Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.21 (2022), 137–147
ISSN 2280-9481

Realismo e teorie estetiche e semiotiche applicate al cinema a tecnica mista (1900-1988)

Massimo BonuraUniversità Telematica eCampus (Italy)

Massimo Bonura (Palermo, 1994) is a PhD student in the course “Medium and Medialità” (eCampus Telematic University). His research fields are animation and comics and he published Cinema, vignette e baionette (Palermo University Press, 2020) and Verga e i mass media (Palermo University Press, 2021).

Ricevuto: 2021-09-28 – Accettato: 2022-02-18 – Pubblicato: 2022-07-14

Realism and Aesthetic-Semiotic Theories Applied to Cinema with a Combination of Live-Action and Animation (1900–1988)

Abstract

The article is an essay about the concept of fiction/reality applied to live-action cinema combined with animation. In particular, the article will deal with a diachronic (1900-1988) and aesthetic analysis. In fact, with the mixed technique (The Enchanted Drawing, directed by J. S. Blackton, 1900; Gertie the Dinosaur, directed by W. McCay, 1914; Mary Poppins, directed by R. Stevenson, 1964; Pete's Dragon, directed by D. Chaffey, 1977; Who Framed Roger Rabbit, directed by R. Zemeckis, 1988) it is possible to notice how the concept of border (first of all spatial) is confused between fiction and reality. In the essay are also analyzed some interesting semiotic and aesthetic theories, born mostly outside the world of cinema, of authors such as Hans Vaihinger (fictionalism), Alexius Meinong (non-existent objects), Kendall L. Walton (make-believe), Michel Foucault (heterotopia), applying them to the films examined.

Keyword: Fiction; Reality; Animation; Communication; Theory and Aesthetic of Media.

Ringraziamenti

Per questo articolo devo ringraziare diverse persone che mi hanno aiutato con consigli e suggerimenti. Ringraziamenti importanti per suggerimenti e riflessioni vanno senza dubbio ad Amedeo Di Tommaso, Stefania Garello, Claudio S. Gnoffo, Marco Teti e Nicolò Villani . Mi preme ringraziare inoltre Martino Feyles, Giulia Raciti, Alberto Trobia. Un altro grazie va a Federico Zecca per la disponibilità. Infine, un ringraziamento ai revisori anonimi per gli spunti e i suggerimenti.

1 Introduzione

Il dibattito intorno agli assunti filosofici e sociologici di finzione e realtà è molto vivo anche negli studi teorici sui media e, di conseguenza, in quelli sul cinema in live action (Eder et al. 2010; Rushton 2011) e in quelli sull’animazione (Wells 1998: 24-27). Seppur meno numerosi rispetto alle altre tipologie di cinema, vi sono anche vari autori che hanno apportato interessanti riflessioni concernenti la relazione filosofica tra finzione e realtà nel cinema a tecnica mista. Tra questi vanno segnalati perlomeno Alan Cholodenko (1991: 209-242; 2000: 9-12), Maureen Furniss (2007: 151-172), Erwin Feyersinger (2010: 279-294) e Pamela Robertson Wojcik (2016: 101-138).

Di seguito, questo rapporto verrà affrontato secondo alcuni aspetti di approcci filosofici diversi (Foucault, Vaihinger, Walton, Meinong), quasi tutti nati esternamente al mondo cinematografico.

A causa della vastità della materia trattata, qui si vuole tentare di proporre solo alcune strade per affrontare il tema in ambito filosofico e cinematografico. Pertanto, accostate alle teorie socio-semiotiche ed estetiche, vi sono solo alcuni selezionati casi di studio del cinema a tecnica mista: The Enchanted Drawing, 1900; due corti di McCay, 1911- 1914; Mary Poppins, 1966; Elliott il drago invisibile , 1977; Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988. Questi film, eccettuati i due di McCay, hanno la particolarità di presentare rilevanti parti in animazione e parti in live-action nella stessa inquadratura; si è scelta questa specifica tipologia di cinema a tecnica mista, poiché – come si vedrà- è quella che mostra maggiormente, ma non esclusivamente, analisi di tipo spaziale (ad esempio il concetto di confine eterotopico).

Non si è voluto procedere cronologicamente oltre nella disamina, poiché, con l’avvento delle tecniche digitali nel XXI secolo, si è assistito ad una vera e propria re-animation, che ha reso gradualmente parte del cinema animato meno distinto da quello tradizionale, come è stato ben sottolineato da diversi studi (Manovich 2002; Uva-Wells, 2018). Questo non comporta necessariamente che le teorie qui enunciate non possano essere valide in molti casi della contemporaneità1, ma comporta che, tuttavia, questo è meno palese rispetto a qualche decennio prima.

