1 Introduzione
“Sei entrato ancora una volta nel mondo del survival horror. Buona fortuna!”. Queste parole accolgono ogni giocatore durante il caricamento di un salvataggio in Resident Evil (Capcom 1996), capostipite della famosissima saga ideata da Shinji Mikami.
Resident Evil non è il primo videogioco che enfatizza il concetto di sopravvivenza: come puntualizza Alinovi, sopravvivere è lo scopo primordiale di molti titoli a partire dagli albori dell’industria videoludica (2004: 65-75). Ciò nonostante, Resident Evil è il primo titolo che esplicita la dicitura “survival horror”, dando alla luce e stabilendo le fondanti specificità di un genere videoludico.
Nei survival horror, secondo Hand, “l’utente controlla un unico personaggio che sperimenta una serie di situazioni grottesche in ambienti ostili, infestati da creature mostruose” (2008: 57). Una simile considerazione è riscontrabile anche in un manuale introduttivo ai game studies, dove gli autori evidenziano che nei survival horror è ricorrente il controllo di un personaggio con l’obiettivo di uscire da luoghi claustrofobici affrontando mostruose creature (Egenfeldt-Nielsen et al. 2008). Anche Kirkland si incentra sull’importanza dei luoghi nei survival horror, la cui architettura deve cercare di evocare inquietudine a partire da ambienti comuni (2009).
L’accomunante enfasi sull’ambiente non deve sorprendere dal momento che, come precisa Perron, la frase citata in apertura del presente saggio abbina l’esistenza del survival horror a quella di un mondo, ossia un macro-spazio che si articola lungo vari luoghi (2017). Del resto, Perron puntualizza già alcuni anni prima che il survival horror è un genere contraddistinto da “un’atmosfera inquietante in ambienti oscuri e/o claustrofobici” (2012: 637). L’ambiente è altresì l’elemento che Perron considera fondante per provocare la paura in ambito videoludico visto che altre importanti caratteristiche, quali il punto di vista, il comportamento delle creature ostili, e le risorse, possono esistere solo in relazione alla dimensione ambientale (2018: 114-16).
La paura, infatti, nei survival horror è fondamentale per incentivare l’istinto di sopravvivenza, ed è una sensazione al centro di innumerevoli studi che attraversano vari campi del sapere. Al fine della sua contestualizzazione nel presente saggio, un punto di riflessione iniziale è rintracciabile in un contributo di Davies, il quale argomenta che la paura può concretizzarsi in vari modi: le persone possono infatti aver paura di qualcosa, oppure aver paura di fare qualcosa, oppure ancora aver paura che accada qualcosa di nefasto in futuro (1987: 288). Secondo Davies, di conseguenza, la paura è legata non solo all’elemento/evento che provoca tale sensazione, ma anche alla dimensione temporale entro cui si può manifestare, che può coinvolgere passato, presente e futuro. Solomon specifica inoltre che, a prescindere dalla dimensione temporale, la paura può essere così intensa da bloccare fisicamente la persona che la sta provando, fino a trasformarsi in orrore ed eventualmente anche terrore nel caso in cui tale persona avverta di essere vulnerabile di fronte a un pericolo (2003: 241). Tale constatazione si inserisce in linea con una riflessione seminale di Stephen King, il quale parla dell’orrore come una sensazione che nasce quando un individuo percepisce qualcosa di macabro provando potenzialmente repulsione, fino a non riuscire più a controllare i movimenti del corpo [(2016: 24-37) 1984].
Ciò nonostante, come poi specifica Perron in uno studio sulla paura nel medium videoludico, tale sensazione può manifestarsi anche all’opposto, ossia con l’impulso istintivo (ma pur sempre razionale) di correre/fuggire rapidamente verso un luogo sicuro, come da prassi nei survival horror (2018: 80). Non a caso, la saga di Resident Evil si apre con una cut-scene in cui i personaggi, nonostante portino con sé delle armi, si impauriscono quando incontrano una creatura ignota e fuggono verso un luogo (molto) apparentemente sicuro. Öhman, sistematizzando la paura in ottica videoludica, ne parla come una sensazione dovuta sia dalla tensione per il presentimento di un potenziale pericolo imminente, sia dalla necessità di superare uno spavento dovuto a un pericolo improvviso per sopravvivere (2008). La duplice articolazione della paura tra tensione e spavento nei survival horror è stata poi confermata in altri contributi: Taylor parla della paura in quanto sensazione dovuta a sovvertimenti ludici e/o narrativi finalizzati a sorprendere l’utente provocando sussulti (2009); Perron integra questo ragionamento nella sua già citata monografia sui survival horror, argomentando che il genere enfatizza costante tensione, alternata a situazioni di calma apparente (2018).
Nelle considerazioni sulla paura in ottica videoludica, vari autori sostengono che i survival horror mutuano alcune convenzioni dal linguaggio cinematografico per provocare tensione e spavento nei fruitori. Oltre ai già citati Taylor e Perron, sono dello stesso avviso anche altri studiosi come Therrien (2009) e Weise (2009), i quali sottoscrivono che la paura nei survival horror è una sensazione percepibile similmente a quanto avviene nella fruizione cinematografica. Inquadrature limitanti, tetre colonne sonore, scarsa illuminazione, l’improvvisa comparsa delle creature, e l’attesa di un pericolo annunciato potenzialmente imminente (quest’ultima in quanto strategia fondamentale per la creazione della suspense cinematografica secondo Perez, 2001), si predispongono ad essere mutuate in ambito videoludico. Del resto, già tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Zero è possibile trovare dei contributi incentrati sui rapporti testuali tra cinema e videogiochi, come la tassonomia sulle modalità di ripresa da parte di Wolf (1997) o la comparazione estetica tra l’horror cinematografico e videoludico di Krzywinska (2002). Cinema e videogiochi non condividono solo interscambi testuali, visto che l’apparato cognitivo ed emotivo dei fruitori tendono a procedere congiuntamente, sia nel cinema come argomenta Casetti (2015), sia nei videogiochi come illustra Perron (2018: 66-72).
Tuttavia, nonostante tali analogie, è necessario sottolineare la basilare differenza ontologica tra i due media: come evidenzia Poole, mentre nel cinema il mondo viene proiettato verso gli spettatori, nei videogiochi sono i giocatori ad essere proiettati in un mondo che possono condizionare direttamente (2000: 98). Sebbene la percezione della paura si articoli lungo processi cognitivi ed emotivi similari tra i due media, nel medium videoludico cambiano le modalità con cui un fruitore può e deve affrontarla, a prescindere dal fatto che sia causata da uno spavento improvviso o da una costante tensione. Come infatti sostiene Perron, nei survival horror la paura guida le azioni dell’utente, indotto a procedere cautamente negli ambienti a causa della vulnerabilità dettata dai pericoli e dalla scarsità di risorse con cui affrontarli (2018: 87-94).
Il saggio qui presente si focalizzerà sugli attuali otto capitoli principali della saga di Resident Evil per osservare, nel corso degli anni, i progressivi cambiamenti nel level design che contestualizzano con intensità differenti la sensazione della paura. A tal fine, l’analisi si concentrerà in particolare sulla temporalità dettata dagli spostamenti dell’utente negli ambienti.
L’interconnessione tra tempo e spazio nel medium videoludico è ben argomentata da Nitsche, che propone due modelli analitici per comprendere inizialmente la temporalità, ossia quello formalista e quello esperienziale: mentre l’approccio formalista si focalizza sui rapporti tra i tempi interni alla testualità videoludica e gli ideali tempi di fruizione degli utenti, l’approccio esperienziale si incentra maggiormente sull’apparato cognitivo ed emotivo dell’utente durante l’atto di gioco (2007). Entrambi questi approcci, seppur articolati lungo strumenti analitici necessariamente differenti, devono comunque legarsi allo studio della dimensione spaziale entro cui qualsiasi temporalità si dipana.
In merito all’approccio formalista, la consolidata tassonomia della temporalità videoludica di Juul rappresenta un importante punto di riflessione iniziale, visto che prevede la relazione diretta tra play time, in quanto tempo reale vissuto dal giocatore durante la fruizione, ed event time, in quanto tempo diegetico interno al mondo virtuale dettato sia dalle cut-scenes che dalle fasi ludiche imprescindibili per scandire il proseguimento del racconto (2004).
