In un saggio del 1982 intitolato Datazione assoluta e datazione relativa: sul metodo di Longhi, Carlo Ginzburg esprimeva un giudizio a tutt’oggi condivisibile. Lo storico italiano evidenziava infatti la mancanza di uno sguardo sinottico sulla “morfologia dinamica”, che fosse in grado di circoscriverne adeguatamente i confini (1982: 9). Sappiamo per certo, tuttavia, che i presupposti di questo “progetto grandioso, che come si sa percorre le scienze umane e naturali, in modi diversi, fin dall’800” (1982: 9), affondano le proprie radici nell’opera di Goethe.1 Proprio nella sua produzione letteraria e artistica, nonché nelle sue ricerche condotte in ambito naturalistico, sono stati elaborati quei concetti fondamentali della morfologia, intesa precisamente come lo “studio delle forme assunte dalla natura nelle sue metamorfosi” (Zecchi 2017: 10), che hanno costituito, durante tutto il ’900, un riferimento imprescindibile per un’ingente quantità di ricerche, soprattutto di lingua tedesca.
Le nozioni di tipo, fenomeno originario e polarità, associate all’idea di un intreccio complesso che definisce la relazione tra il particolare e l’universale, ad una concezione del piano trascendentale immanente al sensibile (da cogliere già attraverso la percezione visiva), come pure ad una visione dell’esperienza scientifica prospettica e rispettosa della complessità dell’oggetto d’indagine, hanno esercitato, di fatto, un influsso profondo tanto sulle scienze biologiche,2 quanto sul sapere filosofico e artistico, dalla gnoseologia all’estetica, dalla teoria della letteratura alle arti visive, dalla storiografia alla scienza della cultura.3
All’interno di questo articolo proveremo ad estendere questo paesaggio critico, cercando di mostrare come anche Edgar Reitz abbia consapevolmente attinto ad un simile arsenale di concetti per cercare di esplorare la duplicità paradossale e strutturale radicata al principio del concetto stesso di Heimat. Nella trilogia heimatiana, infatti, la dialettica tra Heimat e Fremde (“patria” e “terra straniera”), riconducibile anche a quella tra dableiben e weggehen (“restare” e “andare via”), riferita al movimento di un’origine intesa in termini tanto spaziali quanto temporali,4 solleva una problematica di natura morfologica. La tensione tra questi due termini allude, in effetti, per il regista tedesco, alla ripetizione sempre variata, nello spazio e nel tempo, di un bagaglio di forme già note (tipiche), nonché alla rappresentazione storica delle loro metamorfosi transculturali.5 Tuttavia, se da una parte la forma originaria è pensata da Reitz in rapporto alla storia, ossia come punto iniziale collocato nel tempo, modello tradizionale rispetto al quale i fenomeni che ne derivano (le sue varianti) possono avvicinarsi in misura maggiore o minore per via di imitazione, dall’altra, in senso più propriamente goethiano, essa sembra essere concepita come un’origine non cronologica, una legge innata e archetipica, che soggiace alla trasformazione del mondo fenomenico e dalla quale ogni sua variazione non può che risultare equidistante.
L’analisi di questo rapporto verrà condotta mediante il riferimento ad alcune sequenze particolarmente significative del lungometraggio L’altra Heimat (Die andere Heimat, 2013) e attraverso il confronto costante con il metodo storico di Carlo Ginzburg, autore alle prese con un problema analogo, nonché profondamente influenzato, a sua volta, dalla tradizione morfologica.
Per cominciare, tuttavia, sarà necessario indagare, brevemente e in via preliminare, il rapporto più generale che sussiste tra il cinema di Edgar Reitz e la morfologia.
1 Edgar Reitz morfologo
Nel diario di produzione del primo ciclo di Heimat (1984), riflettendo sugli espedienti della narrazione, Edgar Reitz aveva espresso “la necessità […] di far ritornare più volte certi motivi”, così da formare “uno spazio vivo, della finzione, attorno al villaggio di Schabbach”. E aveva aggiunto:
Un’alternativa potrebbe essere quella di mostrare l’Hunsrück, con impressioni paesaggistiche sempre nuove, ma credo che il sentimento della “Heimat” che vogliamo comunicare […] non prenderebbe forma. La “Heimat” è sempre anche lo spazio delle esperienze dell’infanzia, è l’eterno ritorno di scenari, di luoghi che devono fungere da teatro per ogni esperienza possibile (la prima esperienza della lontananza, il primo amore) (Reitz 1983a: 185).
L’incessante movimento “di fuga e di avvicinamento alla ‘Heimat’, a questo centro di identità e memoria da cui tutto ha inizio” (Farinotti 2007: 91) – esemplificato mirabilmente dalle due inquadrature speculari dei primi due cicli, che descrivono il ritorno a casa del personaggio di Hermann [1:56:13] e l’improvvisa partenza di quello di Paul [1:54:02] (figg. 1-2) –, è infatti il principio strutturale che governa l’opera nella sua interezza e si traduce, in termini visivi e uditivi, nella costante reiterazione di configurazioni formali note in contesti temporali e spaziali sempre nuovi e differenti.
