Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.19 (2021), 201–215
ISSN 2280-9481

Edgar Reitz e Carlo Ginzburg tra storia e morfologia. Ricostruire la duplicità di un’origine transculturale

Guido GinestraIndependent researcher (Italy)

Guido Ginestra graduated in Philosophy from the Sapienza University of Rome and earned his Master’s degree in Aesthetics from the University of Milan. His dissertation discussed the influence of the Goethean morphological tradition on Edgar Reitz’s cinema. His research interests focus on Heimat and the relationship between Film Studies, History and Morphology.

Ricevuto: 2021-04-07 – Accettato: 2021-04-07 – Pubblicato: 2021-08-04

Edgar Reitz and Carlo Ginzburg between History and Morphology: Reconstructing the Duplicity of a Transcultural Origin

Abstract

Through a comparison with Ginzburg’s historical inquiry and an analysis of a number of significant scenes from Die andere Heimat (2013), this paper aims to investigate the fundamental problem that the director Edgar Reitz constantly faces in the hard and endless attempt to represent the Heimat. By an analysis of the editing in Reitz’s trilogy, the essay will show that the core of the problem is the conflictual and paradoxical relationship between a historic-chronological conception of the original form, repeating itself in cross-cultural variations in space and time, and an innate and archetypical imagination of it. It is argued that both authors, conscious of the limits of the knowledge of the past, are prone to entertaining the paradoxical hypothesis, borrowed from Goethe’s morphological approach, according to which the origin of some formal affinities found in the comparative work of data editing, made in their investigation with the aim to reconstruct the temporal sequence of a historical tradition, could present a non-chronological and archetypical part. The first part of the essay will also include a preliminary examination of the hypothesis of an influence of Goethean morphology on Reitz’s work.

Keyword: Edgar Reitz; Carlo Ginzburg; History; Morphology; Origin.

In un saggio del 1982 intitolato Datazione assoluta e datazione relativa: sul metodo di Longhi, Carlo Ginzburg esprimeva un giudizio a tutt’oggi condivisibile. Lo storico italiano evidenziava infatti la mancanza di uno sguardo sinottico sulla “morfologia dinamica”, che fosse in grado di circoscriverne adeguatamente i confini (1982: 9). Sappiamo per certo, tuttavia, che i presupposti di questo “progetto grandioso, che come si sa percorre le scienze umane e naturali, in modi diversi, fin dall’800” (1982: 9), affondano le proprie radici nell’opera di Goethe.1 Proprio nella sua produzione letteraria e artistica, nonché nelle sue ricerche condotte in ambito naturalistico, sono stati elaborati quei concetti fondamentali della morfologia, intesa precisamente come lo “studio delle forme assunte dalla natura nelle sue metamorfosi” (Zecchi 2017: 10), che hanno costituito, durante tutto il ’900, un riferimento imprescindibile per un’ingente quantità di ricerche, soprattutto di lingua tedesca.

Le nozioni di tipo, fenomeno originario e polarità, associate all’idea di un intreccio complesso che definisce la relazione tra il particolare e l’universale, ad una concezione del piano trascendentale immanente al sensibile (da cogliere già attraverso la percezione visiva), come pure ad una visione dell’esperienza scientifica prospettica e rispettosa della complessità dell’oggetto d’indagine, hanno esercitato, di fatto, un influsso profondo tanto sulle scienze biologiche,2 quanto sul sapere filosofico e artistico, dalla gnoseologia all’estetica, dalla teoria della letteratura alle arti visive, dalla storiografia alla scienza della cultura.3

All’interno di questo articolo proveremo ad estendere questo paesaggio critico, cercando di mostrare come anche Edgar Reitz abbia consapevolmente attinto ad un simile arsenale di concetti per cercare di esplorare la duplicità paradossale e strutturale radicata al principio del concetto stesso di Heimat. Nella trilogia heimatiana, infatti, la dialettica tra Heimat e Fremde (“patria” e “terra straniera”), riconducibile anche a quella tra dableiben e weggehen (“restare” e “andare via”), riferita al movimento di un’origine intesa in termini tanto spaziali quanto temporali,4 solleva una problematica di natura morfologica. La tensione tra questi due termini allude, in effetti, per il regista tedesco, alla ripetizione sempre variata, nello spazio e nel tempo, di un bagaglio di forme già note (tipiche), nonché alla rappresentazione storica delle loro metamorfosi transculturali.5 Tuttavia, se da una parte la forma originaria è pensata da Reitz in rapporto alla storia, ossia come punto iniziale collocato nel tempo, modello tradizionale rispetto al quale i fenomeni che ne derivano (le sue varianti) possono avvicinarsi in misura maggiore o minore per via di imitazione, dall’altra, in senso più propriamente goethiano, essa sembra essere concepita come un’origine non cronologica, una legge innata e archetipica, che soggiace alla trasformazione del mondo fenomenico e dalla quale ogni sua variazione non può che risultare equidistante.

