Introduzione
L’epidemia globale di Covid-19, annunciata ufficialmente il 30 gennaio 2020 dall’Organizzazione mondiale della sanità, è stata descritta come “epoch making”, che fa epoca, e per questo meritevole di studio da parte degli storici del futuro, in espressioni come “post-pandemic world” o “life after Covid”. Essa ha avuto, come si è visto, ripercussioni drammatiche sull’industria dello spettacolo e la professione attoriale. Ma mentre le conseguenze strettamente economiche della pandemia sull’industria in generale, e dello spettacolo in particolare, appaiono misurabili nei grafici e report professionali, non così quelle sulla cultura (Barra e Pitassio 2021), sia spettacolare che, in senso lato, antropologico.
L’esplosione della pandemia di Covid-19 ha trasferito la vita e l’intrattenimento negli schermi digitali, sfumandone i confini. Il genere della videoconferenza ha assunto un’importanza senza precedenti nella vita quotidiana di molte persone, evidenziando i paradossi delle interazioni mediate dallo schermo, che servono a connettere e isolare gli esseri. Il benessere collettivo è venuto a dipendere dall’alienazione della “distanza sociale” che Jean-Paul Sartre aveva sperato di superare (Sartre citato in Denson 2020: 316). Qualcosa di tragico stava accadendo: “together apart” e, in Italia, “io resto a casa” erano i mantra dell’emergenza sanitaria. Nella realtà fisica abbiamo iniziato a prendere le distanze, anche attraverso l’uso obbligatorio della mascherina, accelerando e moltiplicando le connessioni, in comunicazione tramite Skype, Microsoft Teams, Google Meet, Hangouts e Zoom, improvvisamente ubiquo. Riunioni, aperitivi, dj-set, videochiamate con amici e familiari lontani, insegnamento e consulenza si sono spostati online.
In questo nuovo mondo eravamo “together apart”, confermando l’intuizione di Stanley Cavell secondo cui lo schermo è sia finestra che scudo, a un tempo trasparente e opaco, perché estende la nostra percezione nel mondo ma, allo stesso tempo, protegge dal mondo (Cavell 1979, Casetti 2014). Una funzione che condivide con la mascherina, che consente di penetrare il mondo mettendoci al riparo da esso. Sullo schermo, la visione ha rimbalzato tra i volti disposti in griglie, saltellando da un quadrato all’altro, spiando gli appartamenti altrui, finendo per guardare noi stessi come in uno specchio digitale. Dal punto di vista fenomenologico, questo ha significato una oscillazione costante tra quelle che il filosofo della tecnologia Don Ihde chiama “relazioni di incarnazione”, in cui si guarda attraverso lo schermo come attraverso una finestra, e “relazioni ermeneutiche”, in cui la percezione si rifocalizza sullo schermo (Ihde 1990). Ecco perché questo saggio assume come base di partenza la definizione di “screen-sphere” della studiosa Vivian Sobchack, secondo cui sarebbero gli schermi a comprenderci, e non viceversa:
They now circumscribe and comprehend us more fully than we comprehend them. Indeed, as I will argue here, they have reconstituted what was once a “screen-scape” into the surround of a systemically-unified, if componentially diversified, “screen-sphere” (the structure of which will be addressed later in this essay). No longer an occasional, if significant, part of our lifeworld, screens now are our lifeworld – and their historical expansion has both ontological and epistemological implications. That is to say, we live today primarily in and through screens, rather than merely on or with them. They no longer only mediate our knowledge of the world, ourselves, and others; beyond representation, they have now become the primary means by which our very “being” is affirmed. (As evidence, we need only watch people constantly checking their smart phones, anxiously waiting to be phatically called, tweeted, or texted into existence) (Sobchack 2016: 158).
In questo contesto, la celebrità (Rojek 2001), come cultura, condizione esistenziale e pratica mediale, oltre a subire un processo di mediazione radicale (Grusin 2018), essendo preclusa ogni possibilità di partecipare a eventi dal vivo, e non è un caso che il teatro abbia più sofferto a causa della pandemia, è stata messa in discussione. La popolarità ha ancora senso? E come? Per alcune testate, addirittura, non era del tutto certo che la cultura della celebrità sarebbe sopravvissuta alla pandemia. “Celebrity culture is burning”, ha proclamato il New York Times (Hess 2020) in un articolo che analizzava alcuni dei modi ottusi in cui le star di Hollywood hanno cercato di coinvolgere i fan da casa. Nel frattempo, la giornalista Arwa Mahdawi, sul Guardian, scriveva che, grazie alla pandemia, il capitalismo ha gettato la maschera, rivelando quanto poco valore diamo agli invisibili che fanno andare avanti il mondo, e quanto poco gli eminentemente visibili, che glorifichiamo, contribuiscano alla società (Mahdawi 2020). Ma nonostante alcune gaffe, le celebrità durante l’emergenza pandemica hanno prosperato, invaso le nostre case, acquisendo nuova centralità, mostrando di adattarsi al nuovo scenario, che liquidava definitivamente la differenza tra retroscena e scena (Goffman 1997), e dove l’isolamento diventava performance d’isolamento di fronte a un pubblico coatto.
In questo saggio, analizzerò per la prima volta il profilo Instagram dell’attrice, celebrity e icona di moda italiana Alice Pagani da una prospettiva di genere, in particolare durante il periodo dell’emergenza sanitaria nazionale, inaugurato con il lockdown proclamato il 9 marzo 2020, secondo alcune linee indicate dalla studiosa Catherine O’Rawe (O’Rawe 2020), come caso eccezionale di attrice-celebrity italiana che ha reagito alla pandemia attraverso la coltivazione intensa d’intimità digitali con i propri fan, senza rinunciare al glamour. Il profilo Instagram di Alice Pagani, attrice appartenente alla Generazione Z, ha due milioni e trecentomila follower (al 5 febbraio 2022), una media piuttosto alta per gli standard delle attrici italiane, senza contare i quarantaquattromila del profilo Tik Tok. Come “parco giochi per esteti” (Brams in Jerslev e Mortensen 2015), Instagram offre una serie di possibilità per la messa in scena visiva, attingendo e sviluppando generi fotografici consolidati come l’autoritratto, l’istantanea, la fotografia di moda e altri generi commerciali che mettono in primo piano la “personalizzazione”, lo “stile di vita” e l’“esclusività” caratteristici di Instagram come canale di comunicazione (Luttrell 2015: 132).
