Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.20 (2021), 153–166
ISSN 2280-9481

L’occhio che palpita: Monica Vitti e gli scritti sull’arte

Giulia SimiUniversity of Sassari (Italy)

Giulia Simi is a junior assistant professor at the University of Sassari where she teaches History of Film. Her research interests range from the women’s filmmaking practices in post-war time to the relations between cinema, visual arts and writing, with particular attention to amateur and experimental films. She has curated exhibitions and edited volumes on these subjects and published numerous contributions in books and journals. She is the author of the monograph Corpi in rivolta: Maria Klonaris e Katerina Thomadaki tra cinema espanso e femminismo (ETS, 2020).

Ricevuto: 2021-06-26 – Versione revisionata: 2021-10-19 – Accettato: 2021-10-19 – Pubblicato: 2021-12-20

The Throbbing Eye: Monica Vitti’s Writings on Art

Abstract

This article analyzes Monica Vitti’s writing production related to art. By drawing from different sources from the mid-1990s – an art column held on the magazine «Cahiers d’Art» (L’occhio innocente [The innocent eye] and her autobiographical texts (Il letto è una rosa [The bed is a rose] and Sette Sottane [Seven skirts]) – and intertwining them with archival documents and texts from Art History and Film Studies, this investigation aims at demonstrating how the artistic dimension is rooted for Vitti in the entanglement between vision, emotions and the forms of thought. The actress explores in her writing the possibilities of a haptic gaze able to activate a metamorphosis of reality. Her words open a dialogue with the cinematograhic medium and particularly with the experience shared with Michelangelo Antonioni, but they also resonate with a genealogy of women’s writings focused on sensory phenomenology as a manifestation of an emotional intelligence.

Keyword: Monica Vitti; Italian Cinema; Women’s Studies; Contemporary Art; Actresses Writing.

Ringraziamenti

L’articolo si inserisce nel quadro delle ricerche svolte all’interno del PRIN (bando 2017) DaMA – Drawing a Map of Italian Actresses in Writing. Ringrazio lo storico dell’arte Giuseppe Indelicato che, intervenendo durante il seminario tenuto da Lucia Cardone il 7.5.2020 all’interno del ciclo di incontri Incroci di Genere, curati da Bruna Giacomini e Rosamaria Salvatore all’Università di Padova, ha fornito lo spunto per questa indagine e mi ha gentilmente permesso di ricevere, in un momento di difficoltà per l’accesso a biblioteche ed archivi, le copie digitali degli articoli di Vitti. Questo studio deve molto allo scambio con Lucia Cardone (Principal Investigator) e le altre colleghe che compongono le unità di ricerca del PRIN DaMA (Università degli Studi di Sassari; Università degli Studi di Catania; Università degli Studi di Napoli Federico II).

Dal 1994 al 1996 Monica Vitti cura una rubrica all’interno della rivista Cahiers d’Art Italia,1 dal titolo L’occhio innocente. Composta da sei articoli in tutto, la rubrica appare in continuità con la marca autobiografica che caratterizza i due testi pubblicati all’incirca negli stessi anni – Sette sottane (1993) e Il letto è una rosa (1995) – nei quali, come nota Maria Rizzarelli nella sua recente cartografia sulle “divagrafie”,2 l’attrice disegna “con estrema consapevolezza la sovrapposizione fra biografia e recitazione” (Rizzarelli 2021). Cucita sui confini di un’indagine interiore, la scrittura sull’arte permette a Vitti di spingere più lontano il suo cammino di libertà, approfittando dei contorni vibranti dell’opera artistica come di un vento favorevole all’esplorazione di sé e del suo rapporto con il mondo.

Di questo “partire da sé” troviamo la più nitida testimonianza nell’incipit del quarto tra i sei articoli pubblicati, dove Vitti sembra lasciare senza indugio i codici imposti dalla critica d’arte per immergersi nelle profondità dell’io:

Forse perché oggi è un giorno buio, il cuore mi batte in testa, nelle orecchie e nelle mani.
Quadri, libri, telefono, scrivania, sedie, poltrone marciano verso di me. Spavaldi e arroganti. Mi tolgono lo spazio e il respiro. Sono anche molto più grandi del solito. Possono vincere. Ma questo foglio bianco forse può aiutarmi, salvarmi. Fortunatamente non devo scrivere su qualcosa, sono libera di parlare di me. È come un regalo chiuso troppo bene, che non si sa cosa contenga. Ma io, oggi, non posso aprire nessun pacco, nessuna lettera. Vorrei legarmi con le braccia, tanto da non potermi più slegare.
Scrivere mi fa bene, mi aiuta, continuerò (Vitti 1995b: 182). 

La rubrica si connota, dunque, come luogo terapeutico e libero – “Scrivere mi aiuta, mi fa bene”; “Fortunatamente non devo scrivere su qualcosa, sono libera di parlare di me” – in cui l’arte assume fin da subito il ruolo di attivatore di un pensiero narrativo e allo stesso tempo emozionale, radicato in un’esperienza fisica che è dall’autrice immediatamente resa manifesta: “il cuore mi batte in testa, nelle orecchie e nelle mani”.

Come cercherò di far emergere nel corso di questa analisi, la scrittura di Vitti dedicata alla dimensione artistica, e in particolare pittorica, indaga e affonda nell’intreccio tra visione, emozione e forme del pensiero, rimandando alla tattilità e alla capacità metamorfica dello sguardo che dialoga apertamente con il cinema – in particolare con l’esperienza condivisa assieme a Michelangelo Antonioni – e risuona con alcune scritture femminili centrate su una fenomenologia dei sensi come manifestazioni di un’intelligenza emotiva.

