Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.21 (2022), 197–214
ISSN 2280-9481

Distorsioni di autenticità: il grunge secondo gli MTV Unplugged tra performance, resistenza e memoria

Francesco RossettiUniversity of Milan (Italy)

Master’s degree in Sciences of Music and Spectacle at the University of Studies in Milan obtained in December 2020, with a thesis entitled Seattle Video Sound. Suoni e immagini del grunge tra identità locale e mercato globale (supervisor professor Maurizio Corbella, co-supervisor professor Emilio Sala). Grade point average 110/110 cum laude. Bachelor’s degree in Sciences of Cultural Heritage at the same institution in October 2018, with a thesis entitled Le imprevedibili virtù del ritmo. La batteria di Antonio Sánchez nella colonna sonora di Birdman di Alejandro G. Iñárritu (supervisor professor Emilio Sala). Grade point average 110/110 cum laude.

Ricevuto: 2021-11-26 – Accettato: 2022-03-07 – Pubblicato: 2022-07-14

Distorsions of Authenticity: Grunge According to MTV Unplugged Between Performance, Resistance, and Memory

Abstract

In the context of popular music studies, live performance represents a widely discussed theme which is enriched by further problematics when it deals with audiovisual media. The concept of liveness can be a relevant component of a community’s musical identity, such as in the case of the Seattle grunge scene. The live dimension is therefore a grunge audiovisual topic. An example full of implications is MTV Unplugged, which hosted the participation of three different Seattle bands between 1992 and 1996: Pearl Jam, Nirvana, and Alice in Chains. After Kurt Cobain’s and Layne Staley’s death, these performances have been wrapped around a mythical halo, as they have become fans’ main tool to elaborate their loss. By analyzing the audiovisual characteristics of the three televised concerts, the article wants to demonstrate how MTV Unplugged promoted the development of an elegiac interpretation of grunge. This affected not only the bands involved in these acoustic setlists, but the entire musical phenomenon too. Authenticity, for which liveness should act as a warrantor, collides with posthumous processes of memory, related to the inter-mundanity of the performance.

Keyword: grunge; liveness; televised music performance; authenticity; Nirvana.

1 Introduzione

La relazione simbiotica tra i concetti di autenticazione e liveness è una tematica che appassiona i musicologi popular fin dalla fine degli anni ‘90 (cfr. Bratus-Locatelli-Guera 2018: 13). Il contenuto delle riflessioni che ha generato può essere così riassunto: dal punto di vista ideologico, l’esibizione dal vivo fornisce una certificazione di autenticità che gli album in studio e gli artefatti visuali della cultura rock non sono in grado di attestare con uguale forza (cfr. Auslander 1998: 10). Questa interconnessione si fonda sulla tesi per cui l’evento live è la forma di espressione musicale grazie a cui musicisti e ascoltatori valutano il grado di verità delle proprie azioni (cfr. Frith 2007: 8). Benché sia stata messa in discussione dalla sempre più critica distinzione tra live, “recorded” e playback (cfr. Wurtzler 1992), la performance dal vivo sarebbe ’autentica’ per via del suo carattere di irripetibilità, elemento che esprimerebbe la sincerità dell’artista verso la propria arte.

La questione ritorna in maniera problematica quando si parla del fenomeno grunge. Sul piano sociologico il rock della scena di Seattle, nato come sottocultura punk cittadina negli anni ‘80 ed esploso a livello commerciale agli inizi dei ’90, è stato analizzato sia come Zeitgeist generazionale (cfr. Weinstein 1995) sia come esperienza musicale che dall’originario contesto locale è stata inglobata nell’industria capitalistica delle major (cfr. Bell 1998, Larsen 2008). D’altra parte, la storiografia divulgativa si è concentrata sulla riappropriazione di una musica ’globale’ da parte dei soggetti che l’avevano creata (cfr. Yarm 2011, Prato 2012, Humphrey 2016). Da questa eterogenea bibliografia emerge nondimeno un principio universale: il grunge sviluppa i propri modelli poetici ed estetici secondo un ideale anti-mainstream. Le ruvide sonorità che caratterizzano le sue produzioni indipendenti, pubblicate soprattutto dalla Sub Pop Records, sono il riflesso di un aspro scetticismo nei confronti del music business. In antitesi rispetto agli stilemi sonori e iconografici del rock degli anni ’80, la scena di Seattle propugna l’ideale del loser, l’antieroe perdente ed emarginato, come orgogliosa rivendicazione contro-culturale (cfr. Danielson in Humphrey 2016: 125). All’avvento della grungemania, sancita dall’enorme successo di Nevermind dei Nirvana (Geffen, 1991) e dalla conseguente visibilità di altre band di Seattle come Pearl Jam, Soundgarden, Alice in Chains, Mudhoney, ecc., il sentimento “Do It Yourself” che aveva cementificato l’ideologia della scena persiste e resiste. Anche quando ha ormai cessato di essere una realtà underground, il grunge fa ancora leva sullo spirito punk delle origini per definire il proprio rapporto con il mercato discografico mainstream.

Tra le istanze identitarie da preservare vi era sicuramente l’esibizione live. Per i musicisti di Seattle sembra valere l’assunto secondo cui, “to be considered an authentic rocker, a musician must have a history as a live performer” (Auslander 1998: 10-1). Nel periodo underground del grunge, gli esponenti della scena guardavano alla propria musica principalmente come a un fenomeno da live concert (cfr. Pavitt in Prato 2012: 487). Anche i momenti di incisione erano esperiti come performance dal vivo, dal momento che avvenivano in presa diretta (cfr. Endino in Humphrey 2016: 104). La centralità del live è uno di quegli elementi che le band grunge utilizzano come strategia di resistenza al corporativismo delle major. In opposizione alla levigatezza di suono delle grandi produzioni, ciò che importa loro è rimanere fedeli a una “musical ‘honesty’” che può essere dimostrata solo suonando dal vivo, poiché “[l]ive performance tests the true mettle of a band and it is here that the honesty of the music comes through” (Bell 1998: 38).