Nel profilo di Alice Pagani le immagini possono essere suddivise in tre categorie generali. La prima categoria, di gran lunga dominante, contiene foto per lo più “private”: selfie, foto scattate dall’attrice nei suoi immediati dintorni (per esempio di suoi disegni, dettagli del suo corpo, scritture private) e fotografie scattate da altre persone, (ad es. sul set, al lago in costume, in barca, con gli amici o il fidanzato, a casa o in metro, in outfit glamour). La seconda, altrettanto corposa, è composta da fotografie “ufficiali” di editoriali di moda, trailer, foto di film e altri tipi di materiale per le pubbliche relazioni, immagini di eventi e fotografie di pubblicità (per esempio Emporio Armani), che presentano un comportamento da prima scena nel senso di Goffman (1997). La terza, minoritaria, comprende la rimediazione di contenuti prodotti dai suoi fan, principalmente ritratti illustrati (tra cui uno dello stilista Antonio Marras), o immagini di film e fotografie che disegnano una costellazione di gusto coerente con il brand, per esempio foto di Kurt Cobain o il film Nosferatu, il principe della notte (Herzog, 1979). L’attrice proietta l’immagine di una celebrity di successo, padrona di sé e della propria immagine, che conduce una vita piena e lussuosa, benché tenebrosa: fisicamente in forma, indossa abiti di alta moda, viaggia, crea, si gode il tempo libero, partecipa a eventi mondani, è protagonista di servizi fotografici di alta moda e possiede un simpatico cane “salvato dai maltrattamenti in Spagna” che ha un suo profilo Instagram (@ninamillais) con 2.979 follower (al 5 febbraio 2022). In realtà si fatica a distinguere con nettezza le categorie, perché scivolano continuamente l’una nell’altra: i selfie sono spesso promozionali, gli editoriali di moda, specie quelli scattati tramite FaceTime, hanno un feel intimo e grezzo, le pubblicità somigliano a selfie. La serie di selfie e di editoriali di moda la fanno apparire come una celebrity padrona di sé, capace di negoziare con successo la sua identità “autentica” e la costruzione del suo brand. La mercificazione, cura e sorveglianza continua del sé nei selfie e negli editoriali da casa non è separabile, fino ad apparire come la condizione stessa della proiezione di intimità, autenticità e abilità performativa.
Alice Pagani, a differenza di star come Gal Gadot, ha reagito al lockdown con tempismo e successo, inaugurando, tra le altre cose, una pratica di celebrification (Rojek 2001, Turner 2004, Driessens 2013) inedita: l’editoriale di moda da casa. Idea poi ripresa da alcuni dei periodici di alta moda internazionali più rilevanti, come estetica glamour “alla moda”. L’attrice italiana, rispetto agli attori italiani maschi suoi coetanei da me intervistati nel contesto del Progetto di Ricerca di Rilevanza Nazionale (PRIN) F-ACTOR, che hanno a più riprese sottolineato un disagio se non un rifiuto dell’uso dei social durante il lockdown, e all’attitudine segnalata dalle studiose Catherine O’Rawe e Mariagrazia Fanchi (O’Rawe 2020, Fanchi 2017), ha perseguito strategie di tipo diverso che le hanno consentito di aumentare il numero dei follower di 600.000 unità e di ottenere importanti collaborazioni con brand del lusso. Nel prossimo paragrafo, introdurrò una panoramica sul rapporto tra moda, celebrity e lockdown, trascurato dalla letteratura dei celebrity studies, per proseguire nell’analisi del profilo Instagram di Alice Pagani durante il lockdown, e concludere con una proposta di lettura da una prospettiva di genere.
1 Celebrity lockdown: bringing fashion home
1.1 Premessa: moda e cultura della celebrità
Ogni giorno milioni di persone nel mondo consumano le foto dell’alta moda, sebbene pochi possano permettersi i vestiti. Durante la reclusione domestica dovuta all’emergenza sanitaria, l’industria della moda, seconda in Italia per fatturato (Cribis Industry Monitor 2018), ha dovuto affrontare il problema enorme di come produrre quelle immagini ma, soprattutto, del perché produrle, portando la moda a casa, invitandoci a vestire per lo schermo. Nella storia della moda, grandi fotografi, tra cui Irving Penn, Henri Cartier-Bresson e Diane Arbus, hanno svolto alcuni dei loro lavori più importanti, su incarico, per riviste di alta moda ma, a causa del Covid-19, l’industria della moda ha rischiato di chiudere la fabbrica dei sogni e, di conseguenza, le fabbriche. Anche prima della pandemia, le condizioni per la produzione di grandi immagini di moda erano diventate difficili, a causa della riduzione dei budget e dell’accelerazione dei processi produttivi. Uno scatto che in passato sarebbe durato due settimane adesso durava due giorni e i fotografi, oltre a produrre una campagna pubblicitaria o una diffusione editoriale, devono creare contenuti per i social media e “dietro le quinte”.
Negli ultimi venti anni, l’interdipendenza sempre più stretta tra cultura della celebrità e moda ha alterato entrambe in profondità (Gibson 2012, Agins 2010), e la cultura della celebrità ha ricevuto uno stimolo senza precedenti dal desiderio di moda massificato. La moda è la forza propulsiva della proliferazione corrente della cultura della celebrità come nuova ossessione collettiva globale. Eppure, come ha sottolineato Pamela Gibson, la moda, così centrale per capire questa nuova fase di consumo esasperato, è spesso trascurata. Per esempio, una delle caratteristiche salienti di questa nuova fase del consumo è caratterizzata dalla continuità, che dipende da un’obsolescenza quasi istantanea, e dalla sua comprensione nella screen-sphere. Inoltre, il collegamento tra celebrità e moda, unito all’ubiquità e mobilità degli schermi digitali, fornisce opportunità di vendita e marketing senza precedenti. Secondo Cashmore (2006), lo scopo è di farci desiderare più “cose”, nonostante poi Cashmore non approfondisca la loro natura di cose “alla moda” e il loro pubblico di consumatori, ricchi e poveri, persino in piena recessione economica e crisi pandemica.