1 La diva e l’occhio innocente

Quando lo storico dell’arte Carmine Benincasa la sceglie per una delle rubriche della rivista che dirige, offrendole quella libertà che Vitti rende esplicita ai suoi lettori – “sono libera di parlare di me” – ha il chiaro scopo di affidare all’attrice la regia di una narrazione dell’arte in ottica divulgativa a cui il titolo stesso dell’operazione editoriale, L’occhio innocente, alludeva con nitido intento. Espressione di grande complessità e di lunga tradizione storico-critica, che cercherò di sintetizzare più avanti, l’innocenza dell’occhio ha come primo riferimento quello di chi, come Vitti, prende parola come semplice appassionata. Dalla sua posizione di attrice, per tradizione percepita in prima istanza come corpo emotivo e sfornita di strumenti di analisi,3 Vitti incarna alla perfezione il simbolo di un rapporto con l’arte per prossimità e per contatto, fuori dalla cornice retorica della critica. L’attrice stessa sembra sottolineare questo aspetto, salvo assumersi la responsabilità di una presa di parola che passa, come frequentemente nella genealogia della scrittura femminile,4 dalle forme dell’ironia: “Scusate se parlo di Giotto, è il mio ‘occhio innocente’ che parla” (1994c: 173) scrive in uno degli articoli. Invero la sua frequentazione dell’arte, anche con quella delle neoavanguardie che le erano contemporanee negli anni di inizio carriera – a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta – era nota e nella rubrica stessa più volte ripercorsa. Incontra Mark Rothko e Saul Steinberg a New York; frequenta Giorgio Morandi, di cui acquista due opere; conosce gli espressionisti astratti e la Pop Art, gli informali e i metafisici. Apprezza infine i futuristi, incontrati certamente, ancor prima che nella frequentazione di Antonioni, tramite “lo straordinario maestro, geniale, surreale” Sergio Tofano (Vitti 1993: 169). L’occhio di Vitti, dunque, se innocente, ha l’innocenza impura della connoisseuse.

Non sappiamo se l’attrice fosse a conoscenza della genealogia complessa e ampiamente nota nella critica d’arte dell’espressione “occhio innocente” o se piuttosto si limitasse al significato a fior di superficie e già evidenziato prima. Nel ripercorrerne la storia, emergono tuttavia linee di tangenza con una riflessione sull’arte che Vitti ha certamente condiviso con Michelangelo Antonioni negli anni del loro sodalizio artistico e che rende lecito percepire il titolo della rubrica con una densità e una complessità maggiori. Mi permetto dunque di addentrarmi nel dibattito, seppure a sommi capi.5

La più nota definizione all’origine del termine si deve a John Ruskin, critico d’arte britannico che nel 1857, in uno dei suoi scritti più celebri, Gli elementi del disegno (The Elements of Drawing), nota:

Noi non vediamo che colori piatti, e solo attraverso una serie di esperienze scopriamo che una macchia di nero o di grigio indica il lato in ombra di un corpo solido, o che un leggero annebbiamento sta a significare che l’oggetto è lontano. L’intera capacità tecnica di dipingere dipende dal recupero di quella che si potrebbe definire ‘l’innocenza dell’occhio’: cioè una sorta di percezione infantile di queste macchie piatte di colore, viste a sé, senza coscienza alcuna di ciò che significano, così come le vedrebbe un cieco che improvvisamente recuperasse la vista (Ruskin 2014: 260).

Un secolo più tardi, tuttavia, il critico d’arte Ernst Gombrich, nel suo noto testo Arte e illusione (Art e Illusion, 1960) dichiarerà senza indugio che “l’occhio innocente è un mito”. Rovesciando l’assunto impressionista “dipingo ciò che il mio occhio vede”, Gombrich così scrive:

gli impressionisti avevano insegnato infatti non a vedere la natura con occhi innocenti, ma a esplorare un’alternativa inattesa, che risultò rispondere a certe esperienze più di tutti i quadri precedenti. Gli impressionisti convinsero gli appassionati d’arte in modo così completo che la battuta ‘la natura imita l’arte’ divenne comune. Come diceva Oscar Wilde, non c’era nebbia a Londra prima che Whistler la dipingesse (Gombrich 1966: 303).

La posizione di Gombrich, scaturita dalla rivoluzione impressionista e ancor più post-impressionista, dove centrale è la relazione tra gli oggetti e dove la percezione della realtà è espansa dall’esperienza estetica, sembra risuonare con una delle più note dichiarazioni di Antonioni sul colore presente nei suoi scritti degli anni Quaranta: “per uno stesso oggetto, non esistono colori fissi. Un papavero può essere grigio, una foglia nera. E i verdi non sono sempre erba, i blu non sono sempre cielo (Matisse). Chi le dice” – prosegue fingendo di rivolgersi al produttore Samuel Goldwyn – “che il vermiglione chiaro corrisponda al colore della carnagione e che in un panno bianco le ombre siano grigie? Provi a mettere accanto ad un panno bianco un cavolo oppure un cespo di rose e mi dica se è ancora convinto che le ombre del panno siano grigie (Gauguin)”. D’altra parte, nota più avanti, “la legge del bello non è nella verità della natura. Io sono tra questi, ho le idee chiare, sono in altre parole un regista colorista. Mi fa dirigere un film?” (Antonioni 2004: 193–94).6

È l’occhio del regista, dunque, tutt’altro che innocente, a cui spetta la creazione di una visione che possa mutare il nostro rapporto con il reale; ed è lì che Vitti torna, a decenni di distanza, con il desiderio di prendere parte a un processo creativo con il quale in più occasioni ha dichiarato di essersi sentita coinvolta. Di questo la sequenza iniziale di L’eclisse (1962) – in particolare la terza inquadratura, con il braccio dell’attrice che entra in campo per togliere un portacenere da una cornice e posizionarvi al centro una scultura [fig. 1] – sembra in qualche modo fungere da manifesto: Vitti è allo stesso tempo corpo osservato e corpo agente, in un dialogo con il fatto artistico che si fa visione performativa (richiamata per metonimia qui dall’oggetto frame, in lingua inglese ‘cornice’ ma anche ‘inquadratura’).7

Figura 1. L’eclisse (1962), fotogramma.

D’altra parte, infatti, scrive anni dopo dalle colonne della sua rubrica: “Invece della borsa, al braccio vorrei un secchio e un pennello e colorare le cose, le case, le persone, gli alberi e i pensieri” (1995b: 182).

I colori come strumento di trasformazione della realtà – proprio come il regista nelle parole di Antonioni – si sostituiscono peraltro alla borsetta, simbolo di quella vanità femminile su cui si costruisce frequentemente la retorica divistica, dai cui vincoli Vitti cerca in ogni modo di distaccarsi. È evidente, peraltro, in questo passaggio, l’allusione all’esperienza fatta in Il deserto rosso (1964), di cui, in Sette sottane, scrive: “È stato un vero successo, hanno anche scritto che ha dato i colori ai sentimenti. Comunque, per girarlo, con Michelangelo abbiamo dipinto tutta una strada, le case e un omino con un carretto e le sue arance. Ravenna era diventata una tela” (Vitti 1993: 81) [fig. 2].