L’autenticità va però ininterrottamente dimostrata e, per così dire, rinegoziata a seconda del contesto. Questa è la criticità principale che si pongono i musicisti grunge quando si relazionano con i canali di produzione mainstream. La riflessione si inserisce in una generale “crisi di identità” (cfr. Altman 2004: 15-23) che colpisce la cultura rock di Seattle negli anni della grungemania (cfr. Grossman 1996). L’incontro-scontro fra una musica fieramente underground e un’industria votata alla massimizzazione del profitto costituisce per la scena un momento di confronto travagliato, in cui dovrà contrattare la salvaguardia dei propri tratti identitari attraverso una loro riconfigurazione. Proprio la negoziazione di identità politiche, culturali e generazionali è un tema che si ripercuote inevitabilmente sui procedimenti di mediatizzazione che interessano un fenomeno musicale (cfr. Bratus-Locatelli-Guera 2018: 9-12).

All’interno di questo incerto processo, lo stesso concetto di autenticità è soggetto a risvolti interpretativi che possono agire tanto sull’opera (in questo caso, l’esibizione dal vivo) quanto sui suoi responsabili, i quali sono investiti loro malgrado di una nuova dimensione di senso. Nel caso della performance mediatizzata, diventa ancor più cogente un’analisi degli aspetti di ricezione. Oltre alla narrazione giornalistica, altrettanto distintiva è quella dei fan, i quali spesso modulano i propri orizzonti discorsivi su due punti: l’emozionalità dell’esperienza e una lettura nostalgica dell’evento compiuta a posteriori. Sono questi elementi che riguardano il ricordo emotivo tanto dell’individuo quanto del gruppo e che spesso hanno un ruolo di grande rilevanza nella formazione di una memoria collettiva musicale (cfr. Van Dijk 2006).

Nella vulgata prevalente, il grunge è presentato come un rock chiaroscurale in cui sentimenti di rabbia e frustrazione sfociano in chitarre distorte e testi disillusi. In campo accademico, questa definizione è stata elaborata subito dopo la morte di Kurt Cobain, il leader dei Nirvana, tramite l’individuazione di un tratto tipicamente grunge (se non altro perché il principale dei Nirvana stessi) nella “intense sadness” delle liriche (Shevory 1995: 34). Una caratteristica che negli stessi anni si rinviene innegabilmente anche nei brani degli Alice in Chains (cfr. Todesco 2017: 215-7). Di qui l’idea di un’apatia esistenziale che contraddistinguerebbe il fenomeno (cfr. Grossman 1996: 32-35). Ma nei resoconti degli esponenti della scena, si parla invece di una musica gioiosamente punk, di testi irriverenti e di esibizioni goliardiche (cfr. Yarm 2011, Prato 2012), così come è stata rimarcata l’operosità del rock di Seattle nell’affermare i propri valori identitari dinanzi alle direttive della grande produzione (cfr. Strong 2011: 26-32). Piuttosto che prestare fede a una delle due posizioni, ambedue parziali, è opportuno considerarle componenti della stessa materia. Ma allora perché la prima si è imposta così nettamente sulla seconda? Forse a causa della rappresentazione mediale di cui è stato fatto oggetto il grunge, e nello specifico le sue performance dal vivo, quando si era trasformato da cultura locale a moda globale?

Com’è tipico dell’elegia, ricordo e morte sono gli elementi fondativi di un’interpretazione nostalgica del rock di Seattle. A loro modo, i media hanno non solo favorito, ma anche consolidato questo pensiero comune. L’articolo si concentra su uno specifico ambito audiovisivo del live grunge che molto ha avuto a che fare nella costruzione dell’immagine popolare del rock di Seattle: gli MTV Unplugged di Pearl Jam, Nirvana e Alice in Chains. Invero, non tutti e tre gli eventi televisivi partecipano allo stesso modo alla costituzione di una visione elegiaca del grunge, che deve la sua formulazione soprattutto alla performance di Cobain. Tuttavia, nel loro susseguirsi è possibile osservare come la liveness si coniuga non solo, tramite una tipologia di suono considerata più autentica (cfr. Mazullo 2000: 722), con quell’aperta ostilità verso gli stili performativi convenzionali che aveva portato all’ideazione di MTV Unplugged (cfr. Frith 2002: 286-7). Ma soprattutto, e progressivamente, con la rielaborazione collettiva e non necessariamente corretta che il pubblico televisivo fa del principio di autenticazione insito nel live acustico.

L’insieme di questi fattori rende gli MTV Unplugged del grunge un territorio in cui convivono diversi obiettivi e diverse possibilità interpretative. L’autenticazione della performance, manifestazione del presente, deve fare i conti con un’eventuale mistificazione, elaborata da un futuro che interpreta il passato. I concerti acustici che tra il 1992 e il 1996 hanno visto coinvolti tre dei principali protagonisti del fenomeno vanno inseriti in questa dimensione ambivalente. Grazie a questa duplicità, è possibile comprendere come il grunge è stato interpretato collettivamente durante il suo traumatico passaggio da moda a ricordo. La fossilizzazione di questa interpretazione, formulata su base mediale, è ancora oggi parte inestricabile del pensiero generalista sul grunge.