Il Covid-19 ha portato a “un’accelerazione di ciò che stava accadendo prima della pandemia”, ha affermato Sølve Sundsbø, fotografa norvegese il cui lavoro è apparso sulla rivista Love e sulle edizioni internazionali di Vogue (Stoppard 2020), lasciando intendere che anche le riviste più affermate si aspettano che i fotografi contribuiscano gratuitamente. Ma cambiamenti d’umore più sottili plasmano le immagini. “Guardi Black Lives Matter, guardi la pandemia, guardi l’incredibile differenza tra ricchi e poveri e poi guardi alla moda”, ha detto Sundsbø. “Ci sono momenti in cui pensi: non voglio far parte di questo sistema”.
1.2 Less is more: fotografare la moda durante il lockdown pandemico
Questo senso di colpa, insieme ad altri fattori di non facile determinazione, hanno portato a immagini che hanno il vago sapore di scusa, inclusa la moda della fotografia di moda in stile documentaristico, nuda, senza fronzoli: immagini scattate alla luce del giorno, con modelli in posa come fossero presi dalla strada. “Cerchi di normalizzare un vestito da cinquemila dollari e collane da trecentocinquantamila dollari inserendoli in un contesto che sembra un po’ più normale”, ha dichiarato Sundsbø. Tim Walker, famoso per le sue immagini fantastiche e spesso surreali, come una ragazza in abito da ballo in un campo circondata da uccelli di carta o un modello ai bordi di un UFO in fase di atterraggio, ha confessato che al momento si sentiva “a disagio nel fare foto di moda, nel senso tradizionale del termine” (Stoppard 2020). In passato, quando lavorava con le riviste
Guardavo più alla forma del vestito e a cosa poteva dare alla mia fantasia. Non ho mai messo in dubbio come fosse fatto; non ho messo in dubbio quanto fosse costoso. E scopro solo che ora mi sento a disagio a glorificare quel tipo di cose. Non sono nemmeno più sicuro che la qualità sia necessaria. Quei ragazzi là fuori, guardando TikTok, sono molto più interessati a qualcuno che appare in 10 o 20 secondi e fa qualcosa di veramente interessante sul proprio telefono che a qualcosa che è davvero ben illuminato.
In effetti, sembra esserci qualcosa di contro-intuitivo nel rappresentare il perfezionismo e l’elitarismo in un periodo in cui l’inclusività, l’autenticità e la vulnerabilità sono i valori dominanti, da cui l’insistenza nella volontà di rappresentare lo straordinario come ordinario (Debord 1997). In questo contesto, al lavoro creativo si chiede di essere vettore di nozioni moderne, seppur vaghe, di autenticità, individualità e responsabilizzazione. L’industria della moda ha scoperto che less is more, dopo che il Covid-19 ha alterato il modo in cui sono realizzati i servizi di moda, forgiando o rinforzando la connessione tra celebrità, moda, glamour e domesticità.
La pandemia di coronavirus ha finito per accelerare, come il caso di Alice Pagani evidenzia, lo spostamento di potere in corso nel mondo della moda e della pubblicità, con modelli, influencer e micro-influencer di gran lunga meno costosi che, per necessità, esercitano un maggiore controllo sulle proprie immagini durante le riprese di foto e video a distanza, da casa. Certi discorsi dei media hanno mitizzato il tempo del Covid-19 e della reclusione domestica come un tempo di creatività. Secondo questa visione, il virus capovolge il mondo, infiltra ogni aspetto della nostra vita, ma c’è qualcosa che resiste, che non può alterare: la “creatività” degli esseri umani. Un’idea su cui, come vedremo, ha ruotato la costruzione della persona e del brand di Alice Pagani durante il lockdown e l’estate del 2019.
1.3 Nuove liturgie della moda online
Con la maggior parte del mondo in isolamento, le normali routine di lavoro necessarie per produrre riviste di moda erano state effettivamente capovolte, costringendo i team professionali a trovare nuove alternative. L’industria della moda ha trovato una soluzione nella pratica del servizio fotografico realizzato tramite FaceTime. Con un iPhone e una buona connessione Wi-Fi, un numero crescente di fotografi si è servito delle chat per immaginare, dirigere e creare suggestive fotografie, nonostante tutti si trovassero in edifici, città e paesi diversi.
Il primo ad adottare questa tecnica, e per questo intervistato da numerose testate tra cui il Los Angeles Times, in un video Youtube che conta 7.929 visualizzazioni, è stato il fotografo pubblicitario e di moda italiano Alessio Albi, collaboratore di Alice Pagani. Durante il lockdown, Alessio Albi si trovava in quarantena a Perugia. Nell’intervista, Albi sottolinea l’incertezza della situazione e la mancanza di lavoro, almeno fino a quando non ha esplorato la possibilità dell’uso della webcam. Secondo Albi, il gesto di tenere la macchina fotografica in mano sarebbe la parte meno importante del lavoro di fotografo, mentre più importanti sarebbero la direzione della luce e la composizione del quadro. La pratica prevede l’ispezione della stanza della modella in cui avrà luogo lo scatto, per individuare le fonti di luce e gli oggetti, o “props”, da poter usare per costruire e favorire intimità digitali (Thompson citato in Marwick e Boyd 2011). La casa, dominio privato per eccellenza, è trasformata in un set fotografico di moda. Infine, Albi sottolinea “l’urgenza di creare” alla base di questi scatti.