Le finalità di questo saggio sono di ordine perlopiù filosofico, secondo un esercizio intellettuale che mostri come alcune teorie socio-semiotiche ed estetiche possano inserirsi all’interno di un’analisi sul cinema a tecnica mista. Non si cercherà di dare risposte a problemi di ampia portata come quelli che i concetti di finzione e realtà comportano, ma di far riflettere il lettore su come la filosofia possa essere un punto iniziale di indagine. In particolare, in questo studio si tenterà di esaminare in che maniera i due concetti di finzione e realtà, nell’ambito del cinema a tecnica mista in analisi, non possano essere del tutto disgiunti tra loro, ma si intersechino secondo un dualismo ontologico, il cui collante risulta essere la nozione di spazialità. Per chiarire quali approcci metodologici vengono usati, va dato come primo riferimento utile il concetto di eterotopia in Michel Foucault e una breve premessa alla spazialità geografica applicata al cinema. Successivamente si cita la teoria del finzionalismo di Vaihinger, che viene poi accostata ad alcune tesi di fondo (fictional truths) di Kendall L. Walton, il quale fa esplicito riferimento al cinema. Conclude un’analisi su alcuni aspetti tra realismo e linguaggio (oggetti inesistenti) del filosofo Alexius Meinong, valido a mio avviso per analizzare la valenza realistica del disegno animato.

2 Il cinema come spazio altro: forme estetiche e semiotiche

Le principali direzioni su cui la filosofia risulta avere un peso consistente nella riflessione su realtà e finzione, applicate al mondo cinematografico, sono quelle più specificatamente di indirizzo semiotico ma anche cognitivo ed estetico (Carroll 2011: 146): in fondo “the experience of realism in cinema is intricately tied to the impression that the events and persons depicted are somehow real. We know the film to be screened, yet we experience the depicted events to be occurring” (Riis 2002: 93).

A mio avviso, punto di partenza per riflettere sulla relazione tra realtà e finzione nel particolare formato del cinema a tecnica mista, è indagarne a livello socio-semiotico i paradigmi con la corporeità e la spazialità. D’altronde la corporeità svolge un ruolo fondamentale nella percezione del realismo e della finzione nel cinema animato. A tal proposito, va ricordato che due tra i più importanti animatori inglesi, John Halas (1912-1995) e Joy Batchelor (1914-1991), distinguevano profondamente la realtà dei film in live-action (che definivano come corporale) da quella del cinema totalmente in animazione: “If it is the live-action film’s job to present physical reality, animated film is concerned with metaphysical reality – not how things look but what they mean” (Hoffer 1981: 3, cit. ad es. in Wells 2013: 11). Il valore della corporeità come punto focale per indagare il realismo nell’animazione è stato anche valorizzato dallo studioso Midhat Ajanovic in una sua riflessione su alcuni dei primissimi cortometraggi diretti da Walt Disney (Ajanovic 2004, 49-50). Questa doppia visione della realtà corporale e metafisica si inserisce contiguamente nel cinema a tecnica mista.

Per approfondire meglio questo concetto nei paragrafi successivi, va innanzitutto premesso come corporeità e spazio siano stati accostati da tempo tra loro, promuovendo così campi disciplinari, quali la geografia culturale e della comunicazione, o la geografia del cinema fino alle riflessioni intorno ai performing spaces (Fischer-Lichte and Wihstutz 2013), ma anche all’animazione e al cinema a tecnica mista (si veda ad esempio Crafton 2013). L’interazione tra corpi produce spazi: già nel 1974 in una delle opere principali del sociologo Henri Lefebvre, La production de l’espace, viene teorizzato come lo spazio sia un prodotto complesso di relazioni sociali, culturali e della corporeità (Giubilaro 2016: 108):

se lo spazio non è un oggetto né un insieme di oggetti, se la sua natura è intrinsecamente processuale, allora esso non può avere nessuno dei tratti di immobilismo che siamo abituati ad attribuirgli. Lo spazio è dinamico, il suo prodursi immerso nella storia […].

Questo rimando allo spazio come “incrocio di entità mobili” (De Certeau 2010:176; cit. in Giubilaro 2016: 109; tr. it M. Baccianini) è ben visibile nel cinema stesso e nel teatro. Questi, intesi come luoghi fisici, sono definibili come spazi altri (Foucault 2011 [Des espaces autres]; Calvino 1974), ovvero, secondo la definizione di Michel Foucault (ne parla in particolare nel saggio Des espaces autres, 1984, tratto da una sua conferenza del 1967), sono delle eterotopie (Foucault 2011: 23-28; per approfondimenti sul concetto cfr. ad es. Johnson 2013). Le eterotopie sono anche spazi in qualche modo in relazione con la finzione:

Foucault also sees heterotopias in the juxtaposition of several spaces in a single place – in the theatre […], or in the cinema, which can produce its own spatial fictions through the interaction of the auditorium, the projection room, and the screen. (Primavesi 2013: 167, tr. en. by M. Breslin and S. Iris Jain)

Se è vero che il concetto di eterotopia (Foucault 2011: 27-32 [Des espaces autres]) è applicabile, come si è già detto, a svariati luoghi (soprattutto la nave, ma anche cinema, teatro, etc…), è anche vero che il rimando a spazi altri è presente, secondo l’analisi di Foucault, nello specchio (il quale è utopico ma anche eterotopico; Foucault 2011: 24 [Des espaces autres]), il cui riflesso (ovvero il gioco di luci) è un luogo non accessibile di per sé, rispecchiante il reale, ma non davvero la realtà. Il fatto che le eterotopie siano spazi di limite, in cui si mescolano finzione e realtà, è ben rappresentato da un altro specchio (cioè, in senso figurato, lo schermo cinematografico): nel capolavoro diretto da Woody Allen La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, 1985), distribuito con la Orion Pictures, la protagonista Cecilia (interpretata da Mia Farrow) ha un incontro con il suo eroe cinematografico Tom Baxter (Jeff Daniels), in cui, anche in questo caso, la finzione si mescola con la cosiddetta realtà; Tom Baxter, per incontrare Cecilia, attraversa il limite tra schermo e mondo definibile come reale. Viene così valicato il confine metacinematografico tra fantasia e supposta realtà.