2 Pearl Jam. Il live prima dell’unplugged

Fin dalla comparsa del rock and roll, la televisione se ne è fatta veicolo di diffusione e promozione, fornendone un codice rappresentativo divenuto canonico. Eppure, il loro rapporto è estremamente conflittuale sia dal punto di vista ideologico (cfr. Frith 2002: 282) sia formale, come dimostra la polemica condotta dal cinema di rockumentary verso le prassi narrative della tivù (cfr. Niebling 2016). Ciò che ha fatto sì che le strade del rock e della televisione si incrociassero è stata piuttosto la condivisione dello stesso mezzo di autenticazione: la live performance (cfr. Frith 2002: 283-4). D’altra parte, la dottrina rock reca con sé un continuo desiderio di indipendenza, proponendosi come alternativa artistica all’industria culturale e quindi anche alla televisione. Unplugged, “an MTV show constructed as a critique of MTV” (ivi: 287), nasce appunto come conseguenza di tale controversia. Accentuare eccessivamente una lettura in chiave anti-establishment è però un’operazione pericolosa. Oltre alle dinamiche di resistenza, bisognerebbe leggere anche quelle di negoziazione, intuibili già dal fatto che davanti alla scritta «Unplugged» ce ne sta un’altra, «MTV», che può indicare tanto un marchio quanto un possesso. Per esempio, pare evidente che negli unplugged due dei “defining elements” del grunge rintracciati da Larsen si perdono: la heaviness sonora (cfr. Larsen 2008: 6-8) e il carattere ironico (cfr. ivi: 8-12).

Il processo di negoziazione tra underground e mainstream è infatti una partita tra diverse istanze identitarie. Il “conflitto giurisdizionale” (cfr. Altman 2004: 20) che intercorre tra grunge e MTV Unplugged è una trattativa dalle procedure contraddittorie che prevede al contempo operazioni di ostruzionismo e di adattamento. Questi contrasti sono presenti già nel loro primo incontro: la messa in onda della performance acustica dei Pearl Jam nel maggio 1992. All’inizio degli anni ‘90, la band del cantante Eddie Vedder era stata severamente criticata dalla stessa scena di Seattle, che la incolpava di avere assecondato placidamente le richieste del music business venendo meno alle proprie radici identitarie (cfr. Blanchard in Prato 2012: 267, Cobain in Humphrey 2016: 172, Arm in Todesco 2017: 200). Negli anni della loro ascesa, i Pearl Jam sono dunque chiamati a una doppia autenticazione: al cospetto del pubblico di massa e della scena locale da cui provengono. La partecipazione all’MTV Unplugged rientra appunto in un processo di “costruzione dell’autenticità” che vede il suo fondamento nella nozione di liveness (cfr. Weglarz 2011). Proprio la cooperazione con MTV, baluardo televisivo dell’industria discografica, è considerata un banco di prova per certificare la propria onestà musicale.

Ai Pearl Jam importa innanzitutto evidenziare la condivisione della “Seattle attitude” (Humphrey 2016: viii) che definisce il sentimento anti-mainstream del grunge. Già l’entrata in scena della band, tra gli applausi accalorati del pubblico, testimonia un atteggiamento performativo lontano da qualsiasi esibizionismo. Come sarà per i Nirvana, i musicisti si dirigono verso il palco senza sussulti scenografici. E poco dopo essersi disposto, senza alcun saluto o presentazione, Vedder dà l’attacco per “Oceans”. La priorità è il live, non il medium. L’ipnotico primo brano sembra adattarsi alla perfezione alla sobrietà riflessiva dell’unplugged. La messa in scena, l’illuminazione soffusa su toni blu-rossastri e la parca regia di Joel Gallen, condotta soprattutto su primi piani e lente panoramiche totali, sono in sintonia con i canoni visivi caratteristici di MTV Unplugged (figura 1). Eppure un particolare desta attenzione. Diversamente da quanto faranno i suoi colleghi Krist Novoselic (Nirvana) e Mike Inez (Alice in Chains), Jeff Ament suona (anche se solo in questo caso) un basso elettrico (figura 2).

Figura 1: Panoramica dell’unplugged dei Pearl Jam.
Figura 2: Inquadratura da “Oceans”. Si noti a sinistra Jeff Ament suonare un basso elettrico.

Questo elemento eversivo, in quanto antiacustico, verrà chiarito dalla successiva “State of Love and Trust”. Tanto la performance quanto la pasta sonora rimandano infatti a un’esplicita matrice rock. Chitarre e basso, a dispetto del sound acustico, lasciano intendere la foga esecutiva dei brani originali. La batteria di Dave Abbruzzese è incisiva, virtuosistica, timbricamente variegata, così come la si ascolterebbe in un abituale concerto elettrico. Vedder è un frontman tutt’altro che apatico, che si lascia andare a interpretazioni graffianti e grintose (figura 3). L’apoteosi è raggiunta nel finale. “Porch” è un brano sanguigno e incalzante, la cui furia sonora sembrerebbe un elemento incompatibile con l’unplugged. Invece i Pearl Jam lo suonano con la stessa attitudine dei propri live. Durante l’interludio strumentale, Vedder si butta dallo sgabello su cui era rimasto seduto fino ad allora, si rialza giocando a fare l’equilibrista e infine si tatua con un pennarello la scritta «Pro-Choice» sul braccio (figura 4). Un messaggio politico non estraneo all’attivismo punk della scena di Seattle (cfr. Strong 2011: 28), che funziona anche come gesto di appartenenza a una comunità che guardava la band con sospetto.

Figura 3: Primo piano di Eddie Vedder tratto da “Black”.
Figura 4: Dettaglio del braccio di Vedder durante “Porch”.

La costruzione di autenticità dei Pearl Jam rispetto a MTV prevede dunque la rinuncia a compromessi di immagine e di suono. Se la componente visiva del loro unplugged, uniformata a quella del programma televisivo, stimola il clima meditativo tipico del concerto acustico, la musica comunica un allontanamento da esso. I Pearl Jam sembrano suonare ‘contro’ la dimensione audiovisiva dell’unplugged, poiché ritengono che la propria concezione di liveness non debba adattarsi a un contenitore precostruito. Ecco forse perché, a differenza delle scelte che saranno dei Nirvana, non ci sono riarrangiamenti acustici. Ma bisogna anche notare un altro particolare: a parte la scenografia, nulla dell’unplugged dei Pearl Jam fa pensare a una raffigurazione tenebrosa o affranta del grunge. L’enfasi posta sulla live performance, viva e vitale per sua stessa definizione, scongiura tale interpretazione. Per ritrovare quella “intensa tristezza” che per Shevory è la principale cifra stilistica del rock di Seattle, bisogna cercare altrove. In particolare, nel contesto audiovisivo dei Nirvana.