In essi il look non conta, perché lo scopo estetico è di fare apparire le modelle “normali”, mentre sono costrette a casa, come il resto della popolazione. D’altro canto la modella, in quanto professionista, propone una coreografia di movimenti. Gli scatti di Albi e dei fotografi che hanno poi ripreso questo genere, condividono alcune caratteristiche: sguardo in webcam o al fotografo sullo schermo che, a sua volta, appare nel display, prospettiva grandangolare al limite del fish-eye, qualità dell’immagine lo-fi, sgranata, punto di vista dal basso o dall’alto, ambientazione da boudoir, caratterizzazione climatica e atmosferica, impossibilità della reciprocità dello sguardo tra modella e fotografo, mediato dallo schermo.
Uno dei primi periodici ad adottare la tecnica è i-D magazine, un titolo noto per il suo sperimentalismo. Con il titolo “Safe + Sound”, ha incaricato il fotografo Willy Vanderperre di fotografare modelle come Gigi Hadid, Binx Walton, Adut Akech e Mona Tougaard per le immagini di copertina. Le modelle hanno dovuto acconciarsi e truccarsi da sole e indossare i propri vestiti nelle proprie case, con Vanderperre che dava indicazioni via telefono. Le immagini risultanti sono crude, candide e piacevolmente umili.
Anche la fotografa di moda Kat Irlin ha scelto FaceTime per creare una serie di ritratti individuali, tra cui due top model, Cindy Crawford ed Helena Christensen (Fig. 1). Apparentemente prive di stile e non ritoccate, le immagini si distinguono per semplicità e immediatezza. Condividendo le immagini sui social media, Crawford ha spiegato che “c’è una prima volta per tutto. Moda e fotografia saranno diverse per un po’, ma ciò non significa che dobbiamo smettere di essere creativi” (Kelly 2020). Anche la cantante Demi Lovato si è affrettata ad abbracciare il nuovo approccio, collaborando con il fotografo di Los Angeles Angelo Kritikos. In contrasto con la normale folla di stilisti, parrucchieri, truccatori e assistenti, questa storia ha coinvolto solo Lovato e Kritikos. A proposito dell’esperienza, Kritikos ha dichiarato: “Pochi giorni dopo l’ordine di lockdown, ho inviato un messaggio a Demi per la mia idea di scatto virtuale. Volevamo ispirare le persone a rimanere a casa e diventare creative. Amo la sensazione grintosa e cruda delle immagini. Per me, è fantastico quanto siano imperfette le foto” (Reliford 2020). Anche la sorella di Gigi Hadid, Bella, ha preso parte a un editoriale su FaceTime per il numero di aprile di Vogue Italia, con la fotografa Brianna Capozzi e la stilista Haley Wollens. Girate interamente nel suo soggiorno, le immagini mostrano Hadid mentre posa e stringe un palloncino. Dell’esperienza, Hadid ha scritto sui social media che “i tempi stanno cambiando e lavorare da casa ha un nuovo significato”. La modella ha anche posato in una campagna pubblicitaria da casa per il brand Jacquemus, questa volta con il fotografo Pierre-Ange Carlotti. Senza trucco e con i capelli tirati via dal viso, le immagini sono illuminate dal sole che entra da una finestra. Sebbene esse siano piuttosto audaci, sono anche fresche e severe, avendo eliminato tutti gli artifici della moda. Grazie all’aiuto della tecnologia, gli scatti di FaceTime hanno inaugurato una nuova estetica ruvida, dall’aspetto più “autentico”.
1.4 Autenticità, relatability, intimità
Come dimostra l’uso crescente della funzione Instagram live, in un mondo sempre più virtualizzato non basta essere il proprio sé “autentico”. Bisogna che questo sé sia relatable e quindi consumabile, vale a dire deve creare una possibilità di condivisione dell’esperienza e d’identità condivisa con lo spettatore. Fenomeno del tutto nuovo e comunque diverso dal processo di identificazione filmica (Riis e Taylor 2019). Caratteristica della relatability è l’ossessione per la normalità, mentre la costruzione e l’impacchettamento di “autenticità” ha lo scopo di coltivare un’intimità, presunta, sempre più ricercata (Rojek 2016).
Nella cultura degli influencer di Instagram, l’autenticità è diventata il principale criterio di successo e gli influencer utilizzano strategie diverse per produrre una presentazione di sé autentica (Audrezet et al. 2017). Esiste un numero crescente di ricerche che esplorano il modo in cui gli influencer dei social media usano l’autenticità per promuovere la relatability e l’intimità con i loro follower (Pooley 2010, Enli 2014, Abidin 2015, 2016, Duffy e Hund 2019, Reade 2020). L’intimità digitale come connessione affettiva tra influencer e follower, che promuove un senso di familiarità e fiducia reciproca, è una delle componenti chiave di quella che Crystal Abidin chiama “l’ecologia performativa” dei social media (Abidin 2017). In altre parole, il senso di appartenenza, amicizia e connessione intima tra influencer e follower è ciò che rafforza l’autenticità percepita della presenza sui social media dell’influencer e, quindi, li rende riconoscibili. E la relatability, a sua volta, è ciò che consente agli influencer di promuovere con successo prodotti e marchi attraverso consigli personali e, quindi, monetizzare la loro presenza su Instagram.
In questo senso, occorre notare come Albi sottolinei a più riprese l’inedita intimità dello scatto FaceTime e l’annullamento delle distanze che esso consente. In un post di Alice Pagani si parla di “trascendenza” dello spazio e del tempo. Nella sua ricerca di dottorato, l’etnografa Marie Hermanova (Hermanova 2021), ha identificato questa promozione dell’intimità come una delle principali strategie di costruzione dell’autenticità impiegate dalle influencer femminili ceche su Instagram. Come vedremo, l’uso di Instagram di Alice Pagani sembra rientrare in questa categoria. In questo saggio, intendo sostenere che lo scatto FaceTime, insieme ai celebrity selfie, oltre a essere una pratica di celebrification, è anche una pratica d’incarnazione, di “chiamata all’esistenza” (Berkland 2019). Secondo questa prospettiva, gli schermi non si limitano più a mediare la nostra conoscenza del mondo e degli altri; oltre la rappresentazione sono diventati il mezzo primario di affermazione del nostro essere (Sobchack 2016: 158).
