Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.21 (2022), 123–135
ISSN 2280-9481

Prove di libertà. La ritrattistica d’attore ai tempi del lockdown nel lavoro di Riccardo Ghilardi

Chiara BorroniUniversity of Turin (Italy)

She teaches Film Criticism at the University of Turin. She is editor of Cineforum magazine and regularly contributes to Il Mereghetti – Dizionario dei film. She is member of the selection committee of cinema festivals such as Venice International Critics’ Week. She also collaborates with festivals and cultural institutions as curator and programmer and she is editor consultant for film productions. She obtained a MA and a PhD in Cinema, Television and Multimedia at the Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne and a second Phd in Theory and Text Analysis at the University of Bergamo.

Ricevuto: 2022-01-29 – Accettato: 2022-04-21 – Pubblicato: 2022-07-14

Prove di libertà. Portray Actors during Lockdown according to Riccardo Ghilardi’s Work

Abstract

The Covid-19 pandemic has overwhelmed us in such a sudden and drastic way that it has rewritten our habits, including the experience of our domestic spaces. Starting from the role of the pandemic in redefinition of the interaction between public and private, internal and external spaces that founds the idea of ​​domesticity, we want to analyze Riccardo Ghilardi’s project Prove di libertà. This work collects shots taken by the Roman photographer during the lockdown of Spring 2020. The project draws a path that connects different portraits of cinema personalities with portraits of ordinary people, alternating them with photographs of empty streets and cinemas. The dialogue between the images tells the story of the cross-shared experience in which everyone, known or not, feels to be united by the same desire to return to freedom. In particular, the domestic space emerges as perfect scenario of this shared story, because the house had become at that moment, for everyone, the forced and unique space of the existential experience. The domestic space is also important because — with the pandemic — we acquired a habit which never was so pervasive before: going to other people’s home through images.

Keyword: Performance; Portray; Photography; Domestic Space; Lockdown.

Ringraziamenti

Tutte le immagini sono di Riccardo Ghilardi e sono pubblicate nel catalogo della mostra Riccardo Ghilardi. Prove di libertà, a cura di Martino Crespi con l’organizzazione di Camilla Cormanni per Istituto Luce Cinecittà e con il supporto di MIAC – Museo Italiano Audiovisivo e Cinema. L’uso in questa sede è stato autorizzato dall’autore, riproduzione vietata.

L’abitare è il tratto fondamentale dell’essere in conformità del quale i mortali sono

– Martin Heidegger

La pandemia da Covid-19 ci ha travolto in modo tanto repentino e drastico da aver riscritto molte delle nostre abitudini, tra cui – con particolare forza e assolutezza nei periodi di lockdown – l’esperienza degli ambienti in cui viviamo. Se si pensa al concetto di abitare come pratica attraverso la quale l’essere umano costruisce la propria identità e si riconosce nello spazio1, si intuisce istintivamente quanto il confinamento forzato abbia influito sulla percezione di noi stessi e sull’esperienza quotidiana del reale, imprimendo un scarto radicale al processo di ridefinizione della relazione pubblico/privato, interno/esterno sul quale si fonda l’idea stessa di domesticità intensa – in senso moderno e prettamente urbano – come tensione tra le due dimensioni2.

Partendo da questa considerazione, si vuole analizzare il lavoro fotografico Prove di libertà che raccoglie una quarantina di scatti realizzati da Riccardo Ghilardi durante il primo lockdown della primavera del 2020. Il progetto è nato spontaneamente come reportage sulla Roma desertificata dai provvedimenti emergenziali e su come i cittadini stessero affrontando l’isolamento forzato: un’immersione nel vuoto degli spazi esterni che ha subito evocato al fotografo l’uso del bianco e nero per raccontare un momento che sembrava “aver privato il mondo dei colori della vita”3, quella stessa vita che trapelava invece dagli spazi domestici. Intercettando la presenza vitale delle persone alle finestre, sui balconi, Ghilardi ha allora pensato di coinvolgere nel suo reportage anche le personalità del cinema, cercando di raccontare come stessero affrontando quei particolari momenti in cui la pratica del loro “spazio d’espressione” pubblico, la scena, era loro negato. Riflettendo sulle differenze create e su quelle annullate dalla pandemia, Ghilardi ha così messo a dialogo i diversi ritratti, alternandoli alle fotografie delle strade e delle sale cinematografiche svuotate e costruendo il racconto di un’esperienza condivisa trasversalmente in cui tutti, persone note o meno, si ritrovavano accomunati dallo stesso “desiderio di ritorno alla libertà”. Nel dialogo tra le immagini emerge in particolare come lo spazio domestico abbia assunto una particolare forza in quanto scenario di questo racconto condiviso, sia perché la casa era diventata in quel momento, per tutti, lo spazio obbligato e unico dell’esperienza esistenziale sia perché – con la pandemia – è stata introiettata una consuetudine mai prima così pervasiva: frequentare la casa degli altri attraverso le immagini.