La premessa su Foucault e le eterotopie risultava necessaria per riflettere su come esista un confine visibile per lo spettatore tra animazione e live-action. Questo è ancora più evidente nelle scene in cui nella stessa inquadratura è presente sia l’attore sia il soggetto disegnato (come in Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988). Si tratta di un confine tra due mondi, eterotopie, le cui prime caratteristiche sono la differenza tecnica (ossia il disegno animato) e la dimensione spaziale. Questa eterotopia, in cui nello stesso frame notiamo un distacco tra ciò che è animato e da ciò che non lo è, possiamo immaginarla come una sorta di closure fumettistica, con la differenza sostanziale che nel fumetto essa rappresenta sia la spazialità sia la temporalità, nel cinema a tecnica mista solo la spazialità.

Il confine e questa interazione tra il mondo cosiddetto reale e quello disegnato possiamo analizzarlo proprio come la barca foucaltiana. Infatti quando i due personaggi, in live action e in animazione, interagiscono tra loro, rendono visibile e chiaro allo spettatore che si tratta di due dimensioni spaziali diverse, attraverso la rappresentazione e l’immagine differente che avranno i due corpi soggetti.

Va esplicitato comunque come questo spazio eterotopico nel cinema a tecnica mista sia uno spazio-ponte relazionale tra i personaggi e i due mondi del cosiddetto reale e del disegnato.2 Possiamo infatti vedere che nei disneyani Mary Poppins (1964) e Elliott il drago invisibile (1977) oppure in Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), che ciò che è funzionante è la relazione sociale, e di conseguenza corporale, secondo il senso di produzione dello spazio di matrice lefebvriana, di cui abbiamo accennato prima, che intercorre tra i vari personaggi appartenenti a spazi altri.

3 Finzioni: un percorso per il cinema a tecnica mista

Questo stesso assunto teorico (eterotopia) di Foucault può essere corroborato dalla filosofia del finzionalismo di Vaihinger, rendendo così possibile un’applicazione anche nel cinema a tecnica mista, secondo una prospettiva metacinematografica.

Nel 1911 il tedesco Hans Vaihinger (1852-1933), riprendendo alcune teorie kantiane della logica trascendentale, espone la filosofia del come se o del finzionalismo nella sua opera Die Philosophie des Als Ob (Vaihinger 1967). Secondo questo assunto teorico, non è possibile descrivere la realtà per come è, ma questa viene analizzata per come ci appare: infatti è come se fingessimo che questa sia vera, adattandola per convenienza alla nostra visione.

A tal proposito, il cinema a tecnica mista prevede la divisione di due mondi alternativi (quello che è come rappresentazione più vicino alla realtà e quello della fantasia), che spesso si congiungono, separati da un confine innanzitutto spaziale; eppure, l’interazione dei soggetti dei due mondi appare in un senso omodiegetico3, e dunque dialogante tra le parti. Un palese esempio è il lungometraggio Chi ha incastrato Roger Rabbit (Who Framed Roger Rabbit, 1988) diretto da Robert Zemeckis, già foriero di riflessioni di carattere semiotico ed estetico sul concetto di «framing» da parte di Cholodenko (1991: 210-212), il quale utilizza l’apparato teorico del filosofo Jacques Derrida.

In questo film, tratto dal romanzo di Gary Wolf (Who Censored Roger Rabbit?, 1981), il detective Eddie Valiant (interpretato da Bob Hoskins) indaga su alcuni avvenimenti che ruotano attorno ai personaggi del mondo dei disegni animati (con il profondo contributo dell’animatore Richard Williams). L’arrivo del detective nella città di Toontown sfida tutte le leggi della fisica ed è un vero e proprio viaggio, ovvero uno spostamento in altro luogo. Ritengo sia possibile immaginare, almeno in parte, la figura di Eddie Valiant, alla ricerca di risposte, simile per certi aspetti a quella di un ricercatore di scienze sociali, che, attraverso un itinerario innanzitutto spaziale, il quale comporta sempre un soggetto portatore di significati e relazioni sociali (Sheller e Urry 2006: 207-226), si mette egli stesso alla ricerca dell’oggetto del proprio studio: questa, in generale, potremmo definirla proprio come “una metodologia ‘on the move’, dunque, che spinge il ricercatore a mettersi concretamente sulle tracce dei suoi oggetti, a dislocarsi insieme ad essi e ad elaborare strumenti che possano accompagnarlo lungo la strada” (Giubilaro 2016: 45-46). Valiant attua più o meno consapevolmente una “ricerca sul campo”, attraverso la cosiddetta osservazione partecipante, uno dei metodi cardini della ricerca antropologica (Ronzon 2008: 48-62). Il detective, infatti, si inserisce nel contesto dell’indagine, fino ad essere completamente sia immerso nella dimensione terrestre (di sua appartenenza) sia “iniziato” – per usare un termine etnografico – suo malgrado4 al mondo (reale o fantastico?) di Toontown, in cui tutto nasce dal disegno e dalla rappresentazione. Nello straniamento di quella che si potrebbe definire come dislocazione Eddie Valiant si chiede implicitamente se ciò che vede sia reale o sia una finzione, anche se va definito correttamente come mondo eterotopico, proprio come quelle narrazioni in cui il protagonista deve attraversare uno specchio5.