3 Nirvana. Autenticità e memoria

Nella sua disamina, lo stesso Shevory compie un’operazione singolare: giudicando i Nirvana gli esponenti più rappresentativi del grunge, parte da un carattere specifico della loro musica per fornire una descrizione onnicomprensiva del rock di Seattle (cfr. Shevory 1995). Si tratta di una scelta dettata da una supposta superiorità artistica dei Nirvana che già negli anni ‘90 si è fatta dominante, e che può trovare una convalida proprio nella partecipazione a MTV Unplugged. Nella cultura di massa questo concerto acustico rappresenta il momento culminante del fenomeno grunge. Avvenuta il 18 novembre 1993 a New York e tramessa circa un mese dopo per la regia di Beth McCarthy-Miller, la performance ha assunto un portato simbolico che l’ha resa oggetto di culto. Il fatto che nell’aprile 1994, alla morte di Kurt Cobain, il concerto fosse ancora un regolare appuntamento del palinsesto di MTV ha certamente influito sulla creazione di tale simbologia (cfr. Westrup 2021: 271). MTV Unplugged in New York (Geffen, 1994) è inoltre la prima pubblicazione discografica postuma della band, ovvero la prima a essere rilasciata a seguito del suicidio del cantante (cfr. ivi: 273-4). Si può quindi concludere che l’MTV Unplugged sia stato il primo strumento materiale di ricordo della figura di Cobain. Un ricordo molto potente, se è stato notato che “[f]or many, the lasting image of Cobain will always be one of him sitting on stage in torn jeans and ratty green cardigan leading Nirvana in a rendition of the ‘The Man Who Sold the World,’” (Zeik-Pantic 2019: 23) la celebre cover di David Bowie proposta durante il concerto. Gli studiosi si sono particolarmente concentrati sulla versione di questo brano, leggendo nel testo, incentrato sul dissidio interiore tra il Bowie ‘reale’ e il personaggio di Ziggy Stardust, un possibile rimando alla condizione esistenziale del Cobain artista (cfr. ibid.). Mark Mazullo ha ricondotto la scelta del punker Cobain di reinterpretare un brano glam a una logica anti-machista, dal momento che “[b]oth traditions championed, in other words, a counterhegemonic strategy of resistance: each involved a symbolic refutation […] of the dominant ideology” (Mazullo 2000: 715). La strategia di resistenza è del resto sottesa a tutta la setlist dell’unplugged. I Nirvana eseguono molte cover, evitano i brani più inflazionati, invitano sul palco i Meat Puppets mentre molti si aspettavano tra gli ospiti nomi più altisonanti, come i Pearl Jam (cfr. Coletti in Yarm 2011: 435). Vi è insomma una chiara rivendicazione di autonomia rispetto alla cultura mainstream.

Non è un caso che proprio le esecuzioni delle cover siano tra i momenti più intensi del live. È certo che il suono acustico partecipi in maniera significativa alla riuscita dei brani, molto spesso rivisitati ad hoc, ma è soprattutto come questo suono si manifesta in modo inedito nell’interpretazione delle cover ciò che le rende così pregnanti. Mazullo osserva che rispetto alla “production end studio manipulation of the recorded sound” (Mazullo 2000: 715-6) dell’incisione di Bowie, la versione dei Nirvana di “The Man Who Sold the World”

is only a weak allusion to glam's “extravagantly ornate style.” […] Duped by MTV's corporate pretensions to art, Cobain appeared, at least to this viewer, lonely, angry, confused, and perhaps not quite as talented a musician as he had been made out to be, straining his already failing voice and missing his opportunity entirely (ivi: 716).

Il commento è probabilmente troppo negativo. È vero che in alcuni punti la voce di Cobain pare un po’ insicura, così come a un orecchio esperto non sfugge quella nota errata di chitarra con cui si apre la coda della canzone. Ma è anche questa insicurezza, unita al fattore autenticante del sound acustico, a fare dell’esecuzione un momento di commovente sincerità, e dunque di onestà musicale legata alla liveness dell’unplugged. L’immagine di un Cobain “lonely, angry, confused” è poi una costruzione più audiovisiva che fattuale: la macchina da presa si sofferma molto spesso sui primi piani o mezze figure del cantante, la cui espressione un po’ corrucciata e la posa dimessa possono anche essere dovute alla concentrazione del momento, tanto più che davanti a sé ha un leggio dove sembra sbirciare di tanto in tanto (figura 5); del resto, le luci vagamente soffuse e le numerose dissolvenze che inquadrano gli altri membri della band collaborano a questa costruzione (figura 6).

Figura 5: Mezza figura di Kurt Cobain, con leggio sulla sinistra, tratta da “The Man Who Sold The World”.
Figura 6: Panoramica dell’unplugged dei Nirvana.