Quando, con il primo lockdown, gli spazi domestici sono infatti diventati l’unico ambiente possibile di attuazione del nostro “movimento di esistenza” (Merlau-Ponty 1945, tr. it. 1965: 169), riunendone la componente concreta e quella astratta, le modalità di negoziazione dell’equilibrio tra identità intima e identità pubblica dell’individuo sono state trasformate ancora più radicalmente, costringendo a demandare la possibilità di essere nel mondo in modo pressoché totale alla mediazione delle immagini digitali4. Dalle innumerevoli riunioni via Zoom agli aperitivi via Skype, dalla Dad alle apparizioni dei personaggi pubblici in diretta dal proprio salotto o installati davanti alle proprie librerie, lo spazio domestico ultra-mediatizzato ha messo definitivamente in crisi il limite – già divenuto anacronistico – tra dentro e fuori, tra pubblico e privato e, socializzandosi, ha portato alle estreme conseguenze il processo pre-pandemico5 di ridefinizione della domesticità attraverso i media6: “Facebook, Instagram, WhatsApp, Zoom, che esistevano già prima ed erano nati per giocare, sono corridoi domestici che hanno creato uno spazio comune, non cittadino, non urbano” (Coccia 2021a: 22). Questo spazio altro, non meramente fisico-geometrico né puramente virtuale-psicologico, si è imposto quindi come una sorta di nuova forma di spazio antropologico e le nostre case – ri-mediate digitalmente e ridefinite dalle nuove frontiere spaziali virtuali – sono diventate a tutti gli effetti estensioni dello spazio psichico e dello spazio esistenziale7 nonché dispositivi di rielaborazione del reale. Così ripensati, gli spazi domestici hanno dunque visto potenziarsi anche la loro vocazione a offrirsi in qualità di spazi di quella rappresentazione che, come hanno mostrato la sociologia e l’antropologia, fonda da lunghissimo tempo la domesticità8. Pensare d’altronde allo spazio che abitiamo e in cui viviamo come spazio di messa in scena e di narrazione è connaturato all’idea stessa di movimento di esistenza e rimanda intuitivamente all’analogia tra vita e rappresentazione teatrale alla quale fa riferimento anche Richard Dyer – citando Elisabeth Burns – quando parla della mediazione dell’attore “tra l’autenticità della propria vita, del suo sé e del suo passato […] e la vita autenticata del personaggio che sta interpretando” (Dyer 1979, tr. it. 2003: 31).

1 Prove di libertà

Era il 12 marzo quando attraversando le strade vuote mi sono trovato a passare davanti alla casa di un amico caro, prima che un attore meraviglioso. Non ho resistito a citofonargli per salutarci a distanza e scambiarci emozioni. Ho scattato la prima fotografia, diversa da tutti i ritratti ‘comodi’ a cui ero stato abituato nel mio percorso artistico. Così è nata l’idea di questo lavoro (Cfr. Mollica 2018).

Quelli che Ghilardi definisce “comodi” sono i ritratti posati delle celebrità che lo hanno reso famoso, come i settanta scatti realizzati durante i festival di Cannes, Venezia, Berlino, Roma o le cerimonie degli Oscar o dei Golden Globe a Los Angeles raccolti nel suo precedente progetto fotografico, Three Minutes9.

Un festival può assumere tanti significati per chi ha scelto di fare del cinema la propria vita artistica e professionale. Consacra carriere eccellenti e sancisce l’inizio di altre che lo diventeranno. Un festival avvicina culture e mondi differenti, è un momento di incontro e di confronto. Culla di nuovi progetti molti dei quali si trasformeranno in film che alimenteranno il cinema stesso"10.