Figura 2. Il deserto rosso (1964), fotogramma.

La scelta registica, che sembra espandere le riflessioni del giovane Antonioni e che allo stesso tempo intreccia una tendenza dell’arte coeva di cui le performance coloristiche di Yves Klein sono forse la manifestazione più nota, è ancora una volta in risonanza implicita con quell’innocenza dell’occhio verso la quale la teoria dell’arte moderna aveva insegnato a diffidare.

Nel suo I linguaggi dell’arte (Languages of Art, 1968), Nelson Goodman, studioso americano a cui dobbiamo una delle più lucide teorie del Novecento su arte, percezione e rappresentazione, dichiara senza appello che “non esiste occhio innocente. Quando si pone al lavoro, l’occhio è sempre antico, ossessionato dal proprio passato e dalle suggestioni, vecchie e nuove, che gli vengono dall’orecchio, dal naso, dalla lingua, dal cuore e dal cervello” (Goodman 2017: 15). È dunque un occhio radicato nelle emozioni, che trova, in una relazione dinamica tra il dato percettivo del presente e l’elaborazione del passato, la capacità di trasformare la realtà.

Un occhio che palpita, dunque, come quello evocato da Vitti ancora una volta dalle colonne della sua rubrica:

se avessimo tre occhi, uno dovrebbe essere usato esclusivamente per l’arte. Un occhio non contaminato dai cambiamenti, dalle distrazioni, dalla volgarità, un occhio che vede e palpita soltanto per le emozioni, per la scoperta di un tono, di un segno. […] Il terzo occhio, quello dell’arte, non si deve distrarre mai, ma essere così pazzo e innamorato da trasformare un tavolino in un cavallo, una sedia in una giraffa, una tenda in una nuvola (Vitti 1994c: 173).

2 In lotta con la realtà: l’oggetto, l’arte e la perdita

“L’arte non è una copia del mondo reale. Di queste dannate cose basta che ci sia un solo esemplare”. La frase, attribuita a Virginia Woolf e scelta da Goodman in esergo al suo testo (2017: 11), sembra risuonare in perfetta armonia con il pensiero di Vitti e la sua relazione conflittuale con il dato reale, di cui la parola dell’attrice, nei suoi scritti autobiografici come in quelli sull’arte, ha cercato più volte di dar conto. È lì che sembra annidarsi e trova nutrimento quella forma di resistenza e di libertà a cui l’attrice certamente tende e che, come ha acutamente notato Lucia Cardone, aveva già trovato un interstizio nei personaggi femminili della “tetralogia dei sentimenti”, dove già appaiono rintracciabili “i segni visibili del nascituro Soggetto Imprevisto, di queste donne problematiche, irriducibili alla norma patriarcale, centrate come sono su se stesse, sul loro desiderio, sulla lieve materialità dei loro corpi” (Cardone 2014: 143).

L’attrito con il dato concreto, il corpo a corpo con lo scorrere della vita, emerge dagli scritti di Vitti attraverso alcune tracce, di cui la perdita degli oggetti è manifestazione più vivida e ricorrente.

Vitti racconta a più riprese le modalità della sua relazione distratta con gli oggetti, spesso percepiti come entità vive e con le quali, afferma, ha “un rapporto misterioso, carnale, privato” (Vitti 1993: 51). Portatore di memorie e di sentimenti, canalizzatore di affetti e di sensualità, l’oggetto ha per Vitti un potere performativo intrinseco, assorbendo, attraverso la dimensione emotiva, le stesse caratteristiche del soggetto che ne fa uso.

Io mi affeziono a loro quasi subito, mi piacciono le materie, le temperature, il peso, le proporzioni. Non importa che siano regali o no. Regali preziosi non ne ho mai avuti e per me non ne ho mai comprati, ma mi innamoro pazzamente di certe cose e loro lo capiscono, non vogliono essere prigioniere e se ne vanno. Appena una cosa mi piace più delle altre, la perdo. Se mi piace moltissimo, la perdo subito, come una punizione (Vitti 1993: 57).

Numerosi sono gli episodi di perdita degli oggetti in cui Vitti indugia nel suo raccontarsi: dalle suppellettili che cadono in mille pezzi dalla sua libreria nel tentativo di raggiungere un libro negli scaffali più alti, alla perdita del portafoglio nel viaggio in treno che la conduce a Londra per le riprese del film Modesty Blaise (1966) di Joseph Losey. Uno smarrimento, quello, che la costringe a scendere negli inferi di un’esperienza di perdita che si allarga alla propria identità, dove la trama fragile tra l’autenticità del soggetto e la costruzione divistica arrivano alle estreme conseguenze. Nessuno, infatti, riconosce la diva e nelle lunghe ore di assenza identitaria, nell’incapacità di ritrovare nello sguardo dell’altro il riconoscimento atteso, Vitti sembra muoversi ai margini di una soggettività sfuggente e scivolosa di cui anche il passaporto – che riporta il nome all’anagrafe di Maria Luisa Ceciarelli – sottolinea i contorni sfrangiati. A un episodio di ispirazione pirandelliana si affianca quello in cui l’attrice narra la dolorosa perdita della propria casa a causa di un incendio. Ed è ancora sugli oggetti che si sofferma:

Ho cercato di immaginare la mia casa in fiamme. Rivedevo volare tutto, ma senza il fuoco. Rivedevo gli oggetti che amavo, testimoni partecipi della mia vita, sospesi, senza toccare terra, come sollevati dal vento, che restavano in aria a volare per essere visti più a lungo possibile. Per non essere dimenticati (Vitti 1993: 99).