In ogni caso questa distinzione tra i due “mondi” risulta essere importante perché nel film (Cholodenko 1991: 218)

As Eddie Valiant and Roger Rabbit become accomplices, the “photographed live action film” and the “cartoon animation” are drawn to each other. Eddie Valiant and Roger Rabbit ostensibly start out as distinct, analogous to the distinction between “live action” and “animation”. But the movement of the narrative is the progressive indetermining and indistinguishing of their difference.

Queste eterotopie narrative, sia letterarie sia cinematografiche, pongono dunque, come si accennava nel paragrafo precedente, invece che un confine temporale, il quale può anche non essere presente, piuttosto un confine, perlomeno, di spazio e sullo spazio: infatti, la separazione con il luogo primario non è dovuta necessariamente a fattori di ordine temporale, quanto piuttosto a quelli spaziali e di movimento; ciò è valido anche per i mondi cinematografici, ripresi dal vero o disegnati che siano.

La percezione dello spazio e il suo rapporto con i personaggi risulta basilare nel soggetto della storia e nel suo dipanarsi, ed è mostrata sullo schermo, come una sorta di metafora, attraverso l’uso differente di tecniche: live-action e disegnato, spesso in contemporanea o anche separatamente. Tra i primi casi di studio più interessati ad analizzare il tema vi sono due cortometraggi del fumettista e animatore Winsor McCay (1869-1934; sull’autore cfr. Canemaker 2005). Nel 1914 McCay dirige il corto Gertie il dinosauro (Gertie the Dinosaur; Crafton 1993: 110-115, in collaborazione con la Vitagraph ad esempio per le fotografie), il quale è inserito nella tradizione di vaudeville, in cui il regista stesso chiarisce come la narrazione della parte animata del corto sia tratta dai propri disegni. Il corto fa la sua apparizione in una versione vaudeville nel febbraio 1914 presso il teatro Palace di Chicago, in cui McCay dal vivo dialoga con il film e di conseguenza, con Gertie (Harvey 1994:32): «The blending of McCay’s stage presence (reality) and Gertie’s (the artist’s art) was perfect».

Ha quindi qui origine l’esplicitazione allo spettatore di una confusione tra finzione e realismo narrativo; e a tal proposito, come non ricordare che sono passati quasi venti anni dal corto di fine Ottocento dei fratelli Lumière L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (L'arrivée d'un train à La Ciotat), in cui gli spettatori si spaventarono del treno in corsa, pensando che questo potesse essere reale (cfr. ad. es. Opitz 2000: 121). In ogni caso, le riprese dal vivo e quelle animate sono state dirette separatamente. Inoltre, nonostante le numerose dichiarazioni del fatto che alcune scene siano solo dei disegni animati, queste, ovvero la parte relativa propriamente al dinosauro Gertie, sono intersecate nella storia, come se fossero reali e come se il dinosauro continuasse a vivere nel presente e al contempo nella fantasia. Il culmine di questa prospettiva, in cui quasi lo spettatore può fingere di non distingue più il confine tra la cosiddetta realtà e l’animazione, è ben attuata alla fine del corto nel momento in cui McCay stesso, in forma di disegno, decide di salire sul rettile, come enunciato nella didascalia: “Gertie will now show that she isn’t afraid of me and take me for a ride”. Spunti di tal genere possono essere ritrovati anche nel precedente cortometraggio Winsor McCay, the Famous Cartoonist of the N.Y. Herald and His Moving Comics (diretto anche da J. Stuart Blackton, 1911), di cui si accennerà più avanti con la teoria degli oggetti inesistenti di Meinong. Anche quest’ultimo cortometraggio rappresenta una forma di spettacolo vaudeville (Crafton 1993: 110-111).

Dunque, e qui vengono riprese le tesi sul finzionalismo, lo stesso personaggio di McCay, che è un narratore onnisciente e autodiegetico, è conscio che la creazione di Gertie ad opera propria non è che una finzione, ma, piuttosto che descrivere la realtà per come è, preferisce farla apparire, almeno in alcuni momenti, come vera, per adattarla alla propria narrazione (sospensione dell’incredulità) e alla visione dello spettatore. Bisogna comunque notare che McCay si pone perfettamente in una situazione tra finzione e realtà: questo lo si può appurare da una delle didascalie che recita «[…] he can make the Dinosaurus live again by a series of hand-drawn cartoons». Se da un lato vuole fare rivivere (attraverso il disegno) il brontosauro, dall’altro avverte, fin dai primi momenti, lo spettatore che la creatura in verità è estinta (nelle prime scene si reca presso il Museum of Natural History di New York), per poi relegarla al mondo della fantasia («And now Mr. McCay will show us what he thinks a Dinosaurus looked like in real life»). Similmente a Blackton (1900), McCay diviene dunque creatore di una creatura “impossibile”.