Lo afferma il fotografo, dimostrando assoluta consapevolezza del complesso meccanismo in cui si trova a lavorare. Una macchina – quella dei festival – in cui la presenza stessa della celebrità è contemplata anche in virtù di ciò che Paul McDonald ha definito “commercio simbolico della fama” (Cfr. McDonald 2013), ovvero – nello specifico – dell’investimento reciproco tra manifestazione e personalità in un virtuoso scambio di accrescimento della marketability della star e del prestigio dell’evento stesso. In questo meccanismo, Ghilardi si inserisce attraverso una ricerca di prossimità attuabile solo in uno spazio e in un tempo sospesi, in cui vigono regole altre: mettendo in pausa il moto vorticoso e concitato dell’evento11 per i tre minuti concessi alla realizzazione dei ritratti posati, il fotografo lavora infatti in contrappunto alle immagini dei photocall e dei red carpet basate su un’idea di “extra-ordinarietà” della celebrità che si fonda anche sulla loro distanza fisica dal pubblico. Creando uno spazio-bolla, fisico ed emotivo, Ghilardi invita invece i suoi ospiti a mettersi “comodi” per raccontarli in quanto persone oltre che personaggi12: costruisce così un’immagine “umana” del talent – Willem Dafoe, Ellen Mirren, Mads Mikkelsen, Spike Lee, Martin Scorsese, Gus Van Sant, per citarne alcuni – che si tiene tuttavia lontano dall’idea di ordinarietà e continua a lavorare sulla potenza iconografica del corpo proprio sulla base dell’“intimità” relazionale stabilita – dal fotografo ma non dal pubblico – nel momento di apparente astrazione dal contesto. I festival di cinema, come sottolineato da Francesco Pitassio13, sono un tassello fondamentale del sistema di costruzione della stardom che è stato messo duramente alla prova dall’emergenza pandemica; anche per questo motivo, risulta di particolare interesse il fatto che Ghilardi – nel momento in cui si mette a lavorare su una diversa condizione, professionale ed esistenziale, non solo degli attori e delle persone in generale ma anche di un mercato e di un universo produttivo – recuperi la sua inclinazione per il reportage mettendo in cantiere un progetto che lo porta a sondare una diversa modalità di esprimere la sua attitudine da ritrattista14. I ritratti di Prove di libertà sono dunque di natura diversa innanzitutto perché di natura molto diversa è stata la genesi del progetto15. La diversità deriva dalla contingenza storica, dalle limitazioni imposte (la difficoltà di spostamento, le regole del distanziamento), dall’uso di un’attrezzatura leggera (la reflex dotata solo di un piccolo pannello riflettente), ma anche – o meglio di conseguenza – dalla natura profondamente differente dello spazio del racconto. Non un set, non un territorio “neutro” pensato dall’artista per mettere a proprio agio il soggetto e per cercare di incontrarlo (nel senso di stabilire con lui una relazione) ma, al contrario, uno spazio in cui egli si introduce per una volta guest e non host: uno spazio di vita, di emozioni, praticato quotidianamente da chi lo abita, in cui Ghilardi arriva sommessamente, senza stravolgerlo, senza davvero poterlo fare suo ma cercando di scorgere la dimensione narrativa che gli è propria. Nel momento fermato da questi scatti domestici e “privi di patina” – come lui li descrive – la casa recupera dunque pienamente la sua funzione di spazio di rappresentazione e di narrazione ma lo fa con un vincolo in più: l’impossibilità di spostare il racconto altrove.

Se i social hanno ormai da tempo – ben prima della pandemia – esposto il racconto del quotidiano all’esibizione pubblica continua, sdoganando – nel caso delle celebrità – una certa “secolarizzazione” utile anche ad applicare, attraverso l’autorappresentazione, una strategia di self-branding e self-promotion ormai diventata parte integrante del mercato cinematografico (Cfr. tra gli altri Marwick 2013), per quanto riguarda un buon numero di attrici e attori italiani, il rapporto con la pubblicazione della propria immagine16 ha un’accezione particolare17 che assume sfumature che possono essere ricondotte anche a quell’attitudine antidivistica di cui parlano Giulia Carluccio e Andrea Minuz (Cfr. Carluccio e Minuz 2015: 10–11 e Minuz 2017: 39–49). Non stupisce dunque che i ritratti domestici tutti italiani di Ghilardi mettano in immagini l’ordinarietà del soggetto ritratto svelando pochissimo della sua vita privata, avvalorando così la teoria di una sostanziale elusiveness – per utilizzare l’espressione di Francesco Pitassio – delle personalità in questione. Sembra esserne una conferma la scelta stessa di affidare la pubblicazione della propria immagine durante la crisi pandemica al progetto di un fotografo professionista che è parte integrante di quel sistema culturale di mediatori di cui parla ancora Pitassio, forse anche nell’ottica di una generale presa di distanza dall’idea di “self-entrepreneurship that social media, as a neoliberalist technology of the self, enhance” (Pitassio 2021: 281). in favore di un’autorialità dell’immagine che le conferisce un diverso statuto.

Figura 1: Jasmine Trinca

Uno dei primi scatti del catalogo Prove di libertà, ritrae Jasmine Trinca (assente da Instagram e presente su Facebook con un profilo aggiornato l’ultima volta nel luglio del 2015) affacciata alla finestra della sua casa, le mani alzate, un sorriso appena accennato; non siamo ancora dentro lo spazio della casa ma ci fermiamo all’esterno. La soglia del privato non è varcata ma l’attrice si sporge verso il fuori e guarda giù: incorniciata dalla finestra, struccata, non acconciata, vestita “da casa”, guarda verso il fotografo e verso il mondo racchiudendo nel sorriso malinconico la sua umana ordinarietà.

La fotografia che mai avrei voluto vedere pubblicata. Il giorno del mio compleanno, dopo settimane chiusi in casa, con la febbre e nel pieno di una tempesta emotiva. Riccardo mi telefona dicendo: ‘Sono in giro a documentare la città vuota, passavo per Testaccio, affacciati. Uscendo dal letargo, gonfia e triste, ho aperto la finestra e la prima cosa che mi è venuta da fargli sono state le corna. Ma in un attimo, aggiunto un dito, le corna si sono trasformate in un ’I Love You, Rock & Roll, ce la faremo’. E così la fotografia che non avrei voluto vedere pubblicata, invece è qui. Per non dimenticare.