Questa basilare relazione può includere delle variazioni, a partire dal potenziale rapporto a doppio senso nel mapping temporale: come puntualizza Meneghelli,
se da un lato il play time influisce sull’event time – in quanto il giocatore fa accadere gran parte degli eventi di gioco – dall’altro lato l’event time condiziona il play time, in quanto il giocatore è chiamato ad agire adeguandosi ai tempi interni al gioco stesso (2014: 35, corsivi dell’autrice).
Un’ulteriore integrazione alla basilare tassonomia di Juul viene proposta anche da Mateas e Zagal, che preferiscono parlare di real-world time per riferirsi al contesto spazio-temporale entro cui l’utente si dedica all’attività di gioco, e di gameworld time per riferirsi agli eventi che scandiscono la prosecuzione spazio-temporale di un mondo virtuale, a prescindere dal fatto che siano dettati dagli input dell’utente o meno (2007). Come puntualizza Domsch, la nozione di gameworld implica l’esistenza di un dettagliato mondo immaginario virtuale che si articola principalmente su due coppie di componenti interconnesse: da un lato, il rapporto tra le fasi ludiche e narrative, mentre dall’altro lato, il rapporto tra la dimensione spaziale e temporale entro le quali l’atto di fruizione dell’utente e la narrazione si concretizzano (2013). Come poi argomenta Hanson, un videogioco può dirsi tale solo quando viene effettivamente giocato, e lo stesso atto di fruizione è soggetto a molteplici temporalità, a partire da quella che scandisce il minutaggio concreto che l’utente impiega a giocare, fino a quella interna al mondo virtuale che può essere soggetta ad alterazioni più o meno evidenti (2018: 1-16)1. Come ci sarà modo di argomentare, la temporalità con cui l’utente potrà esplorare i tetri spazi immaginari nella saga di Resident Evil avrà un ruolo cruciale sulla sua emotività.
Tutto ciò richiama l’approccio esperienziale teorizzato da Nitsche, il quale offre un contributo molto rilevante anche ai fini della comprensione della dimensione strettamente spaziale: sulla base di un fondamentale studio di Jenkins (2004), il quale teorizza che nei videogiochi la narrazione non dipende solo dalle cut-scenes, ma può correlarsi anche all’esplorazione spaziale dell’utente in ambienti metaforicamente capaci di raccontare il loro passato a partire dalla loro morfologia, Nitsche elabora un modello esaustivo per comprendere lo spazio ludico (2008). Secondo quest’ultimo, ogni ambiente virtuale può potenzialmente contenere elementi narrativi evocativi, che corrispondono a frammenti di racconto che l’utente può immagazzinare e ordinare nella sua mente per avere una visione più concreta del gameworld in cui si sta muovendo (Ivi: 45). Questa considerazione si basa sulla sua precedente elaborazione di vari piani analitici con cui analizzare la spazialità videoludica che, parallelamente alla temporalità, tengono in considerazione sia il gameworld in quanto spazio ludico-narrativo attinente alla diegesi, sia lo spazio concreto in cui gioca l’utente, sia il suo spazio interiore attinente al suo apparato cognitivo ed emotivo (Ivi: 8-17).
Per quanto concerne il gameworld, gli ambienti generalmente si articolano su processi di level design che prevedono l’interconnessione tra quelli che Colombo ed Eugeni definiscono spazio rappresentato e spazio rappresentante, rispettivamente il mondo di gioco percepibile sia dal giocatore che dai personaggi e l’interfaccia percepibile solo dal giocatore (1996). Salvo rari casi in cui il personaggio controllato dall’utente non può fisicamente muoversi, il design degli ambienti videoludici deve necessariamente predisporsi anche alla potenziale esplorazione che l’utente può svolgere in relazione alle possibilità motorie del personaggio. “Si tratta qui di considerare il lavoro di costruzione dello spazio da parte degli autori dei testi videoludici, che devono dosare la libertà motoria da offrire al giocatore tramite strategie costrittive e concatenazioni ritmiche” puntualizza D’Armenio (2014: 92). L’esplorazione di uno spazio rappresentato, di conseguenza, si realizza sulla base dei movimenti che segnano una variabile dimensione temporale per ogni giocatore.
È necessario precisare che i movimenti dell’utente dello spazio rappresentato non si realizzano soltanto in relazione alle possibilità motorie della protesi virtuale controllata, ma anche in relazione alle sue potenziali interazioni con elementi dell’ambiente che si basano sull’ingente nucleo concettuale dell’affordance. A partire dal fondatore della teoria J.J. Gibson, il quale argomenta che ogni oggetto è implicitamente caratterizzato da componenti che ne suggeriscono il potenziale utilizzo sulla base delle variegate possibilità d’azione degli esseri viventi (1979), vari altri studiosi nei più disparati campi scientifici si sono confrontati sul tema negli ultimi decenni. Gibson, infatti, sostenendo che un medesimo oggetto può offrire potenziali affordances differenti ad esseri viventi diversi, chiama in causa un nucleo teorico complesso che tocca necessariamente il tema del mimetismo animale.
Alcuni studiosi, come per esempio Turvey (1992) tra gli altri, hanno provato a integrare nuove chiavi di lettura al pensiero originario di Gibson, sostenendo che le affordances sono presenti implicitamente nei vari oggetti a prescindere dalla percezione di ogni essere vivente. In tal senso, le affordances vengono dunque considerate proprietà oggettive separate dalla percezione soggettiva. Ciò nonostante, altri ricercatori, come ad esempio Stoffregen (2003) tra vari altri, hanno continuato a muoversi in linea con il pensiero originario di Gibson, rimarcando che le affordances non riguardano solo le proprietà di ogni oggetto, ma ne promuovono anche differenti utilizzi sulla base della soggettività percettiva e delle possibilità d’azione di ogni essere vivente.
A prescindere dai diversi punti di vista su una questione ancora oggi dibattuta, l’affordance trova un’emblematica applicazione nel level design videoludico dal momento che l’utente, mentre si muove nello spazio rappresentato, dev’essere indotto a comprendere con maggiore naturalezza possibile quali siano gli elementi con cui può far interagire il personaggio che sta controllando (Schaltz 2017).
È d’uopo sottoscrivere fin da adesso che, nella saga di Resident Evil, i punti di vista sugli spazi rappresentati cambieranno nel corso degli anni, visto che a partire da una strutturazione con inquadrature statiche su predeterminate porzioni spaziali, si passerà a inquadrature posizionate dinamicamente alle spalle dei protagonisti, fino a inquadrature corrispondenti a visuali soggettive. Questo progressivo cambiamento sancirà differenti possibilità esplorative degli spazi rappresentati e delle attualizzazioni di potenziali affordances al loro interno. Tale considerazione può effettivamente far immaginare che la saga si sia progressivamente avvicinata all’implementazione delle affordances seguendo la teorizzazione originaria di Gibson, il quale sostiene che per conoscere un ambiente sia necessario essere corporalmente calati al suo interno. Ciò nonostante, è necessario precisare che, a prescindere dalle possibilità esplorative e dai punti di vista statici o dinamici sugli spazi rappresentati, la saga di Resident Evil enfatizza la vulnerabilità corporea di ogni protagonista controllato/a per acuire, di fatto, il senso di presenza dell’utente a partire dalle origini della saga, in cui gli spazi rappresentati vengono osservati da punti di vista distanti rispetto ai protagonisti controllati. Fin dalle origini del mondo immaginario ideato da Mikami, infatti, anche attacchi all’apparenza lievi delle creature ai danni dei protagonisti provocano cospicui sanguinamenti (oltre alla vibrazione correlata sulla periferica di controllo del giocatore). A partire in particolare dal secondo capitolo della saga è possibile evidenziare iconiche animazioni in caso di game over, le quali enfatizzano la distruzione corporea dei protagonisti che passano dalla vita alla morte urlando mentre il loro sangue inonda lo schermo dell’utente formando l’emblematica scritta: “Sei Morto”. Come sottolinea Perron, nonostante un survival horror possa potenzialmente provocare paura a prescindere dalla prospettiva sul mondo virtuale, prendere visione della distruzione corporea del personaggio controllato aumenta le probabilità di provare anche orrore (2009: 132-33). Tutto ciò si inserisce in un tratto accomunante per i primi esponenti della saga di Resident Evil, in cui l’autodifesa dai pericoli è complessa sia a causa dell’orizzonte narrativo, che conduce i personaggi in situazioni costantemente rischiose contro molte creature, sia a causa dell’orizzonte ludico, che denota particolare difficoltà a partire da una rigida interfaccia dei comandi. Nonostante i punti di vista distanziati, quindi, fin dalle origini la saga di Resident Evil ha sempre cercato delle soluzioni per far avvertire all’utente la dimensione corporea dei protagonisti controllati, sia per la necessaria difesa dagli attacchi avversari, sia per tutto l’apparato di affordances necessarie al proseguimento dell’esplorazione ambientale.
