1 Introduzione. Dislocazione del corpo pubblico
In alcuni momenti storici e situazioni sociali, le circostanze di crisi (Burckhardt 1964, Koselleck 1978: 617-50, Kuhn 1999, Masur 1973: 589–95) possono creare, in uno spazio di tempo molto breve, nuove sperimentazioni e forme di creatività che rivelano meccanismi interni ai processi culturali. Le crisi possono perciò farsi motori di cambiamento (Martin 2010: 307–312). Everett Rogers ha messo in evidenza i vantaggi che derivano dal comporre l’innovazione con i valori noti e sedimentati di un gruppo sociale. Tra i fattori d’adozione di una innovazione egli ha individuato la sua visibilità, il prestigio sociale e la soddisfazione che ne derivano (Rogers 1983: 11–101). Così è stato per la pandemia di COVID-19, che ha costituito una forza propellente a movimenti creativi nell’ambito della performance professionale di attori o attrici in concomitanza con il loro scomparire dai consueti luoghi di esposizione allo sguardo: teatri, festival, première, premiazioni, passerelle ecc. Ciò è avvenuto mentre gli oggetti mediali – film, serie, show televisivi – hanno subito cancellazioni, sospensioni o mutamenti. Si sono adottate nuove strategie di impatto pubblico degli interpreti con ricadute sulla loro reputazione derivanti da efficaci o inefficaci scelte di visibilità personale.
La dislocazione del corpo pubblico di attori e attrici causata dalla pandemia è stato un fatto innovativo e si è manifestato a livello globale. Si è reso evidente attraverso prodotti mediali di vario tipo diffusi in rete, soprattutto sui social network. Ma ha avuto anche risvolti nazionali specifici. In Italia ha assunto forme e significati culturali caratteristici andando a rafforzare il posizionamento degli attori al centro dei valori civici della nazione. Si prende qui come studio di caso Io sono… Italia (2021), un cortometraggio dedicato alle vittime della pandemia e a chi si è sacrificato nello sforzo di assistenza e cura ai malati. È un prodotto Rai Cinema e Cultura Italiae che chiama in causa un gruppo di volti noti del nostro cinema e televisione, convocandoli non come immagini e corpi visibili, ma come voci. Si tratta di Elena Sofia Ricci, Claudia Gerini, Paolo Briguglia, Lino Guanciale, Vinicio Marchioni, Flavio Insinna, Enrico Lo Verso, Francesco Montanari e Andrea Delogu, Massimo Ghini, Cristiana Capotondi, Valentina Lodovini, Beppe e Anita Fiorello.
Io sono… Italia costituisce lo spunto per analizzare il mutare del modo in cui certi performers (attori di cinema, televisione e teatro, presentatori televisivi) hanno agito nella sfera pubblica incitati dalle nuove condizioni del vivere imposte dal lockdown del 2020. La mia indagine riguarda l’apparire dei performers sulla scena mediale come pratica sociale in risposta alla crisi. Si concentra in particolare sull'atto di “prestare la voce” in risposta a un cogente bisogno di rappresentare l’eccezionale condizione di separatezza collettiva. Gli attori hanno svolto una funzione primaria nel richiamare questa condizione attraverso forme creative di visibilità, compreso l’uso della propria invisibilità. L’unione di diversità di genere, età, capitali culturali degli attori è marca della funzione civica loro attribuita in questo prodotto. Edificato sul richiamo a valori essenziali della società italiana e dedicato ad unire la nazione in un'immagine iconica, Io sono… Italia celebra un patrimonio fondante della nostra cultura: il territorio, l’arte, la democrazia, l’impegno. È infatti caratteristico dei movimenti di rinnovamento in tempo di crisi fare appello a valori assoluti del giacimento culturale di una società (Balandier 1977: 260–261).
A dispetto della sua carente invenzione sul piano dell’immaginario e della narrazione, questo prodotto risponde alla necessità di innovazione mettendo in risalto alcuni aspetti della cultura della celebrità in Italia. Rivela ossia il nesso tra un ideale di vita e di società – comunitario, egalitario, solidale – e un ideale di comportamento delle personalità dello spettacolo. Mette infatti in gioco il criterio stesso di individuazione della celebrità: chiamando in causa un gruppo di attori configura la celebrità come entità plurale. Io sono… Italia è un coro di voci note ma non necessariamente distinguibili in modo immediato, se non da un orecchio allenato (a ciò sono d’ausilio i titoli, che elencano gli interpreti in ordine di comparizione). Inoltre, questi performers si espongono senza immagini che li raffigurino. Si evidenzia così un carattere specifico della cultura dell’attore in Italia: un rifiuto del culto della celebrità, espresso qui attraverso un gesto stoico.