L’altra cover diventata simbolo dell’unplugged, e che lo conclude, è “Where Did You Sleep Last Night?” di Leadbelly. Sappiamo che il bluesman era uno degli ascolti più amati da Cobain, il quale poco prima di morire aveva ventilato l’ipotesi di formare una cover band in suo onore (cfr. Pickerel in Prato 2012: 392-3). Hugh Barker e Yuval Taylor riscontrano in questo riadattamento un efficace strumento di autenticazione. Osservano in particolar modo la capacità di Cobain di appropriarsi di un’autenticità altra, facendo suo il primitivismo di una musica che gli etnomusicologi consideravano tra le espressioni più pure della cultura musicale afroamericana. In questo modo, l’autenticità culturale di Leadbelly diventa con Cobain un’autenticità personale (cfr. Barker-Taylor 2007: 21-23). A partire dall’esecuzione. Rispetto all’originale, infatti, sono evidenti alcune modifiche in senso più intimista e cantautorale. Leggermente più lenta, la versione dei Nirvana non indugia sull’accordo di settima tipicamente blues che apre il brano, optando per un semplice Mi maggiore (cfr. ivi: 7). Cobain inoltre non cerca, come faceva Leadbelly, il continuo coinvolgimento dell’auditorio («C’mon, tell me baby», «Shiver for me now», ecc.)1, ma preferisce un’interpretazione più introversa, che esplode nell’ultima strofa urlata e in un finale molto potente dal punto di vista performativo (cfr. Coletti in Yarm 2011: 436). Il linguaggio registico rimane sempre lo stesso: molti i primi piani e le dissolvenze incrociate, lenti i movimenti di camera, che si concentrano soprattutto sull’intimismo della performance di Cobain. Piuttosto, l’autenticità della liveness è ancora una volta data dalla componente sonora: l’introduzione e la prima strofa della canzone sono eseguiti solo dalla voce e dalla chitarra di Cobain, il quale per segnalare alla band l’inizio della seconda strofa si gira di spalle verso la batteria di Dave Grohl; così facendo, però, deve allontanarsi dal microfono e dunque le parole che dovrebbe cantare in quel frangente («My girl, my girl») giungono distanti e borbottate (figura 7). Tuttavia, non ne deriva tanto il fastidio per l’imprecisione dell’esecuzione, quanto una testimonianza dell’interazione che si crea fra i musicisti durante il ‘qui e ora’ performativo. Vale a dire l’autenticità della diretta, alla cui costruzione partecipano anche eventuali errori. Non solo contemplati ma anche in un certo senso auspicati, se si vuole dimostrare l’unicità del momento. Del resto, non senza vanto una biografa dei Nirvana specifica che l’unplugged è stato registrato in un solo take (cfr. Borzillo 2000: 161).

Figura 7: Cobain si gira verso Dave Grohl durante “Where Did You Sleep Last Night?”.

Le stesse considerazioni valgono per le canzoni originali. La presentazione del primo brano in scaletta, “About a Girl”, pone subito l’accento sull’autonomia della band rispetto alle aspettative di MTV e del pubblico. La canzone è inclusa in Bleach (Sub Pop, 1989) e, appartenendo agli anni underground dei Nirvana, fa parte del repertorio meno noto al fan medio. Cobain, in una posa che sembra a metà strada tra la svogliatezza e l’irritazione, annuncia con lo sguardo rivolto verso terra: «This is off our first record. Most people don’t know it». Non appena pronunciate queste poche parole, incomincia immediatamente l’introduzione di chitarra acustica, che per qualche secondo è l’unico strumento a suonare. L’unione tra l’immagine antiretorica e sottilmente maldisposta del cantante e la peculiarità sonora dell’incipit corrobora a livello audiovisivo una precisa strategia di resistenza. Dopo la morte di Cobain, proprio nella versione unplugged di “About a Girl” sarà individuata una fotografia degli aspetti più autentici del concerto. Una recensione dell’ottobre 1994 scorge infatti nel cantato gracchiante, contrapposto all’introspezione del brano, una collisione di innocenza e tormento, e di conseguenza uno dei momenti più vividi della trasmissione (cfr. Harris 2005).

In altri casi il solo aspetto musicale è già sufficiente. La decisione di eseguire “Pennyroyal Tea” per sole chitarra e voce aggiunge un ulteriore livello di sincerità all’esecuzione, che non è inficiata nemmeno da un paio di accordi sbagliati (cfr. Barker-Yuval 2007: 3). Durante “Polly”, la disarmante commistione tra il suono acustico, la crudezza del testo (il racconto in prima persona di uno stupratore) e la distaccata interpretazione canora induce a ribadire l’onestà musicale della performance (cfr. ibid.).

La veridicità dell’esibizione risulta così indubbia. Ne era ben consapevole lo stesso Cobain, che avrebbe confessato di ritenere il concerto acustico di MTV la miglior prova artistica dei Nirvana (cfr. Goldberg in Borzillo 2000: 161). Tuttavia, il problema che si pone con l’MTV Unplugged di New York è il legame con la memoria che ne ha la cultura di massa. È appunto con questa esibizione, come è stato giustamente notato, che ha avuto inizio la canonizzazione dei Nirvana (cfr. Harris 2005). Nel definire il concetto di autenticità nel grunge, Catherine Strong nota come la figura di Kurt Cobain sia stata analizzata sia secondo quella che Allan Moore chiama “‘first person authenticity’, where ‘artists speak the truth of their own situation’” sia quella che ancora Moore identifica come “‘third person’ authenticity, that is, he has also been praised for being able to ‘speak the truth of [his] own culture’” (Strong 2011: 24). È su questo duplice piano, che guarda sia al personale sia al collettivo, che Mazullo ha letto la parabola artistica di Cobain, concludendo che

[he] was not able to find a niche that could satisfy his own realization of authenticity, even though his image and his music satisfied his fans tremendously. And while Cobain was struggling […] to achieve expressive authenticity in his music, that same music was being used as a means by which his fans could form their own identities by associating with his music and deeming it authentic (Mazullo 2000: 741).