Ciò che il saggio si premerà di sottolineare consisterà proprio nelle modalità con cui potenziali affordances differenti promuoveranno potenziali percorribilità differenti degli ambienti che decreteranno, a loro volta, diverse temporalità d’esplorazione. Come infatti argomentano vari ricercatori, le affordances negli ambienti stimolano a comportarsi in un certo modo, predisponendo in ambito virtuale limiti e potenziali libertà performative dell’agency da parte dell’utente (Araújo et al. 2012). L’agency, del resto, a partire dalla sua prima teorizzazione di Laurel, che la definisce “il potere di agire” (1991: 117), fino alla successiva integrazione di Murray che la definisce “il potere soddisfacente di svolgere azioni significative e vedere i risultati delle nostre decisioni e delle nostre scelte” (1997: 126), è diventata una parola sempre più utilizzata nel gergo videoludico.
Il design degli ambienti con le possibili azioni da parte dell’utente, e la temporalità rigida o potenziale necessaria ad esplorarli, rappresenteranno dei tasselli fondamentali per comprendere le differenti modalità con cui può mutare la sensazione della paura nella saga di Resident Evil.
Nell’insieme dei variegati nuclei concettuali e strumenti analitici menzionati in questa introduzione, l’imminente analisi prenderà come punto di riferimento per la temporalità il rapporto tra real-world time e gameworld time teorizzato da Mateas e Zagal. Questo framework è infatti più consono, soprattutto nell’accezione sul tempo interno della diegesi con il termine di gameworld, a sottolineare la profondità del mondo immaginario ideato da Mikami, che, nonostante l’impossibilità di analizzarne in questo articolo gli sconfinamenti al di là del settore videoludico, continua ancora oggi a trovare una costante espansione transmediale su variegati settori d’intrattenimento. Per quanto concerne lo studio della spazialità, verrà posta particolare enfasi sugli spazi rappresentati in relazione agli spazi rappresentanti, così come sui progressivi cambiamenti delle affordances nel corso degli anni, utili altresì per comprendere le differenti prospettive esplorative che ne conseguono.
L’imminente analisi individuerà e definirà tre ere interconnesse: l’era della segmentazione in Resident Evil, Resident Evil 2 (Capcom 1998) e Resident Evil 3: Nemesis (Capcom 1999); l’era della connessione in Resident Evil 4 (Capcom 2005); Resident Evil 5 (Capcom 2009) e Resident Evil 6 (Capcom 2012); l’era della restrizione in Resident Evil 7 Biohazard (Capcom 2017) e Resident Evil Village (Capcom 2021).
Premetto che le ere appena elencate non hanno correlazioni con la similare canonizzazione della saga in generazioni proposte dal settore giornalistico: in questa sede, l’analisi di ogni capitolo principale sarà necessaria per evidenziare non solo i progressivi mutamenti nel level design, ma anche una costante interconnessione strutturale che, a partire dal 1996, attraverserà tutta la saga fino al capitolo più recente. È quanto meno lecito affermare comunque che tale percorso si interconnette anche all’evoluzione espressiva dei videogiochi in senso più ampio, poiché ogni era, strutturata su canoni semantici in via di esposizione nel presente saggio, attraversa oltre un ventennio, ossia un periodo ingente per un medium come quello videoludico, che segna le sue generazioni evolvendosi costantemente e talvolta radicalmente. Nonostante l’ingente importanza di Resident Evil nella definizione e propagazione dei canoni formali del survival horror, declinato successivamente in altri innumerevoli titoli, questo articolo si focalizzerà solo sulla saga ideata da Mikami, lasciando necessariamente in secondo piano le evoluzioni tecnologiche e industriali che hanno segnato il periodo ultraventennale di riferimento nel mondo videoludico2.
L’analisi lungo le tre ere verrà svolta con un approccio principalmente formalista che però, richiamando in causa Nitsche, non metterà in disparte la riflessione sulla componente esperienziale che ne deriva, vista la già citata importanza della paura. Ciò nonostante, uno studio fisiologico sulle innumerevoli ricezioni e manifestazioni potenziali della paura da parte di ogni utente porterebbe l’articolo una potenziale infinitezza. Lungi dal voler compiere qualsiasi infruttuosa generalizzazione, questo contributo cercherà un punto più equilibrato possibile tra gli approcci prima esposti di Nitsche: ogni riferimento alla componente esperienziale terrà conto di un ipotetico utente che, giocando in condizioni spazio-temporali ideali, può trarre la massima emotività potenziale sulla base della struttura spazio-temporale di ogni capitolo principale della saga.
2 L’era della segmentazione
Resident Evil inizia chiedendo all’utente di scegliere un protagonista tra Chris o Jill, due membri delle forze speciali S.T.A.R.S., per poi mostrare un filmato introduttivo in cui questi personaggi e altri loro compagni vengono attaccati da una creatura in una foresta. Il gruppo trova rifugio all’interno di villa Spencer, ma la struttura si rivela tutt’altro che sicura.
Tramite un level design che guida l’agency e le affordances dell’utente verso l’interazione con due porte apribili nelle vicinanze dell’atrio, il/la protagonista giunge in uno stretto corridoio, dove si imbatte contro il primo zombie. A prescindere dalla scelta di attaccare o meno la creatura, l’utente deve poi uscire dalla stanza e assistere a una breve cut-scene in cui sente il rumore di apertura della porta da parte dello zombie, pronto ad attaccare nuovamente il/la protagonista.
Come poi il giocatore avrà modo di sperimentare, la capacità dei morti viventi di aprire le porte resterà circoscritta a quel momento iniziale e ad una sola altra circostanza futura in cui assisterà, sempre mediante una cut-scene, a una soggettiva di uno zombie che interagirà con una maniglia. In Resident Evil l’attraversamento tra una stanza e l’altra avviene premendo il tasto “azione” in prossimità delle porte, che attiva la relativa affordance per poi evidenziare le iconiche animazioni in cui le porte si aprono lentamente su sfondi neri, costituendo una netta segmentazione dello spazio rappresentato in ambienti comunicanti “solo” per l’agency dell’utente e per le possibilità motorie del/della protagonista. Un’eccezione ulteriore si rivelerà l’hunter, creatura simile a una rana gigante che viene presentata, ancora una volta tramite una cut-scene, come un mostruoso essere capace di ruotare le maniglie. Questa capacità si rivelerà comunque confinata alla prima fase in cui il/la protagonista si imbatterà in un hunter.
Ciò nonostante, Resident Evil evoca l’ancestrale sensazione della paura a partire dalla strutturazione dello spazio rappresentato. L’esplorazione ambientale di villa Spencer è legata all’attraversamento di piccole stanze e corridoi stretti, che spesso impediscono all’utente di usare tattiche evasive per raggiungere la porta successiva. Entrare in una stanza, per quanto utile a lasciarsi nemici alle spalle a causa della netta segmentazione spaziale, non è garanzia di trovarsi in un nuovo luogo sicuro. Nella maggior parte delle stanze di villa Spencer, così come nei vicini luoghi esterni, ci sono pericolose creature che spesso l’utente può inizialmente udire ma non vedere. Come scrive Alinovi, “la nostra percezione è ingannata dai tagli dell’inquadratura della telecamera che ci impedisce di vedere cosa si cela dietro l’angolo di un muro o, più semplicemente, davanti a noi. L’ambiguità della percezione e del percepito è destabilizzante” (2004: 112). Resident Evil è infatti articolato lungo ambienti prerenderizzati che l’utente, controllando il/la protagonista in terza persona, può attraversare camminando/correndo: nel momento in cui si avvicina a un bordo di ogni inquadratura, subentra una nuova inquadratura che riprende da una prospettiva differente lo spazio rappresentato. In tal modo, sono molteplici le circostanze in cui l’utente, a differenza del/della protagonista, si trova nella condizione di non poter vedere completamente una stanza in cui si trova, al cui interno può comunque sentire i versi delle creature non ancora inquadrate.