La didascalia che accompagna lo scatto sottolinea alcuni elementi significativi: la precisazione del quartiere, Testaccio, una zona di Roma di origini popolari oggi contraddistinta da un’atmosfera ricercata, centrale ma non turistica, abitata da artisti e creativi e ricca di spazi culturali; il riferimento a un’immagine che l’attrice non avrebbe mai voluto veder pubblicata e dunque una modalità di esposizione forzata, come forzata è la reclusione di quel periodo, resa affrontabile solo dal coinvolgimento del fotografo che è anche un amico; la narrazione del gesto, apotropaico e liberatorio, quasi involontario, segno di una mobilità emotiva e performativa incontenibile, comunicativa, attoriale per natura. Un’immagine non ancora domestica eppure intima, autentica, che suggerisce la vulnerabilità del soggetto pur mantenendo la distanza e salvaguardandone la privacy; un’immagine che comunica ma lo fa unidirezionalmente, non dialoga, dice.

Figura 2: Sabrina Impacciatore

Non solo il ritratto di Jasmine Trinca: numerosi sono gli scatti del progetto che ruotano intorno alle finestre, limite critico della tensione tra privato e pubblico fin dalla modernità e tema cruciale di tutta la storia della cultura visuale18. All’interno della fotografia, la finestra delimita un frame nel frame, un frammento che, ritagliando una porzione di spazio, ne costruisce il significato rispetto a ciò che dall’inquadratura è escluso, crea movimento, mette in comunicazione, suggerisce spazi interni e si apre sull’esterno. Non a caso essa è un elemento ricorrente in Prove di libertà. Un altro ritratto alla finestra è, per esempio, quello di Margherita Buy nel quale si vede l’attrice affacciata alla finestra della sua casa ma con lo sguardo rivolto al fuori quadro, comunicando quel senso di sospensione e di attesa condiviso che ancora persiste: “E pensare che questa è una fotografia di un anno fa e le cose sono cambiate molto poco” recita la didascalia. Anche Paola Cortellesi, ritratta affacciata alla finestra insieme alla figlia pensosamente appoggiata alla cornice dell’infisso, riproduce la stessa modalità di sguardo; Raoul Bova e Sabrina Impacciatore, anch’essi fotografati alla finestra, sono ripresi in una modalità differente, non affacciati verso l’esterno ma ritirati (addirittura dietro al vetro chiuso e coperto di pioggia nel caso dell'attrice) quasi a proteggersi dalla minaccia esterna, come confermano le didascalie stesse: quella di Bova fa riferimento al cielo in una sorta di appello alla protezione delle forze divine e quella di Impacciatore si riferisce esplicitamente alla tempesta interiore causata dal momento di transizione vissuto: “Qualsiasi cosa accada fuori, non è sconfinata come quello che accade dentro di noi”. Non solo le finestre appaiono negli scatti di Ghilardi come spazi liminali, lo sottolinea lo stesso Alberto Barbera nell’introduzione al catalogo:

in uno spazio che è ancora l’appartamento – cioè un interno – ma già non lo è più perché ciò che traspare è la tensione verso il fuori, l’esterno (il mondo che durante il lockdown ci è stato precluso), il desiderio di infrangere la barriera incorporea tra ciò che è permesso e ciò che non lo è: rimanere al sicuro della propria casa, come ci avevano imposto di fare, o recuperare libertà di muoversi in quel modo che, prima, sapevamo essere nostra completa disposizione.

Ascensori, balconi e terrazzi sono infatti lo scenario “quasi domestico” di molti scatti di Ghilardi. Come il ritratto spavaldo di Matteo Garrone che guarda dritto in macchina da dietro le lenti scure mentre prende il sole comodamente adagiato su un lettino con il grande cartello con la scritta Dogman che campeggia alle sue spalle; o quello di Nicole Grimaudo che sul balcone si accarezza teneramente il pancione guardando al bambino che aspetta come promessa di un futuro diverso dal presente; o, ancora, quello di Edoardo Leo in accappatoio che fuma guardando lontano, le cuffie per la musica in testa in un momento di relax che sa più di riflessione che di distensione.

Se gli scatti come quelli qui citati si inseriscono ancora – nonostante le differenze sottolineate – nell’idea compositiva del ritratto posato, di altra natura sembrano essere altre fotografie che più che al ritratto fanno pensare, in un certo senso, alla fotografia di scena. Penso per esempio ai vari scatti che immortalano un momento vissuto propriamente in esterni, in giardino, altro spazio liminale di grande importanza rispetto alla relazione tra il dentro e il fuori ma anche, più in generale, tra il domestico e l’urbano, il privato e il sociale: “uno spazio esterno scelto spesso perché l’unico accessibile date le limitazioni del distanziamento” eppure capace di assumere un significato simbolico molto forte. In una delle immagini si vede per esempio Caterina Guzzanti che gioca con il figlio nel giardino condominiale mentre alcune anziane signore, una divertita, l’altra pensosamente attaccata a una sigaretta, la terza nascosta dietro la mascherina, li osservano da una panchina: “Improvvisamente siamo stati tutti coetanei, aggrappati alla voglia di giocare e comunicare il più possibile”, recita la didascalia. Una vera e propria scena che partendo da un’azione quotidiana si sviluppa nella fotografia come composizione dotata di senso proprio. Simile a questa è lo scatto che blocca un altro momento di gioco familiare all’aperto, quello di Giampaolo Morelli e Gloria Bellicchi che saltano con i figli sul tappeto elastico in giardino. Un’immagine ultradinamica, festosa, in cui l’allegria condivisa nel gioco si dà come antidoto e speranza: “Se hai volato niente potrà impedirti di volare ancora”. Sempre il giardino è lo scenario in cui è ambientato un altro scatto, pressoché statico questa volta, in cui si vede Stefano Fresi che annaffia le piante, con lo sguardo accigliato e la testa coperta da un cappuccio. Uno scatto “rubato”, ha raccontato Ghilardi, in cui l’attore appare come forzato a un’azione – quella dell’innaffiare le piante – necessaria e quotidiana quanto apparentemente vana in quel momento; il soggetto dichiara infatti la sua relazione conflittuale con quell’ambiente e nello scatto appare come paralizzato dai suoi stessi pensieri:

Il privilegio di uno spazio aperto e la fortuna di potersi fermare un attimo senza immediate conseguenze l’ho vissuto molto male, quasi con un senso di colpa, per non averlo potuto condividere con amici chiusi tra quattro mura, privi della tranquillità economica se non addirittura in prima linea nel settore sanitario. Che venga presto il tempo in cui ci si ritrovi a vivere pienamente.

Figura 3: Stefano Fresi

Se nelle immagini citate ci si fermava all’esterno, più o meno inclusi in uno spazio liminale (la finestra, il balcone, il giardino) che non rivela la domesticità ma la suggerisce evocando il pensiero, lo stato d’animo, la riflessione del soggetto, quando si entra in casa la condivisione tra soggetto e osservatore diventa ancora più forte e lo sguardo di chi osserva è portato direttamente dentro ciò che osserva, creando una vera e propria compartecipazione dello spazio fisico ma soprattutto emotivo. Racconta Ghilardi:

Prove di libertà, proprio per la sua genesi spontanea, è nata innanzitutto come condivisione dell’esperienza del lockdown ed è per questo che i soggetti degli scatti sono stati insieme a me autori del racconto: nessuna delle quaranta fotografie è stata studiata o costruita ma, sulla base di quello che stavamo condividendo, la scena ha preso vita da sola, quotidiana, intima, autentica.

Si è detto di come, all’interno delle mura domestiche, la natura della posizione del fotografo cambi rispetto al ritratto posato tradizionale trasformandolo nell’ospite di uno spazio altrui cui gli è stato concesso di accedere per quanto, nella maggior parte dei casi, fermandosi sulla soglia d’ingresso. L’inserimento di sé all’interno della dinamica dell’immagine è una cifra costante del lavoro di Ghilardi che ama – da ritrattista vero, da artista – sovrascrivere la propria presenza a quella del soggetto19. Lo dimostrano i vari ritratti che nascono per esempio dal gioco in cui il fotografo coinvolge le celebrità chiedendo loro di fotografarlo, come nell’immagine di Willem Dafoe, divenuta manifesto di Three Minutes, in cui è il divo a tenere in mano la reflex del fotografo e a guardarlo facendosi al contempo soggetto e oggetto dello sguardo; oppure come quando omaggia i protagonisti dei suoi scatti con delle polaroid che simboleggiano la comunione di quel momento bloccandolo in un’istantanea che è anche – proprio in quanto polaroid – un’immagine mai veramente dominabile o conformabile.

Figura 4: Marco Giallini

Nelle immagini domestiche degli attori c’è però qualcosa di diverso, come se il gioco si complicasse e, in quella strana prossimità costruita sulla distanza forzata, lo spazio si allargasse improvvisamente includendo anche lo sguardo di chi osserva le immagini: un po’ come nella fotografia performativa, allo spettatore si confida allora un margine di interpretazione della scena che implica la sua presenza, chiedendogli di sovrascrivere il suo sguardo all’immagine perché nella sua stessa creazione e realizzazione è stato previsto un suo ruolo, non più solo spettatore ma anche attore della scena. Penso per esempio a due immagini diverse tra loro ma che richiamano entrambe la ritualità dello spettacolo e insieme della performance. In una si vede Marco Giallini con i due figli adolescenti sul divano di un salotto in cui si intravedono il rullante di una batteria, alcuni dvd, una foto di famiglia incorniciata, una lampada etnica, un balcone chiuso da una serranda alle loro spalle. I tre gesticolano animatamente e urlano guardando verso uno schermo che si suppone trasmetta le immagini di una partita: un rito familiare, un momento come tanti condiviso con chi scatta ma anche con chi guarda, ordinario e sacro al contempo, descritto da Ghilardi come una sorta di “follia” attualizzata ogni volta dal suo reiterarsi. L’altra fotografia ritrae uno degli attori italiani più significativi di oggi dal punto di vista della gestione della propria immagine: Alessandro Borghi20. È lui l’amico cui fa riferimento Ghilardi nell’introduzione al catalogo della mostra; lui quello da cui tutto è partito; lui il protagonista – insieme a Luca Marinelli e Valerio Mastandrea – di uno dei pochi scatti non posati di Three Minutes, quello che li vede ridere buttati uno sull’altro su un divano mentre si rilassano in una pausa della cerimonia delle candidature agli Oscar a Los Angeles dove si trovavano per promuovere Non essere cattivo (2015); lui a essere ritratto qui in una posa altamente performativa, durante uno dei rituali quotidiani di cura del sé: la ginnastica. Con una mano attaccata a un anello di legno e i piedi nudi su una spalliera, Borghi lascia andare plasticamente il corpo abbigliato sportivamente ma con indumenti casalinghi; un sacco da boxe si intravede dietro di lui, lo sguardo verso il fuori scena, la bocca leggermente aperta. In entrambi i casi siamo dunque di fronte a immagini ma anche a spazi che raccontano e mettono in scena la performance, il rito, la quotidianità, la condivisione:

this interconnectedness between ritual or sacred action and the more banal stuff of life is crucial to work on performance and can be understood as a kind of hyper-ordinariness which establishes the paradigm for cultural performance and its part in the lives of the audience. The extent of this co-dependence and co-construction between audience and actors brings it into contact once again with Ingold’s ideas about the co-construction of people and their environments (Lucas 2020: 159)21.

Figura 5: Alessandro Borghi

Lo spazio domestico negli scatti pandemici di Ghilardi restituisce dunque per un istante agli attori lo spazio della messa in scena negatagli in senso proprio, ricollocandoli all’interno del loro ambiente privato attraverso quello che è il loro status pubblico; facendo questo, raccontando questi momenti, il fotografo chiede però anche a se stesso e allo spettatore di entrare in scena forti di quella sospensione artificiale della vita e del tempo che tutti abbiamo condiviso. Come nello scatto che blocca Anna Foglietta a metà di un salto a piedi nudi sul parquet del suo salotto, un mobile con libri e fotografie che non si distinguono sul fondo, una porta a vetri aperta verso chi guarda a incorniciarla. In tutto il progetto di Ghilardi, la possibilità della narrazione si inserisce proprio in questa sorta di tempo-intervallo, di questo spazio-frontiera, qui si racconta e si mette in immagine l’iper-ordinarietà del soggetto ritratto e contemporaneamente si crea il margine di “ipervisione” dello spettatore22. D’altra parte, pensando a Michel De Certeau, la frontiera è “luogo terzo, gioco d’interazioni e di cose intraviste, la frontiera è come un vuoto, simbolo narrativo di scambi e incontri” (De Certeau 1990, tr. it 2001: 188). E proprio in quello spazio frontiera, virtuale, psichico, esistenziale che abbiamo imparato – come mai prima – a praticare, anche quando non nostro, attraverso le immagini condivise delle nostre case, prende corpo la possibilità del racconto privato, intimo, ordinario di Ghilardi. D’altra parte – con la pandemia – siamo stati tutti catapultati in una sorta di “romanzo collettivo a cielo aperto, in cui tutti sono al tempo stesso autori, personaggi e lettori di come la propria vita si intreccia a quella degli altri” (Coccia 2021b: 84).

Figura 6: Anna Foglietta

Bibliografia

AA. VV. (2021). Riccardo Ghilardi. Prove di libertà. Milano: Skira-Luce Cinecittà.

Benjamin, Walter (1982). Das Passagen-Werk. Frankfurt: Suhrkamp (tr. it I «passages» di Parigi. Torino: Einaudi, 2000).

Carluccio, Giulia e Andrea Minuz (2015). “Nel paese degli antidivi”. Bianco e Nero, 581: 10–11.

Cesarone, Virgilio (2008). Per una fenomenologia dell'abitare. Il pensiero di Martin Heidegger come oikosophia. Milano: Marietti.

Cipollone, Giada (2020). Ritrattistica d’attore e fotografia di scena in Italia (1905-1943). Milano: Scalpendi.

Colomina, Beatriz (1998). “The Exhibitionist House”. In At the End of the Century: One Hundred Years of Architecture, Los Angeles: Harry N. Abrams, 126–165.

Coccia, Emanuele (2021a). “La casa mondo”. La Lettura, 497(6): 19–23.

Coccia, Emanuele (2021b). Filosofia della casa. Torino: Einaudi.

De Certeau, Michel (1990). L’invention du quotidien. 1 Arts de faire. Paris: Gallimard (tr. it. L’invenzione del quotidiano, Roma: Edizioni Lavoro, 2001).

Dyer, Richard (1979). Stars. London: British Film Institute (tr. it. Stars. Torino: Kaplan, 2003).

Elsaesser, Thomas und Malte Hagener (2007). Filmtheorie zur Einführung. Hamburg: Junius (tr. it. Teoria del film. Torino: Einaudi, 2009).

Friedberg, Anne (2006). The Virtual Window. From Alberti to Microsoft. Cambridge and London: MIT Press.

Goffman, Erving (1959). The Presentation of Self in Everyday Life, New York: Garden City (tr. it. La vita quotidiana come rappresentazione. Bologna: Il Mulino, 1969).

Hardley, Jess and Ingrid Richardson (2021). “Digital Placemaking and Networked Corporeality: Embodied Mobile Media Practices in Domestic Space During Covid-19”. Convergence. The International Journal of Research into New Media Technologies, 27(3): 625–636. https://doi.org/10.1177/1354856520979963.

Ingold, Tim (2000). The Perception of the Environment. Essays in Livehood, Dwelling and Skills. London: Routledge.