Gli effetti innovativi della crisi pandemica nel contesto italiano incidono perciò sull’impronta data alla performance, su uno stile che si fa marca dell'impegno dell’attore o dell’attrice (Dyer 1979, King 1991: 167-182, Gledhill 1991: 167–182)1. La struttura dell’ensemble esalta la funzione civica della celebrità nel nostro paese. Al contempo, sopperisce a una fragilità del nostro cinema e della nostra televisione: la Star. Ossia, la forma plurale segnala la scarsità di corpi pubblici emblematici, eccezionali, sostenuti da una coerente spettacolarizzazione e a cui corrisponde un culto della persona (McDonald 2013).2 La Star si forma attraverso meccanismi di forte individualizzazione che collima con un alto valore monetario e un capitale culturale. La Star aggrega valori, ideologia, potere in una forma personale, innescando meccanismi di identificazione. Poiché, come è stato osservato (Minuz 2017: 39–49, Carluccio e Minuz 2015: 10–12, Reich e O’Rawe 2015), in Italia questo costrutto socio-culturale è precario e perfino aristocraticamente ricusato, è più facile che in risposta alla chiamata ad un impegno civico e alla definizione degli eroi della nazione in tempo di crisi emerga un coro di performers, anziché una persona. Questo orientamento all’incarnazione collettiva del valore si rispecchia nei movimenti associazionistici (che descriverò più oltre) generatisi durante la pandemia per affrontare la crisi del lavoro nel settore della cultura.
2 Crisi e movimenti creativi della cultura della celebrità
Lo studio delle celebrità si interessa dell’invenzione di personalità pubbliche, della loro performance professionale e auto-promozione, delle narrazioni e immagini che ne veicolano l’interesse e il consumo. Concerne il confluire di valori collettivi nelle forme di apparizione spettacolare e nella relazione tra sfera pubblica e privata. Riguarda infine i meccanismi di reputazione e i rapporti tra la celebrità e le istituzioni3. La pandemia offre uno scenario d’eccezione per osservare i movimenti creativi concernenti questo complesso di fenomeni.
Come la sociologia ha dimostrato negli anni, le sperimentazioni che generano cambiamenti si verificano più facilmente in organizzazioni di tipo organico. Così affermano Tom Burns e George M. Stalker riferendosi a quegli ambienti sociali in cui la comunicazione è più orizzontale che verticale, in cui i membri contribuiscono ai compiti comuni con minore controllo e minori regole gerarchiche (Burns e Stalker 1961, Lefebvre 2005: 358)4. La pandemia ha favorito forme già esistenti di comunicazione orizzontale negli ambienti dell’entertainment, tra gli utenti del web, tra gli spettatori, tra gli addetti ai lavori; una condivisione di eventi e contenuti facilitate dai social network e dalle piattaforme di videoconferenza, dai servizi di streaming ecc.
L’innovazione è un processo facilitato dal dissolversi di pratiche sociali pre-esistenti. Si attua in condizioni in cui le differenze tra le persone in termini di ruoli, poteri e decisioni diventano trascurabili, ove gli attori sociali siano temporaneamente privati di opportunità o direzioni progettuali e le decisioni avvengano in maniera meno o poco strutturata (Lefebvre 2005: 358). La pandemia ha fatto crollare alcune barriere ed esplodere le criticità del mondo dello spettacolo, suscitando un movimento dal basso – spinto dagli attori meno noti, dal personale e dalle maestranze – che è stato sostenuto anche dalle personalità più visibili. La pandemia ha infatti portato in primo piano falle legislative in termini di diritti degli attori e li ha visti schierati in prima linea, in dialogo con i ministeri. La società Unita, ad esempio, e il movimento spontaneo di aggregazione di attori che va sotto il nome di “L’attore visibile” da cui prende le mosse – capace, nel giugno del 2020, di aggregare in pochi giorni su Facebook più di 6000 attori -, ha sottolineato l’importante funzione sociale degli attori come custodi della cultura del paese (Fontanarosa 2020). La pandemia ha fatto parlare gli attori in modo più esplicito della propria attività in termini di impiego, diritti, salari (Ferraresi 2020). Il gruppo “Artisti 7607” ha portato in primo piano i problemi legati alle piattaforme di distribuzione che non riconoscono i diritti d’immagine e d’autore agli artisti (Costantini 2021: 41). “Sostegno al mondo invisibile” è diventata la parola d’ordine della manifestazione “Bauli in Piazza” tenutasi a Roma il 17 aprile 2021.
La crisi pandemica ha creato condizioni di interruzione e sovvertimento delle regole del consumo mediale: mutamenti nei processi produttivi e distributivi dell’entertainment (Mereghetti 2021). Pensiamo ai festival del cinema a porte chiuse, alle sospensioni dei lavori sui set, alla riduzione degli ingaggi per attori e personale dello spettacolo, alle stagioni teatrali decurtate e alle sale cinematografiche chiuse. In queste circostanze, c’è stato un forte spostamento a canali non irregimentati della comunicazione, che per gli attori è avvenuto tramite interviste online e dichiarazioni su Facebook e Instagram, ma anche attraverso spazi speciali dati loro dalla televisione generalista, come nel caso dello speciale del Tg1 mandato in onda il 25 ottobre 2021 – in occasione della neonata Giornata dello Spettacolo – dove diversi performer, tra cui Elena Sofia Ricci, hanno spiegato lo stato di salute degli investimenti pubblici per lo spettacolo prima e durante la pandemia, presentando uno show corale dal titolo Grido per un nuovo Rinascimento.