Analizzando l’intera mappatura esplorabile di Resident Evil, si può notare che non esiste nessuna stanza di villa Spencer e nessun luogo esterno che viene interamente ripreso da una singola inquadratura totale. La strutturazione rigida dello spazio rappresentato costruisce anche il potenziale percorso del/della protagonista controllato/a dall’utente, stimolando una progressione più cauta possibile. Come del resto argomenta Jorgensen, ogni ambiente virtuale viene costruito in vista della potenziale agency del personaggio controllato, così come dei movimenti dei suoi avversari (2019). Tale strutturazione nella saga qui in esame assume importanza rilevante per i suoi effetti potenziali sulla paura, sensazione che, secondo l’ideatore di Resident Evil, è alla base dell’horror a causa della presenza di creature ignote all’interno di ambienti in cui la percezione visiva viene messa a dura prova (Mikami 2020: 31.50-34.50).
La rigida organizzazione spaziale segmentata si unisce alla necessarietà di percorrere più volte le stanze della villa, che assume i contorni di un grande labirinto (Hand 2008; Perron 2017) esplorabile secondo un real-world time non sempre flessibile. La temporalità in Resident Evil, infatti, da un lato sottoscrive l’autonomia del gameworld time incutendo tensione, mentre dall’altro lato è il real world-time a dettare le tempistiche con cui vengono generate situazioni che incutono spaventi.
Ogni esempio relativo all’autonomia del gameworld time può essere rintracciato ogni volta che, dopo aver ripulito una stanza da alcune creature ed essersi allontanati, non è garantito ritrovare la medesima stanza priva di altri nemici a un successivo passaggio. Nonostante la segmentazione spaziale che impedisce alle creature di seguire dinamicamente il/la protagonista, l’allontanamento da un determinato luogo può portare i nemici a riempirlo in vista di un suo passaggio successivo nel gameworld time, rendendo la progressione sempre tesa. Queste possibilità sono narrativamente contestualizzate dalle circostanze prima descritte, in cui certe creature dimostrano di comprendere e attualizzare le affordances per interagire con le maniglie delle porte. In tali situazioni è possibile rintracciare la correlazione tra “causa ed effetto” teorizzata da Carson, autore menzionato anche dal già citato Jenkins nell’elaborazione del suo contributo sulla narrazione spaziale videoludica: Carson, che riflette sulle potenzialità narrative insite nei parchi a tema, sottolinea che il processo di causa ed effetto può essere avvertito quando una persona, tornando nel medesimo spazio dopo un certo intervallo di tempo, nota dei cambiamenti legati indirettamente al suo precedente passaggio (2000). Questa sensazione trova nel medium videoludico un’importante contestualizzazione, visto che l’utente deve avvertire, sia nello spazio ma anche nel tempo, le conseguenze delle proprie azioni, scelte e decisioni, ossia gli effetti della sua agency. Nel caso specifico di Resident Evil, la ricomparsa di creature in spazi precedentemente messi al sicuro evidenzia la metaforica vitalità interna del gameworld time, capace di manifestare la sua autonomia temporale a prescindere dall’utente. Il tempo interno alla diegesi videoludica diviene in tal caso un potenziale elemento capace di sottolineare l’impossibilità di sentirsi emotivamente al sicuro a villa Spencer.
Un esempio relativo all’importanza del real-world time riguarda invece ogni evento scriptato che si attiva quando ogni giocatore attraversa, con tempistiche differenti, una determinata porzione spaziale o interagisce con certi elementi. In Resident Evil è ormai celebre l’improvvisa rottura delle finestre da parte di due cani mutanti lungo un corridoio, che avviene solo quando l’utente si muove oltrepassando soglie spaziali predeterminate. Un ulteriore esempio è l’improvvisa fuoriuscita di uno zombie da un armadio in una camera da letto: pur essendo dentro al guardaroba fin da quando l’utente entra nella stanza, lo zombie rimane al suo interno anche se il giocatore si avvicina per investigare, ma se poi interagisce con una scrivania dando le spalle all’armadio, la creatura esce all’improvviso. Per quanto le finestre e l’armadio siano elementi dotati di affordances attualizzabili con immediati automatismi nella realtà quotidiana, Resident Evil sceglie oculatamente di limitare la potenziale agency dell’utente per quanto concerne l’interazione ambientale, predisponendo così potenziali situazioni per provocare paura.
I sussulti vengono quindi relegati a specifiche porzioni spazio-temporali in cui i nemici, adeguandosi al real-world time, interagiscono con elementi ambientali con cui l’utente invece non può attualizzare alcuna affordance. Viceversa, la tensione viene fomentata durante l’intera progressione per l’importante enfasi sulla limitazione delle porzioni spaziali visualizzate dalle inquadrature fisse, utili anche a contestualizzare il gameworld time in cui le creature si muovono negli ambienti. La globalizzante paura che deriva da questa commistione è altresì fomentata dalla scarsità di risorse con cui incrementare le possibilità di sopravvivenza, e da tetre colonne sonore che si attivano sulla base dei luoghi che l’utente sta esplorando a prescindere dalla velocità motoria con cui si muove.
La rigida segmentazione con cui vengono suddivisi gli spazi di Resident Evil non impedisce dunque di provare paura, considerato che elementi di connettività ambientale, come le porte, nel gameworld time sembrano utilizzabili sia dal giocatore sia dalle creature, capaci altresì di sorprendere comparendo all’improvviso. Questi aspetti verranno ripresi e approfonditi nel sequel.
Resident Evil 2 si articola lungo due vicende parallele (ufficialmente nominate Scenario A e Scenario B) predisposte per essere giocate una dopo l’altra, alternando prima il controllo del poliziotto Leon e poi della studentessa Claire (o viceversa), che lottano per la sopravvivenza nell’immaginaria Raccoon City. Resident Evil 2 basa il suo level design sugli stessi stilemi del predecessore: fondali prerenderizzati e inquadrature limitanti che offrono punti di vista differenti solo quando il/la protagonista oltrepassa una determinata soglia, e in tal caso quasi tutti gli spazi vengono suddivisi da due o più inquadrature3. Tuttavia, sono evidenziabili delle integrazioni rispetto al predecessore.
Questo sequel inizia in medias res in entrambi gli Scenari, con Leon/Claire braccato/a da vari zombie: Resident Evil 2 non conduce gradualmente l’utente alla scoperta delle creature, ma lo obbliga subito a cercare uno spazio sicuro sottoscrivendo una temporalità dura (Meneghelli 2014: 55-61), caratterizzata da uno stringente gameworld time a cui il real-world time deve adattarsi. Il primo luogo di apparente calma che i due protagonisti trovano in entrambi gli Scenari, e altresì quello in cui il gameworld time diviene meno rigido per il giocatore, è una grande stazione di polizia. Nella hall principale l’utente viene accolto da una colonna sonora che inserisce suoni gravi all’interno di una melodia rilassante, sottolineando una dimensione perturbante destinata ad aumentare nella progressione nell’immenso ambiente, che alterna stanze ordinate ad altre colme di detriti e cadaveri. Nella stazione aleggia un clima surreale, enfatizzato dalla constatazione di trovarsi soli in un luogo tanto grande quanto denso di pericolose creature. Come del resto sostiene Perron, a prescindere che gli ambienti siano angusti o aperti, nei survival horror spesso il protagonista si trova isolato in luoghi precedentemente pubblici, provocando destabilizzazione nell’utente (2018: 318-27). Quando il giocatore realizza che anche l’altro/a protagonista è nella stazione di polizia, e di conseguenza non può considerarsi solo, subentrano altre creature temibilissime. A partire dalla seconda metà nello Scenario A si presenta varie volte Birkin, un mostro generato dalla mutazione di uno scienziato che si è iniettato il micidiale Virus-G, mentre lo Scenario B è caratterizzato dalla costante presenza di Mr. X, un pericolosissimo Tyrant4. Birkin e Mr. X diventano due elementi che fomentano sensazioni tese e spaventi, concorrendo all’enfatizzazione di una globalizzante paura lungo i due Scenari.
Birkin viene incontrato in spazi di medio-piccola dimensione in cui la temporalità diviene sempre più rigida, a causa di un gameworld time che guida il real-world time creando potenziale tensione. Un esempio è rintracciabile quando Leon/Claire si reca in una grossa cabina su una piattaforma mobile per spostarsi in dei laboratori sotterranei: durante una cut-scene è udibile il verso del mostro nelle estreme vicinanze, che segna l’inizio di una tesissima melodia extra-diegetica, con il/la protagonista che va fuori a controllare. Uscito/a dalla cabina, la porta alle sue spalle si chiude automaticamente. Se l’utente rimane fermo in attesa della sperata riapertura, la piattaforma è destinata a scorrere all’infinito: per procedere nel gameworld time, è necessario muoversi per poi giungere in una porzione di spazio in cui compare il mostro da affrontare. La tensione, derivante dall’intervallo temporale che sussiste tra la constatazione della pericolosità e la sua effettiva concretizzazione, si lega alla rigidità del gameworld time, che chiede al giocatore di procedere nel real-world time nonostante l’aleggiante suspense.