L’analisi di questo rapporto verrà condotta mediante il riferimento ad alcune sequenze particolarmente significative del lungometraggio L’altra Heimat (Die andere Heimat, 2013) e attraverso il confronto costante con il metodo storico di Carlo Ginzburg, autore alle prese con un problema analogo, nonché profondamente influenzato, a sua volta, dalla tradizione morfologica.

Per cominciare, tuttavia, sarà necessario indagare, brevemente e in via preliminare, il rapporto più generale che sussiste tra il cinema di Edgar Reitz e la morfologia.

2 Un intreccio tra storia e morfologia: Edgar Reitz e Carlo Ginzburg

Nella prefazione ad un testo del 1986 intitolato Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Carlo Ginzburg faceva retrospettivamente il punto della situazione su una riflessione che lo impegnava già da diversi anni. Lo storico italiano cominciava infatti ad interrogarsi sulla possibilità di integrare all’interno del lavoro di ricostruzione storica, anche una strategia di comparazione e di classificazione dei dati – che in precedenza Marc Bloch aveva definito “etnologica” ed escluso dall’area di interesse della storiografia – riguardante quelle analogie formali che possono essere rilevate tra fenomeni storicamente indipendenti. Un simile confronto tra elementi la cui somiglianza non dipende da un rapporto cronologico può essere definito – a tutti gli effetti – morfologico in senso goethiano.24 Come abbiamo visto, all’interno della riflessione di Goethe, la forma ricorrente e sottesa alla trasformazione del molteplice sensibile, su cui si esercita la metodologia comparativa, presenta infatti le caratteristiche di un vero e proprio fenomeno originario, un modello innato e atemporale già inscritto nella natura di ogni variazione che lo determina. Questa distinzione tra un’origine storico-cronologica ed una innata e archetipica – che Carlo Ginzburg non ha più smesso di esplorare – è proprio quella che per Reitz si radica al principio del concetto stesso di Heimat. L’intera trilogia solleva, effettivamente, il problema di come una simile relazione – non priva di paradossi – debba essere intesa e rappresentata.

La giustificazione teorica dei presupposti concettuali di una tale impresa metodologica viene fornita allo storico italiano da alcune riflessioni, esplicitamente debitrici nei confronti della morfologia goethiana, formulate da Wittgenstein nelle Note sul “Ramo d’oro” di Frazer. All’interno del testo, l’autore distingue infatti due modi di intendere le relazioni di somiglianza formale che consentono di raccogliere insieme i dati della ricerca. Se il primo prende in considerazione l’ipotesi di uno sviluppo storico che possa spiegare l’affinità morfologica del materiale, il secondo riguarda invece la possibilità di riassumere gli elementi simili in una “rappresentazione perspicua” (1975: 29) senza alcun rapporto di derivazione cronologica al suo interno. Ma la seconda strategia – più propriamente morfologica25 –, giudicata dall’autore del testo implicitamente superiore, viene adoperata da Ginzburg soltanto in funzione strumentale. “Quando mi decisi ad affrontare il rapporto tra benandanti friuliani e sciamani siberiani [trascurato per via di un iniziale rifiuto della comparazione”etnografica“], la morfologia riemerse, configurandosi non come un fine ma come un mezzo: uno strumento ineludibile al servizio della storia (morphologia ancilla historie)”, scriverà infatti Carlo Ginzburg – riflettendo a posteriori sulle precedenti ricerche – in un’opera del 1989 intitolata Storia notturna, all’interno della quale la riflessione su “morfologia” e “storia” verrà ulteriormente approfondita (2017: 349).

