gramsci sul tema della cultura nazionale e dell’intellettuale organico Selections from Cultural Writings del 1985.↩︎

  26. Nell’ambito della critica internazionale, tra la metà degli anni Sessanta e Settanta, si assistette alla creazione di diverse riviste di cinema, radicate in contesti studenteschi e universitari che assumevano un taglio apertamente politico e si caratterizzavano per l’interesse nei confronti del cinema sperimentale, politico, militante e terzomondista. Ad esempio, si considerino le statunitensi Cinéaste (1967-attivo), Framework (1974-attivo) e Jump Cut (1974-attivo), le francesi Cinéthique (1969-1985) ed Écran (1972-1979) e, per quanto riguarda l’Italia, due casi editoriali particolarmente interessanti furono quelli de Cinema&Film (1967-1979) e Ombre Rosse (1967-1981) (Sainati 2017; Volpi et all. 2013). Per quanto concerne il versante delle storiografie del cinema, si noti come a partire dall’inizio degli anni Settanta furono pubblicati alcuni volumi che offrivano una panoramica maggiormente inclusiva del cinema mondiale, il cosiddetto world cinema, e davano conto delle ultimissime scoperte fatte dai festival europei: Second Wave: Newer Than New Wave Names in World Cinema, la collezione di saggi edita da Ian Cameron (1970), The History of World Cinema di David Robinson (1973) e 83 Jaren Filmgeschiedenis — Een Tijdstabel (1893–1975), una pubblicazione belga in lingua olandese del critico e storico del cinema Dirk Lauwaert (1976). Sebbene profondamente diverse in termini di struttura interna e metodologie di ricerca, queste pubblicazioni condividono un particolare interesse nei confronti di autori e “waves” provenienti dal Sud America e dall’Asia. Nella collezione di Cameron, per esempio, troviamo il saggio di Michel Ciment dedicato al Cinema Nôvo e a uno dei suoi padri fondatori, Glauber Rocha.­­↩︎