Anche quest'anno il Trento Film Festival ha offerto al suo pubblico una notevole panoramica sul cinema di non-fiction legato al tema della natura e dell'ambiente. Fra le cose più interessanti viste nell'ultima edizione ci sono due documentari con un tratto comune. Il primo è il film vincitore del premio principale, la Genziana d'oro: Anche stanotte le mucche danzeranno sul tetto (Aldo Gugolz, 2020); il secondo il lavoro della regista italo-uruguaiana Alicia Cano Menoni, Bosco (2020). Anche stanotte le mucche danzeranno sul tetto segue le vicende esistenziali di un malgaro ticinese, fra fatiche, storie familiari e un omicidio che macchia l'orizzonte. Bosco racconta la vita di una piccolissima frazione dell'Appennino toscano, abitata da una dozzina di anziani, il luogo da cui era emigrato il nonno della regista. I due film condividono la caratteristica di aver atteso per anni che gli eventi raccontati nel film accadessero. In Anche stanotte le mucche danzeranno sul tetto si vede una donna incinta, poi un bambino che nasce, poi il bambino più grande… Bosco ha richiesto 16 anni di lavorazione.
La non-fiction, recentemente, ha imparato sempre di più a raccontare la realtà nel suo farsi. Ad aspettare a lungo, come se il compito del documentarista fosse stare in attesa, non tanto per filmare al momento giusto (tanto ormai si può filmare ininterrottamente), ma per dare alle cose il tempo di succedere. Tre esempi di non-fiction recenti che mostrano questo tipo di sguardo, molto lontane espressivamente l'una dall'altra, sono La regina di Casetta (Francesco Fei, 2018), Pierino (Luca Ferri, 2018) e La casa de mamá Icha (Óscar Molina, 2020).
Una della definizioni di satira dice "tragedia + tempo". Lo stesso si potrebbe affermare del documentario di attesa: tragedia + tempo, più spesso tempo + tragedia. La tragedia talvolta coincide con la morte, quella dei nonni della regista in Bosco; la possibile morte di una tradizione insostenibile in Anche stanotte le mucche danzeranno sul tetto; e, nello stesso film, l'assassinio di un malgaro di origine macedone. Il tempo si accanisce sui corpi, li invecchia, li fa morire, o, nel migliore dei casi, li fa semplicemente crescere, diventare grandi, come il bambino del film di Gugolz. Per cogliere gli effetti del tempo serve una presenza prolungata del documentarista in compagnia del suo soggetto. Entrambi i film mostrano l'enorme disponibilità dei registi a passare del tempo in loco, nella malga, a Bosco. L'attesa viene ampiamente ripagata da ciò che scoprono. Dall'intimità che conquistano.
In Bosco veniamo accompagnati su per un pendio e fra gli alberi in cerca di una casa abbandonata, quella dove aveva trascorso i suoi anni di bambina una delle persone ritratte nel film. Pensiamo di trovare solo rovine, e invece scopriamo una traccia. La mano dell'anziana spolvera un sasso piatto vicino a un castagno, rivelando dei segni. È una specie di scacchiera. Il gioco povero di una famiglia povera, inciso dai fratelli della donna e sepolto dal tempo. È come un flashback tangibile a 70 anni prima. L'intesa tra protagonista e regista si trasforma in complicità tra regista e spettatore. La condivisione di momenti come questo assume la tonalità della luce del crepuscolo, capace di illuminare l'essenza delle cose.
Anche stanotte le mucche danzeranno sul tetto e Bosco possono essere letti come una raffigurazione indessicale della vita che va avanti. Il peso del tempo colpisce anche i supporti, i modi con cui filmiamo. In Bosco si nota la somma di materiali filmati eterogenei, diversi formati, diverse definizioni. Riprese realizzate in tempi, luoghi e forme sparsi trovano unità e soluzione solo nel momento del montaggio, che emerge sempre più come il vero momento decisivo dell'epoca del filmare tutto.
Quante variabili entrano in gioco quando si inizia a rappresentare un frammento di realtà? E quando bisogna fermarsi? Quando si è raccolto abbastanza? Il film di Gugolz mostra indagini, un servizio della televisione ticinese, il formaggio che non si vende, un parto bovino, un bambino in mezzo alla natura, la pioggia in montagna, l'isolamento e il commercio, gli animali e gli uomini. Quante cose si possono accalcare in uno spazio così piccolo?
La realtà è come un orto che va coltivato per sperare che faccia frutti. I frutti sono la narrazione, una trama; ma anche e soprattutto una maturazione emotiva: le persone evolvono in personaggi, sviluppano confidenza con il documentarista e la sua macchina, entrano con tutta la loro disponibilità nella storia. Il documentario riesce a conquistare la benevolenza dei testimoni. Questa benevolenza cade poi a cascata sullo spettatore, che si sente grato di partecipare ai momenti di grazia descritti dai film, come quando il nonno di Alicia Cano Menoni va in ospedale a farsi visitare gli occhi e, richiesto di descrivere ciò che visualizza nel macchinario dell'ottico, vede scene del paese di Bosco, abbandonato 90 anni prima. Il nonno perde la vista, ma questo non gli fa perdere di vista le sue origini, che vengono al contrario recuperate in una vera e propria visione, dai confini mistici, o senza confini.
Il cinema è quella cosa che ha a che fare con l'immaginare altro rispetto a ciò che si vede. Anche in un contesto di non-fiction si aprono sterminati spazi che mettono in contatto passato remoto e presente, e creano un ponte tra l'Uruguay e le montagne del carrarese. È questa la storia che Alicia Cano Menoni doveva raccontare. Solo lei poteva farlo. Valeva la pena aspettare.