2 Superare i limiti del tempo e dello spazio: l’editoriale di moda in lockdown
2.1 Alice Pagani come “Ophelia”
Non c’è solo un motivo se sono tutti convinti che Alice Pagani sia il futuro del cinema italiano: primo, ha conquistato la Gen Z sin dal primo momento in cui ha interpretato il lato più intimo di Ludovica in Baby; secondo, si veste in modo pazzesco, ma il quadro generale, da ogni shooting fotografico al profilo, resta sempre vero, autentico e spontaneo.
La citazione è tratta da Cosmopolitan, ma vale come esempio degli innumerevoli profili dell’attrice presenti su quotidiani e periodici nazionali (Tancorre 2022). Diversamente dagli attori della Generazione Z che ho intervistato per F-ACTOR, Alice Pagani è una celebrity, influencer e icona di moda, presente su Instagram dal 13 agosto 2013 con il nome di Ophelia (@opheliamillais). Dopo un anno di studi alla Scuola del cinema di Roma, la svolta cinematografica di Alice Pagani arriva nel 2016, quando ottiene una parte nel film Il permesso - 48 ore fuori (Claudio Amendola, 2017) al fianco di Luca Argentero. Sempre nel 2017 è la co-protagonista di Classe Z, commedia con Alessandro Preziosi ambientata in ambito scolastico, e appare nei videoclip Vedrai di Samuel, frontman dei Subsonica, e Fidati ancora di me di Alessandra Amoroso. E ancora, nel 2018, in Loro di Paolo Sorrentino, nel ruolo di Stella e Ricordi? (Valerio Mieli). Di recente, dopo La rosa velenosa (Gallo, Cinquemani, Giliberto, 2019), una produzione statunitense con John Travolta e Morgan Freeman, ha recitato in Non mi uccidere di Andrea De Sica (lo stesso regista di Baby) e, infine, ha partecipato al doppiaggio del film di animazione I Croods 2 - Una nuova era (Crawford 2020).
La persona social di Alice Pagani è completamente intercambiabile con i personaggi interpretati nei film e nella serie Baby, tanto da poter definirla una “celebrity-who-acts” (Gibson 2012). Nel 2022 è possibile non aver mai visto il film interpretato da una star, e tuttavia, quando i film hanno successo l’immagine off-screen è coerente con quella on-screen, dando luogo a un universo transmediale, attraverso una sorta di franchise del sé. Infatti, Alice Pagani ha anche scritto e pubblicato un libro per Mondadori, a suo dire per contrastare la dislessia, secondo una prospettiva “empowering”, intitolato Ophelia, la cui cover è un editoriale di alta moda scattato da Alessio Albi, promosso su Instagram come parte di una serie di scatti in cui l’attrice promuove il brand di moda Vivienne Westwood. A complicare il quadro, la popolarità di Alice Pagani, cominciata con la serie controversa Baby, s’intreccia con alcuni nodi problematici nazionali riguardo la condizione e rappresentazione della femminilità, come il trattamento delle giovani donne da parte di Silvio Berlusconi (Loro) e il caso delle baby-squillo dei Parioli (Baby). Ma questo aspetto, per motivi di spazio, non potrà essere oggetto di analisi.
Il seme del brand Instagram di “Ophelia” è piantato sin dal primo post del profilo Instagram di Alice Pagani (Fig. 2). Si tratta dello scanning di una sua foto analogica di quando l’attrice era piccola, con la didascalia “innocenza. #baby #sweet #love”. Il post risale al 13 agosto 2013, lo stesso anno in cui esplode lo scandalo delle baby-squillo dei Parioli, su cui è basata la serie televisiva Baby, distribuita su Netflix dal 2018 al 2020 e diretta da Andrea De Sica, che l’ha resa nota nel mondo. Le date e il contenuto dei post suggeriscono un attento editing del profilo. Non a caso, uno dei commenti al primo post è: “Literally Baby”, suggerendo un’idea di predestinazione. Nel secondo post, in bianco e nero, del 18 dicembre 2014, è in braccio al padre, con cui nella serie ha una pessima relazione. Nel terzo post, del 20 gennaio 2015, troviamo la prima immagine di Ophelia, rappresentata nel quadro preraffaellita di John Everett Millais con la didascalia: “Raffigurate l’olmaria, le margherite, il salice, il papavero e l’ortica, piante simboliche di morte, dolore e innocenza nello stesso Amleto di Shakespeare.” L’immagine di Alice Pagani, la moda indossata e promossa, ruotano esattamente intorno a questi cardini, descrivendola anche visivamente come una lolita gotica, come i fan spesso la descrivono. Sin dai primi post, le caratteristiche iconografiche salienti di Ophelia sono i capelli con la caratteristica frangetta nera, che al cinema ha una sua storia gloriosa, e gli occhi verdi. Ophelia non è propriamente solo un personaggio, una persona o un brand che rappresenta Alice Pagani in carne e ossa, è anche un collage intermediale, una creazione puramente artificiale, che fa riferimento a diverse immagini pescate dal web: personaggi anime, editoriali di moda, selfie, storia dell’arte, citazioni di libri.
Com’è evidente anche dai post successivi, che acquistano maggiore frequenza a partire dal 2015, Ludovica Storti di Baby è un’articolazione narrativa di “Ophelia”. Le protagoniste di Baby, interpretate da Alice Pagani e Benedetta Porcaroli, note ai giornali con i nomi di fantasia di Azzurra e Aurora, erano “cadute” nel giro di prostituzione minorile della Roma bene. Tra i loro clienti figuravano uomini d’affari, esponenti politici, disoccupati. In breve tempo, le indagini sconvolsero l’Italia. A distanza di sette anni, nel 2020, le ragazze intervistate giustificheranno la scelta di prostituirsi come un modo per ottenere con facilità somme ingenti di denaro e poter così accedere a beni ed esperienze di lusso, e con il fatto di essere solo delle “bambine” innocenti, un tratto che ritroviamo in “Ophelia”, rinforzando retroattivamente l’idea che l’attrice reciti sé stessa. Del resto, quando intervistata, spesso si riferisce alla sua identità di attrice come “Alice”: “Quando recito sono Alice”.