Un’ipotesi suggestiva, che introduce la questione della ricezione dell’unplugged da parte del pubblico. Ovvero di come la memoria di quell’evento, una memoria ‘mediatizzata’, abbia influito sull’oggetto audiovisivo, sulla band che ne è protagonista e sul fenomeno grunge nel suo complesso. Cobain è stato infatti identificato come il cantore della Generazione X anche grazie ai connotati simbolici che l’MTV Unplugged ha generato, poiché la performance è diventata per i fan uno strumento privilegiato di elaborazione del lutto. È stato d’altronde constatato che la “interrelation between personal and collective memories of popular music […] [is] constructed through stories of and about musical memory” (Van Dijk 2006: 358), dal momento che “human memory is concurrently an individually embodied, technologically enabled, and culturally embedded construction” (ivi: 359). L’aspetto personale del ricordo non è slegato da quello collettivo: in entrambi i casi la memoria interpreta l’oggetto o l’evento che considera significativo della propria esistenza secondo schemi che non per forza seguono un criterio di oggettività. Questo tipo di ricostruzione ha pesantemente investito l’immagine di Cobain, come hanno osservato Paul Ziek e Mirjana Pantic. Dopo aver notato che “the tension between aesthetics and commodification is at the center of Cobain’s celebrity status” (Zeik-Pantic 2019: 26-7), gli autori argomentano che il processo di mitizzazione a cui è stato sottoposto il leader dei Nirvana ha portato a una mercificazione della sua figura, trasformatasi nella griffe di un’autenticità ‘alternative’ di cui è solo un vuoto simulacro:

An outcome of this trend has been Cobain’s commodification. We at once grew to become fascinated with how Cobain embodied not only the antihero but an antihero that was not associated with a comic, novel, movie or television program. Instead, Cobain was a rock star and the embodiment of a subcultural movement called grunge. He was a genuine person that personified all of the prototypical antihero traits – he was physically slight, opposed to macho masculinity […]. What further solidifies his antihero image is Kurt’s rejection of his role as the voice of a generation. He based this rebuff on the argument that his songs were simply an artistic expression […]. The last thing he wanted was to become the voice of Generation X (ibid.).

È curioso che Zeik e Pantic ricorrano all’immagine di Cobain che esegue “The Man Who Sold The World” durante l’MTV Unplugged, la stessa utilizzata da Mazullo, per introdurre al tema della propria discussione (cfr. ivi: 22). Per entrambi i saggi, questa dinamica di mistificazione ha dunque una tappa fondamentale nell’unplugged di New York, ovvero in una di quelle performance che sembrerebbe essere tra le più autentiche della carriera dei Nirvana. O forse, quella che nel ricordo del pubblico di massa è considerata la più autentica, in quanto interpretata come lascito dell’artista al mondo.

È probabile, anzi, che sia stata appunto una lettura dell’unplugged come testamento artistico di Cobain ad aver alimentato la predisposizione a guardare al grunge come rock depresso e mortifero. La componente visiva dell’unplugged sembra del resto andare in questa direzione: le tonalità fredde, blu e violacee delle luci così come l’aspetto scenografico, caratterizzato dalla presenza di fiori e di candele, restituiscono una dimensione non solo intimistica, ma persino funerea, evidenziata dalla tenue illuminazione dell’ambiente. La regia, inoltre, si serve di un linguaggio piuttosto classico ma a suo modo patetico: i frequenti primi piani (figura 8) e le ondeggianti dissolvenze incrociate stimolano nello spettatore una certa attitudine memorialistica (del resto tipica dell’interpretazione acustica), che certamente si è potenziata in seguito alla morte di Cobain. In un certo senso, è come se attraverso la performance il cantante stesse celebrando il suo stesso funerale. Siamo nell’ambito di quegli “arrangements of interpenetration between worlds of living and dead” che Jason Stanyek e Benjamin Piekut riferiscono al concetto di inter-mondano (cfr. Stanyek-Piekut 2010: 14). Nell’unplugged di New York, infatti, convivono sia aspetti di liveness, com’è naturale per l’esibizione dal vivo, sia aspetti di deadness, insiti non solo nella registrazione del concerto che cristallizza il momento performativo per i posteri, ma anche nella figura quasi vampiresca del frontman. Cobain diventa così un personaggio che presagisce la propria fine, che non appartiene più al mondo dei vivi ma non è ancora entrato in quello dei morti. Una condizione propria di molti protagonisti del cinema neo-noir, sviluppatosi proprio negli anni ’90:

these protagonists are ‘dead men’ […]. Paradoxically, as Freud noted, it is the death-drive that prevents an organism from ‘dying’ […]. The privileged body of neo-noir is therefore indeed the corpse, reviving the figure of Nosferatu, carrying his own (metaphoric) coffin (Elsaesser 2009: 306).

Figura 8: Primo piano di Cobain tratto da “Where Did You Sleep Last Night?”.

L'immagine dell’eroe che trasporta la sua stessa bara pare avere avuto nel Cobain ‘acustico’ il suo archetipo. In questo modo l’unplugged dei Nirvana (chissà se involontariamente) ha inaugurato un topos rappresentativo dell’oltremondano, tanto autorevole da essere ripreso dalla cultura musicale e audiovisiva di tutti gli anni ’90. Ma com’è possibile che questo immaginario si sia affermato nella cultura di massa in maniera così radicata?

Nella precedente citazione si legge che è proprio la natura death-driven dell’eroe, tra la vita e la morte, a permettergli di non morire mai. Questa situazione è possibile grazie al ricordo di chi sopravvive alla morte fisiologica dell’eroe, ossia, nel caso di Cobain, del suo pubblico. Si tratta di ciò che Stanyek e Piekut chiamano effectivity, secondo cui avere un futuro, anche solo mediatizzato, significa avere un effetto (cfr. Stanyek-Piekut 2010: 18). A tal proposito, Alessandro Bratus parla di “a personal investment of the part of the listener in the believability of the media artifact” (Bratus 2019: 20):

Recorded artifacts […] establish a distinct type of temporal relationship between the unrepeatable moment of the originating performance and the reproducible object that preserves the traces captured by microphones and camera for future consumption […]. Artifacts of the past continue to be inflected by new connotations in the course of the cultural life of a society, and media objects are potent catalysts for such processes […] [by] fostering infinite possibilities for re-mediation, manipulation, and new contextualization (ivi: 21).