Se, da una parte, l’immagine sembra evocarci la nota sequenza finale dell’esplosione degli oggetti in Zabriskie Point (1970), nel racconto di Vitti emerge una visione che si discosta dalla critica antonioniana alla società dei consumi. Nelle parole dell’attrice, infatti, l’oggetto non è merce, ma è elemento radicato nella dimensione affettiva – “oggetti che amavo, testimoni partecipi della mia vita”. Nel sottolineare una relazione, che si manifesta come una contiguità tra il soggetto e la cosa di appartenenza, Vitti rivela un legame che si misura fuori dalla modernità e cerca piuttosto connessioni con un’etica arcaica. La perdita dell’oggetto, descritta dall’attrice come una nemesi per troppo amore, assume infatti i contorni del sacrificio, ovvero di un atto di sottrazione, di negazione, di rinuncia. Come ci ricorda Giorgio Agamben, tuttavia, è proprio nella perdita e nella rinuncia dei beni che risiede l’antidoto allo strapotere della merce e al conseguente rapporto di alienazione che si crea con essa:

Gli studi di Mauss sul potlach e sulla prodigalità rituale […] mettono in luce tutta una serie di comportamenti (che vanno dal dono rituale fino alla distruzione dei beni più preziosi) che dal punto di vista del­l’utilitarismo economico appaiono inspiegabili e in base ai quali si direbbe che l’uomo primitivo può acquistare il rango a cui aspi­ra solo attraverso la distruzione o la negazione della ricchezza. L’uomo arcaico dona anche perché vuole perdere, e il suo rappor­to con gli oggetti non è retto dal principio dell’utilità, ma da quel­lo del sacrificio (Agamben 1977: 57).

D’altra parte, il rapporto tra Vitti e gli oggetti mai è caricato da quell’elemento tutto moderno che Jean Baudrillard individua nella funzionalità, bensì da quello arcaico dell’autenticità, che lo stesso filosofo attribuisce agli oggetti antichi, esotici, unici (Baudrillard 2009: 139-62). È qui che l’opera d’arte si manifesta, in un anelato ritorno all’era dell’irriproducibilità tecnica, come emblema stesso di questa autenticità, oggetto dal potere quasi taumaturgico. Un potere che Vitti avverte non solo nell’opera in sé, ma negli oggetti investiti del gesto creativo. Così una bottiglietta appartenuta a Giorgio Morandi diventa un talismano capace di placare l’ansia: “una volta ho messo in valigia una bottiglia lunga, leggera, che mi aveva regalato Giorgio Morandi. Pensavo che mi sarebbe stata proprio necessaria. Lo è stata. Mi ha tranquillizzato” (Vitti 1993: 116).

Vi è qui, evidentemente, la proiezione di una memoria emozionale basata sull’esperienza di visita allo studio dell’artista, che l’attrice sceglie di raccontare, non a caso, nel primo articolo della sua rubrica: “Giorgio Morandi era calmo e sereno, i suoi occhi trasparenti, dolci, si posavano sulle persone e sulle cose con attenzione, con rispetto. Parlava a voce bassa, forse perché stava molte ore in silenzio, a guardare e a capire i misteri degli oggetti” (Vitti 1994a: 160).

3 “Dalle vene al cervello”: arte, emozione e metamorfosi

Di Giorgio Morandi Vitti aveva due opere, un paesaggio e una natura morta, entrambe perdute nell’incendio della sua casa assieme al primo dipinto della sua collezione, della serie Compenetrazioni iridescenti (1912-13) di Giacomo Balla che, ci racconta ancora una volta nel primo articolo della rubrica, acquistò con i suoi primi cospicui guadagni, forse derivati dal successo del film L’Avventura (Vitella 2010):

Con i miei primi soldi non ho comprato né vestiti né scarpe di cui avrei avuto molto bisogno, ma un foglietto di carta con sopra dei disegni e dei colori bellissimi: era Compenetrazioni iridescenti di Balla. Che emozione poter comprare un quadro! […] Ero molto felice tenendomelo sotto il braccio. L’ho messo sulla parete di fronte alla scrivania (Vitti 1994a: 160).

Arte e scrittura, dunque, condividono lo stesso spazio, quella “stanza tutta per sé” che per la diva diviene luogo di libertà ma soprattutto di rigenerazione, reinvenzione, rinascita. Così scrive nel suo ultimo articolo della rubrica:

L’arte è perfetta se ha equilibrio? Sì e forse anche no, la mancanza di perfezione nasconde la fantasia e la libertà. Lei, la perfezione vestita sempre dello stesso colore, con gli occhi fermi, freddi, orgogliosa e sicura, mi annoia, la posso prevedere, mentre l’imperfetto è avventuroso, libero, pronto a cambiare, a rinnovare, a reinventare e fortunatamente anche a cancellare e ricominciare (Vitti 1996b: 108). 

Ancora una volta emerge qui quella capacità trasformativa del reale che è prerogativa dell’atto artistico più volte evocata da Vitti e che trova anche nel cinema – Il deserto rosso e la colorazione del profilmico ne sia l’esperienza più esplicita – concreta manifestazione. Una trasformazione che passa attraverso il dato emozionale di cui l’arte resta, per Vitti, principale veicolo, materia alchemica dove mettere in moto l’energia di una relazione vitale con l’oggetto della visione. Così scrive ancora una volta nel suo ultimo articolo della rubrica: “non voglio fare a meno di niente, voglio scoprire colori ed emozioni anche nel pulviscolo in movimento di un raggio di luce, anche lì c’è tanta vita da diventare musica e colore” (Vitti 1996b: 108).

L’opera d’arte è dunque il tramite con cui lo sguardo accede a una dimensione sinestetica che è terreno di incontro tra emozione e intelligenza: “L’immagine della pittura passa dagli occhi alle vene al cervello” (Vitti 1994c: 173). La creatività si esprime in questo senso non solo attraverso il gesto artistico, ma anche attraverso l’atto stesso del guardare, che contiene in sé un elemento attivo di metamorfosi. In questo Vitti richiama il suo noto difetto di vista, più volte evocato ironicamente come tratto fondativo di quella presunta alienazione che avrebbe incarnato dentro e fuori il cinema realizzato con Antonioni.

I miei occhi non vedono la normalità, la deformano, perché sono miope, ipermetrope, astigmatica e presbite. Però vedono altro. Ho visto, per esempio, una statua camminare, ma questo è abbastanza spiegabile, dovranno pur sgranchirsi le gambe. Ho visto un albero cambiare posizione, torcendo il tronco, e una fontana ingoiare l’acqua (Viti 1995a: 29).