Ophelia (olio su tela, 1851-1852) di John Everett Millais (1829-1896), è il terzo post di Alice Pagani, probabilmente il dipinto più noto e popolare del preraffaellismo inglese. Come sottolinea Julia Thomas la sua “attenzione alla natura […] colloca Millais come un erede degli ideali romantici” (Thomas 2004). Il dipinto, tuttavia, contiene una doppiezza: “In questo quadro, la natura ha le qualità oniriche e mistiche che caratterizzano i primi dipinti romantici, ma è giustapposta a un realismo fotografico”. Inoltre, il quadro articola uno spazio claustrofobico, come se guardassimo attraverso un diorama. La medesima articolazione dello spazio che caratterizza gli editoriali FaceTime di “Ophelia”, in particolare il secondo, a luci rosse, scattato dall’utente @shdwofdust. In esso, l’attrice appare come si trovasse dall’altro lato di uno specchio deformante.
Al centro del quadro di Millais sta la relazione tra Ophelia come femme fragile e la natura fotografica che la circonda. Anche al centro degli scatti di Alice Pagani immersa nella natura lacustre dell’estate 2019 è presente una relazione tattile con la natura, anelata durante il lockdown. Del resto, come ha scritto Vivian Sobchack (2016), quando le nuove generazioni pensano alla natura la pensano su uno schermo. In questi scatti si aggira un corpo fanciullesco, flessuoso e snello, senza caratteristiche sessuali pienamente sviluppate: «Un corpo che nega la sua predestinazione sessuale» e «finisce la sua esistenza artificiale in una perversa sulla raffinatezza» (Moreck in Søndergaard 2018). Mentre la sua figura delicata è portatrice del “germe del consumo”, i suoi lineamenti irradiano stanchezza patologica e spossatezza come un riflesso dell’aldilà. La femme fragile con la sua apatia asessuata, eterea, tendente al morbosamente delicato, è sintomatica di un atteggiamento represso nei confronti dell’erotico e può essere vista come una controparte delle donne che si trovano nel preraffaelitismo di Gabriel Dante Rossetti: la femme fatale, caratterizzata da lascivia erotica e crudeltà calcolatrice. Sia la femme fragile che la femme fatale sono tentativi di dominare l’ansietà sessuale attraverso costruzioni estetiche femminili specificamente maschili (Fig. 3).
Il primo post successivo al lockdown è un’immagine di backstage di un editoriale di moda di Glamour Spagna in cui appare come una bambola in un interno borghese messo a soqquadro, ispirato all’illustratore erotico giapponese Toshio Saeki. I post immediatamente successivi sono re-post di editoriali del passato, in una dimensione di ricordo di sé. Nelle immagini, il corpo di Alice Pagani è spesso in pose languide in interni-boudoir, o sul balcone, un luogo carico di connotazioni per l’Italia nelle prime settimane di lockdown, del rifiuto o impossibilità della mediazione dello sguardo attraverso la macchina. Il primo editoriale FaceTime ha la didascalia: “Let’s not stop creating! @alessioalbi and I thought this was a creative way to pass the time and we had fun together.” Il tempo del ricordo diventa tempo artistico di creazione. In realtà, si tratta di un’editoriale che non solo consente di creare un’intimità digitale con i fan, ma anche di promuovere il brand di moda Jacquemus (il cappello), per il quale Alice Pagani farà da testimonial a luglio 2020 (Fig. 4 e 5).
Durante la pandemia, tra l’altro, Jacquemus è stato uno dei brand più attivi, organizzando una campagna istantanea da casa con protagonista la modella Bella Hadid. Alcuni post di Alice Pagani sono invece di sponsorizzazione della campagna pubblicitaria di Emporio Armani “Together stronger”, dove partecipa in qualità di testimonial, con l’attore Nicholas Hoult. Giorgio Armani dichiara di averli scelti perché sono due personalità che “rappresentano la contemporaneità: volti dalla bellezza chiara e fresca, dallo sguardo limpido; corpi che si esprimono in modo naturale e deciso”. Di essi lo hanno colpito “gli occhi, che sanno esprimere determinazione, e poi la grande versatilità. Sono perfetti per rappresentare lo spirito vitale e coinvolgente di Emporio Armani Freeze”. Vitalità, congelamento di spontaneità, purezza, freschezza, legame con la contemporaneità, sono qualità del prodotto Armani che il volto degli attori incarna e che, a sua volta, consente agli attori di essere autentici e vitali (Ghisi 2020).
Questa vitalità d’avventura è poi trasposta nell’interno di una camera d’albergo romano, in un editoriale scattato dall’attrice la notte prima del lockdown nazionale per la cover di Nylon magazine (Fig. 6). Qui “la star di Baby” trasforma la stanza opulenta in un “terreno per l’avventura”. Nel numero, che s’intitola “Shameless”, Alice Pagani accompagna lo spettatore “in un viaggio nel suo mondo di alta moda e fascino sfacciato”. Nell’editoriale indossa capi di lusso teatrali, alcuni al limite del fetish, mentre interagisce con gli arredamenti come fossero sex toys. Ma quello che cerca, in verità, “è solo l’amore e l’affetto”. L’Alice autentica, quella che sta a casa, emerge dopo essersi spogliata dei grandi nomi e vestiti: “The regular 22-year-old, the one who raves about cuddling with her family’s greyhounds and streams series on the sofa, the one who stays home” (Lohele 2020).