Come lo storico italiano cominciava già ad accorgersi durante il lavoro di ricognizione del materiale per la stesura del libro, se la morfologia non poteva sostituire la ricostruzione dei dati in termini di sviluppo storico, poteva tuttavia favorire una fase preliminare di comparazione, esclusivamente tipologica, da operare su tutti quegli elementi appartenenti a contesti culturali anche molto dissimili – e dunque difficilmente riconducibili nell’immediato alla conoscenza storica – che soltanto successivamente si sarebbe potuto tentare di disporre in una successione cronologica. Nella prefazione a Miti emblemi spie, Ginzburg lo spiega con chiarezza:

Improvvisamente mi accorsi che nella ricerca in corso da anni sul sabba stavo adoperando un metodo molto più morfologico che storico. Raccoglievo miti e credenze provenienti da ambiti culturali diversi, sulla base di affinità formali. […] riconoscevo […] omologie profonde […]. Le connessioni storiche non potevano guidarmi, perché quei miti e quelle credenze […] potevano risalire a un passato molto più antico. Usavo la morfologia come una sonda, per scandagliare uno strato inattingibile agli strumenti consueti della conoscenza storica. […] Nelle mie intenzioni, il lavoro di classificazione dovrebbe costituire una fase preliminare, volta a ricostruire una serie di fenomeni che vorrei analizzare storicamente (Ginzburg 2000: XIV-XV).

Interrogato sulla genesi del film Die andere Heimat, ambientato durante gli anni delle migrazioni tedesche in Sudamerica, anche Edgar Reitz – lettore di Wittgenstein a sua volta, dopotutto – ha mostrato di avere una certa familiarità con la distinzione tra somiglianze indipendenti da una relazione storica e affinità tra fenomeni derivanti da rapporti cronologici, nonché di condividere una strategia metodologica in qualche modo analoga a quella di Ginzburg:

Un giorno ho ricevuto una lettera da una infermiera di Porto Alegre, aveva visto un documentario su di me ed era rimasta colpita dalla mia somiglianza con un medico dell’ospedale in cui lavorava. Mi ha chiesto se c’era tra noi un rapporto di parentela, e così insieme a mio fratello abbiamo cominciato a fare delle ricerche scoprendo che moltissimi tedeschi anche della nostra regione nell’Ottocento erano emigrati in America latina (Reitz 2015).

Anche in questo caso, dunque, un preliminare confronto meramente tipologico tra elementi provenienti da contesti spazialmente anche molto dissimili precede – inevitabilmente – l’ipotesi e il tentativo di ricostruzione dei dati in termini di sviluppo storico. Proprio attraverso il lungometraggio Die andere Heimat, il regista tedesco sembra voler sottolineare, infatti, la relazione paradossale che intercorre tra questi due modi differenti di intendere l’origine della variazione, presupposta ed esibita – di fatto – dall’intera trilogia.

Il tema del film è innanzitutto quello della migrazione, un argomento che consente a Reitz di rendere ancora più esplicito il principio che governa l’opera nella sua interezza. Il processo di riattivazione dell’origine storica consiste infatti in uno spostamento in tutto assimilabile ad un movimento migratorio. “Die andere Heimat obbedisce allo stesso modo al principio narrativo epico: l’emigrazione, in quanto grande movimento storico, attraversa tutto il film e non è utilizzata come elemento decorativo o sfondo”, ha spiegato infatti il regista in proposito (2013: 17). Un bagaglio di forme appartenenti ad una tradizione storica, originata in un punto iniziale collocato nel tempo, attraversa dunque differenti contesti cronologici e spaziali, a cui fornisce quella regola, che, al tempo stesso, non potrà che venire determinata e degradata dal gesto imitativo parzialmente libero che costantemente la riattiva. Una postura assunta da Hermann nell’episodio sette del secondo Heimat, che allude all’imitazione della cultura giapponese da parte dei tedeschi, esemplifica chiaramente questo meccanismo mimetico prodotto dall’immagine e dalla memoria in generale (fig. 5) [19:05].

Figura 5.

Le forme storiche migrano quindi nello spazio e nel tempo. Nello stesso episodio, ad esempio, durante la scena del matrimonio, Helga incontra un suonatore della Renania che porta un nome russo [1:32:09]. Nell’episodio cinque, Juan spiega a Waltroud che le empanadas provengono dal Perù, ma sono il piatto nazionale del Cile [1:07:16]. Nell’episodio otto del primo ciclo i segni della colonizzazione americana sono resi evidenti dalla trasmissione degli oggetti materiali e delle abitudini culturali.