Parallelamente, è aumentato esponenzialmente l’uso dei social media come risorsa per l’accesso a contenuti di vario argomento e modelli di comportamento condivisi (Bulatović e Bulatović 2021: 2969-2986, Keidl et al. 2020, Giaccardi et al. 2020: 157–169). Si è propagata sia la celebrazione della telepresenza, sia la lamentazione dei suoi danni: Gérome Bourdon parla di “a new blow to an already agonizing public space” (Giaccardi et al. 2020: 160). Si è accentuato cioè un fenomeno già esistente, con radici sociali e culturali solide: l’esperienza della presenza a distanza delle altre persone. Un fenomeno studiato da alcuni decenni, declinato oggi secondo la “profonda mediatizzazione” (Hepp 2020) della cultura, data dall’enorme aumento dell’uso della telecomunicazione nel quotidiano, con la conseguente necessità di dominare il disembodyment della relazione interpersonale.
Per quanto riguarda i fenomeni di creazione, propagazione e consumo della celebrità, la pandemia ha sia favorito l’insorgere di movimenti dal basso, grass-root, non professionali di promozione di sé (Kennedy 2020)5, sia innescato una chiamata universale delle persone note a contribuire al bene comune. In queste circostanze, le celebrità di tutto il mondo hanno espresso un senso di comunanza accorciando la distanza tra la propria esperienza quotidiana della pandemia e quella del pubblico: “we are all in this together” (Lookadoo, Hubbard et al. 2021). Si sono spese, ad esempio, per la sensibilizzazione del pubblico alla necessità di stare a casa nei primi mesi emergenziali. In Italia numerose personalità dello spettacolo hanno aderito alla campagna del ministro Franceschini “#iorestoacasa”, parte di un movimento di sollecitazione alla fruizione di oggetti culturali che ha coinvolto i grandi musei italiani, i quali hanno spostato sulla rete i propri patrimoni e capolavori artistici.
C’è stato inoltre un convergere dell’istituzione radio-televisiva nazionale e dei social network, come nel caso dell’intervista da casa a Pierfrancesco Favino e Anna Ferzetti: una diretta su Facebook di Radio2 condotta da Pierluigi Ferrantini e Carolina Di Domenico il 15 aprile 20206. Inoltre, alcuni attori, come altre personalità dello spettacolo, si sono rivolti ad un’ampia platea di spettatori online per esprimere opinioni personali riguardo a temi di amministrazione pubblica con cui non si sarebbero confrontati in assenza di emergenza sanitaria, come i patti tra le nazioni europee in materia di aiuti finanziari. Si veda ad esempio l’arringa pubblicata su YouTube da Tullio Solenghi contro la Germania (per essersi opposta, insieme ad altri paesi europei, alla concessione di Eurobond a favore dei paesi colpiti dalla pandemia)7 o l’attacco di Enzo Iacchetti all’informazione televisiva in materia di pandemia, alla politica sconsiderata nel campo della sanità8. Svincolati dalla sorveglianza dei comportamenti e dei look normalmente associata allo spettacolo televisivo e cinematografico, questi appelli, lanciati da casa, espongono gli attori senza filtri, in un’inedita collisione tra sfera pubblica e privata, suscitando anche reazioni negative e disapprovazione.
Nei mesi di lock-down si è perciò venuta a costituire una diversa visibilità degli attori, rivendicativa, attiva e civica, innescata sia in maniera casuale, sull’iniziativa personale, sia con il supporto dei canali istituzionali. Ciò è avvenuto in concomitanza di un fatto del tutto nuovo: lo straordinario avvicinamento tra la quotidianità delle celebrità e quella degli spettatori, essendo il raggio d’azione delle personalità dello spettacolo limitato alla dimensione domestica e la mediazione del corpo svincolata dalle risorse professionali di truccatori, stylist ecc.. Mai le celebrità sono state meno entertaining come ai tempi del coronavirus, afferma un articolo di The Atlantic nel 2020, riferendosi all’ambiente hollywoodiano. Qualcosa di simile è avvenuto sulle pagine Facebook dei nostri beniamini del cinema, come gli intermezzi riflessivi di Carlo Verdone, postati nella sua casa romana nel marzo del 2020, in assenza di filtri o abbellimenti. Un invito piano e prosaico al rispetto dell’ambiente, all’autoconsapevolezza, ad ascoltare musica classica durante la quarantena. Nessun intrattenimento. Nessuna posa istrionica. Piuttosto, un calare la maschera, confondendo piano privato e pubblico.
A partire dal periodo di lock-down sono mutate, anche solo temporaneamente, le ragioni e le strategie per essere rilevanti, in una società i cui valori sono apparsi profondamente cambiati (Graham 2020). Un certo giornalismo ha inneggiato alla fine della cultura della celebrità, riferendosi ai cali di stile con cui le star di Hollywood hanno cercato di coinvolgere i loro fan nell'era dello stay-at-home (Hess 2020). I modi in cui la performance spettacolare delle persone celebri è stata trasfigurata, invertita di segno, hanno un andamento universale: “The Coronavirus crisis has exposed the way our society works in a sort of a global social experiment” (Giaccardi et al. 2020: 157). Queste trasfigurazioni mostrano anche specificità culturali e nazionali. Se, per esempio, a Hollywood l’attrattività dei corpi celebri durante i mesi del lock-down è stata in qualche modo riconvertita, con uno spostamento di focus dal glamour delle apparizioni pubbliche al lusso dello spazio domestico delle Star (con effetti scandalistici riguardanti certe lamentazioni fatte dalle Stelle in barba a chi combatteva con discriminazione e privazione)9, da noi raramente il richiamo degli attori e delle personalità dello spettacolo ha riguardato la loro allure. Nella capitale italiana del cinema l’attrattività dei divi si è trasferita invece sul piano della ricerca artistica, della riedizione estetica delle vite dei nostri beniamini attraverso lo sguardo di una fotografia sapiente, che ben si distingue da quella dei selfie, dei cellulari, del fai da te. È ciò che si evince dalla mostra fotografica di Riccardo Ghilardi, Prove di libertà. Il Lockdown nel cinema italiano, che raccoglie gli scatti eseguiti durante il lockdown: attrici, attori e registi colti nei loro spazi domestici, ritirati, familiari10.