2.2 Autenticità come strategia di genere
Durante il lockdown, l’attrice inaugura una trasformazione in linea con le tendenze del momento. Ha abbandonato la durezza della frangetta e del nero per un colore castano caldo, appropriato per il ruolo di volto globale di Armani Beauty e la partecipazione alla sfilata evento Building Dialogues di Giorgio Armani di settembre 2021, dove appare eterea, in bianco. Il look è “no filter” (Fig. 7), “con la pelle punteggiata di efelidi, guance leggermente rosate, incarnato candido e di porcellana solo amplificato da tocchi sapienti di Neo Nude Foundation n. 3.5, Luminous Silk Concealer n. 3.75”, eccetera. La sua espressione “innocente, naturale e per niente artefatta aveva però un accenno di seduzione, quasi adolescenziale, grazie all'effetto glassa cristallina sulle labbra realizzato con Neo Nude Ecstasy Balm n.1 e Lip Maestro in n. 103 Tadzio dalla Collezione Venezia” (Redazione Beauty 2020).
In un re-post da Tik Tok, andato piuttosto male perché troppo aspirazionale, danza in pose sexy e abiti aderenti, davanti alla fotocamera del telefono, e la didascalia specifica che la performance è rivolta a @lipeep, un rapper americano diventato popolare su Soundcloud e trovato morto sul tour bus nel 2017. L’attrice ha creato un profilo Tik Tok in occasione del lockdown, e le riviste non hanno mancato di notarlo: “Alice Pagani ama sperimentare e in questi primi giorni di Fase 2 dell’emergenza Coronavirus in Italia ha iniziato a divertirsi anche con il nuovo social network TikTok dove è presente con il nickname @opheliamillaissreal. Alcuni fan hanno commentato:”Ballo super sexy" “Non conosco un’altra attrice bella e sexy come te, sei unica Alice” “Ho visto Baby solo per te, complimenti: bella e brava!”.
In generale, gli scatti di questi mesi, spesso organizzati in photo-dump, un genere fotografico emerso dalla pandemia (Walsh 2020), sono ambientati nella natura, al lago in particolare, ed esprimono una nostalgia lussuosa della natura in didascalie come “I miss the purity of nature”. In queste immagini, in cui il contatto con la natura emerge come elemento di coltivazione d’intimità, raccoglimento, purezza, rifugio e stile di vita leisure, i brand di moda non mancano mai, in particolare Jacquemus e Burberry. L’esibizione del corpo da modella, pallido, nella natura, la spudoratezza, la mancanza apparente di filtri, in pose di sottomissione allo sguardo della fotocamera, sono gli elementi che accomunano i post dell’estate in cui Alice Pagani afferma di aver “studiato il suo io”. In realtà, alla spudoratezza si accompagna una pratica di auto-sorveglianza estenuante che denota, da parte di Alice Pagani, la padronanza e il controllo consapevole della propria immagine. In essi, non è il selfie a essere il mezzo principale di costruzione dell’intimità digitale ma l’editoriale FaceTime e il photo-dump, la raccolta fintamente casuale di foto collegate a un luogo e una situazione specifica. Qui l’aspetto dell’ordinario (Dyer, 1989) emerge come modo dominante di comunicazione della celebrity con i fan. Nel caso di Alice Pagani emerge una tensione tra “spudoratezza”, abbandono, liberazione dal pudore, e controllo, sorveglianza e sottomissione. L’abbandono, infine, si risolve in un abbandono al consumo opulento della moda e della natura.
Conclusione
L’analisi del profilo Instagram di Alice Pagani, da una prospettiva di genere, rivela la coesistenza di discorsi sia normativi che di emancipazione. La nozione di autenticità ha guadagnato un posto di rilievo nelle ultime ricerche sui social media e le piattaforme di comunicazione digitale, e nella cultura degli influencer su Instagram l’autenticità è divenuta il principale criterio di successo per cui gli influencer usano strategie diverse per produrre una presentazione di sé autentica. Infatti, l’autenticità consente agli influencer di vendere con successo prodotti e consigliare marchi ai propri follower. Il “vincolo di autenticità” dei social media crea una situazione paradossale in cui la categoria di “autentico” non può più essere costruita in opposizione a “messo in scena” o, nel linguaggio corrente dei social media, “falso”, perché ogni performance sui social media è organizzata, controllata e curata nei minimi dettagli. Essere autentici sui social significa essere “falsi” con la pretesa di non esserlo, costruendo una nozione condivisa di autenticità normativa, diversamente dal cinema, che è l’arte del falso per eccellenza (Bertetto e Pescatore 2010). Essere autentici significa, pertanto, sottoporre il proprio corpo, il proprio gusto e le proprie scelte di consumo a un insieme di regole invisibili e delicate. In un certo senso, le ragazze di Instagram, più o meno consapevolmente, indossano un abito vittoriano, in un ambiente puritano come quello di Instagram che, sotto questo aspetto particolare, esprime le sue radici culturali americane.
In questo senso, mi pare significativo che, secondo i dati disponibili, circa il 53% di tutti gli utenti di Instagram siano donne e tra gli influencer, se li definiamo come persone in grado di monetizzare la propria presenza sulla piattaforma, i report suggeriscono che il 70% sono donne. Secondo la ricerca, le strategie di autenticità hanno un carattere di genere (Duffy e Hund, 2019). Infatti, nel contenuto degli influencer maschili, come evidenziato da Catherine O’Rawe rispetto agli attori italiani, la nozione di intimità sembra essere meno rilevante e presente, a favore dell’espressione di opinioni politiche o partecipazione a dibattiti pubblici. A differire sono anche gli spazi della performance mediata durante la pandemia di Covid-19. Nel caso dell’attrice Alice Pagani essi presentano atmosfere calde da boudoir sottilmente normative. Il boudoir, tra l’altro, è uno spazio storicamente connotato in senso femminile (Heynen e Baydar 2005) che, in congiunzione con il voyerismo degli spettatori, invita a una esplorazione ulteriore delle relazioni mediate che collegano genere, spazio e identità.