In The Enchanted Drawing (1900), per la Edison, uno dei primi cortometraggi a tecnica mista (e con l’uso dello stop-motion), il regista e attore James Stuart Blackton si mette nelle vesti di creatore e prova a stupire lo spettatore secondo le regole del vaudeville e a fingere che il suo disegno (una faccia che cambia espressione) possa prendere vita grazie alle sue abilità. Questa intenzione è ben esplicata nelle primissime scene del corto in cui Blackton mostra allo spettatore di disegnare una bottiglia di vino (e relativo bicchiere), subito dopo materializzato e bevuto. Per rafforzare questo proposito, il regista continua ad interagire con la sua stessa creazione principale (il volto umano), come quando le dà (e poi toglie) un cilindro, o ancora le dà da bere o da fumare.

Qui in verità il confine tra ciò che è “reale” (uomo) e ciò che è “finzione” (il ritratto) è la relazione tra regista-attore-narratore e il co-protagonista (ovvero il disegno animato). Questa interazione risulta essere ancora una volta corporale e spaziale: lo spettatore ha ben nota la differenza tra una caricatura e un uomo in carne e ossa; e ancora l’uomo si muove su tre dimensioni, mentre il disegno animato soltanto in due e solo sulla tela. Invece, la tipologia di film unicamente in live-action, pone, ovviamente, relazioni e concetti spaziali (gli attori si muovono, interagiscono, etc…), ma non permette di sottolineare il confine tra ciò che fa parte del mondo, per così dire, reale e quello eterotopico, sovente rappresentato dal cartone animato. Nel film prodotto dagli studi Disney Mary Poppins (1964, regia di R. Stevenson), personaggio tratto dai libri della scrittrice P. L. Travers, ad esempio, lo spettatore riesce a discernere che i protagonisti sono esseri umani a tutti gli effetti, mentre i pinguini rappresentati non sono gli uccelli del Polo Sud, ma, seppur percepiti come tali, appartengono piuttosto a uno spazio altro, quello dei disegni animati. Tale distinzione è permessa proprio dall’uso delle tecniche che fanno di un film cinema a tecnica mista: la differenza della corporeità tra ripresa dal vero e ripresa su disegni animati.

Le tesi del finzionalismo sembrerebbero almeno in parte ben accolte dalle teorie del filosofo americano Kendall L. Walton, nel suo libro Mimesis as Make Believe (1990), attraverso un approccio già in parte delineato nel campo dell’estetica e della teoria della percezione (Gombrich 1963: si veda in particolare il saggio del 1951 Meditations on a Hobby Horse or the Roots of Artistic Form). Nel saggio di Walton, infatti, diverse forme artistiche vengono confrontate e studiate in relazione all’atto fantasioso del gioco dei bambini, i quali creano così mondi e situazioni, fingendo che siano veri. Nella sua introduzione il filosofo fa diretto riferimento alla sua teoria della rappresentazione come direttamente applicabile al teatro e al cinema (Walton 1990: 4):

make-believe, explained in terms of imagination, will constitute the core of my theory. I take seriously the association with children’s games – with playing house and school, cops and robbers, cowboys and Indians, with fantasies built around dolls, teddy bears, and toy trucks. We can learn a lot about novels, painting, theater, and film by pursuing analogies with make-believe activities like these.

Walton così connette il concetto di “fiction” con quello di rappresentazione (Walton 1990: 3):

we will find it best not to limit ‘fiction’ to works, to human artifacts, and to use it more broadly in other respects than is commonly done. ‘Fiction’ in this sense will be interchangeable with ‘representation’ […]. ‘Fictional representation’ would point more clearly to the exclusion of nonfiction.

Tra i vari aspetti delle rappresentazioni, Walton si concentra sulle cosiddette fictional truths, ovvero una sorta di imposizione su proposizioni che, reali o meno, devono essere immaginate e variano a seconda del contesto. In quest’ottica potremmo anche considerare il montaggio filmico, che è una imposizione/scelta del regista. Il montaggio nel cinema a tecnica mista calza perfettamente con il concetto di fictional truths: infatti le riprese cinematografiche della parte in live-action e quelle della parte animata sono filmate separatamente. L’attore deve comunque tenere in considerazione e fingere una interazione con il protagonista disegnato, come in una sorta di sospensione dell’incredulità. L’attore, in fondo, descrivendolo riprendendo le teorie di Walton, gioca come se lo stesse facendo con bambole o macchinine, cioè ricostruendo con l’immaginazione (finzione) una interazione reale. Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988) è uno di quei film, a differenza di quelli citati di McCay, in cui l’attore in live-action e il personaggio animato compaiono nella stessa scena sullo schermo, piuttosto che separatamente. Il backstage di Chi ha incastrato Roger Rabbit è raccontato nei documentari Roger Rabbit and the Secrets of Toon Town (1988), in onda con la televisiva CBS, con Joanna Cassidy e diretto da Les Mayfield, e Behind the Ears. The True Story of Roger Rabbit (2003)6. Nel dietro le quinte di questi documentari è possibile notare come Bob Hoskins debba, per seguire il copione, interpretare il ruolo del detective Valiant senza interazione diretta con gli altri personaggi (che sono disegnati e quindi animati) e costruendo così un mondo di finzione ancora maggiore rispetto a quello che può essere costruito da attori in film live-action che interagiscono e si relazionano tra loro. In questo caso per mondo di finzione si intende la costruzione della finzione/realtà cinematografica da parte dell’attore, piuttosto che l’ambiente in cui interagisce un personaggio di fantasia.