È la condivisione della medesima provenienza ciò che garantisce, in questo caso, l’affinità morfologica parziale tra i soggetti, quindi la possibilità di comprensione reciproca. “Ulisse, per esempio, ritorna da un viaggio che non riesce a raccontare perché le esperienze che ha vissuto durante la sua lunga assenza non possono essere condivise. Ecco perché il suo ritorno è una catastrofe”, ha notato infatti Reitz (2016: 266). Nel secondo episodio di Heimat, allo stesso modo, Eduard e Lucie non riescono a comunicare perché la parola “terra” non ha lo stesso significato nei differenti luoghi d’origine dei due personaggi [47:07]. Anche il racconto di Ansgar, nel terzo episodio del secondo ciclo, non viene ben compreso dalla compagna. Il ragazzo ne prende atto e le dice: “Tu non puoi capire, Evelyne. Per te è stato tutto diverso” [1:29:40].

Ma la forma ricorrente e sottesa alla variazione dei fenomeni storicamente determinati non va necessariamente ricercata nella stazione di partenza di una migrazione. Anche Edgar Reitz, infatti, – come Wittgenstein e Ginzburg – sembra ammettere la possibilità che alcune analogie formali profonde possano riguardare fenomeni indipendenti da un’origine storica comune. La radice di questa ipotesi, come sappiamo, la si può in gran parte individuare nel prodotto della riflessione morfologica goethiana. Proprio per introdurre la nozione di “rappresentazione perspicua”, lo stesso Wittgenstein aveva fatto riferimento, molto significativamente, a dei versi dell’elegia di Goethe La metamorfosi delle piante, uno dei testi più determinanti per la definizione della sua morfologia: “Son simili tutte le forme ma nessuna è uguale alle altre / così allude il coro ad una legge nascosta [ein geheimes Gesetz]” (1989: 1004-1005). Questa legge nascosta, che si ripete differenziandosi nella molteplicità dei fenomeni empirici, non è intesa da Goethe nei termini di un’origine storica e geografica, ma piuttosto come un fenomeno originario.

Alcune sequenze del film Die andere Heimat, se sottoposte ad un attento esame, rivelano chiaramente come lo stesso Reitz, nella sua inesausta ricerca dell’origine, debba necessariamente presupporre anche una simile possibilità. Il peso della riflessione morfologica goethiana nell’orientare la sua concezione, specialmente in questo caso, sembra essere del tutto evidente. Il protagonista del lungometraggio, un giovane contadino dell’Hunsrück di nome Jakob, stimolato dai racconti di viaggio, immagina infatti una cultura lontana – quella degli indiani d’America – con l’obiettivo di studiarla attraverso la pratica del confronto formale. Sebbene le sue costruzioni risultino idealizzate e sognanti, le osservazioni di carattere metodologico che sviluppa ci offrono invece delle indicazioni fondamentali. In una scena del film, durante un dialogo sul problema delle analogie e delle differenze formali riscontrabili nelle varie lingue – svolto significativamente con un incisore intento nella realizzazione di un sigillo (fig. 6) –, il ragazzo fa riferimento – goethianamente, ma anche humboldtianamente26 – proprio ad una legge segreta, una forma archetipica che possa consentire la comunicazione tra culture anche molto distanti spazialmente e temporalmente.27 “Ci deve essere qualcosa che accomuna tutte le lingue, una legge segreta [ein geheimes Gesetz], altrimenti non riusciremmo a comunicare”, afferma precisamente Jakob [28:31, parte seconda].

Figura 6.

Proseguendo la riflessione, il giovane poi dichiara: “Per esempio, come potremmo dire… Madre!”. Proprio in quell’istante, infatti, la visione improvvisa del genitore in difficoltà interrompe la conversazione tra i due personaggi. Ma l’esclamazione del protagonista non può che suggerire allo spettatore l’eventualità, appena presupposta, di un’origine morfologica, di un fenomeno originario. Le Madri sono infatti anche per Goethe il luogo indeterminato e archetipico delle forme potenziali,28 di quegli Urbilder invarianti e senza tempo, che risultano però inattingibili al di fuori delle infinite manifestazioni sensibili, che ne rivelano le molteplici possibilità e al tempo stesso li rendono impuri. Paradossalmente unitario e molteplice, “incessante Bildung di infinite Gestalten che insistono sullo stesso Urphänomen” (Pinotti 2001: 201), l’archetipo è quindi stabile, ma per certi versi anche mobile. “Siete arrivata! Non andate avanti”, dice infatti Jakob alla madre stanca, di ritorno da un faticoso viaggio [29:48, parte seconda].29