3 Voci, personalità e territorio nazionale
Un prodotto come Io sono… Italia si è costituito in questo contesto di telepresenza, di spazio pubblico agonizzante e di accentuazione della cultura dell’antidivo. Qui attori e attrici abitano il testo solo attraverso l’àcusma, usando della voce “la possibilità di manifestarsi come anima, come ombra e come dubbio” (Chion 1991: 160). Spostando il fuoco percettivo dalla sicura riconoscibilità del corpo attorico alla dubbia collocazione della voce11 questo prodotto opera, come afferma Kaja Silverman, una radicale divisione, che riguarda il soggetto: quella fra significato e materialità (Silverman 1988: 44)12. Al contempo, come vedremo, la voce diventa a tratti tattile, senza con ciò prendere direzioni trasgressive rispetto a uno scheletro logico-discorsivo (Doane 1980: 33–50, Sjogren 2006, Rangan 2017: 279–291, Bruzzi 2000)13.
Se l’innovazione è un fenomeno che sorge per risolvere una crisi, è cruciale il rapporto tra innovazione e valori culturali fondanti della società, la quale può essere riorganizzata come dice Balandier proprio facendo appello in modo nuovo a quel patrimonio comune. La crisi da risolvere non è solo la pandemia, ma anche la mancanza di canali e modi della sua rappresentazione, tra cui persone capaci di aggregare in una forma espressiva paure e sentimenti collettivi. Per esempio, dando nuovo significato ai concetti di benessere e quotidianità, individuo e società, esperienza presente e progettualità nel futuro. La pandemia ha fatto emergere nuovi eroi della patria, ancora privi di un preciso riconoscimento nel discorso ufficiale, ma vivi nella coscienza comune. Io sono… Italia mette in evidenza i valori culturali fondanti della nazione. Non è innovativo per quanto concerne i canoni del ritratto eroico. Nell’inneggiare alla speranza e celebrare gli eroi della pandemia, offre un quadro di italiani brava gente e riconferma il valore dell’autenticità in chiave nostalgica. È formulaico quanto a luoghi e tipi umani: le folle dei migranti e i magistrati antimafia, gli eroi in camice verde e i campioni sportivi, Sandro Pertini e Berzot. Un immaginario senza contraddizioni in cui predomina la capitale – opere d’arte e monumenti, la cappella sistina, l’altare della patria e lo stadio olimpico – e si usa la leva emotiva del materiale di repertorio, senza mettere in discussione lo statuto dell'immagine cinematografica (Morreale 2012) o televisiva.
Il film inneggia al patrimonio nazionale facendo leva sull’eloquenza, su un atto verbale solenne, chiamando in causa l’officio dell’attore e sottolineandone la gravitas. Ossia, fa leva sul suo primato nel padroneggiare le emozioni e dilatare il senso del vivere normale (Mariani et al. 2013), sulla capacità di governarne l’espressione e dunque di esprimere emozioni collettive in una forma sapiente. In questo senso il film incrocia un movimento innovativo generato nei mesi dell’emergenza all’interno di una comunità dello spettacolo allargata, che abbraccia teatro, cinema, televisione. Io sono Italia non può essere considerato a prescindere da tanti contenuti di rivendicazione della centralità culturale degli attori che hanno circolato sul web durante i mesi dell’emergenza sanitaria. Si pensi agli appelli postati sui social in cui singoli attori, spesso non noti, non parlano di sé, ma delle sale svuotate – non si fanno icone, ma discorso pubblico. O alle dichiarazioni di registi e produttori. Gabriele Vacis e Alberto Vittone parlano di teatro come della più sacra e antica forma di “assembramento”, come luogo di meditazione civile (Vacis e Vittone 2020). Si diffonde una militanza digitale per mantenere vive le funzioni culturali e sociali del teatro (Ponte di Pino 2020).
L’innovazione contenuta in Io sono… Italia non riguarda perciò il piano dell’immaginario e della narrazione bensì quello della performance della celebrità. Ci invita perciò a un’analisi della cultura nazionale della celebrità. Il prodotto è innovativo per il modo in cui convoca gli attori attraverso una prestazione “invisibile” che invoca un’intera società. Non ricorre a un criterio di individualizzazione, eccezionalità e monopolio dell’attenzione (King 2011: 247–262), ma alla recitazione senza corpo di un ensemble che rievoca la condizione collettiva del corpo ritirato o scomparso, imposta agli italiani dalla circostanza pandemica. Ricongiunge perciò pubblico e celebrità in modo innovativo.