4 Lingua, linguaggio e realismo: possibili esempi a partire dal cinema animato

Di matrice opposta alla filosofia enunciata da Vaihinger e da Walton, è la teoria dell’austriaco Alexius Meinong (1853-1920), basata sugli oggetti inesistenti e nata in un contesto del tutto estraneo a quello del cinema. Questa teoria linguistica, con risvolti in psicologia cognitiva, è stata enunciata in particolare nei saggi Über Gegenstände höherer Ordnung und deren Verhältnis zur inneren Wahrnehmung (1899), Über Annahmen (19027) e in Über Gegenstandstheorie (1904; testo centrale per la teoria dell’oggetto) e tratta del problema assai vasto del rapporto tra realtà/finzione e atti linguistici8 (cfr. ad. es. Meinong 1979; 2003; Modenato 2006; Raspa 2011), tema ampiamente discusso dai contemporanei di Meinong quali Franz Brentano, Robert von Zimmermann, Kazimierz Twardowski9 ed Edmund Husserl.

La teoria di Meinong risulta essere molto complessa; per il filosofo è possibile rendere oggetto, potremmo dire, ciò che esiste e ciò che è inesistente, perché comunque è possibile pensare a ciò (gli esempi tipici di Meinong includono il quadrato rotondo e la montagna d’oro). Per chiarire meglio come si intenda applicare al cinema questo aspetto qui semplificato e da cui traiamo spunto, va considerato come nel film a tecnica mista Elliott il drago invisibile (Pete’s Dragon, 1977), prodotto dagli studi disneyani, diretto da Don Chaffey e tratto da un racconto scritto da S. I. Miller e S.S. Field (Holston-Winchester 2018: 223), il drago, invisibile ai più, viene fatto passare erroneamente per oggetto inesistente: per chi non lo vede, esso esiste solo nella mente del protagonista Peter (interpretato da Sean Marshall), il quale, a sua volta, è conscio del fatto che il suo amico sia un (s) oggetto esistente, seppure non materialmente visibile a tutti. Elliott il drago invisibile risulterebbe essere così una decostruzione narrativa su come il cinema riesca a filmare ciò che è esistente (live-action) e anche ciò che, al contrario, sembrerebbe non esserlo (finzione e fantasia, animazione). Nel 2016 è uscito un remake della casa cinematografica della Disney dal titolo Il drago invisibile (Pete’s Dragon) diretto da David Lowery (prodotto con Whitaker Entertainment) con scene in live-action e con Elliott animato secondo una grafica computerizzata (CGI): qui il confine spaziale risulta molto meno accentuato rispetto all’originale del 1977. Infatti, mentre nel film diretto da Chaffey il mondo cosiddetto reale e quello animato (che abbiamo definito eterotopico) sono separati dal cartone animato-disegno secondo una tecnica che potremmo definire tradizionale, nel film diretto da Lowery le differenze grafiche tra attori in live-action e drago sono molto poche, non permettendo di fatto una differenziazione di spazi, sembrando così che tutti i personaggi appartengano allo stesso mondo/dimensione. Nei vari piani di lettura del film del 1977 c’è quello della relazione tra due esistenze diverse, un confine spaziale tra “reale” e fantasia: quello – potremmo dire – visibile di Peter e quello invisibile (descritto secondo disegno animato) di Elliott. In ogni caso l’intuizione di Meinong risulta utile come riflessione sul cinema in generale e in particolare su quello animato, secondo un triplice livello ermeneutico e semiotico: il primo di questi vede l’atto della creazione (ovvero il disegno) del personaggio animato che non esiste se non nella mente del regista (similmente, potremmo dire, alla montagna d’oro di Meinong): è così che, rivisitando le tipologie dell’(in)esistente di Meinong, il personaggio filmico, disegnato e animato, è sempre oggetto e contemporaneamente diviene soggetto. A differenze di altre forme artistiche (pittura, scultura, etc…), in cui è possibile rappresentare ciò che non esiste, il cinema permette un dinamismo e una interazione particolare tra più agenti (in primis, gli attori o i personaggi disegnati) per le sue peculiarità tecniche (montaggio, successione di frames, eventuale sonorità).