Ma quest’idea di una forma archetipica, responsabile dell’affinità morfologica tra culture indipendenti da un’origine storica comune – evidenziata in Die andere Heimat forse con più nettezza – è riscontrabile sicuramente nell’intera trilogia. “Io credo che sia anche questo che rende il film comprensibile in tutto il mondo, perché si tratta di fenomeni che accadono dappertutto”, aveva dichiarato infatti Reitz, già nel 1988, in riferimento alle vicende essenziali del primo ciclo dell’opera (1988: 18). Alcune esperienze profonde, potenzialmente universali, scaturiscono verosimilmente, quindi, dall’attività di una regola innata, da una condizione di possibilità trascendentale inscritta all’interno del corpo. Una di queste è certamente la morte. “Penso spesso alla morte. Di notte, quando giro per le strade, penso che c’è sempre qualcuno che muore. Qualcuno che non conosco, di cui non so niente, ma la morte è qualcosa che è anche in me. Di fronte alla morte siamo tutti uguali. Se penso alla gente che muore in queste case, mi sento quasi come a casa”, dice ad esempio Hermann degli abitanti di Monaco, nel secondo episodio di Heimat 230 [40:10].

Tutte le differenti culture, anche per Goethe, sono reciprocamente e indissolubilmente legate da una forma comune che ne garantisce la parentela, la Verwandschaft. “Qui mi credevo fra sconosciuti. / Trovo, purtroppo, parenti prossimi [Nahverwandte]. / È la medesima vecchia storia: / dallo Harz all’Ellade, sempre cugini!”, afferma infatti Mefistofele nel Faust, trovandosi, anch’egli, al cospetto di “creature affini” (Goethe 2016: 740).31 La rapida citazione perfino di questi versi faustiani, all’interno di una sequenza apparentemente marginale di Heimat 2, rafforza ulteriormente la nostra ipotesi sul ruolo significativo che la morfologia di Goethe abbia potuto rivestire sulla concezione dell’origine, a questa parzialmente analoga, elaborata da Reitz ed esibita dall’opera in questione. Nell’ottavo episodio, una comitiva di turisti americani invade la villa della signora Cerphal, disturbando il lavoro di Hermann. Alla domanda della governante, che chiede al musicista se queste persone siano amici suoi, il ragazzo risponde con spazientita ironia: “Amici? Tutti parenti! [Alles Verwandte]” [44:24].

Due modi conflittuali di intendere la forma sottesa alla variazione, uno cronologico e storico, l’altro tipologico e archetipico, vengono dunque inclusi all’interno della prospettiva reitziana. Lungi dal rappresentare possibilità esclusivamente divergenti, tuttavia, le due opposte modalità vanno pensate – problematicamente e paradossalmente – in un reciproco intreccio. I termini opposti in cui l’origine si manifesta hanno infatti una radice comune.

Le considerazioni sviluppate da Carlo Ginzburg in Storia notturna, forniscono certamente importanti indicazioni in proposito. Qui la relazione tra “storia” e “morfologia”, pensata fino a questo momento in termini di cooperazione, ma secondo modalità rigidamente dicotomiche, comincia infatti ad essere intesa in maniera molto più sfumata. Anche a livello epistemologico – scrive lo storico italiano – “non c’è motivo di supporre che queste prospettive si escludano a vicenda. Per questo cercheremo di integrare nell’analisi i dati storici esterni e le caratteristiche interne, strutturali del fenomeno trasmesso” (2017: 229). La valutazione in merito alla natura morfologica o storica delle connessioni rilevate potrebbe in effetti non essere così netta. La radicale eterogeneità dei contesti spaziali e temporali, presi in considerazione da Ginzburg all’interno dell’opera, non potendo che vanificare il tentativo di ricostruire con precisione i rapporti di derivazione storica tra i fenomeni analoghi riscontrabili al loro interno, induce infatti lo storico a ipotizzare la possibilità che una forma archetipica sia sempre intrecciata al processo storico in ogni momento del suo sviluppo.32

La consapevolezza dei limiti della conoscenza del passato, in modo analogo, spinge anche Edgar Reitz a considerare l’ipotesi paradossale secondo la quale l’origine di alcune ricorrenze formali riscontrate durante il lavoro di comparazione, svolto in funzione dell’indagine storica, possa presentare una componente archetipica. “Molti personaggi descritti nella storia della famiglia Simon sono archetipi, numerosi eventi ricordano le storie che ognuno ha vissuto o riportano alla memoria un passato perduto per sempre” (Galli 2007: 12), ha affermato infatti il regista in riferimento alla sua opera.