Lucas, Ray (2020). Anthropology for Architects: Social Relations and the Built Environment. London: Bloomsbury Visual Arts.

Marwick, Alice E. (2013). Status Update: Celebrity, Publicity and Branding in the Social Media Age. New Haven: Yale University Press.

McDonald, Paul (2013). Hollywood Stardom. Hoboken: John Wiley & Sons (tr. it. Hollywood Stardom. Il commercio simbolico della fama nel cinema hollywoodiano. Bologna: Cue Press, 2020).

Merlau-Ponty, Maurice (1945). Phénoménologie de la perception. Paris: Gallimard (tr. it. Fenomenologia della percezione. Milano: Il Saggiatore, 1965).

Minuz, Andrea (2017). “Il cinema italiano e la retorica antidivistica”. In L’attore nel cinema italiano contemporaneo. Storia, performance, immagine, a cura di Pedro Armocida e Andrea Minuz, Venezia: Marsilio, 39–49.

Mollica, Vincenzo (2018). Riccardo Ghilardi. Three Minutes. Milano: Skira-Luce Cinecittà.

O’Rawe, Catherine (2021). “Intimacy/Activism: Italian Actors and Social Media in the Lockdown”. The Italianist, 41(2): 275–279. https://doi.org/10.1080/02614340.2021.1950439.

Pitassio, Francesco (2021). “Elusive Selves: Italian Performers, Awards, Alleged Celebrity, and Self-Branding”. The Italianist, 41(2): 280–283. https://doi.org/10.1080/02614340.2021.1950440.

Rice, Charles (2006). The Emergence of the Interior. Architecture, Modernity, Domesticity. London: Routledge.

Vattimo, Gianni (1976). Saggi e discorsi. Mursia, Milano: Mursia.

Vitta, Maurizio (2008). Dell’abitare. Corpi spazi oggetti immagini. Torino: Einaudi.

Wajcman, Gérard (2004). Fenêtre; chronique du regard et de l’intime. Lagrasse: Verdier.


  1. Il ruolo dello spazio domestico nell’immaginario mediale, in particolare cinematografico, è stato al centro della mia seconda ricerca dottorale (Architetture dell’immaginario. La casa nel cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta, 2009), da cui riprendo i riferimenti teorici alla base di questa analisi. In particolare, l’abitare è inteso come pratica connaturata all’essenza stessa dell’essere umano e caratterizzata da un bisogno fondamentale di relazione intersoggettiva e ambientale; la teoria dell’abitare non è tuttavia oggetto di questo articolo, che si limita a evocare la prospettiva heideggeriana espressa in Costruire, abitare, pensare [tr. it. in Vattimo (1976: 97–108)] a testimonianza dello spessore filosofico del concetto. Cfr. anche Cesarone (2008) e Vitta (2008: 40–45).↩︎

  2. È noto che Benjamin individua nella modernità il momento di rottura della separazione netta tra sfera privata e sfera pubblica dell’esistenza riflessa nella concezione ottocentesca di comptoir e intérieur come spazi organizzati in successione all’interno dell’appartamento borghese, al fine di consentire all’individuo di allontanarsi dalla rappresentatività della dimensione pubblica per trovare ritiro in una zona privata atta alla “custodia” delle tracce dell’esistenza intima. Cfr. Benjamin (tr. it. 2000: 223–242).↩︎

  3. Le dichiarazioni di Riccardo Ghilardi, ove non indicato diversamente, si riferiscono all’intervista realizzata per questo scritto nel mese di gennaio 2022.↩︎

  4. Sul nuovo ambiente ‘domestico-mediale’ creato dalla pandemia si stanno sviluppando varie ricerche declinate in diversi ambiti; in particolare qui cfr. Hardley e Richardson (2021).↩︎

  5. “The production of interiors through electronic media does not rely on, ore merely corrupt, conventional concepts or manifestations of domesticity. Rather, it produces new ones” (Rice 2006: 118).↩︎

  6. “The twentieth-century house is exhibitionistic in character. It is not just that it is designed for publication, designed to photograph well. Rather, it is concerned with new forms of exposure, new forms of display, new of transparency. The modern house as been deeply affected by the fact that it is both constructed in the media and infiltrated by the media. Always in exhibition, it has become thoroughly exhibitionist” (Colomina 1998: 164).↩︎

  7. Cfr. in particolare Coccia (2021b: 79–88).↩︎

  8. Nel testo seminale pubblicato da Erving Goffman alla fine degli anni Cinquanta, alla definizione dell’idea di rappresentazione segue una lettura dello spazio della casa nei termini teatralmente espliciti di proscenio e retroscena con un’organizzazione delle stanze in base alla loro funzione e al diverso grado di esposizione della vita domestica che implicano; cfr. in particolare, Goffman (1959, tr. it. 1969: 123–160).↩︎

  9. La mostra Riccardo Ghilardi. Three Minutes, curata da Vincenzo Mollica è stata allestita all’Auditorium Parco della Musica in occasione della Festa del Cinema del 2018, collocazione ideale nell’ottica di quel complesso sistema di marketing e branding di cui si è detto.↩︎