L’interazione tra la deadness del supporto audiovisivo, qui anche strumento di memoria, e la liveness propria della musica registrata si sviluppa in rapporto alla capacità dei posteri di interpretare l’artefatto, adattandolo al proprio ricordo o al proprio sentire. Dunque, eventualmente, anche travisandolo. Ne consegue che il Cobain dell’unplugged assume il profilo antieroico e crepuscolare che sarà poi esteso a tutto il fenomeno grunge in virtù del dialogo che intrattiene con l’audience (presente e futura) dell’audiovisivo postumo. In altre parole, si delinea una collaborazione tra diversi spazio-tempi, o diverse mondanità:

What is called liveness is nothing more than a transitive effect of deadness, and deadness is nothing more than the promise of recombinatorial and revertible labor. In the particular circulation of effectivity that characterizes intermundanity, the living register the effective co-presence of the dead even as they draw and obdurate an impossible separation between mundanities (Stanyek-Piekut 2010: 32-3).

Cobain e i Nirvana aprono quindi a una tendenza rappresentativa dell’inter-mondano che determinerà l’estetica audiovisiva degli anni ’90, ma solo a causa di un discorso formulato a posteriori dall’immaginario comune. Si osservi che, nonostante le diverse soluzioni adottate riguardo all’arrangiamento, il processo di autenticazione è lo stesso dell’unplugged dei Pearl Jam. I concerti condividono anche le stesse scelte registiche e illuminotecniche. Quello che cambia è ciò che è venuto dopo le performance. Ossia, banalmente, la vita di Vedder e la morte di Cobain. Secondo questa interpretazione, il concerto newyorchese non è altro che la cronaca di una morte annunciata. È il gesto suicida a dare senso alla performance. Ne dà però un senso a suo modo bugiardo, perché responsabile di una generalizzazione tanto tenace da essere viva tutt’oggi. Una forzatura che probabilmente ha cercato di rispondere a quello che con arguzia è stato definito il “problema” del grunge: la scomparsa di colui che ne era diventato il più autorevole (e autentico) cantore (cfr. Barker-Taylor 2007: 24).

4 Alice in Chains. Nuove autenticazioni

La doppia natura dell’unplugged dei Nirvana, al contempo massimo momento di autenticità e inizio del processo di mistificazione, può essere rintracciata in un altro MTV Unplugged del grunge, decisamente meno canonizzato, che allo stesso modo contiene in sé tanti elementi di liveness quanti di deadness. Registrato il 10 aprile 1996 per la regia di Joe Perota e tramesso il 28 maggio seguente, MTV Unplugged degli Alice in Chains si situa in un contesto storico molto differente dal più celebre concerto acustico dei Nirvana. La fase della grungemania si sta inesorabilmente esaurendo e all’interno della band i problemi di tossicodipendenza del cantante Layne Staley stanno creando difficoltà sempre più ingestibili (cfr. Prato 2012: 440-445). Il chitarrista Jerry Cantrell ha inoltre indirizzato i nuovi album verso sonorità più blues e acustiche (cfr. Kinney in ivi: 425). Il risultato più maturo di questa scelta fu Jar of Flies (Columbia, 1994), EP che ottenne grande successo di critica e pubblico (cfr. Humphrey 2016: 199). Questa “svolta” (Kinney in Prato 2012: 425) evidenziò il carattere cantautorale di una rock band di ispirazione heavy metal: binomio perfetto per un intervento a MTV Unplugged. Il concerto sarà una delle ultime apparizioni dal vivo di Staley, entrato a seguito della morte della fidanzata in una fase di depressione aggravata dall’abuso di droghe (cfr. Yarm 2011: 533-4). Il corpo senza vita del cantante, ritiratosi dalle scene e abbandonatosi a una lenta agonia, sarà ritrovato nell’aprile 2002 nell’appartamento dove viveva nel più totale isolamento (cfr. Robinson in ivi: 537-8). Anche in questo caso si è dunque di fronte a una sorta di testamento audiovisivo, capace di mettere in evidenza la condizione inter-mondana dell’artista e di giustificarne una lettura neo-noir. Sin da subito, dato che l’immagine death-driven del cantante è ravvisabile già dalla copertina del live album (Columbia, 1996). Nella parte superiore, il resto della band è rivolto frontalmente sullo sfondo, avvolto da una luce infuocata. Staley è invece in primo piano, di profilo e completamente nell’ombra (figura 9). La compresenza di terreno e ultraterreno è avvertita immediatamente.

Figura 9: Copertina di Unplugged degli Alice in Chains.