Un “vedere con l’occhio della mente” di amletica memoria che tuttavia ci riannoda anche con una genealogia femminile che aspira a una relazione panica con il mondo. Così Vitti, in Il letto è una rosa, prende le distanze dall’alienazione proprio in virtù di una fusione tra i corpi:

Negli Anni Sessanta, con Michelangelo Antonioni, ho ispirato “l’alienazione”, che è quanto di più lontano ci sia da me. Almeno spero. Io sono legata a tutto, mi sento di far parte di una strada, di un bacio, di un saluto (Vitti 1995a: 27).

Questa prossimità di contatto tra corpo e oggetto è, d’altra parte, la misura con cui l’attrice sembra accedere alla realtà fin dall’infanzia. Ne trova testimonianza uno dei racconti su cui si sofferma in Sette sottane. L’episodio si inquadra nelle numerose occasioni in cui l’attrice narra strategie, passate e presenti, di superamento degli stati depressivi. In una grammatica di narrazione in prima persona dagli echi femministi, Vitti si addentra nelle minuzie di un piccolo ma significativo atto di sovversione:

In uno di quei giorni di disperazione totale ho deciso di fermarmi. Non avevo, come non avrei adesso, il coraggio di uccidermi. Allora ho deciso di fermarmi. La vita sarebbe continuata, ma io finalmente non l’avrei vissuta. Era la mia ribellione, la mia unica possibilità: dovevo fare una piccola rivoluzione. Piccola perché personale, casalinga, perché apparteneva a una persona sola, ma non per questo meno totale.

Mi sono seduta sulla mia poltrona: una poltroncina molto avvolgente come un abbraccio, di legno chiaro, con la tappezzeria scolorita. Né il disegno né i colori erano ormai decifrabili e proprio per questo l’amavo molto. Mi dava spazio, mi lasciava immaginare disegni e colori ogni giorno diversi.

Ecco, ero seduta sulla mia poltroncina. Era successo qualcosa di grave, non ne potevo più. Ho smesso di parlare, di bere, di mangiare. Ho interrotto tutto con un taglio netto. Mi sono seduta, ho messo le mani sui braccioli e sono diventata tutt’uno con lei. Dopo poco, mi sono sentita proprio una poltroncina. Le mie braccia si stavano incorporando con i braccioli. Le mie gambe con le sue gambe. Forse anche il mio vestito e i miei capelli si erano mescolati. Lei, la poltroncina, avrà avuto un battito al cuore, solo per poco, nel sentirsi viva e anch’io nel sentirmi morta (Vitti 1993: 89-91). 

Una vera e propria esperienza di resistenza e messa al rischio del sé, in cui i tratti mistici di manifestazioni al limite delle possibilità fisiche si mischiano al carattere performativo che ha radice nella decisione di un gesto: “mi sono seduta, ho messo le mani sui braccioli e sono diventata tutt’uno con lei”. Non sembreranno così lontane, forse, le Siluetas di Ana Mendieta (1973-80), dove l’artista di origine cubana si fonde con l’ambiente circostante lasciando letteralmente una traccia di sé, né le video-performance che Marina Abramović dedica a Santa Teresa D’Avila e alle sue estasi avvenute nello spazio “piccolo e casalingo” della cucina.8 Qui è tuttavia l’atto del vedere, dove si annida la libertà immaginativa – “mi dava spazio, mi lasciava immaginare disegni e colori ogni giorno diversi” – che permette di accedere a una dimensione performativa e metamorfica, nel confine percorribile tra la vita e la morte che è ancora una volta indice di una relazione quasi alchemica con l’oggetto.

4 L’arte come eccesso di realtà

Non è difficile ritrovare in questo ricordo l’immagine di una Vitti ormai adulta, seduta su un divanetto damascato nella sequenza di Il deserto rosso in cui Giuliana e Corrado vengono accolti nella casa dell’operaio. Mentre la donna racconta, in una falsa narrazione di secondo grado, la sua esperienza depressiva, il suo corpo si accascia quasi a fondersi con la tappezzeria [fig. 3]. Sembra così potersi rintracciare la eco di un vissuto personale dall’attrice: legittimo pensare che Antonioni ben conoscesse l’episodio biografico della compagna e ne condividesse le esperienze di prossimità e di fusione con la realtà e gli oggetti circostanti.

Figura 3. Il deserto rosso (1964), fotogramma.

Seppure, infatti, il film si inserisca nitidamente nel dibattito sulla società dei consumi particolarmente acceso a metà degli anni Sessanta, alcune scelte di Antonioni potrebbero essere il frutto di uno scambio vivo e dinamico con Vitti.9 Ci indirizza verso questa interpretazione un documento proveniente dall’archivio del regista. Si tratta di un quaderno di appunti “scritto a quattro mani”, come riportato dalla scheda archivistica, durante un viaggio in Sardegna per l’individuazione di alcune location del film.10 Tra le annotazioni di viaggio scritte dalla penna di Vitti, emerge con chiarezza la narrazione di quell’esperienza di prossimità fusionale con gli oggetti tipica dei suoi momenti di malessere: “Oblò. Soffocamento. Mi sveglio di soprassalto con Alì [personale dell’equipaggio, ndr] che sta chiudendo l’oblò sul letto. Io sono già tutt’uno con l’oblò”. 

Figura 4. Selezione di fotogrammi da Il deserto rosso (1964).

D’altra parte, sembra possibile rinvenire, nelle campiture monocrome di Il deserto rosso dove spesso il corpo di Vitti si staglia, o meglio si fonde, questo tentativo di annullarsi dentro la realtà circostante [fig. 4]. Se è vero, infatti, come ha notato recentemente Alberto Scandola, che lo sguardo di Antonioni sembra confondere corpi, cose e paesaggi “come se, in fin dei conti, la silhouette dell’attrice avesse lo stesso peso narrativo, emotivo, simbolico di un muro, di un tavolino (L’eclisse) o di una ciminiera (Il deserto rosso)” (Scandola 2020: 96), dall’altra è forse legittimo pensare che questa postura non sia dettata solo da quella dittatura della regia, da quella “urgenza poetica dell’autore” (Scandola 2020: 11) che caratterizza il cinema moderno, ma anche dalla conoscenza, da parte del regista, delle esperienze vissute dalla compagna.