Ciò avviene anche se il tipo di prodotto non è nuovo. È un montaggio di filmati e di materiali di repertorio con voci note di commento. Durante la pandemia sono emersi oggetti simili14, con spunti sperimentali, come il documentario in VR Lockdown, l’Italia invisibile15, che propone uno sguardo contemplativo sugli spazi emblematici del nostro territorio urbano accompagnato dalla lettura di un testo poetico. Le voci di Vinicio Marchioni e Matilde Gioli, pacate e cadenzate, sono un adagio che commenta il vuoto, l’assenza, la visione metafisica di vie, piazze, luoghi di scambio e trasporto divenuti deserti. Si pone l’accento sull’immobilità imposta ai corpi, “dobbiamo stare fermi”, sull’impossibilità di vedere e stringere fisicamente gli altri. “Non ci resta che ascoltare” (min. 12,21): l’ascolto è un’esperienza che acquista un nuovo significato culturale e segna una svolta storica.
Io sono… Italia rinforza quel particolare posizionamento degli attori italiani rispetto al territorio nazionale: “più testimonial del nostro paesaggio”, affermano Carluccio e Minuz, “che di un’industria del cinema” (Carluccio e Minuz 2015). Qui la performance è votata a creare un ambiente in cui le diversità convergono e si stemperano per formare un continuum omogeneo. Questo confluire è orchestrato attraverso la voce, in una corrispondenza tra suono e immagine, nel contrappunto tra eloquio e bellezze, paesaggio. Le voci narranti costituiscono un fluido scorrere sulle immagini. Analizziamo dunque il potere di queste voci non localizzate e mobili. Qui entra in gioco il concetto di corpo vocalico, ossia il corpo prodotto dalla voce: un’idea, un corpo secondario, “una proiezione di un nuovo modo di possedere o di essere un corpo” (Connor 2007: 51)16. Come sono queste voci? Osserviamone la dizione, il timbro, il tono, la varietà e l’eloquio. Dove sono? In che spazio le si colloca all’interno del testo? (Connor 2007: 27–29)17. E di chi sono? Allo spettatore è infatti lasciato il compito di rintracciare la marca personale in ciascuna di esse.
È sciolta e fluente quella di Elena Sofia Ricci, cucita sulle carrellate che sorvolano i nostri mari e le caravelle della speranza mentre pronuncia “io sono acqua” (Silverman 1988: 75-100)18. Enfasi e increspature segnano la voce di Claudia Gerini mentre lambisce le cime delle montagne. Piano e profondo lo stile di Briguglia, Guanciale e Marchioni, cui è affidato il commento su chi si è impegnato per la giustizia, la scienza, la sanità. Così è anche per Flavio Insinna, che è più carico di patos nel toccare il tema della vecchiaia, della distanza dai cari, della morte. Egli propone un’interpretazione espressiva, ricca di tonalità sia gravi sia squillanti. È la voce più lontana dal monologo e pure dall’eloquio poetico: più prossima alla personificazione. Paradossalmente, non è facilmente attribuibile a un interprete dall’identità professionale multipla, ove l’attore ha spesso ceduto il posto al conduttore televisivo. Enrico Lo Verso si stacca un poco dal coro per minore musicalità e per reticenza retorica. È il più lontano dalla declamazione, mentre sono, rispettivamente, vibrante e squillante le voci di Francesco Montanari, che sceglie un tono grave e un eloquio che si dà a sentire, virtuoso, e Andrea Delogu. Esse sono ideate come un duetto che richiama la loro unione nella vita privata e rievoca coppie letterarie come Dante e Beatrice o i manzoniani Renzo e Lucia. Segue Massimo Ghini, che con piglio vigoroso recita alcune battute riferite all’Eneide e accostate al frammento di un film Rai a puntate (Eneide, Rossi, 1971). La frase “io sono Enea” fa da contrappunto alla visione della scultura omonima di Bernini collocata nella galleria Borghese a Roma. Vitalità e freschezza caratterizzano sia Cristiana Capotondi e Valentina Lodovini, sia Beppe Fiorello, vibrante e sincero nell’abbracciare i temi del teatro, del cinema e della musica.
Consideriamo l’attore in un quadro complesso di apparizioni e testi che vengono richiamati all’attenzione ad ogni sua successiva interpretazione. Ciascuna di quelle voci in assenza di corpo è innanzitutto segno indessicale: indica che “quell’attore è nel testo”. La voce non è un indice primario di riconoscibilità della celebrità del cinema o della televisione. Non è usata nel testo come marca di unicità. Gli spettatori possono riconoscervi una specifica personalità e utilizzare ciò che sanno di lei attivando quella dinamica tra piano testuale ed extra-testuale che è alla base della cultura della celebrità, ma l'unico personaggio di Io sono… Italia è l'identità collettiva, la nazione.
Per quanto i timbri si differenzino tra loro, queste voci compongono un coro. Esse sono prive di quell’accento che al cinema, diversamente dal teatro – afferma Jacqueline Nacache – dà loro colore e rilievo. Pensiamo all’impronta vernacolare nei divi della commedia all’italiana degli anni Sessanta e alla sua propagazione fino alle fiction televisive dei giorni nostri. Queste voci non hanno marche distintive notevoli, uno stile attorico personale. Non hanno la qualità eccezionale dei divi. I mostri sacri del cinema sono stati veicoli di voci inaudite, aggiunge Nacache – un fatto raro anche tra i nostri divi contemporanei, (con le dovute eccezioni, tra cui i comici). Gli attori di Io sono… Italia contribuiscono, piuttosto, a un lavoro tonale. Seguono un principio musicale, armonico, con minime variazioni sulla tonica dominante. Una caratteristica distintiva della musica tonale “è il fatto di privilegiare la melodia, una sequenza di note prodotte in un ordine riconoscibile e facile da ricordare” (Kalinak 2010: 13). A questo scopo funge la composizione di Giovanni Allevi (con il brano originale Kiss me Again), star musicale del film, che àncora il mood dello spettatore, lo sollecita sul piano patemico con una melodia in tonalità maggiore e un ritmo deciso a cui è accordato il passo e il clima eroico delle voci narranti.