La caccia di Mr. X è invece costante durante tutto lo Scenario B: nonostante la teorica possibilità di sfuggirgli sfruttando l’affordance di interazione con la porta più vicina ad ogni incontro, l’evasione è una tattica complessa dal momento che il Tyrant compare negli spazi più angusti, stimolando un’agency più votata allo scontro invece che alla fuga. In linea con il titolo predecessore, nonostante Resident Evil 2 si basi su spazi segmentati dalle porte che possono essere attraversate dall’utente interagendo con esse, non è raro ritrovare delle creature in zone ripulite in precedenza, a dimostrazione che la segmentazione ambientale, per quanto percepibile nella fruizione, non sembra esistere nel gameworld time. Ancora una volta, il soggiacente processo di causa ed effetto, che si lega solo parzialmente all’agency dell’utente, manifesta la vitalità interna dello spazio-tempo in cui si muovono Leon e Claire, stimolando una progressione cauta.
Gli incontri con Mr. X solidificano questa ipotesi, evidenziando altresì un cambio di paradigma per la saga: il Tyrant, infatti, non solo tende a incutere tensione per la sua costante presenza e apparente indistruttibilità, ma provoca anche spaventi perché compare all’improvviso interagendo con elementi ambientali non predisposti a segnare un passaggio umano da un luogo all’altro. La sua prima apparizione corrisponde al crollo di un soffitto, in un’altra circostanza si arrampica sul parapetto al piano più alto della stazione di polizia, in un altro paio di casi sfonda improvvisamente dei muri. Le sue apparizioni, per quanto ancorate a precisi momenti nel gameworld time, si basano sulla pregressa cognizione della sua perenne presenza lungo l’intero Scenario B, provocando una tensione dettata proprio dalla sua sovrumana interazione con porzioni spaziali che non presentano affordances attualizzabili dall’utente con la sua agency. Il giocatore sa fin dall’inizio che Mr. X si aggira nei dintorni, sa che può interagire potenzialmente con qualsiasi elemento per comparire all’improvviso, ma non sa quando comparirà. Tutto ciò aumenta altresì la sensazione che gli spazi rappresentati in Resident Evil 2 non siano così rigidamente segmentati.
Questa ipotesi diviene sempre più concreta in Resident Evil 3: Nemesis, dove il giocatore torna al controllo di Jill. Il terzo capitolo della saga si ambienta ancora a Raccoon City e si articola sulle stesse convenzioni per il level design dei predecessori, con inquadrature fisse e limitanti che non riprendono quasi mai in totale gli ambienti, a prescindere che siano aperti o chiusi5. Il terzo capitolo si svolge maggiormente in luoghi all’aperto rispetto ai predecessori: ciò nonostante, come nota Alinovi, gli esterni sono spesso colmi di cadaveri e veicoli distrutti che limitano la libertà di movimento, creando una sensazione claustrofobica (2004: 42). Nonostante la potenziale agency nel terzo capitolo includa un maggior numero di manovre evasive per Jill, che può voltarsi rapidamente di centottanta gradi e schivare attacchi nemici, le inquadrature limitanti e gli ostacoli ambientali non rendono semplice la progressione, considerato inoltre che per larga parte dell’avventura la protagonista deve difendersi anche da Nemesis, un potentissimo Tyrant.
Questo nemico principale è altresì utile per riflettere su un altro cambio di paradigma nell’organizzazione dello spazio rappresentato. Nemesis, in un paio di circostanze vicine all’epilogo, compare improvvisamente in zone medio-piccole obbligando l’utente allo scontro diretto. In vari altri momenti precedenti, invece, la sua imminente presenza viene preannunciata da una tetra colonna sonora: il giocatore prende presto coscienza che Nemesis, essendo programmato per uccidere i membri della S.T.A.R.S., può raggiungere la protagonista in qualsiasi momento, a prescindere da ogni potenziale real-world time. Queste situazioni, nonostante non obblighino l’utente a scontrarsi con il mostro, lo conducono a doversi prima o poi difendere dal momento che Nemesis è capace di attualizzare le affordances delle porte interagendo con le maniglie, precisamente quando il giocatore corre quel tanto che basta per relegare ogni porta attraversata oltre i margini delle inquadrature. A differenza dei capitoli precedenti, in cui l’interazione delle creature con le porte era relegata a delle cut-scenes o all’allontanamento del giocatore che sottoscriveva il principio di causa ed effetto, Nemesis è la prima creatura della saga che insegue dinamicamente l’utente aprendo le porte a distanza di pochi secondi in una temporalità stringente e di pochi passi nello spazio rappresentato.
Dei fattori rilevanti per liberarsi ogni volta di Nemesis risiedono proprio negli ambienti, che contengono spesso barili infiammabili o altri oggetti caratterizzati da potenziali affordances per l’agency potenziale della protagonista, la quale può colpirli per rallentare il Tyrant. L’interazione ambientale diviene altresì l’unico modo per fermare definitivamente Nemesis negli ultimi due scontri obbligatori, in relazione allo stringente rapporto con una temporalità dura, scandita da cronometrati conti alla rovescia che conducono alla congiunzione il real-world time e il gameworld time. Nel penultimo scontro è necessario sparare a delle tubature di acido corrosivo per sciogliere il corpo del mostro, calcolando con esattezza i secondi che intercorrono tra i colpi ai tubi e la fuoriuscita del liquido; nello scontro finale è invece necessario farsi seguire da Nemesis per poi farlo colpire due volte da un cannone laser, attendendo qualche secondo tra uno sparo e l’altro.
Di conseguenza, l’era della segmentazione si fonda sulla suddivisione di un globale spazio rappresentato in inquadrature statiche lungo molteplici ambienti, legati tramite porte con affordances attualizzabili all’apparenza solo dall’utente secondo il suo personale real-world time, ma poi sempre più emblematicamente attualizzabili anche dalle creature contro cui è necessario difendersi in un rigido gameworld time. Questa progressiva congiunzione spaziale, che in questa era incentiva nell’utente sia situazioni tese che spaventi improvvisi, diventerà una prassi nel prosieguo della saga, seppur con potenziali cambiamenti emotivi.
3 L’era della connessione
Resident Evil 4 segna una rivoluzione rispetto al passato, dettata dalla differente prospettiva sul mondo di gioco: le inquadrature statiche vengono sostituite da una telecamera dinamica posizionata dietro al protagonista Leon, chiamato a salvare la figlia del Presidente degli USA, rapita in precedenza da una misteriosa setta e portata nei pressi di un castello circondato da un villaggio. Giunto sul posto, Leon capisce che gli abitanti del villaggio sono dei mutanti indottrinati, ed è così costretto a difendersi. Sebbene sia ancora etimologicamente corretto parlare di ambiente in Resident Evil 4, sono comunque necessarie delle precisazioni. Lo spazio rappresentato in cui l’utente può muoversi si articola lungo ambienti tridimensionali che offrono un largo numero di affordances attualizzabili dalla potenziale agency del protagonista che, a differenza dell’era della segmentazione, può eseguire varie mosse per allontanare le creature, così come interagire con vari elementi ambientali, attraversando rapidamente finestre, spostando mobili vicino alle porte per bloccare i nemici, montando su scale ripide per poi calciarle giù, e altre azioni ancora. Come illustra Perron, il considerevole aumento di dinamiche potenziali per un protagonista tende a provocare una maggiore quantità, velocità e varietà offensiva anche negli avversari (2019).
Questa considerazione trova riscontro fin dalla prima battaglia con gli abitanti mutanti nel villaggio, alcuni dei quali armati con falci, forche e motoseghe. L’utente può muoversi tra spazi aperti e chiusi senza alcun effetto marcato di transizione, con gli avversari che si rivelano capaci di seguirlo interagendo con porte, finestre, scale e qualsiasi altro elemento di connessione tra ambienti limitrofi, fino a quando il gameworld time manifesterà la sua concretezza con il rintocco delle campane che fermerà gli indottrinati residenti.