Nell’attraversare e farsi inghiottire da oggetti e superfici, come un corpo incastrato nella materia, Vitti agisce e avanza come un automa e sembra far risuonare alcuni straordinari versi di Guido Cavalcanti – “I’ vo come colui ch’è fuor di vita, che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia fatto di rame o di pietra o di legno”. Tuttavia, lo stesso corpo dell’attrice offre alle superfici dove si abbandona un’increspatura vitale, quel “battito al cuore” di un corpo alienato, sì, ma “con riserva” (Busni 2019: 25–28). Nella diffusa interpretazione del personaggio di Giuliana come incarnazione della natura che si oppone all’artificialità della vita moderna, la fascinazione verso l’arte informale testimonia la volontà del regista di portare alla luce forme di linguaggio pre-culturale che esprimano visivamente i toni della disarmonia con la modernità. A differenza di L’eclisse, dove l’informale appare in forma di citazione diretta con l’inserimento di dipinti nella casa di Riccardo nella sequenza iniziale, Il deserto rosso sembra in questo senso compiere un salto in avanti, attraverso un profilmico in dialogo aperto con le pratiche materiche di Burri, Afro, Dubuffet. Il corpo di Vitti è così fuso in spazi materici che riportano alla dimensione originaria, quella dimensione che precede la civilizzazione. Secondo Angela Dalle Vacche,

Dubuffet’s materials are so close to the origins of our human birth, made of blood and faces, that death blends with life in those works in the same disturbing way that Giuliana’s femininity threatens the director with a fall back into something liminal and unnameable (Dalle Vacche 2006: 188).

Questa capacità di Vitti di stare nella dimensione “liminale” e “non nominabile” – “Giuliana è di per sé soglia, e per tanto non identificabile”, scrive Simona Busni (2020: 163) – non è tuttavia obbligatoriamente interpretabile come ostacolo e “minaccia” alla visione di Antonioni, ma, al contrario, come una mano tesa a guidare il regista in quella dimensione antirealistica che egli stesso affermava di aver perseguito come una nuova dimensione espressiva. Il deserto rosso è infatti, come racconta nella nota intervista a Jean-Luc Godard in occasione dell’uscita del film,

realista in modo diverso. Per esempio, mi sono servito molto del teleobiettivo per limitare la profondità di campo che, invece, è un elemento essenziale del realismo. Quel che mi interessa ora è mettere i personaggi in contatto con le cose, perché oggi quello che conta sono le cose, gli oggetti, la materia (Antonioni 2009: 257).

Se la trama di queste riflessioni è certamente rintracciabile nelle forme delle teorie sociologiche e letterarie di matrice francese allora diffuse – da Roland Barthes a Edgar Morin, da Alain Robbe-Grillet a Georges Perec (quest’ultimo pubblica il suo noto romanzo Les Choses nel 1965) – non è da escludere che il dialogo con Vitti sia entrato in risonanza con lo sguardo del regista, certamente attratto dal femminile come luogo di un’alterità da interrogare. D’altra parte, è lo stesso Antonioni a definire Giuliana “un personaggio che partecipa alla storia in funzione della sua femminilità, del suo aspetto e del suo carattere femminile, elementi che reputo essenziali” (Antonioni 2009: 260). Allargando lo sguardo all’intera tetralogia, Cardone ha notato come “il legame fra Antonioni e i personaggi femminili sia di natura ancor più profonda e che proprio i corpi e i gesti di queste donne siano l’origine, la matrice di quel guardare ‘senza fine’ che informa la produzione più matura dell’autore, la sua ‘critica dello sguardo’” (Cardone 2014: 148).

Rimanendo saldi in questo intreccio, occorrerebbe dunque tenere fede alle dichiarazioni dell’attrice a proposito della sua presunta alienazione, dalla quale, come è stato già notato, prende ripetutamente le distanze, e interpretare con occhi diversi anche quell’allusione alla separazione dei corpi pronunciata da Giuliana in una delle sequenze finali del film – “I corpi: sono separati. Se lei mi punge, lei non soffre, eh?!…”. Più che una forma di alienazione, infatti, il principio di scollamento a cui Giuliana dà voce sembra di fatto il rovesciamento dialettico della fusione più volte richiamata. Come ha già notato Busni (2019: 25–28), Vitti richiama quelle battute in un passo dei suoi scritti autobiografici: “Io sono come… separata, e sto perdendo quel po’ di collegamento, di equilibrio che ho cercato di mantenere, di ritrovare” (Vitti 1993: 61). Nel presentarci in uno stesso testo esperienze di prossimità e di separazione, Vitti ci accompagna in una dimensione complessa di dialogo con il mondo che affonda nella tattilità della visione e del linguaggio e arriva all’emozione come spazio di produzione del significato.

Se il personaggio Giuliana incarna la noia – quell’ “insufficienza di realtà”, come la definiva Moravia (Moravia 2017 [1960]: 5) – è perché è l’unica, come nota Lorenzo Cuccu, che avverte la “consapevolezza della lacerazione” (1973: 2010) poiché capace di “vedere e sentire le cose, affidandosi totalmente all’impressione” (1973: 214). Potremmo affermare che Giuliana è immersa dunque nella dimensione di un “cuore pensante” (Hillesum 2012: 215) che tuttavia assiste, nelle parole del regista, allo “sfasamento tra la sua sensibilità, la sua intelligenza, la sua psicologia e il ritmo che le è imposto” (Antonioni 2009 [1964]: 256). Il battito del cuore di Giuliana non trova risonanza con il rumore metallico e privo di vitalità che la modernità produce ma non rinuncia al “tentativo di risarcirsi con un surplus di sensibilità oggettuale, di dialogo sensoriale con le cose” (Cuccu 1973: 2010).