Instagram, come il cinema, è uno spazio in cui la rappresentazione di genere prende forma in uno specifico contesto mediato. Storicamente, le donne sono state associate alla sfera del consumo della moda e dei media, piuttosto che alla loro produzione, una distinzione che il profilo di Alice Pagani sembra insieme replicare e mettere in discussione. Le piattaforme di social media come Instagram, ampiamente utilizzate nella vita di tutti i giorni, hanno semplificato e democratizzato i mezzi per la creazione, l’editing e la distribuzione dell’immagine di sé, consentendo alle donne un accesso più facile agli strumenti di produzione e distribuzione dei media. In questo senso, l’autorappresentazione su Instagram ha un carattere “politico” non esplicito. Anche se non è un atto politico deliberato, diventa politico perché affida la decisione su chi può occupare il campo visivo pubblico nelle mani delle corporation e degli individui. L’autorappresentazione ha il potenziale per creare una maggiore visibilità per coloro che sono sottorappresentati nei media tradizionali. I media popolari, basti pensare alla televisione, mostrano una versione della bellezza ideale limitata agli standard della donna giovane, bianca, sana, apparentemente eterosessuale, ben curata, magra, tonica e convenzionalmente attraente (Gill 2007). Al contrario, l’autorappresentazione su Instagram può sfidare le percezioni dominanti, riconoscendo differenze di età, etnia, sessualità, cultura e gusto.
Tuttavia, l’ottimismo della rivoluzione digitale lascia il posto a critiche sempre maggiori (Kanai e Dobson 2016), secondo cui le pratiche online degli individui attingono dalle loro esperienze offline “reali” e, quindi, spesso finiscono per riprodurre norme di genere esistenti. Inoltre, va ricordato che l’accesso alle tecnologie digitali non è equamente distribuito.
È bene ricordare che l’autorappresentazione su Instagram non esiste in un vuoto culturale. Come abbiamo visto nel caso di Alice Pagani, è intertestuale, radicata nella cultura popolare, e si riappropria, a volte inconsciamente, dei testi e delle convenzioni dell’industria cinematografica e televisiva, delle riviste femminili e dell’industria della moda e della bellezza per costruire la propria immagine attraverso un processo di “bricolage”. De Lauretis (1987) intende il genere sia come prodotto che come processo di rappresentazione e autorappresentazione, risultato di tecnologie sociali, tra cui il cinema e adesso anche social network come Instagram, e dei discorsi che li circondano (De Lauretis 1987). Queste rappresentazioni non solo descrivono il genere, ma lo creano anche attivamente. In quest’ottica la costruzione del genere è uno sforzo continuo, tanto da poter parlare di gender labour. Occorre pensare Instagram nel contesto della tradizione visiva occidentale, di una lunga serie di tecnologie, dalla pittura al cinema, che nel corso della storia sono servite a produrre e diffondere attivamente concezioni di genere e ideali storici di bellezza. Gli utenti che condividono informazioni che li ritraggono sotto una luce positiva sono di fatto impegnati in una pratica promozionale.
Le rappresentazioni su Instagram, così come i loro significati di genere, sono modellate attraverso una serie di filtri, che Alice Pagani usa copiosamente sia nelle storie che nei post. Secondo Jill Rettberg (2014) il termine “filtro” è generalmente inteso come un processo attraverso il quale qualcosa viene rimosso. Pertanto, sebbene i filtri su Instagram spesso sembrino aggiungere nuove cose all’immagine, come colori più luminosi o effetti retrò, sono anche un mezzo per rimuovere o nascondere le imperfezioni della natura. Come i filtri digitali ma invisibili, i “filtri culturali” sono le norme e le aspettative sociali, le regole e le convenzioni che plasmano le nostre creazioni fotografiche e che riguardano sia il medium che la cultura.
L’uso di Instagram da parte di Alice Pagani è meglio compreso in linea con la concettualizzazione di Leah Schrager (2016) degli usi di questa piattaforma di social media da parte dei modelli di Instagram, che comporta un lavoro altamente qualificato di self-branding; un modellamento della propria immagine e delle pratiche di Instagram al fine di ottenere fama, diffondere la propria prospettiva e monetizzare la propria attività. Alice Pagani rivendica visibilità, facendo sentire la sua voce e utilizzando le potenzialità umanizzanti dell’autorappresentazione per presentarsi come un “soggetto parlante” a pieno titolo. Le sue pratiche fotografiche sembrano, in questo modo, seguire l’idea postfemminista dell’esibizione corporea come segno di forza, indipendenza, responsabilizzazione e creatività artistica.
Questo punto di vista trascura l’enfasi posta sulla rappresentazione del suo corpo secondo modalità convenzionali e idealizzate, visivamente conformi allo standard “giovane, bianco, normodotato, borghese, apparentemente eterosessuale e convenzionalmente attraente” che Rosalind Gill ha identificato. In linea con altri studi recenti sull’autorappresentazione su Instagram (ad es. Döring et al. 2016), le fotografie di Pagani possono anche servire a riprodurre rappresentazioni normative di genere attraverso le sue pose, lo stile, i modi di fare e un ritratto della sensualità tradizionalmente costruito come seducente per lo sguardo maschile, secondo l’interpretazione di Laura Mulvey (1975). Le sue immagini rappresentano un’immagine di femminilità altamente perfezionata e idealizzata, filtrata sia visivamente che attraverso convenzioni culturali. Questo richiamo erotico a uno sguardo desiderante si riflette nei commenti che accompagnano le fotografie e che, va sottolineato, sono sia maschili che femminili. Questi commenti sono per lo più positivi e di supporto, ed esprimono soprattutto apprezzamento per l’estetica sia della fotografia che del corpo: “beautiful” e “pretty” sono gli aggettivi più ricorrenti. Le rappresentazioni del sé di Pagani possono quindi essere viste in modi disparati, sia come autoespressione artistica e personale che come immagini erotiche o quasi pornografiche mostrate nei media oggettivanti. Man mano che Instagram diventa sempre più prevalente e radicato nella nostra esistenza quotidiana, è auspicabile prestare una maggiore attenzione critica a queste pratiche di autorappresentazione, profondamente intrecciate con la storia delle culture mediali e questioni più ampie che riguardano la politica della rappresentazione di genere nella società contemporanea, spesso liquidate come narcisistiche e banali.
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