Questo insieme di voci riunisce notorietà differenti, componendo una celebrità ampia, che si rivolge a un vasto pubblico sul piano sociale e geografico secondo un paradigma tipico dei prodotti Rai. Si inserisce inoltre all’interno di un fenomeno più esteso, che negli ultimi vent’anni, osserva Maria Paola Pierini, abbraccia la produzione media e “di qualità”, secondo cui “il livello complessivo del cast appare spesso disuguale, disarmonico, poco coeso e messo insieme per logiche che non risultano legate strettamente alle esigenze del film” (Pierini 2017: 20, Incarbone 2011: 310–322). Non sono raccolti qui i divi del cinema contemporaneo (Germano, Favino, Scamarcio) ma principalmente personalità e attori molto visti in tv (a partire dal principale divo televisivo Beppe Fiorello, per giunta campione di una fiction di impronta civile), spesso attivi anche nel cinema e a teatro (Montantari). Nel riunire performers come Lo Verso, Lodovini o Capotondi, di frequente impegnati al cinema, con altri che vantano un prolungato impegno teatrale (Guanciale), oppure diventati noti con fiction televisive (Marchioni) e una presentatrice, scrittrice, personalità televisiva come Delogu, Io sono… Italia rende evidente il superamento di un’anacronistica distinzione tra chi fa cinema, televisione o teatro. Le varie categorie di nomi celebri qui coinvolti ricadono nell’ampio fenomeno della familiarità, soprattutto quella televisiva di cui parla Luca Barra (Barra 2017: 71–78), offerta a una larga platea; una celebrità collocabile in una fascia intermedia di prestigio culturale.
Io sono… Italia colloca la vis politica dell’eloquio al centro dei processi simbolici di una nazione alla ricerca di una narrazione collettiva. Queste voci sono innanzitutto discorso, parola. Simili alla declamazione, da molto tempo nemica del teatro, e anche del cinema, che tiene sotto stretta sorveglianza tirades e monologhi, mostrano di avere un’identità ibrida tra cinema, televisione e teatro. Il cinema doma le voci, poiché tra la voce e il corpo dell’attore si insinua il pugno di ferro del regista (Nacache 2004: 61). Non è così per molte voci televisive entrate nella fruizione mediale quotidiana degli spettatori: quelle che non appartengono a prodotti di finzione e allargano notevolmente lo spettro dell’esperienza aurale, al gridato, alle tirades entusiastiche o ai sussurri confessionali. Non è così nemmeno per le voci degli attori-narratori del teatro più politico, in cui si racconta un fatto di cronaca o si rievocano fatti personali. Nello spettacolo-narrazione, la recitazione si imparenta al “pezzo di bravura” del grande attore per come pone in primo piano lo sforzo vocale (pensiamo al visibile affaticarsi di Beppe Grillo nel suo stile gridato). In questo genere di recitazione c’è un primato della voce sul corpo, che diventa più neutro (si pensi ad Ascanio Celestini), poiché l’interprete si mostra sulla scena in panni quotidiani senza mascherarsi e atteggiarsi e si sforza di non immedesimarsi in quello che dice (è il caso dello stile asciutto, austero nell’uso del corpo di Marco Baliani). Nello spettacolo-narrazione
l'attenzione del pubblico non deve soffermarsi sul suo aspetto […] È necessario […] che la figura narrante appaia neutra, inessenziale e che le sue parole accompagnate dal gioco delle tonalità, delle espressioni e dei gesti diventino dei semplici strumenti per incatenare la fantasia degli spettatori al contenuto del racconto (Vicentini 2007: 182).
Quel genere di spettacolo, inoltre, mantiene buona parte dell’attenzione rivolta verso la sala alimentando la consapevolezza dello spettatore di assistere a uno spettacolo assieme ad altre persone (un esempio è Marco Paolini) (Vicentini 2007: 181).
Come nelle suddette forme, distanti dal cinema di regia e dal teatro di prosa, in Io sono…Italia le voci si sono ricavate un’autonomia. Relegate alla periferia del campo visivo, come afferma Michel Chion, esse occupano uno spazio altro, poiché nelle situazioni di post-sincronizzazione le voci navigano sulla superficie dello schermo in cerca di un posto a cui attaccarsi (Chion 1994: 3–4). La voce disincarnata attiva un clima di stupore, un regime straordinario, contrapposto all’ordinario del dialogo sincrono. È presa tra il familiare e il declamato, a metà tra privato e pubblico (Nacache 2004: 60). C’è infatti una qualità astratta in questa recitazione, un’enfasi sull’atto, che pone in ombra il contenuto. Il testo (di Mauro Berruto) propone ripetutamente l’interpellazione – “Io sono voi” – creando un ponte tra chi parla e il mondo. Questa evidenza data all’enunciazione ricongiunge l’attore alla retorica, l’arte del discorso dotata anche di risvolti politici.