È proprio quel battito, quel palpito, che invece Vitti cerca ostinatamente nella sua scrittura e nel suo rapporto con l’arte. Racconta, così, ancora dalle colonne della sua rubrica sull’arte, che all’ingresso del Museo Prado le “battevano le vene e i polsi” (Vitti 1994b: 168) e che davanti agli affreschi della Cappella Scrovegni “l’emozione” le “arrivava dagli occhi al cuore” e “le palpebre [le] battevano, così come le tempie” (Vitti 1994c: 173). D’altra parte, afferma, “l’immagine della pittura passa dagli occhi alle vene al cervello” (Vitti 1994c: 173). Ecco che l’insufficienza di realtà sembra lasciare qui il posto al suo opposto, ovvero a un eccesso di realtà, dove rintracciare il principio della resistenza stessa alle forme di alienazione. Vitti è in questo in continuità con alcune forme della scrittura femminile radicate nell’empatia, in cui il pensiero si fa carne e la visione entra in uno spazio aptico. Così Etty Hillesum, nel diario che tiene negli anni che precedono la sua deportazione ad Auschwitz, afferma che occorrono “altri organi oltre la ragione” per poter comprendere la realtà che la circonda e di voler “toccare con la punta delle dita i contorni” del suo tempo (Hillesum 1990: 44–45); mentre Edith Stein, filosofa che decide di abbracciare la vita monastica, spiega l’empatia come “un pensare al quale partecipa ‘tutto l’uomo’” e che  “agisce sugli organi vitali: sul battito del cuore, sulla respirazione, sul sonno, sulla nutrizione. Ciò accade perché egli ‘pensa con il cuore’” (Stein 1988: 452).11 Una forma del pensiero che si schiude nel tempo in bilico tra sensi, memoria ed emozioni. Ancora a proposito della Cappella degli Scrovegni, Vitti scrive:

noi vediamo l’opera come è giusto che sia, con i segni degli anni e il peso degli sguardi. Certo non è quello che voleva l’autore. Ma immaginarla, pensarla sotto il velo della polvere e dei giorni è anche un’operazione dolcissima, un omaggio, un ulteriore pensiero d’amore rispetto all’opera. Come quando si guarda la propria mamma, ormai settantenne e la si trova bella, come quando eravamo bambini (Vitti 1994c: 173).

Per Vitti l’opera d’arte è luogo di superficie materica stratificata nel tempo da cui scaturiscono stati d’animo e pensieri ricamati sui contorni dell’io. Risuonano qui non solo le riflessioni di Giuliana Bruno, secondo cui “le opere artistiche sono capaci di catturare la temporalità e la memoria in modi texturali, […] possono produrre tracce di esistenze e mostrare la sedimentazione del tempo” [Bruno 2016: 204], ma anche gli studi di Martha Nussbaum sull’intelligenza delle emozioni che, nelle parole della filosofa americana, “riguardano in parte il passato e recano le tracce di una storia che è insieme universalmente umana, socialmente costruita e peculiare del soggetto” (Nussbaum 2001: 223).

5 Conclusioni

Nelle parole dell’attrice l’arte sembra dunque rappresentare l’attivatore di un movimento che mira a superare la tradizionale dicotomia tra pensiero ed emozione, dove all’opera d’arte è affidato il compito di una sapiente cucitura tra le manifestazioni fisiche delle emozioni e il pensiero immaginifico in grado di trasformare ed espandere la realtà circostante. In questo, Vitti evoca un’altra nota dicotomia, quella tra natura e cultura. “L’occhio che palpita” è dunque felice sintesi di una capacità di elaborazione analitica che non rinuncia all’emozione che passa dallo sguardo al corpo alla mente. La tradizione che affida al femminile i caratteri della ferinità si incontra qui con la possibilità di percorrere una strada diversa. Non è forse un caso se, proprio dalle colonne della sua rubrica sull’arte, l’attrice sceglie di richiamare, senza farne menzione esplicita, la nota sequenza della fiaba in Il deserto rosso. Il racconto si inserisce in una riflessione sull’intreccio tra pittura e realtà: quella del mondo circostante, quella delle emozioni, quella dell’immaginazione. Se nel film il personaggio di Giuliana si fa simbolo di una natura dominata dal progresso, in cui la nevrosi è forma di relazione disarmonica con la realtà, Vitti sembra offrire al suo stesso personaggio, ad anni di distanza, uno spazio di riconciliazione, dove ritessere i fili di una trama armonica e lieve con il mondo. Una riconciliazione che prende corpo proprio tra le righe del suo Occhio innocente, in cui il cinema affiora come le linee di un ricamo e la confusione tra attrice e personaggio,12 scrittura memoriale e finzionale si fa densa.

Dopo una mostra posso uscire dal museo, confondermi con la gente, guardare le vetrine. Ma non serve a niente: io sono un cielo di Velasquez gonfio di nuvole in movimento e mi sovrasta, si abbassa sempre di più, sopra di me, mi costringe ad accucciarmi, a chiudere gli occhi. […] Ma le immagini continuano a sovrapporsi, i paesaggi si trascinano sul mare, il mare cerca con violenza di spazzare via gli scogli. […] Riapro gli occhi. Il mare è ancora accanto a me ma ora è calmo, è dolce: ha delle ondine che giocano serenamente una dopo l’altra.  Ecco ora si sono fermate, si è anche fermato il vento, il profumo degli alberi, i suoni lontani, le parole degli altri che sono scivolate sulla sabbia per darmi un messaggio. L’azzurro mi ama, me lo ha detto chiaramente. Si è poggiato sulla mia pancia e non pensa affatto di andare via. Sa che avevo perso la testa per un verde leggero, ma mi perdonerà: è stata solo un’avventura (Vitti 1995b: 182).

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  1. La rivista è la versione italiana del noto periodico francese fondato dal critico Christian Zervos nel 1926 e attivo fino al 1960. Con il sottotitolo di “rivista internazionale di arte e cultura” e diretto da Carmine Benincasa, Cahiers d’Art Italia venne pubblicata dal 1994 al 1997 dall’omonimo editore con sede a Roma. La vicenda editoriale non è delle più fortunate, come dimostra la saltuaria cadenza bimestrale e il breve ciclo di vita della rivista.↩︎

  2. Rimando su questo a Ead. “L’attrice che scrive, la scrittrice che recita. Per una mappa della ‘diva-grafia’.” In Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano. Arabeschi, edited by Lucia Cardone, Giovanna Maina, Stefania Rimini, and Chiara Tognolotti, 10: 366–371.↩︎

