La VR veneziana ha perso parte del suo fascino nel passaggio dall'isola del Lazzaretto Vecchio a un tramezzo del Palazzo del Casino. Non si approda più in un altro mondo che nasconde dentro delle cellette tanti altri mondi, ma si entra in dei loculi ricavati in un corridoione. La condizione pandemica impone allo spettatore di indossare, oltre alla mascherina, anche una maschera che circonda gli occhi, per ridurre il contatto tra il visore e la pelle. L'headset è un'ulteriore maschera. L'accumularsi di stratificazioni e dispositivi rende innegabilmente pesante e claustrofobica l'esperienza, specie se si indossa un visore come l'HTC Vive, più ingombrante di un Oculus Rift. A rendere iperbolica tale concentrazione di maschere, il fatto che ad accogliere lo spettatore è una “maschera”, una persona che non solo accompagna alla postazione, dà istruzioni e fa partire la VR, ma controlla in presenza la visione, restando lì vicino, a disposizione in caso di necessità o di volontà dell'utente di cambiare opera. La VR è il panopticon perfetto: il sorvegliato è talmente distratto a guardare quel che non c'è da dimenticarsi di essere sorvegliato.
Il primo anno della VR veneziana “in presenza” post-pandemia (nel 2020 la VR era fruibile solo da casa) sconta quindi tutto il peso simbolico e no della pandemia stessa. Dal punto di vista estetico e dello sviluppo tecnologico, possiamo dire di non aver osservato, nel 2021, dei passi da gigante come quelli compiuti nel 2018 o 2019.
Nelle storie VR si notano gli effetti degli anni pandemici: effetti espliciti, quando si è dentro un lavoro d'animazione come il taiwanese Bing Mei Guei (The Sick Rose, di Tang Zhi-zhong e Huang Yun-hsien), dove la protagonista è la figlia di un'infermiera nel pieno dell'emergenza; o impliciti o sintomatici, come in Maskmaker (di Balthazar Auxietre), che non parla di Covid ma di un costruttore di maschere.
Il vincitore del premio “migliore storia VR”, End of Night (David Adler, Danimarca-Francia, 49'), ci guida nella Danimarca occupata dai nazisti. Lo spettatore si muove all'interno di una barca a remi, fronteggiando il vogatore, guardando un paesaggio devastato, in bianco e nero. End of Night colpisce soprattutto per come riesce a rendere esteticamente interessante l'imperfezione tecnologica: i personaggi non sono realizzati a tutto tondo ma rimangono cavi, vuoti sul retro. Se lo spettatore si gira a guardarli dopo averli superati in barca può sbirciarne l'incompletezza. Al di là dell’ambizione che la guida verso l’hi-fi e il realismo, la VR può sviluppare in modo produttivo trigger estetici come questo.
Più di un’esperienza si concentra sui temi dell’estinzione (o sul futuro dell’umanità) – Lun Hui (Samsara, di Hsin-chien Huang) e Genesis (di Jörg Courtial) – e su quelli della psichiatria o della malattia mentale – Goliath: Playing with Reality (di Barry Gene Murphy e May Abdalla) e The Severance Theory: Welcome to Respite (di Lyndsie Scoggin). La VR sembra proporsi come un mezzo interessante per ragionare sia sulle deviazioni possibili nel nostro futuro (distopie), sia su quelle della nostra psiche, sugli universi alternativi che riesce a creare.
Due documentari a tema sociale (Tearless, di Gina Kim; e Reeducated, di Sam Wolson, Ben Mauk, Nicholas Rubin e Matt Huynh) mostrano le potenzialità della VR nell'ambito dell'informazione. Il primo conduce in un ospedale/campo di prigionia sud-coreano dove venivano detenute e trattate le “US comfort women”, un eufemismo per definire le donne destinate alla prostituzione forzata con i militari americani. La VR ci porta dentro quello spazio vuoto, sfruttando l'estetica degli spazi abbandonati. Il sentimento di presenza, l'immersione nel contesto originario, nel luogo del crimine, produce nello spettatore una tensione fisica che è un dato proprio della VR. La seconda VR “giornalistica”, Reeducated, è un documentario animato. Si tratta di una scelta sia stilistica che obbligata, vista l'impossibilità di visitare i campi di “rieducazione” cinesi. Prodotto dal New Yorker, il progetto segnala la volontà di investire sulla VR come strumento di conoscenza e di empatia rispetto alle cause sociali. Altre esperienze VR “impegnate” (Container, di Meghna Singh e Simon Wood) non si propongono di spiegare ma semplicemente di immergere l’osservatore in un contesto scomodo, sia in senso politico (situazioni che mettono in discussione il nostro comfort borghese o occidentale) che spaziale (siamo dentro un container).
Questi tentativi (tutto sommato residui) di lavorare sul documentario o sull'informazione ci possono dire qualcosa sulla salute (incerta) della VR come “medium di massa”. Il New York Times, che nel 2015 era stato un pioniere dell'uso giornalistico della VR, anche tramite la messa a disposizione di visori low-cost, ammette oggi che la “V.R. might not have taken off in the way many hoped it would, but it still has the potential to be a powerful tool for the classroom”.
La VR è una vacillante scommessa, snobbata da cinefili veneziani nel complesso poco curiosi e messa in discussione anche dai suoi cultori, spesso critici o dubbiosi nei confronti di dispositivi, esperienze, interattività. L’ascesa della VR nell’ambito delle cose artistico-socio-culturali veramente interessanti è dietro l'angolo o ormai alle spalle? La vetrina della mostra di Venezia conferma questa incertezza.