La dinamicità dello scontro provoca un considerevole innalzamento della varietà di quelle che Perron chiama virtual actions, ossia azioni realizzate con naturalezza dal personaggio sotto controllo mediante la pressione di semplici tasti da parte dell’utente (2018: 96-105).
Ciò nonostante, è possibile evidenziare alcuni echi strutturali del passato: il passaggio dalle inquadrature statiche alla telecamera dinamica permette di mirare a varie parti del corpo, ma prendere la mira significa interrompere il movimento corporeo di Leon e vedere una porzione più ristretta dello spazio rappresentato, dal momento che la telecamera si avvicina alle spalle del protagonista. Nello scontro con i residenti, fermarsi per fare fuoco e osservare porzioni di spazio minori significa non vedere eventuali attacchi provenienti alle spalle o ai lati di Leon, considerato che i nemici possono attraversare gli ambienti in tempo reale proprio come il protagonista. Resident Evil 4 enfatizza in varie altre circostanze la dicotomia tra le virtual actions e l’esigenza di rinunciarci, soprattutto nelle fasi in cui il gameworld time, a differenza della situazione iniziale nel villaggio, scorre soltanto quando il giocatore uccide i suoi avversari.
Ciò è evidente negli scontri obbligatori contro i vari capi della setta, che avvengono spesso in spazi strutturalmente stretti e ancor più limitati dal campo visivo ogni volta che è necessario fare fuoco. Sono poi molte le circostanze in cui alcuni nemici sparano da porzioni ambientali non fisicamente raggiungibili, mentre lo spazio rappresentato in cui si muove l’utente è invaso da altri avversari. Resident Evil 4 enfatizza spesso la dicotomia tra quelli che Domsch definisce gli spazi materiali e gli spazi navigabili (2013): sebbene entrambi possano essere racchiusi nella macrocategoria dello spazio rappresentato, gli spazi materiali includono tutte le porzioni ambientali visibili, mentre gli spazi navigabili includono le porzioni ambientali percorribili tramite le possibilità motorie del personaggio e le potenziali affordances attualizzabili. Spesso, l’alternanza tra le virtual actions sullo spazio navigabile e l’esigenza di fermarsi per sparare agli avversari sullo spazio materiale distante è praticamente inevitabile nel real-world time, per poi permettere al gameworld time di procedere.
La progressione in Resident Evil 4, seppur articolata lungo ambienti che manifestano in tempo reale una concreta connettività spaziale, non si esenta da una necessaria segmentazione che, da certi punti in poi, non permette più al giocatore di tornare in determinati luoghi esplorati in precedenza e ai nemici di raggiungerlo. Tale segmentazione è spesso evidenziata da dissolvenze grafiche, visibili quando l’utente interagisce con porte generalmente più grandi di quelle tradizionali.
Tutto ciò resta in linea con lo stato mentale ed emotivo con cui, secondo Mikami, ogni giocatore viene indotto ad approcciarsi all’horror videoludico, ossia alternando stati di apparente sicurezza ad altri di potenziale vulnerabilità (2020: 30.28-30.48). In Resident Evil 4 i contenuti orrorifici rimangono comunque in una cornice che include una maggiore enfasi sulla rinnovata agency del protagonista. La potenziale apprensione derivante dal minor campo visivo nelle tante fasi in cui è necessario mirare, viene controbilanciata dall’assenza di situazioni in cui il gameworld time costringe il real-world time ad andare incontro a minacce preannunciate. Inoltre, come già anticipato, l’aumento di virtual actions provoca un costante dinamismo negli scontri, sottolineato da altri elementi diegetici ed extra-diegetici, come le tante risorse con cui potenziare l’arsenale e le colonne sonore dai ritmi incalzanti. La struttura spazio-temporale di Resident Evil 4, così come l’alternanza tra le virtual actions e la limitazione del campo visivo durante la mira, si predispongono non tanto alla tensione, bensì a potenziali spaventi legati alla dinamicità degli scontri durante il real-world time.
Resident Evil 5 si inserisce in questo contesto predisponendosi a tattiche cooperative, visto che i protagonisti Chris e la soldatessa Sheva si muovono insieme in Africa, dove il virus parassitario si diffonde facendo mutare la popolazione. Il quinto capitolo della saga si basa sulle caratteristiche strutturali del predecessore: c’è ancora la necessità di fermarsi fisicamente nello spazio navigabile per poter mirare nelle vicinanze o in lontananza nello spazio materiale, e di spostarsi tra ambienti connessi tramite porte/finestre con affordances attualizzabili anche dai vari nemici all’interno, comunque, di fasi segmentate tra una macro-zona all’altra. L’enfasi non è tanto sulla tensione, bensì sulla potenziale varietà d’azione, sancita da un considerevole aumento della portata dell’agency, che include possibilità offensive anche in inseguimenti a bordo di veicoli. La presenza di due protagonisti provoca altresì un sensibile aumento di risorse curative e materiali per l’arsenale negli spazi navigabili, predisponendo la progressione a un ritmo frenetico, in cui divengono più rari i potenziali spaventi dovuti alla restrizione del campo visivo durante la mira. Tutto ciò è enfatizzato anche dallo spazio rappresentante, che per la prima volta nella saga relega la comparsa dell’inventario in tempo reale per non interrompere il dinamismo dell’azione.
Queste direttive verranno mutuate in Resident Evil 6, che si articola lungo tre vicende interconnesse di altrettanti gruppi formati da due protagonisti ciascuno. Il sesto capitolo si basa sugli stilemi strutturali dei due titoli precedenti con l’aggiunta di ulteriori virtual actions per incentivare l’utente a variegare la sua agency con tante tattiche combattive. Questo capitolo, soprattutto, rende ogni protagonista capace di muoversi durante la mira. Tale possibilità, se da un lato permette un maggiore controllo su ciò che accade dinamicamente nello spazio rappresentato, dall’altro lato rende ancor meno probabile incorrere in potenziali spaventi o situazioni tese. Nonostante la sensibile riduzione della paura, i titoli di questo paragrafo segnano comunque un’era rilevante per la saga.
L’era della connessione si basa sulla correlazione spazio-temporale tra ambienti interni ed esterni limitrofi, attraversabili con naturalezza nel flessibile real-world time sia dai protagonisti controllati che si muovono con maggiori virtual actions, sia dai numerosi nemici che possono attualizzare dinamicamente molte affordances su elementi ambientali. Ciò nonostante, permane ancora una necessaria segmentazione che rende inaccessibili determinate zone visitate in precedenza. L’incentivato dinamismo dei titoli in questa era provoca un sensibile abbassamento della paura, relegata solo a potenziali spaventi dettati dalla limitazione del campo visivo. Come ci sarà modo di argomentare, la limitazione percettiva diventerà l’elemento principale su cui Capcom si baserà per condurre nuovamente gli utenti a provare potenzialmente paura.
4 L’era della restrizione
Come argomenta il Senior Manager di Capcom, Resident Evil 7 Biohazard vuole segnare una nuova rivoluzione nella saga, con l’obiettivo di rivitalizzare il survival horror seguendo il suo obiettivo primario: provocare paura (Fabiano 2017). Il settimo capitolo prevede il controllo di un nuovo protagonista, Ethan, che si addentra in una immensa casa per seguire una traccia lasciata dalla moglie Mia, scomparsa misteriosamente in precedenza. Ethan diventa presto prigioniero dei membri dell’orribile famiglia Baker, vittime di una tossina che trasforma il loro sangue in melma rigenerante, rendendoli privi di coscienza.
Resident Evil 7 Biohazard si basa su una visuale in soggettiva: l’utente non può osservare Ethan, ma vede ciò che osservano i suoi occhi, con la possibilità di muovere il corpo nello spazio navigabile e lo sguardo fino allo spazio materiale. Fabiano espone che la visuale in soggettiva vuole favorire l’immersione del giocatore, calandolo in ambienti fotorealistici (2017: 3.59-4.07).
Una simile affermazione richiamerebbe un immenso nucleo teorico nei game studies. L’utilizzo della visuale in prima persona è infatti potenzialmente in grado di aumentare l’immersione nel mondo virtuale, ma non corrisponde necessariamente alla sensazione di essere presenti in tale mondo (McMahan 2003). Come poi puntualizza Therrien, il concetto di immersione è etimologicamente complesso, e nel medium videoludico può coinvolgere i sensi, le emozioni e/o la percezione di veridicità di un mondo virtuale (2014).