La voce, com’è stato osservato, non ha mai avuto una buona reputazione al cinema (Nacache 2004: 59; Valentini 2006: 135–167). Secondo una visione che ha a lungo prevalso, essa non è altro che “gesto vocale”, subalterna all'espressività del corpo, salvo raggiungere un massimo di specificità cinematografica (e anche di rilevanza prossemica) nelle sue maggiori manifestazioni “non attoriche”, come la voce off e la voce over (Nacache 2004: 60). Così sono le voci di questo prodotto, non-attoriche (ricordiamo che, storicamente, la voce scollata dal corpo, come nella postsincronizzazione, è vista come barbarie e come sofferenza per l’attore) (Artaud 1974: 108–111), extradiegetiche e incollate all’orecchio dell’ascoltatore. Si sopprime qui l’effetto di profondità sonora, la percezione di uno spazio sostenuta dall'esperienza del suono: una sensazione di volume, di profondità e di forma originata dal suono. Queste voci creano invece un’intimità, per via della loro registrazione che rispecchia un regime di ascolto tattile caratteristico dell’era del podcast (Spinelli e Dann 2019; Pettman 2017)19. Esse producono un senso di prossimità suscitato dal contatto con il microfono, che azzera, sul piano percettivo, la distanza tra l’ascoltatore e colui che parla e accende una relazione intensa e intima (la voce della seduzione)20. Non c’è qui l’ampiezza acustica della recitazione radiofonica (la ricca modulazione di toni, ritmi e pause, la gamma di emissioni non verbali che danno colore al recitato e fanno sentire il movimento di un corpo che enuncia). Si avvantaggia ciò che Roland Barthes chiama la grana della voce (la sua materialità, fisiologicamente condizionata, la traccia fonica di una marca personale) e di conseguenza si accentua il rapporto erotico di chi ascolta con il corpo di colui o colei che emette il suono (Barthes 1985: 257–266; Feldman e Zeitlin 2019). Afferma Connor:
Il microfono rende udibile ed espressiva l’intera gamma di suoni vocalici organici che sono tagliati dall’ascolto ordinario; la liquidità della saliva, i sibili e i piccoli fremiti del fiato, il battere della lingua e dei denti, e lo schiocco delle labbra […] La vicinanza immaginaria di queste voci ci suggerisce che esse potrebbero essere le nostre (Connor 2007: 54).
Queste voci rimandano a una relazione con il sé. Le possiamo riconoscere come nostre. Un simile regime di intimità riverbera la nuova prossemica dell’esperienza della quarantena e una fantasia di azzeramento delle differenze e delle distanze innescata dalla pandemia.
4 Conclusioni
Del corpo collettivo sottratto allo spazio pubblico dalla pandemia gli attori sono chiamati a rappresentare la forma più nobile. La loro rappresentatività si distingue rispetto a quel richiamo popolare che caratterizza altre celebrità (si pensi alle star sportive). Alla Berlinale del 2020 Elio Germano parla di virus della paura e proclama la necessità della cultura come antidoto all’ignoranza che genera paura. Egli afferma: “facciamo tanta fatica a far uscire le persone dai loro appartamenti. A ricordare loro che c’è un vivere sociale”.
Tradizionalmente assimilati all’arte (Carluccio e Minuz 2015: 10), durante la crisi gli attori si sono palesati nell’impegno a salvaguardia della cultura, mostrandosi come una comunità che si è fatta ascoltare in modi inediti, esibendo solidarietà e dignità civile. In questo periodo gli attori hanno goduto di una forma differente di notorietà. In Io sono… Italia essi “hanno speso la propria invisibilità” per una causa civica. Si è chiesto loro di svolgere la funzione dei divi – veicolare contenuti sociali, diventare testimonials – ma questa funzione si è svolta attraverso la rinuncia alla marca primaria del divo: l’immagine. Ciò va a rinforzare la condizione italiana di paese degli antidivi, dall’atteggiamento schivo, che rifuggono il cinema commerciale e volentieri coniugano scelta artistica e politica (Carluccio e Minuz 2015: 10). L’innovazione in risposta alla crisi si è appellata perciò ai valori assoluti del giacimento culturale. Ed è una performance che utilizza quel “senso di deficit ontologico che è sempre una caratteristica del suono e dell'udito: la sensazione che sentire […] significhi essere privati dei mezzi di identificazione e di differenziazione” (Connor 2007: 37). È una performance che richiama un principio di orizzontalità: un allinearsi alla moltitudine – innanzitutto ai camici verdi, i protagonisti nella sorveglianza di una società in crisi.
Mai negli ultimi decenni gli attori sono stati chiamati ad essere rappresentativi dell'identità nazionale, della storia culturale, della dimensione politica e dell’impegno come durante la crisi. Lo hanno fatto come emblemi di quel servizio pubblico promosso dalla televisione generalista, in un confluire, anche disorganico, di pratiche attoriche che vanno dal modello collettivo di certa serialità italiana (Barra 2017: 32-42) al teatro-narrazione migrato sugli schermi e sul web.