Nel costante e inesausto sforzo di rappresentazione della Heimat, Edgar Reitz si trova quindi a dover gestire un’inevitabile e contraddittoria duplicità. Da una parte, in senso storico-cronologico, l’origine viene infatti esperita nei termini di una tradizione ricevuta dal passato in eredità, che il regista deve ricostruire da una distanza temporale e ripercorrere all’indietro, fino al termine primo da cui ha preso avvio il processo di trasmissione formale. Dall’altra, al contrario, la consapevolezza della precarietà della conoscenza storica, dunque l’evidente impossibilità di attingere spesso, in via definitiva, alla determinazione del primum momentum agens, lo spinge ad assumere anche una concezione morfologico-tipologica del modello originario. I due punti di vista, opposti e complementari, vanno intesi in un reciproco intreccio. Ciò risulta evidente da quanto dichiarato dallo stesso Reitz: “La plupart des personnages son des archetypes qui ne sont pas strictement allemands. A Venise, une journaliste japonaise, une dame âgée, est venue me voir en larmes, disant que la grand’mère du film, c’était sa grand mère” (1984: 41).33

In una scena del film Die andere Heimat, anche Jakob sembra riconoscere un fenomeno originario alla radice dell’affinità tra la cultura tedesca e quella indiana, oggetto delle sue ricerche. La somiglianza riguarda proprio la struttura della temporalità che fin qui abbiamo tentato di descrivere. Una frase pronunciata dal protagonista pare infatti voler sintetizzare la duplicità paradossale che l’origine può manifestare, ripetendosi nelle sue differenti determinazioni temporali: “Nella lingua dei Cayucachúa c’è una parola che significa più o meno: ‘Ritorno alla fine del tempo’, Tapa-na-ma, la freccia che ritorna nella mano dell’arciere. Così io inseguo la freccia del tempo e il respiro di mia madre” [1:15:20, parte seconda]. Se da un lato, quindi, l’origine della tensione polare, la garanzia della ritornanza della freccia che attraversa l’arco, viene intesa nei termini di un modello cronologico verso cui si ritorna, dall’altro, la dilatazione temporale estrema a cui allude il personaggio non può che contrarsi nella sintesi di un fenomeno originario.34

È questo dunque il paradosso a cui va inevitabilmente incontro ogni narrazione che si riproponga di rappresentare l’origine. Lo sforzo di rammemorazione, infatti, coinvolge sempre l’immagine in due sensi differenti e intrecciati. L’imitazione degradata di un modello originale posto all’inizio del tempo (Vor-bild), che ogni figura può realizzare allontanandosene in misura maggiore o minore, sviluppando una sequenza descrivibile cronograficamente, è sempre, al tempo stesso, – in qualche modo e sorprendentemente – anche la determinazione immaginale di una forma originaria posta fuori dalla storia (Ur-bild). In questo secondo caso, l’inesauribile disposizione in contiguità delle figure che compongono la configurazione interpretativa, lascia intravedere una regola storicamente indeterminata. “Abbiamo mille vite, infinite vite, e l’unica cosa determinante è a chi raccontiamo, perché la vita non è come una storia, la vita diventa come una storia nel momento in cui la si racconta; non ci sono storie, la vita non scrive romanzi”, ha spiegato chiaramente Reitz (1988: 17). Ogni immagine, come ogni racconto, è in tal senso equidistante dall’origine come dalla sua eterna condizione di possibilità.

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  1. Per un’ampia disamina dell’argomento cfr. Giacomoni 1993.↩︎

  2. Cfr. Pinotti and Tedesco 2013.↩︎

  3. “We could mention, from very different fields, Th. Mann and T.S. Eliot, Propp and Jolles in the literary theory, Spengler and Frobenius in the philosophy of culture, Husserl, Simmel, Benjamin and Wittgenstein in philosophy, Wölfflin and Warburg himself in the so-called Kunstwissenschaft, the science of art” (Pinotti 2003: 8). In proposito cfr. anche Pinotti 2001: 13-17. In ambito cinematografico, Somaini ha incluso inoltre Ejzenštejn all’interno di questa tradizione morfologica goethiana (2011).↩︎