In questa sede, è necessario constatare quanto meno l’apporto del nuovo motore grafico che Capcom implementa per Resident Evil 7 Biohazard, ossia il RE Engine. Come illustrano alcuni sound designer, questo motore è capace di sincronizzare molteplici suoni ambientali per sottoscrivere la decadenza delle strutture, intimorendo l’utente anche in assenza di colonne sonore (Morimoto et al. 2017). Queste caratteristiche, unite alla flebile illuminazione che pervade molti ambienti, contribuiscono a un potenziale aumento di tensione fin dall’inizio, quando Ethan si muove disarmato. Per esempio: nel momento in cui una versione mutata di Mia si avvicina minacciosa, il protagonista si trova in cima a una stretta scala buia e sente i versi gutturali della moglie senza poterla vedere, fino a quando gli salta addosso all’improvviso. Questa situazione, emblematica per provocare un’alternanza tra tensione e spavento, avviene interamente durante una cut-scene, dove di conseguenza il gameworld time ha totale autonomia.
Ci sono poi altre fasi in cui la tensione e gli spaventi si legano al real-world time di ogni singolo utente, a partire dalla limitazione percettiva dovuta alla visuale soggettiva. L’autonomia motoria e visiva è infatti controbilanciata dal controllo di un personaggio che ha delle virtual actions limitate: Ethan, del resto, è un adulto comune e la sua agency prevede una gamma di azioni e attualizzazioni di affordances ambientali alla pari di una persona senza particolari addestramenti. Poco dopo il prologo, il protagonista si ritrova a fuggire spesso da Jack Baker, il capofamiglia in grado di inseguire costantemente Ethan attraversando porte e sfondando muri, ossia interagendo con vari elementi ambientali come Mr. X e Nemesis nell’era della segmentazione, con la rilevante differenza che in tal caso ogni interazione avviene dinamicamente in tempo reale, proprio come i nemici comuni nell’era della connessione. Quest’ultima mostra i suoi echi in particolare nella limitazione del campo visivo che sussiste non solo quando Ethan prende la mira, ma anche quando diventa necessario mettersi in guardia ponendo entrambe le mani di fronte al viso. Questa nuova virtual action provoca una restrizione rilevante della visuale: l’utente sa (a partire da un esplicito avviso a schermo nelle fasi iniziali) che mettersi in guardia è l’unico modo per subire meno danni (Ethan non possiede alcuna virtual action per schivare), ma non può effettivamente quantificarli in partenza, ma solo quando il nemico sferra l’attacco colpendo fisicamente il protagonista. È a questo punto, in base alla quantità di sangue che ricopre gli occhi di Ethan (e lo schermo dell’utente), che diviene effettivamente possibile capire la gravità della ferita.6 La restrizione della visuale dettata dalle mani di fronte agli occhi durante uno scontro enfatizza la tensione, aumentata altresì dalla constatazione che la gravità delle ferite è percepibile solo dalla quantità di sangue sullo schermo che oscura ancor più la visuale, enfatizzando la restrizione visiva già soggiacente alla visuale soggettiva. Infatti, come affermano vari ricercatori, tra cui Krzywinska (2002: 13), Mäyrä (2008: 107) e Perron (2018: 275), in un qualsiasi mondo virtuale la porzione spaziale inquadrata dinamicamente in prima persona non emula completamente le potenziali capacità del campo visivo umano, enfatizzando di fatto una restrizione percettiva.
Tutto ciò in Resident Evil 7 Biohazard avviene all’interno di un contesto temporale in cui il giocatore si trova spesso nel ruolo di preda in spazi navigabili angusti e bui. I Baker, molto più forti e resistenti di Ethan, incutono tensioni e spaventi poiché inseguono costantemente e sorprendono l’utente apparendo all’improvviso, come avviene in particolare nel caso di Jack o nel caso dell’anziana nonna, che nonostante viva in apparente stato vegetativo sulla sedia a rotelle, si teletrasporta sulla base del real-world time sancito da ogni giocatore. I membri della famiglia possono seguire dinamicamente l’utente all’interno e nei pressi dell’abitazione, che assume presto le sembianze di un macro-spazio rappresentato interconnesso sia per l’utente che per i suoi nemici. Ciò nonostante, è lecito sottoscrivere che anche in una strutturazione simile c’è un momento di segmentazione rilevante scandito dal gameworld time, nello specifico durante una cut-scene, quando Ethan si allontana dalla casa in motoscafo ritrovandosi poi in una tetra nave abbandonata, nuovo macro-spazio interconnesso in cui si svolgerà la parte restante della vicenda.
Di conseguenza, Resident Evil 7 Biohazard fomenta una potenziale paura con la costante restrizione della percezione visiva di Ethan, delle sue limitate e talvolta ostruenti virtual actions, e da spazi navigabili interconnessi in cui l’illuminazione diviene una risorsa ambientale rara.7
Questi principi vengono ripresi in Resident Evil Village, che pone nuovamente l’utente al controllo di Ethan, ancora alle prese con una vicenda personale dopo il rapimento della figlia neonata, condotta per motivi ignoti in un castello. Ethan si risveglia in piena notte dopo un’aggressione trovandosi da solo in un villaggio nei pressi del castello, per poi essere imprigionato da cinque strani esseri dotati di poteri sovrumani.
Come spiega Kanda, l’intero processo creativo è iniziato dal design del villaggio in cui è contenuto il castello (2021: 35.30-36.00). Fabiano sottoscrive il rinnovato apporto del RE Engine, con l’obiettivo di donare agli spazi rappresentati tanto rigore architettonico quanto lugubre clima (2020: 1.35-1.55). L’evento narrativo scatenante di Resident Evil Village, ossia la misteriosa irruzione nella casa del protagonista da parte di Chris, che (apparentemente) uccide Mia e rapisce la figlia del protagonista, provoca altresì una segmentazione spaziale che di lì in poi prevede il libero movimento di Ethan in un unico macro-spazio rappresentato dall’interconnessa morfologia ambientale. Resident Evil Village assume i tratti di un open-world con una progressione che, salvo rari casi in cui il gameworld time diventa stringente (come negli scontri con i capi del castello), si apre flessibilmente al real-world time. L’organigramma narrativo prevede comunque un preciso ordine cronologico esperibile dall’utente con un variabile real-world time, che permette di tornare negli ambienti esplorati dopo il prologo anche nei pressi dell’epilogo. La libertà esplorativa non incide comunque su un gameworld time predisposto a condurre il giocatore di fronte a fasi frenetiche e tese.
Sia durante i momenti più concitati che nelle situazioni più tese, la restrizione della visuale in soggettiva assume molta rilevanza. Poco prima di entrare nel castello, per esempio, Ethan deve difendersi da un’orda di lupi mannari muovendosi tra connessi spazi navigabili interni ed esterni, provando a rallentarli con armi da fuoco ed elementi ambientali, fino a quando il gameworld time si esplicita con l’attivazione di una cut-scene che pone fine all’attacco. Durante questa fase, la visuale in soggettiva non consente di avere pieno controllo sullo spazio navigabile, e le affordances attualizzabili sugli elementi ambientali sono più limitate di quelle eseguibili dai lupi mannari. Mentre Ethan può solo attraversare e bloccare le porte con degli armadi, le creature possono sfondare finestre, porte, aggrapparsi a sporgenze e fare grandi salti, coprendo con maggiore velocità consistenti porzioni spaziali che l’utente, essendo alla prima battaglia contro di loro, non può prevedere. Come espone il direttore creativo, non conoscere da dove e in che modo si può essere attaccati costituisce un aspetto importante per mantenere tensione anche nei combattimenti più frenetici (Sato 2021: 5.17-5.45). Questa circostanza, oltre a richiamare l’era della connessione, incentiva potenziali spaventi a causa della restrizione percettiva della visuale, evidente quando Ethan, in linea con il titolo predecessore, deve prendere la mira per fare fuoco alternando tale azione con l’esigenza di mettersi le mani davanti agli occhi per tentare di resistere agli attacchi avversari.
Gli spaventi diventano sensazioni potenziali anche durante le fasi scandite dal gameworld time nelle cut-scenes, come accade quando Ethan si vede mozzare una mano dalla gigante Lady Dimitrescu, avvicinatasi silenziosamente alle sue spalle.
