Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.20 (2021), 193–195
ISSN 2280-9481

Sicilia Queer 2021 International New Visions FilmFest, 11 edizione

Marco GrifòUniversità degli Studi di Palermo (Italy)

Pubblicato: 2021-12-20

L’undicesima edizione del Sicilia Queer Film Fest, tenutasi in tre tranche tra giugno e ottobre del 2021, sembra aver risposto alla sistematica richiesta di spettatori pronti a “guardare” il cinema in un modo nuovo. Un film, per il Sicilia Queer, non è solo la rappresentazione di una realtà; sembra piuttosto che – come si evince dalle domande di Joao Arrais nel finale di Serpentario, così come dal titolo del film di Alexandre Koberidze, What Do We See When We Look At The Sky? – il film sia piuttosto un’interrogazione della realtà, sia perché l’inquadratura stessa rimanda una struttura da mettere in dubbio (i limiti e il fuoricampo del found footage An Unusual Summer di Kamal Aljafari), sia perché il mondo dentro l’inquadratura si rivela come un insieme di domande, dubbi, inquietudini (gli affreschi generazionali dei film di Marie-Claude Treilhou). E il Festival ha assunto quindi la forma di un’incessante ricerca, un girovagare ramingo fra domande, riflettendo sui modi in cui è possibile porle.

Questa ricerca approda certamente nella nuovissima wave glittercore/neon-fluid dei registi francesi Bertrand Mandico (al Sicilia Queer con il fantascientifico After Blue), Alexis Langlois (con il delirio metatestuale di Les démons de Dorothy), Yann Gonzalez (il brevissimo flirt di gruppo di 3 minuti di Fou de bassan) e Cindy Coutant (la performance alla Meredith Monk di Nina et les robots). Il mondo psichedelico e organico di questi registi, fatto letteralmente di fluidi e di corpi in costante ricerca di estasi, interroga le potenzialità dei corpi stessi e la possibilità di una loro ri-figurazione, per trovare alla fine una maniera cinematografica che sintetizzi l’universo concreto della carne e l’universo astratto del desiderio, rifuggendo qualsiasi cliché.

Anche il genere del documentario, partendo da un metodo ordinario di indagine e di reportage, si è mostrato un raffinato strumento per sondare i limiti conoscitivi di una realtà, di un mondo privato e delle tragedie personali di una famiglia come di un popolo. North by Current di Angelo Madsen Minax (in concorso), si presenta come un esorcismo che vuole scompaginare le dinamiche interne della famiglia del regista, risalendo alle radici di un malessere condiviso che deriva dalla mancata accettazione dell’altro (dalla transessualità del regista fino alla relazione sentimentale tossica della sorella). Port of Memory e The Roof di Kamal Aljafari estendono la lente di ingrandimento fino ai luoghi che “circondano” il dramma interiore del suo regista, affiggendolo sulle rovine della sua città natale, Jaffa, a cui si ridà un volto nuovo e vero dopo le devastazioni cannibaliche dell’immaginario hollywoodiano che lì ha ambientato alcune delle sue opere più mainstream. Judy versus Capitalism di Mike Hoolboom, riscopre la storia di attivista di Judy Rebick tramite materiale di repertorio, spezzettato e rimontato come in un collage, per ricostruire quella che a sorpresa si rivela la storia di una psiche tormentata e complessa.