  4. Cfr. Galli 2006: 122.↩︎

  5. Per un’analisi dei processi di ripetizione e variazione all’interno della trilogia di Heimat in relazione alla questione della serialità cfr. Subini 2007: 13-50.↩︎

  6. Cfr. Subini 2007: 141; Galli 2006: 22.↩︎

  7. Riflettendo su questa comunanza, Pinotti scrive: “Adopting a musical metaphor, we could say that the originary form [in Goethean morphology] is like a theme which is never given in itself, but only in its variations” (2003: 8).↩︎

  8. Cfr. Pinotti 2001: 179.↩︎

  9. I presupposti del moderno approccio neuroscientifico al cinema sono i medesimi: “È da questa costitutiva relazione tra corpo ed espressione simbolica che si deve iniziare se si vuole affrontare il tema della creatività artistica espressa dal cinema e della sua ricezione da parte degli spettatori” (Gallese and Guerra 2015: 216).↩︎

  10. Cfr. Pinotti 2010.↩︎

  11. Cfr. inoltre Giacomoni 1993: 64-70.↩︎

  12. Ad esempio, “il libro di Ejzenštejn [Teoria generale del montaggio] può essere considerato non solo come un libro-esposizione, un libro-museo, ma anche come il tentativo di elaborare una vera e propria morfologia del montaggio, uno studio delle diverse manifestazioni concrete di quello che, con un termine ripreso direttamente dalla morfologia di Goethe, Ejzenštejn considera come il ‘fenomeno originario’ (Urphänomen) del cinema” (Somaini 2011: 321).↩︎

  13. Cfr. le considerazioni del regista in Quaresima 1988: 66.↩︎

  14. “È necessaria una certa cautela di fronte alle metafore spaziali e temporali con cui Goethe caratterizza il fenomeno originario. L’originarietà non è l’originalità, non sta nel tempo, come primum momentum agens, nel senso che l’Urphänomen non deve essere inteso come la prima fase temporaneamente antecedente di un processo, rispetto alla quale questo fenomeno concreto starebbe più vicino, e quello più lontano. Tutti i fenomeni concreti sono ugualmente distanti nel tempo (o ugualmente vicini – il che è lo stesso) al fenomeno originario”, scrive infatti Pinotti (2001: 139). In proposito cfr. anche Moiso 1988: 327. D’altra parte, a rigore, “non [c’è] luogo intorno ad esse, e meno ancora tempo”, ha scritto Goethe nel Faust, riferendosi proprio alle forme archetipiche (2016: 592).↩︎

  15. Tra questi Somaini annovera, ad esempio, Ejzenštejn, Benjamin e Warburg.↩︎

  16. Cfr. Reitz 1983c: 106-110.↩︎

  17. Cfr. le parole di Reitz in Dagrada et. al. 2007: 151.↩︎

  18. La proposizione alla quale il personaggio si riferisce è la 2.1511.↩︎

  19. La proposizione è la 2.151. Questo riferimento di Reitz a Wittgenstein conferma inoltre l’ascendenza goethiana di alcune di queste idee morfologiche; il pensatore austriaco – come è noto – è infatti esplicito debitore nei confronti della morfologia di Goethe.↩︎

  20. Sull’indeterminatezza di questo processo come principio compositivo dell’opera cfr. Farinotti 2007: 73-99.↩︎

  21. Su questo si veda almeno Kaes 1992: 161-182; Farinotti 2007: 79-99.↩︎

  22. Cfr. Goethe 1997: 220-221.↩︎

  23. Cfr. Reitz 1983a: 140.↩︎

  24. L’influenza della morfologia di Goethe sull’opera di Ginzburg è sicuramente evidente, sebbene egli abbia dichiarato, nella postfazione all’ultima edizione di Storia notturna, di essersi ispirato inconsapevolmente più a Cuvier che a Goethe, avendo attribuito alle forme, rispetto a quest’ultimo, minore flessibilità (Ginzburg 2017: 347-363). Più in generale, in linea di massima, questa maggiore rigidità delle forme adoperate dall’indagine (che si traduce evidentemente in una più immediata possibilità di generalizzarne i risultati, al prezzo però di un allontanamento dalla realtà descritta) è ciò che differenzia il lavoro di ricostruzione del passato di uno storico da quello di un regista. In merito cfr. Guynn 2006: 17-18.↩︎