Il restringimento del campo visivo diviene inoltre un elemento utile alla creazione della tensione nonostante la flessibilità del real-world time, come accade quando Ethan deve attraversare una zona con l’erba alta in cui si muovono minacciosi dei lupi mannari, oppure quando deve esplorare spazi angusti nel castello sapendo che nei dintorni si aggira anche Lady Dimitrescu, la cui funzione predatrice ricalca quella di Jack Baker.
Gli scontri con i boss in Resident Evil Village, obbligatori per permettere al gameworld time di procedere, enfatizzano la commistione tra la fondante paura alla base dell’era della segmentazione con la frenesia sull’azione dell’era della connessione, accomunate dai limiti della percezione soggettiva.
Un esempio emblematico che tende a provocare sussulti e tensione è lo scontro indiretto con Donna Beneviento. Appena il protagonista si avvicina alla sua abitazione, Donna usa i suoi poteri psichici provocandogli delle allucinazioni. Ethan si trova costretto a superare le sue più feconde paure in spazi immaginari percepiti come veritieri: improvvisamente disarmato in una casa con corridoi stretti e bui, l’utente deve fuggire da un mostruoso feto gigante che lo insegue, per poi attaccare una bambola vivente che si nasconde tra tante altre sue simili mentre ridono con intensità sonora crescente.
Un altro esempio che invece enfatizza il dinamismo dell’azione riguarda il combattimento contro Heisenberg, che avviene quando Ethan si ritrova a bordo di un carro armato dopo che l’avversario, dotato di telecinesi, si trasforma in un gigantesco ibrido meccanico assimilando i metalli da una fabbrica. Questo scontro, in cui l’utente deve abituarsi a un’agency differente con nuove modalità di spostamento nello spazio navigabile (dove permangono comunque i limiti della restrizione soggettiva), predispone il titolo a un cambio di protagonista sugli istanti finali.
Poco prima dell’epilogo, infatti, il giocatore impersona Chris con un arsenale e un numero di virtual actions nettamente maggiori, con correlate e grandi quantità di creature da affrontare. Sebbene il percorso del nuovo protagonista nello spazio navigabile venga indirizzato in un’unica direzione, con avversari che si frappongono di fronte a lui, a un certo punto la visuale soggettiva enfatizza ancora la sua funzione restrittiva. Chris, per completare la sua missione, deve mantenere per vari secondi un’arma con un elevato grado di zoom sul lontano castello per permettere a un missile di distruggerlo: ciò provoca la parallela impossibilità di osservare sia i movimenti degli avversari nello spazio navigabile circostante, sia le frecce scoccate da altre creature a distanza nello spazio materiale, che continuano ad attaccare in un real-world time potenzialmente infinito fino a quando l’utente riesce a provocare l’abbattimento del castello, facendo procedere il gameworld time.
Di conseguenza, l’era della restrizione fomenta la paura basandosi principalmente sul controllo in soggettiva di un personaggio dotato di un’agency predisposta per enfatizzare i limiti delle sue capacità motorie e visive, oltre che da basilari attualizzazioni di affordances con gli elementi ambientali di connessione tra gli spazi navigabili. Quest’ultimi, nonostante la morfologia ambientale interconnessa, sono comunque segmentati a monte dall’organigramma narrativo che prevede, almeno una volta nel gameworld time, uno spostamento tra luoghi non limitrofi da parte del protagonista. Il potenziale aumento di virtual actions, come nella breve fase al controllo di Chris, viene comunque controbilanciato da imposte restrizioni percettive a cui l’utente deve far fronte per avanzare nel gameworld time.
5 Conclusioni
Nella saga di Resident Evil, l’iniziale era della segmentazione, oltre a stabilire emotivamente le prassi fondanti dei survival horror con il duplice obiettivo di spaventare e creare tensione, propone una strutturazione spaziale frammentata da inquadrature fisse e una rigida organizzazione temporale destinate a mutare nel corso degli anni, mantenendo comunque dei metaforici echi in ere sempre più collegate. Ne consegue che la successiva era della connessione, nonostante l’enfasi su maggiori virtual actions, su una strutturazione spaziale interconnessa e su un apparato temporale meno rigido, evidenzia sia delle macro-fasi che segnano nette segmentazioni spazio-temporali, sia delle circoscrizioni del campo visivo potenzialmente utili per creare spaventi. La seguente era della restrizione rievoca l’ancestrale sensazione della paura basandosi sulla circoscrizione percettiva della visuale soggettiva e sulla limitazione delle virtual actions in una struttura spazio-temporale ancora più interconnessa, ma pur sempre suddivisa in macroaree a causa di un rilevante spostamento ambientale sancito dalla narrazione.
Di conseguenza, ogni era manifesta implicitamente degli elementi destinati a rappresentare dei punti di svolta in ere successive, le quali mostrano a loro volta delle implicite rievocazioni strutturali delle ere precedenti.
Un punto accomunante da sottolineare in chiusura di questo saggio, e che riguarda sia i capitoli principali della saga qui analizzati, sia tutti i remake, gli spin-off e le edizioni rimasterizzate, risiede non a caso nella segmentazione spaziale stabilita dalle safe rooms. Queste stanze, in cui è possibile trovare un baule per organizzare le risorse e una macchina da scrivere su cui utilizzare l’inchiostro per salvare la sessione di gioco, rappresentano gli unici luoghi privi di pericoli. Nell’era della segmentazione, inoltre, due di queste stanze vengono riprese totalmente da una sola inquadratura, differenziandosi da tutti gli altri ambienti tetri. Le permanenze nelle safe rooms vengono accompagnate in ogni capitolo con armoniose e rilassanti melodie, che si contrappongono alle situazioni tese, spaventose e/o concitate che l’utente deve necessariamente affrontare. Tutto ciò si inserisce sulla bilancia emotiva caratterizzante il survival horror secondo il fondatore Mikami, come già affermato nel paragrafo 3. Poco importa che il giocatore sia inseguito da Nemesis nell’era della segmentazione, da violenti abitanti mutanti nell’era della connessione, dai membri della famiglia Baker o da Lady Dimitrescu nell’era della restrizione: nessuno di loro e nessun’altra creatura può entrare in una safe room, il cui ingresso può essere effettuabile (e salvifico) solo per il/la protagonista sotto controllo.
Ciò nonostante, i salvataggi delle sessioni di gioco nelle safe rooms sono legati al ritrovamento di rari nastri d’inchiostro in tutti quei luoghi popolati anche dalle creature, rendendo di conseguenza limitato l’utilizzo delle macchine da scrivere. Per ogni utente, raggiungere e sfruttare a pieno il potenziale salvifico delle safe rooms significa quindi accogliere le sfide per la sopravvivenza, affrontando le varie intensità della paura.
Bibliografia
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Ludografia
Resident Evil (Capcom 1996)
Resident Evil 2 (Capcom 1998)
Resident Evil 3: Nemesis (Capcom 1999)
Resident Evil 4 (Capcom 2005)
Resident Evil 5 (Capcom 2009)
Resident Evil 6 (Capcom 2012)
Resident Evil 7 Biohazard (Capcom 2017)
Resident Evil Village (Capcom 2021)
Volume consultato in versione Amazon Kindle: l’intervallo di pagine si riferisce alla visualizzazione tramite Desktop con la grandezza dei caratteri impostata a 1/5.↩︎
Per approfondimenti è possibile consultare alcuni manuali focalizzati sull’evoluzione del medium videoludico, come per esempio, tra i tanti: Pellitteri, Salvador (2014); Newman, Simons (2018); Genovesi (2020); Kent (2021). Riferimenti completi in Bibliografia.↩︎
L’unica piccolissima stanza che viene interamente visualizzata da una singola inquadratura è una delle varie safe rooms, su cui il saggio tornerà nelle conclusioni.↩︎
Nel mondo immaginario di Resident Evil, i Tyrant sono esseri bio-organici creati in laboratorio, caratterizzati da grande forza fisica e resistenza. Per approfondimenti, consultare: https://residentevil.fandom.com/wiki/Tyrant↩︎
L’unica eccezione anche in tal caso è rappresentata da una safe room.↩︎
Inoltre, alcuni nemici principali (specie se la difficoltà viene settata nelle impostazioni al massimo) possono causare la morte del protagonista con un solo attacco, anche nel caso in cui l’utente utilizzi la virtual action della parata. In tali casi, il giocatore deve quindi evitare qualsiasi contatto fisico.↩︎
È lecito annotare che la paura viene altresì enfatizzata da un perturbante reparto narrativo, che mette in dubbio costante la reale identità dei vari personaggi.↩︎