I segni del malessere fisico ed emotivo di Staley sono ben visibili durante l’unplugged, che rimane tuttavia una delle performance più toccanti ed evocative degli Alice in Chains. L’inizio del concerto tenta già di stimolare nello spettatore un forte senso di intimità: un’inquadratura dall’alto mostra Cantrell, da solo sul palcoscenico buio, circondato da candele accese (anche in questo caso, un elemento scenico evidentemente mortuario), suonare l’intro di “Nutshell”, uno dei brani acustici più cantautorali della band (figura 10). Poco dopo entra in campo Mike Inez, che inizia a eseguire la propria parte di basso. È poi il turno del batterista Sean Kinney e del turnista Scott Olson. Infine, ecco Staley in occhiali da sole, con un’andatura spaesata, che raggiunge il microfono e inizia a cantare con voce flebile e vellutata (figura 11). La struttura della canzone non ha nulla di innovativo, dal momento che anche la versione di Jar of Flies prevede gli stessi ingressi scaglionati, eppure la scelta di sfruttarla come espediente per riempire gradualmente anche il palco, in una sorta di climax che vede come momento culminante la barcollante entrata in scena del frontman, conferisce un senso di spettacolarità che, pur senza eccessi, contrasta con l’anti-divismo con cui invece si erano presentati Pearl Jam e Nirvana. Tuttavia, è l’immagine che si ricava tanto dalla scenografia (luci basse e calde, tonalità blu) quanto dall’atteggiamento insicuro e un po’ impacciato di Staley, che pure offre un’interpretazione di grande qualità, a contribuire alla definizione di autenticità della band, nel segno della “first person authenticity” ricordata da Strong. I testi, ancor meno metaforici di quelli di Cobain, sono infatti tutti legati all’esperienza di malessere e smarrimento esistenziale di Staley. In particolare, quello di “Nutshell” è una scoraggiata confessione della propria condizione di disagio interiore, manifestata da parole che nel finale appaiono addirittura sinistre: «And yet I fight | Repeating in my head | If I can’t be my own | I’d feel better dead». Il sound acustico garantisce questa autenticità espressiva, accentuata anche dallo sguardo del cantante, oscurato dalle lenti scure degli occhiali ma che immaginiamo assente, preoccupato, sconfitto (figura 12).

Figura 10: Incipit e panoramica dell’unplugged degli Alice in Chains.
Figura 11: Ingresso di Layne Staley durante “Nutshell”.
Figura 12: Primo piano di Staley tratto da “Nutshell”.

Lo stile affranto del songwriting, già alimentato dal contesto acustico, è suggellato (e cristallizzato) dal medium televisivo. A imporsi sono infatti gli elementi visivi, oltre che sonori, che hanno in comune l’unplugged degli Alice in Chains e quello dei Nirvana. La stessa tipologia di illuminazione, la stessa messinscena cupamente intimistica, la stessa atmosfera oltremondana, arricchita dalla presenza di due musicisti che si fanno portavoce dello stesso tipo di sofferenza. La performance acustica dei Nirvana autentica perciò anche quelle successive, ponendosi come modello sonoro e scenografico per un’esibizione la cui sincerità non sta solo nel carattere live, ma pure nella dimensione quasi agonica, pienamente riferibile a una condizione di deadness. L’intensa tristezza shevoryana trova così un modello persino rafforzato. D’altronde, la musica di Staley aveva provocato “un’interminabile serie di luoghi comuni […] sul carattere ombroso del grunge” (Todesco 2017: 217) che con MTV Unplugged raggiunse il culmine. L’immagine con cui Zeik e Pantic ricordano Cobain alle prese con la cover di Bowie non è diversa da quella che i fan degli Alice in Chains potrebbero rievocare quando pensano a quest’ultima apparizione televisiva di Staley, deperito e senza forze, che nel cantare il proprio tormento riesce ancora (e più che mai) a emozionare in modo autentico.

5 Conclusioni

Presentando il proprio studio quantitativo sulla memoria collettiva del grunge, Strong sottolinea la “emotional relationship with the object of the memories” (Strong 2011: 34). Un oggetto, perché no, anche audiovisivo. Non pare strano che gli MTV Unplugged, in virtù delle proprie sonorità, siano stati interpretati come le performance più autentiche di Kurt Cobain e Layne Staley. Inoltre, il contesto live ha giocato un ruolo fondamentale nella definizione di autenticità. Tuttavia, a seguito della morte dei due musicisti, è sulla base del ricordo che la cultura di massa ha formulato, interpretando retrospettivamente questi concerti acustici, che è cominciata a profilarsi una visione decadentista del grunge (la “intense sadness” più volte citata). Una lettura che non corrisponde del tutto alla realtà, ma che parrebbe coerente se si limitasse il grunge agli unplugged di Nirvana e Alice in Chains. Il rischio è tuttavia quello di non considerare fino in fondo il contesto di provenienza (anche dal punto di vista sonoro, dato che Nirvana e Alice in Chains sono prima di tutto band elettriche), nonché dimenticare il processo di negoziazione identitaria che il grunge deve affrontare durante il suo periodo mainstream. Come si è visto nel caso dei Pearl Jam, l’unplugged grunge non nasce certo ammiccando alla deadness della registrazione televisiva, ma relazionandosi in maniera anticonvenzionale con le modalità rappresentative di MTV. Per tutte e tre le band, l’obiettivo è l’autenticità del live, sinonimo di presente. Il tema inter-mondano va considerato per quello che è: un’operazione postuma, che compete al futuro. In altre parole, si dovrebbe pensare all’unplugged come una delle tante sfaccettature del rock di Seattle, e non come la sua forma espressivamente più matura (o peggio, l’unica).

Non è da escludere che proprio la percezione di autenticità del live acustico abbia legittimato nella memoria collettiva una visione inter-mondana (e quindi fuorviante) del grunge. L’onestà musicale della performance si rivela così un’arma a doppio taglio, generando una sorta di autenticazione distorta. Una distorsione che fa il paio con quella sonora, tanto cara alle band rock ma sacrificata a vantaggio del set acustico. A scapito di questa generalizzazione costruita su impressioni soggettive, il grunge si mostra nella sua complessità contraddittoria e idiosincrasica, fondata su un’irrisolta frattura fra locale e globale, underground e mainstream, vitalità e senso della fine.

Bibliografia

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Discografia

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  1. La versione a cui si accenna è quella pubblicata dalla Musicraft nel 1944, la quale è plausibile sia stata la più ascoltata da Cobain. Il suo amico Mark Lanegan, con cui doveva formare la menzionata cover band, possedeva un 78 giri dell’incisione da cui trasse egli stesso una reinterpretazione. Inserita nell’album The Winding Sheet (Sub Pop, 1990), ospita Novoselic al basso e proprio Cobain alla chitarra (cfr. Weisbard 1994).↩︎