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La cornice critica di riferimento è il concetto di star come segno (l’interazione tra immagine divistica, caratterizzazione e performance nei film, concetto elaborato da Richard Dyer e di economia culturale del corpo della star, illustrato da Barry King.↩︎
Si vedano i concetti di commercio simbolico, di star come brand e di prestigio in McDonald 2013.↩︎
L’area di studi sulla celebrità, spesso ispirati al lavoro di Chris Rojek, colloca i fenomeni di culto della celebrità nel contesto in un’interazione complessa e mutevole tra costruzione top-down della celebrità e fenomeni dal basso e mette a fuoco la crisi dell’identità dello spettatore dovuta al collasso di strutture di appartenenza e istituzioni culturali.↩︎
Tom Burns e George M. Stalker hanno mostrato che “l’innovazione si sviluppa soprattutto in organizzazioni di tipo organico”.↩︎
La letteratura critica su questi fenomeni grass-root è in continua elaborazione. Si veda il caso di studio della nuova visibilità delle teenagers durante il COVID-19 attraverso la piattaforma TikTok nel contributo di Melanie Kennedy.↩︎
29 marzo 2020. https://www.youtube.com/watch?v=SjzUrBVq1f4.↩︎
11 aprile 2020. https://www.youtube.com/watch?v=kFhjnjvxyjY&list=RDCMUCP3HLYi2ECQhgKXMSbTO-5A&index=2 (ultimo accesso 30-4-2022).↩︎
Si veda il caso di Madonna.↩︎
Un esempio simile è il lavoro della fotografa Erica Fava, che interpella attori, attrici e altre personalità riguardo al loro posizionamento personale nel contesto della pandemia con una serie di scatti presi a casa, https://www.elle.com/it/showbiz/cinema/a32942545/foto-attori-lockdown-erica-fava/.↩︎
La teoria del cinema si è occupata della separazione dell’occhio dall’orecchio nell’esperienza cinematografica in diverse prospettive, da Christian Metz, che evidenzia come il suono della voce umana sia vissuto come enigmatico o incompleto fino al momento in cui la sua sorgente non viene identificata a Rick Altman, che sottolinea la subordinazione del suono all'immagine e parla di suono ermeneutico: il suono chiede dove? e l'immagine risponde qui e Michael Chion, che tratta di suono acusmatico.↩︎
L’importanza della voce nel cinema è stata messa in evidenza da Silverman attraverso la metafora dello specchio acustico, su cui si trovano riflesse deformazioni narcisistiche e proiezioni culturali. Come in questo caso di studio, la voce, afferma Silverman, può eccedere i confini corporei da cui dipende la soggettività classica e fungere da viatico a proiezioni e introspezioni.↩︎
La trasgressione affidata alla voce è un tema trattato in una prospettiva femminista che non c’è modo di approfondire qui. Si vedano le riflessioni di Mary Ann Doane sul cinema classico e Britta H. Sjogren. La voce svincolata dal corpo nel documentario è trattata ad esempio da Pooja Rangan e Stella Bruzzi.↩︎
Dall'evento “Grido per un nuovo Rinascimento” svoltosi al Teatro 8 degli Studios in Roma, è nato un documentario con la partecipazione di tutte le categorie dei lavoratori dello spettacolo dal titolo Grido per un Nuovo Rinascimento. Regia: Elena Sofia Ricci, Elisa Barucchieri e Stefano Mainetti. Qui troviamo lo slogan “l’arte è il nostro petrolio”. Uno slogan che si focalizza sulle caratteristiche della nostra nazione.↩︎
Il film documentario è realizzato nella primavera del 2020 dalla casa di produzione Gold in collaborazione con RAI Cinema.↩︎
Le osservazioni di Connor si basano sull’osservazione del primato nella civiltà moderna della dimensione visiva dell’io e del corpo su quella uditiva.↩︎
Analizzando la concezione drammaturgica della voce senza sorgente Steven Connor afferma che la voce ha luogo nello spazio e che è spazio e sostiene che le tecnologie acustiche moderne “producono nuove configurazioni dello spazio immaginario del corpo e degli spazi socio-culturali della sua espressione”.↩︎
Non c’è spazio per approfondire le differenze di genere nell’uso della voce di questo prodotto, con le sue ricadute a livello simbolico, ma possiamo osservare come Sofia Ricci faccia appello alla sfera semantica della voce materna, intesa come grazia e pienezza (una delle sfere possibili, sottolinea Kaja Silverman, in “The Phantasy of the maternal Voice: Paranoia and Compensation” in The Acoustic Mirror, cit. pp.75-100), specchio acustico, per usare la metafora di Silverman, a un bisogno di confort e sicurezza sostenuto sul piano visivo da un montaggio del paesaggio marino e del riparo accogliente offerto dal territorio nazionale.↩︎
Martin Spinelli e Lance Dann osservano come la realtà pragmatica del consumo del podcast sia intrinsecamente erratica, soggetta a mediazione e contingente (p. 150) e sottolineano la natura empatica della performance dei podcasters, che sono proposti “less as narrative artists and more as empathy artists” (p. 97).↩︎
Il potenziale dello stile soft, del fil di voce, si è scoperto fin dai primi tempi della registrazione sonora, specie nelle canzoni popolari, dove la voce è “seduttiva perché sembra essere nelle nostre orecchie, protesa in avanti” (Connor, 2007: 54).↩︎