Ma il documentario di indagine (esistenziale) non basta, perché all’interno della selezione del Sicilia Queer i limiti fra documentario, fiction e performance si sono fatti più oscuri e misteriosi. Si c’était de l’amour di Patric Chiha (già regista vincitore del Festival nel 2018) penetra nel ritmo delle danze dei suoi protagonisti, rileggendone le relazioni attraverso i gesti, i movimenti, le luci e le coreografie. In Theo et le métamorphoses di Damien Odoul (in concorso) la vita privata di Theo, isolato dalla civiltà e educato dal padre a vivere secondo un bizzarro ordine di cose, è scombussolata dall’arrivo del sesso e della violenza, con innesti improvvisamente surreali che replicano in scala 1:1 nuove modalità di percepire i generi e gli eventi della natura. Gli sguardi voyeuristici di Gustavo Vinagre in Deus tem AIDS (in concorso) scavano nella percezione attuale dell’AIDS anche oltre i confini del mondo LGBT, indugiando sull’osceno e sullo scabroso per lasciare che la realtà si dischiuda in tutte le sue diverse manifestazioni (e di conseguenza in tutti i suoi misteri, come nelle enigmatiche performance degli artisti sieropositivi). Sono visioni altre da cui scaturisce l’enorme urgenza politica di chiarire come le diversità non si esauriscono mai, stimolando lo spettatore a porsi sempre a nuove domande.

Nell’etichetta “realismo magico”, invece, si potrebbero contrassegnare le ricerche di Ryusuke Hamaguchi (Wheel of Fortune and Fantasy, in concorso), di Lilith Kraxner e Milena Czernovsky (Beatrix, in concorso), di Alexandre Koberidze e di Tuixén Benet Cosculluela (Aloma i Mila, con Beatrix vincitore ex aequo della sezione Nuove Visioni). Hamaguchi orchestra tre storie in modalità rohmeriana, mettendo il comportamento umano e la divina casualità nella stessa stanza (nella stessa inquadratura). I suoi dialoghi sono il manifestarsi fisico di un mistero che circonda i personaggi e fa muovere le cose. Sembra che lo stesso mistero muova le protagoniste Aloma e Mila nel film vincitore del festival, quasi un coming-of-age danzante in un formato cinematografico imprecisato e ancor più misterioso (40 minuti di durata), un fitto dialogo fra il realismo terso della camera a mano e la gioia incontenibile del videoclip a basso budget. Beatrix, invece, nei suoi décadrages d’ambiente casalingo, si interroga sull’identità della protagonista, minando la fiducia nell’immagine cinematografica e restituendo una personalità che non è fatta di psiche e ragionamenti ma di piccoli gesti e innocue quotidianità, una donna libera come la Judy Rebick di Hoolboom ma assolutamente irraccontabile. What Do We See When We Look At The Sky? di Koberidze è una favola ma anche un affresco collettivo, pieno di oggetti e luoghi che come il pappagallo di Serpentario potrebbero prendere la parola e spiegare il senso della vita, inerpicandosi imprevedibile nelle piccole storie di una comunità: la voice over di Koberidze stesso tende a rimaneggiare lucidamente i pezzi della realtà, in maniera simile a Mariano Llinas nel seminale La Flor del 2018.

La realtà al Sicilia Queer si dispiega come una strada che percorre diverse direzioni: il labirinto di rovine di Serpentario, la pluralità di celle di Qu’un sang impur – Ausgeblutet di Pauline Curnier-Jardin, l’aggirarsi errabondo fra le immagini di Recollection di Kamal Aljafari (presentato durante il Festival nella forma di un’installazione). La costruzione della realtà avviene tramite l’incontro, come in Un petit cas de conscience di Marie-Claude Treilhou, dove alcuni registi “fedeli” al Sicilia Queer come Claire Simon, Alain Guiraudie e la stessa Treilhou, riuniti nel cast del film, provando a risolvere il mistero di un furto, rendono ancor più fluida la realtà delle cose. Forse è questo il messaggio intrinseco che accomuna i film della selezione di questa edizione del Festival: abbracciare e desiderare il mistero e l’incognito senza averne paura. Un’intenzione che si riverbera nella dichiarazione di Carlos Conçeiçao: “Credo che i film siano un mezzo potente quando vogliamo parlare di una determinata cosa del presente, del passato o del futuro. Possiamo affidarci ai racconti per esprimerci. La finzione non è altro che creazione di ipotesi. Io non credo nei documentari oggettivi, non esistono”.