Questa differenza visiva e percettiva con le altre arti risulta fondamentale: se nel celebre quadro di René Magritte La trahison des images (1929), in cui è raffigurata una pipa con scritto nella didascalia in basso “Ceci n’est pas une pipe”, questa è altro oggetto e non l’oggetto che rappresenta, ciò non risulta valido nel film animato. Infatti in questo, in un senso metacinematografico, l’oggetto disegnato diventa da rappresentato a esistente (il disegno da parte dell’animatore di una carota in mano a Bugs Bunny è per lui una carota, in quanto interagisce con l’oggetto) o ancora la rappresentazione di un oggetto disegnato in un film a tecnica mista, è a tutti gli effetti un oggetto reale per il personaggio (in Chi ha incastrato Roger Rabbit, il detective Valiant porta con sé una funzionante pistola cartoonizzata).

Il cinema a tecnica mista permette di essere ponte e mediatore tra la rappresentazione di oggetti pensati e considerati inesistenti (animazione) e quelli del mondo cosiddetto reale (live-action). In The Enchanted Drawing e nei due già citati corti di Winsor McCay (1911, 1914) è il protagonista (il regista in entrambi i casi) che assume la funzione di creatore dell’altro protagonista animato, e ne sceglie, tramite il disegno, quale maschera (ovvero quale comportamento) è costretto a indossare. Chiaramente questo è compito di qualsiasi regista e di qualsiasi addetto agli effetti speciali, ma la particolarità, negli esempi analizzati del cinema d’animazione misto, è che l’atto creativo è filmato e il co-protagonista (ovvero il personaggio disegnato) non è che direttamente alla mercé del regista-attore, creatore non di oggetti (che per Meinong sono in qualche maniera esistenti, al di là della loro materialità) ma di soggetti. In Winsor McCay, the Famous Cartoonist of the N.Y. Herald and His Moving Comics (1911, Crafton 1993: 98-105), prodotto con la Vitagraph, il fumettista-animatore, dopo aver mostrato agli altri personaggi (tra cui gli attori John Bunny e Maurice Costello) i disegni cartacei della serie Little Nemo, celebre fumetto (1905-1927) dello stesso McCay, ne anima i contenuti e trasforma morfologicamente i personaggi (nel caso trattato Flip e Impy) a suo piacimento (quasi come – si potrebbe dire – il quadrato rotondo di Meinong).

Ancora più pertinenti e specifici risultano il secondo e il terzo livello di spunti che offrirebbe la teoria di Meinong. Questo secondo punto di vista, con limitate eccezioni, risulta tipico del cinema d’animazione e del cinema a tecnica mista: ovvero la rappresentazione istantanea (quasi ex nihilo) di quelli che si potrebbero definire come oggetti inesistenti (ma – lo ricordiamo – pur sempre oggettificati) in oggetti esistenti. Ne è un esempio l’apparizione di Bugs Bunny (e così anche gli episodi della serie animata dei Looney Tunes), in un cameo con Topolino, in Chi ha incastrato Roger Rabbit (regia di R. Zemeckis, 1988): il coniglio, pur non avendo tasche o vestiti, offre al detective Eddie Valiant un paracadute, che compare istantaneamente dal nulla (preceduto solo dal pensiero/parola), proprio come le sue tipiche carote (la carota istantanea “esiste” idealmente).

Il terzo livello di interpretazione della filosofia di Meinong applicata al cinema a tecnica mista riguarderebbe la tesi della trasparenza, che Noël Carroll spiega e discute, pur con numerose riserve e dubbi, nel suo lavoro The Philosophy of Motion Pictures (2008), (Carroll 2011: 79-88). Secondo tale tesi criticata dal filosofo (Carroll 2011: 79-80; tr. it. J. Loreti)

attraverso l’immagine vediamo l’oggetto in essa raffigurato. […] l’immagine cinematografica è analoga al telescopio, al microscopio, al periscopio e agli specchi convessi che consentono la visione agli angoli nei parcheggi. Quando guardiamo attraverso strumenti come questi, diciamo che vediamo gli oggetti a cui gli strumenti ci danno accesso.

Il cinema d’animazione, e conseguentemente il cinema a tecnica mista, dunque ci offre di vedere nell’immagine filmica dei veri e propri oggetti inesistenti, tali anche in senso metacinematografico: i registi Raoul Barré e Winsor McCay, ad esempio, nei loro cortometraggi animati, utilizzano le nuvolette dei fumetti10 per fare, in qualche maniera, parlare il proprio personaggio (per il quale le nuvolette sono invisibili), o ancora le stelle sopra la testa in conseguenza di un trauma cranico.

5 Conclusioni

Il discrimine tra film in live-action, film animato e film a tecnica mista, è – oltre che di ordine tecnico – di tipo spaziale: abbiamo visto come tra la parte in animazione e quella dal vero intercorra una sorta di separazione (confine eterotopico) tra due mondi diversi.