  10. Cfr. Mollica 2018.↩︎

  11. Si veda a questo proposito il documentario sulla mostra disponibile su Rai Play al link https://www.raiplay.it/video/2019/10/Three-Minutes-f74bc973-61a7-464a-be67-f6419e076894.htm.↩︎

  12. “Ciò che è interessante non è il personaggio che hanno costruito (ruolo tradizionale dell’attore) ma piuttosto la questione del costruire/interpretare/essere (a seconda del tipo di divo coinvolto) un personaggio” (Dyer 1979, tr. it. 2003: 32).↩︎

  13. Si veda l’intervento dal titolo What I’m Doing Here? The Economy of Prestige, Film Award and Self-Promotion at the Time of Covid-Crisis, in occasione del convegno di studi Celebrity and Crisis. Celebrity in Crisis (Bologna 11–13 maggio 2021).↩︎

  14. “Il ritratto è uno dei primi generi, insieme all’architettura e al paesaggio, a essere massivamente praticato dalla nascente industria fotografica […] Dopo circa settant’anni di vita, la fotografia scopre e sfrutta la possibilità di evadere l’obbligo della traccia di reale: il ritratto rompe lo schema della ripresa frontale, sperimenta nuove pose, rinuncia all’obbligo dello scenario e dell’arredo. Il personalismo del fotografo invade la progettualità dello scatto, sacrificando la necessità del reale all’audacia del relativo, possibilmente lanciato alla conquista dell’artistico” (Cipollone 2020: 32).↩︎

  15. Interessante rispetto al contesto dei festival, risulta anche il fatto che – a differenza del citato Three Minutes–Prove di libertà è stato presentato comeprogetto di mostra per la prima volta in un museo, al MAXXI di Roma, a un anno dalla fine del primo lockdown nel maggio 2021; solo in un secondo momento è stata riproposto durante un festival e, più precisamente a Palazzo Pisani Moretta a Venezia in occasione della Mostra Internazionale del Cinema del 2021, come elemento di riflessione sulla crisi pandemica all’interno di un evento che, in questi ultimi due anni, ha molto lavorato sul modello della manifestazione adattandolo alle necessità contingenti.↩︎

  16. Proprio in riferimento al rapporto che attrici e attori instaurano con la propria immagine posata, Ghilardi individua due categorie: “i sacrificati”, che vivono il ritratto come una esposizione del sé equivalente a un furto dell’anima, e “i pacificati”, che individuano nell’essere fotografati un’ulteriore possibilità di performance vivendola come parte integrante della propria professione.↩︎

  17. Come hanno evidenziato numerosi interventi nel convegno di studi Celebrity and Crisis. Celebrity in Crisis (Bologna 11–13 maggio 2021), durante la pandemia molte celebrità hanno utilizzato largamente i social media proprio per sottolineare la loro ordinarietà ma anche per mantenere il contatto con la base del loro pubblico; nello specifico del caso italiano, si è sottolineato come i social siano stati utilizzati soprattutto per veicolare battaglie in favore della riapertura dei luoghi di cultura e della necessità di sostenere i lavoratori dello spettacolo. In particolare cfr. O’Rawe (2021: 275–279). ↩︎

  18. Nell’impossibilità di dare adeguato spazio in questa sede al tema della finestra come luogo di attivazione del rapporto percettivo dell’uomo con il mondo, già postulato da Leon Battista Alberti nel suo De Pictura, e sul significato che assume nel campo della teorie del cinema, pensando anche solo alla “finestra aperta sul mondo” di Bazin o al modello analizzato da Elsaesser e Hagener (2007) ci si limita a fare riferimento, tra gli altri, a Wajcman (2004) e Friedberg (2006), in cui si analizza nello specifico la finestra come elemento strutturatore di uno spazio di comunicazione.↩︎

  19. “La materia che ha scelto per esprimersi è la più difficile: l’arte del ritratto, che è fatta principalmente di mistero e verità. Fare un bel ritratto significa trovare il giusto equilibrio tra queste due componenti fondamentali, le uniche che riescono a rispecchiare l’animo umano. Nei suoi ritratti non cerca mai di svelare, semmai di capire il senso dell’avventura umana. Tutte le sue opere sono accompagnate da una luce che si fa poesia e va oltre qualsiasi allegoria. Se guardate bene in questi ritratti scoprirete che ognuno contiene anche l’autoritratto dell’artista che con il suo scatto ha saputo unire due sguardi, facendoli diventare uno solo” (Mollica: 2018)↩︎

  20. A questo proposito si veda il caso di Borghi citato sia da Francesco Pitassio che da Catherine O’Rawe nei loro interventi nel workshop del 18 giugno 2020 Studying film and TV actors (and their intermediaries): A cultural and industrial approach nell’ambito del progetto PRIN F-ACTOR. Forme dell’attorialità mediale contemporanea. Formazione, professionalizzazione, discorsi sociali in Italia (2000–2020) e nei saggi citati.↩︎

  21. Cfr. anche Ingold 2000.↩︎

  22. L’espressione è utilizzata da Viviana Gravano quando parla della fotografia di scena nell’introduzione di Cipollone (2020: 9–13).↩︎