  25. Nelle Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, scrive Ginzburg, “Wittgenstein contrappone due modi di presentazione del materiale, uno sinottico (e acronico), l’altro basato su un’ipotesi di sviluppo anche cronologico, sottolineando la superiorità del primo. Il rinvio a Goethe (al Goethe morfologo) è esplicito […]” (2000: XV).↩︎

  26. Ernst Cassirer, che si è occupato approfonditamente di entrambi gli autori, infatti scrive: “Le idee di Goethe rimanevano la bussola intellettuale di Humboldt. […] Goethe aveva dato una teoria dei tipi organici, parlando di ‘formazione e trasformazione delle nature organiche’: Humboldt parlò di tipi linguistici”. Se nel poema di Goethe La metamorfosi delle piante, spiega Cassirer, si sostituisce alla parola “Gestalten” la parola “Sprachen”, si comprende il problema generale che preoccupa Humboldt: “Goethe cercò questa legge nascosta nel mondo naturale, Humboldt nel mondo culturale, nel mondo del linguaggio umano” (1982: 407-408).↩︎

  27. Anche Ginzburg, in riferimento al materiale della sua ricerca, ha ipotizzato il grosso potenziale in termini di comunicazione tra le culture che potrebbe garantire l’esistenza di una qualche regola strutturale, scrivendo: “È probabile che questa caratteristica potenzialmente transculturale, perché elementarmente umana, non sia estranea alla straordinaria comunicabilità di questa famiglia di miti e di riti” (2017: 287).↩︎

  28. Cfr. Goethe 2016: 596.↩︎

  29. Carlo Ginzburg ha formulato rilevanti considerazioni in merito alla nozione di archetipo, intesa proprio in questi termini. Scrive infatti lo storico: “Con ciò la nozione di archetipo viene riformulata in maniera radicale, perché saldamente ancorata al corpo. Più precisamente alla sua autorappresentazione. Si può ipotizzare che essa operi come uno schema, come un’istanza mediatrice di carattere formale in grado di rielaborare esperienze legate a caratteristiche fisiche della specie umana, traducendole in configurazioni simboliche potenzialmente universali” (2017: 259) [corsivo mio].↩︎

  30. Proprio in riferimento alle esperienze archetipiche, Ginzburg analogamente scrive: “Tra queste ultime bisognerà includere anche, anzi soprattutto, l’esperienza corporea di grado zero: la morte” (2017: 260).↩︎

  31. “Mefistofele vuol qui alludere alla diffusione dei demoni erotici in ogni tempo e luogo”, spiega Franco Fortini in nota (Goethe 2016: 1187). Commentando questi versi, citati in più luoghi anche da Warburg, Pinotti scrive: “Chiediamoci per adesso: che cosa è, qui, propriamente, questa ‘identità’ o ‘stessità’? È ciò per cui quelle culture sono parenti, verwandt. E che cosa è, qui, propriamente, verwandt? Verwandt è una certa forma” (2001: 65).↩︎

  32. “Il ripresentarsi di forme simboliche analoghe a distanza di millenni, in ambiti spaziali e culturali del tutto eterogenei, poteva essere analizzato in termini puramente storici? O si trattava invece di casi limite che facevano apparire nell’ordito della storia una trama intemporale?”, si chiede appunto lo storico nell’introduzione al testo (Ginzburg 2017: XXXI). La risposta fornita all’interno del libro è ipoteticamente affermativa. Scrive Ginzburg: “La documentazione che abbiamo accumulato prova al di là di ogni ragionevole dubbio l’esistenza di una sotterranea unità mitologica eurasiatica, frutto di rapporti culturali sedimentati nei millenni. È inevitabile chiedersi se e fino a che punto le forme interne che abbiamo individuato siano in grado di generare riti e miti isomorfi anche all’interno di culture non connesse storicamente. Purtroppo quest’ultima condizione (l’assenza di qualsiasi forma di connessione storica tra due culture) è per definizione indimostrabile. Della storia umana sappiamo e sapremo sempre troppo poco. In mancanza di una prova contraria, non rimane che postulare, dietro i fenomeni di convergenza culturale che abbiamo indagato, un intreccio di morfologia e storia” (2017: 288).↩︎

  33. [corsivo mio].↩︎

  34. Questo meccanismo è notoriamente familiare anche a Benjamin, che in proposito ha scritto: “L’immagine dialettica è quella forma dell’oggetto storico che soddisfa le esigenze che Goethe pone per l’oggetto di un’analisi: mostrare una vera sintesi. Essa è il fenomeno originario della storia” (2010: 532).↩︎