  3. È la stessa Vitti ad esprimersi chiaramente in questo senso. In un incontro con gli e le studenti di recitazione del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma (CSC), dichiara con fermezza che in Italia i registi cinematografici trattavano, all’epoca, “gli attori come oggetti”, sottolineando più volte che, in una sorta di dittatura dell’autore, chi recitava “non doveva pensare”. L’attrice non sottolinea qui alcuna differenza tra condizione maschile e femminile e, senza menzionarlo in modo esplicito, lascia intravvedere la pesante eredità del Neorealismo e della sua predilezione per gli attori non professionisti. Tuttavia, proprio nel solco di quell’esperienza, le vicende più volte riportate della costruzione divistica al femminile, segnata spesso da una mancanza di formazione attoriale iniziale e narrata come una miscela di bellezza e incontro fortuito con registi e produttori, sembrano accentuare con forza una condizione dell’attrice privata della dimensione del logos come spazio di autonomia e autodeterminazione. Senza addentrarmi qui in un dibattito che ha recentemente animato gli studi sul divismo femminile, mi limito all’ambito italiano segnalando l’analisi di Mariapaola Pierini sul caso di Stefania Sandrelli: Ead., Professione attrice. In La donna visibile. Il cinema di Stefania Sandrelli,, edited by Daniela Brogi, 21-29. Pisa: ETS e la recente pubblicazione a cura di Chiara Tognolotti (2020) Cenerentola, Galatea e Pigmalione. Raccontare il divismo femminile nel cinema tra fiaba e mito. Pisa: ETS. L’incontro di Monica Vitti è visibile dal canale youtube del CSC a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=xC0_m69qz4Y [Ultimo accesso 30.05.2021].↩︎

  4. In questo, come è noto, Jane Austen ricopre un ruolo di primo piano. Si veda su questo Battaglia, Beatrice (1983), La zitella illetterata. Parodia e ironia nei romanzi di Jane Austen, Ravenna: Longo Editore. A proposito dell’ironia come cifra del linguaggio femminile si veda anche Simi, Giulia (2017). “Appunti sul dandismo al femminile: la Contessa Clara alle radici della Signorina Snob di Franca Valeri”. In Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano. Arabeschi, edited by Lucia Cardone, Giovanna Maina, Stefania Rimini, and Chiara Tognolotti, 10: 519-521.↩︎

  5. Nell’impossibilità ricostruire in questa sede il dibattito sull’occhio innocente, mi limito ad accennarne le origini e a ripercorrere alcuni dei riferimenti che, per prossimità storica e culturale, sono intrecciati con le riflessioni di Antonioni sulla visione certamente condivise anche da Vitti.↩︎

  6. L’articolo è comparso per la prima volta in «Film rivista», il 18 dicembre 1947. Si veda anche Pierotti, Federico (2016). Un’archeologia del colore nel cinema italiano Dal Technicolor ad Antonioni. Pisa: ETS: 200-207.↩︎

  7. Sono grata al suggerimento di uno(a) dei(lle) due reviewer di questo saggio per il richiamo all’inquadratura di L’eclisse (1962) qui analizzata.↩︎

  8. Le ricerche delle artiste che seguono – e in alcuni casi precedono – l’esplosione del neofemminismo a partire dalla fine degli anni Sessanta sono numerose e attraversano una pluralità di media, contesti, spazi geografici. Per quanto riguarda l’ambito italiano, si vedano alcune recenti pubblicazioni. Casero, Cristina (a cura di, 2021). Fotografia e femminismo nell'Italia degli anni Settanta. Rispecchiamento, indagine critica e testimonianza, Milano: Postmediabooks; Subrizi, Carla (2021). La storia dell’arte dopo l’autocoscienza. A partire dal diario di Carla Lonzi, Roma: Lithos; nella specificità dell’ambito del cinema sperimentale e del video di ricerca, si veda Simi, Giulia (2018). Soggetti imprevisti. Le avanguardie dagli anni Sessanta a oggi. In We want cinema: sguardi di donne nel cinema italiano, edited by Laura Buffoni. Venezia: Marsilio.↩︎

  9. Vitti stessa allude più volte, nei due testi autobiografici, al coinvolgimento attivo nella cosiddetta tetralogia dei sentimenti, e dichiara esplicitamente, nell’incontro al CSC citato sopra (1988), di aver “partecipato alle sceneggiature”. Lucia Cardone ha recentemente sottolineato il “contributo di Vitti ai film della tetralogia, film che propriamente sono nati dallo sguardo di Antonioni e insieme dal corpo e dalla soggettività di Vitti”, ricordando, inoltre, che già Oriana Fallaci aveva definito il loro rapporto “un’intesa che non è amore né collaborazione ma complicità” (Cardone 2017: 157).↩︎

  10. Si tratta del documento b. 8C/1, fasc. 10 di cui riporto la prima parte della scheda archivistica: “Il fascicolo raccoglie appunti su di una crociera in Sardegna. Il testo sembra scritto da due mani diverse, e alcune parti scritte in prima persona fanno pensare si tratti di una persona di genere femminile. Inoltre, a volte appare il nome”Michele“, forse abbreviazione di”Michelangelo“. Un riferimento a una Monica che viene riconosciuta dai passanti (prob. Monica Vitti) e dei riferimenti a un'isola rosa che nessuno conosce (prob. Budelli) fanno pensare che si tratti di appunti per i sopralluoghi di Il deserto rosso.” Ringrazio Laura Quaggia e Francesca Gavioli dell’Archivio Michelangelo Antonioni per avermi permesso l’accesso digitale al documento nei difficili mesi di chiusura degli archivi a causa dell’emergenza sanitaria alla fine del 2020.↩︎

  11.  Si veda Boella, Laura (2020). Cuori pensanti. 5 brevi lezioni di filosofia per tempi difficili. Firenze: Chiarelettere: 7–24, 58–75.↩︎

  12. Si veda, su questo, il celebre studio di Richard Dyer, Stars, British Film Institute, London 1979. Trad. it. (2009) Star. Torino: Kaplan e quello di Ruth Amossy, specificamente dedicato alle strategie di rappresentazione del sé: “Autobiographies of Movie Stars: Presentation of Self and Its Strategies”, Poetics Today 4, 1986: 673-703. In ambito italiano, Jandelli, Cristina (2007), Breve storia del divismo cinematografico. Venezia: Marsilio. D’altra parte, come nota Maria Rizzarelli, la “confusione fra attore e personaggio” non è solo “uno dei topoi delle divagrafie”, ma “soggiace ontologicamente alla natura ibrida della star”. M. Rizzarelli, “Il doppio talento dell’attrice che scrive. Per una mappa delle ‘divagrafie’”. Cahiers d’études italiennes, 32, 2021. https://doi.org/10.4000/cei.9005↩︎