Il problema del rapporto tra realtà e finzione nel cinema in generale, qui trattato in particolare nell’accezione di film a tecnica mista, non può a mio avviso prescindere dai substrati filosofici e sociologici che ne compongono per primi le riflessioni teoriche. Valutare e analizzare come alcune teorie, nate perlopiù esternamente al mondo cinematografico, possano spiegare il cinema, significa corroborarne gli strumenti teorici e di critica e sottolineare come anche altri agenti (come già specificato, spazio e corporeità in primis) abbiano un ruolo predominante nell’analisi di prodotti culturali. Qui si è voluto fare una sorta di esercizio intellettuale, ma ritengo che le riflessioni che ne sono scaturite possano essere in qualche modo un punto iniziale nel rafforzare un approccio analitico alla comprensione filosofica del cinema a tecnica mista. In particolare, le teorie di Foucault aiutano a focalizzarsi sul rapporto spaziale e di confine tra le dimensioni del live-action e del disegnato, mentre gli assunti teorici di Vaihinger e Walton sono di valido aiuto per determinare in senso diegetico (il come se) il rapporto tra attore e personaggio disegnato; infine le teorie di Meinong tornano utili per definire come la fantasia e l’incredibile (come gli oggetti che improvvisamente compaiono) abbiano un senso e un valore nell’animazione.

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  1. Ritengo ad esempio che casi come Space Jam: New Legends (2021, regia di Malcolm D. Lee) possano essere analizzati secondo gli strumenti teorici qui analizzati, in quanto presentano una chiara distinzione visiva tra “mondo animato” e quello del live-action. Invece altri film a tecnica mista come Il drago invisibile (Pete’s Dragon, 2016, regia di David Lowery), citato più avanti, o ancora Sonic – Il film (Sonic the Hedgehog, 2020, regia di Jeff Fowler) rendono più complessa la distinzione tra le due tipologie.↩︎

  2. Questi concetti di spazi sono diversi da quelli di non luogo (nonlieux) secondo l’accezione dell’antropologo Marc Augé (Augé 2009). I nonluoghi (aeroporti, grandi centri commerciali, autostrade, etc…) per Augé sono degli spazi, caratteristici della surmodernité a partire dal XX secolo, in cui non vi è forte e dinamica interazione tra i singoli. Questo non è applicabile in senso metacinematografico ai film a tecnica mista poiché, come esplicitato nel corso di questo saggio, in questi il concetto di spazio gioca un ruolo predominante nel far interagire tra loro i personaggi di “mondi diversi” (ovvero del live-action e del disegno).↩︎

  3. In riferimento al concetto di diegesi cinematografica del semiologo Gérard Genette (cfr. ad es. Genette 1972 [Discours du récit]; Boillat 2009: 217-245).↩︎

  4. Come si evincerebbe dal film. Il detective ritrovatosi a Toontown si percepisce, almeno inizialmente, spaesato e confuso. Ciononostante tenta ancora una volta di “inserirsi” nel modo dei personaggi animati.↩︎

  5. Through the Looking-Glass, and What Alice Found There di L. Carroll, 1871; o ancora The Lion, the Witch and the Wardrobe, 1950 di C.S. Lewis, per segnalare due tra gli esempi più famosi e trasposti anche cinematograficamente: il primo nel 2016 dal regista James Bobin e il secondo nel 2005 per la regia di Andrew Adamson.↩︎

  6. Il documentario, rilasciato da Buena Vista Home Entertainment, è composto da interviste a varie figure tra cui Steven Spielberg (uno dei produttori esecutivi), il regista Robert Zemeckis o ancora Bob Hoskins. Il lavoro del film fu colossale, con diverse case di produzione (Touchstone Pictures, Amblin Entertainment, Silver Screen Partners III).↩︎

  7. Rilevante la ripubblicazione nel 1910, edita da J.A. Barth proprio come gli altri lavori sopra menzionati. Il lavoro di Meinong del 1904 è stato pubblicato originariamente in una sua curatela (Untersuchungen zur Gegenstandstheorie und Psychologie). Il testo del 1899 è reperibile in italiano, ad esempio, in Meinong 1979 (e in tempi più recenti, nel 2002 con il volume Teoria dell’oggetto, curato da V. Raspa per Edizioni Parnaso).↩︎

  8. Meinong riguardo gli oggetti (ad esempio, in Über Annahmen) fa anche una distinzione tra Objekt e Objektive: cfr. ad es. Cavini 1991: 44; Raspa 2008; Raspa 2011: 178-180.↩︎

  9. “Collegando la teoria brentiana dell’intenzionalità dei fenomeni psichici con la terza funzione del nome, Twardowski sostiene, attraverso un confronto con la teoria bolzoniana delle rappresentazioni senza oggetto, che ogni nome nomina un oggetto, sia questo esistente o meno, così come ogni rappresentazione rappresenta un oggetto” (Raspa 2011: 166; in rif. all’opera di Twardowski 1894).↩︎

  10. Se è vero che l’utilizzo delle nuvolette nel cinema animato può rappresentare, applicando le teorie di Meinong, una tipologia di oggetti inesistenti, è anche vero che queste vennero inserite solo perché si consideravano i disegni animati come una forma di fumetto (definiti entrambi con la parola cartoon), e dunque erano inserite più per una questione tecnica che per altro. Infatti sia Barré sia McCay hanno avuto importanti esperienze con il mondo del fumetto già nella prima decade del Novecento (ad esempio, per il primo si nomina Les Contes du Père Rheault; per il secondo la serie Little Nemo in Slumberland).↩︎