Questo alternarsi di permanenze e variazioni, all’interno della trilogia, incentrate sulle caratteristiche somatiche e psicologiche dei personaggi, sul modo in cui si comportano e su quello che dicono, il ripetersi degli stessi scenari e degli stessi paesaggi, come anche la costante ricorrenza di vicende simili, sono stati ricondotti esplicitamente da Reitz alle sue influenze letterarie e musicali.6 In merito alle seconde il regista ha dichiarato: “Il cinema ha una profonda affinità con la musica […] ci sono problemi che si hanno anche nella musica: il ritorno e il riconoscimento dei temi, l’elemento ritmico, il confronto reciproco di diversi motivi tematici” (1988: 14-15). Per quanto riguarda le prime, invece, l’effetto continuo di riconoscimento, determinato dalla ripetizione ciclica di formule simili, è una caratteristica di alcuni “dei grandi romanzi epici del diciannovesimo ed anche del ventesimo secolo” (come la Recherche di Proust e le opere di Th. Mann), verso i quali il regista ha dichiarato di essere molto debitore (2015).
Ma nell’elaborare l’espediente formale riguardante la costruzione di simmetrie e rimandi tematici sotteso all’intera trilogia di Heimat, Edgar Reitz, lungi dall’essere esclusivamente debitore della tradizione letteraria e di quella musicale, come la maggior parte delle sue dichiarazioni esplicite lascerebbero presumere, sembra con tutta evidenza attingere, direttamente o indirettamente, anche alla tradizione morfologica goethiana, nel trarre ispirazione dalle tematiche che alle correnti sopracitate si rivelano comuni.7 D’altra parte, si può ipotizzare che anche la stessa tradizione letteraria abbia potuto rivelarsi una mediatrice implicita di concetti morfologici: è riconosciuto, ad esempio, il condizionamento che la morfologia ha esercitato quantomeno sulla produzione di Thomas Mann risalente agli anni ’30.8 Oltretutto, il regista ha annoverato espressamente anche “l’opera di Goethe” tra le sue più importanti fonti d’ispirazione (2015).
È soprattutto nell’ambito dei suoi studi morfologici che Goethe ha elaborato la generale concezione del mondo naturale e delle sue leggi che qui ci sembra essere in gioco. L’idea fondamentale che vi sta alla base è infatti quella di un ordine naturale non discontinuo che nasce “dalla continua variazione e differenziazione di ciò che è alla radice identico” (Moiso 2002: 12), di una totalità mobile e al tempo stesso regolata e stabile; la convinzione secondo la quale la ripetizione di un’invariante formale, di un insieme di elementi immutabili, sarebbe in grado di garantire la stabilità e la costanza della natura nel suo processo di metamorfosi. Questo principio è espresso con forza tanto nella produzione letteraria di Goethe, quanto nelle sue indagini botaniche e zoologiche.
Negli studi di zoologia, la ricerca di un’invariante che possa spiegare la logica unitaria sottesa alla varietà delle parti anatomiche del corpo animale è concomitante alla formulazione della nozione di tipo. Con questa espressione Goethe si riferisce proprio ad un archetipo (Urbild) comune a tutti gli esseri organici, ad un “principio unitario ma duttile, capace di molteplicità e di varietà” (Giacomoni 1993: 120). Nelle ricerche in campo botanico, un simile modello era già stato esemplificato dall’immagine della foglia, “il vero Proteo, che sa celare e manifestare in sé tutte le forme” (Goethe 1963: 859). Nel suo processo di trasformazione – sostiene infatti Goethe – la foglia dà origine ai diversi organi della pianta, nei quali tuttavia permane a livello strutturale. In questo senso, essa rappresenta una metafora del divenire naturale: l’immagine simbolica di una forma originaria che rimane costante, pur variando nelle sue infinite manifestazioni. Goethe si spingerà perfino ad affermare che tutto è foglia, “Alles ist Blatt” (1947: 58).
Pensare identità e differenza in un’intrinseca indisgiungibilità, significa affermare quella “compresenza di ideale e sensibile che costituisce l’oggetto più proprio dello sguardo morfologico” (Pinotti 2013: 11).9 La forma archetipica si rivela infatti nella stessa immanenza fenomenica, “ondeggia in un continuo moto” (Goethe 2017: 43), e non va dunque pensata in termini rigidi e astratti. Questo comporta un approccio intuitivo alla conoscenza. Il fenomeno originario (Urphänomen) – altro nome goethiano dell’origine –, non può essere concettualizzato mediante “parole e ipotesi” (Goethe 2014: 61), ma può essere colto solo nei fenomeni attraverso l’attività percettiva del nostro corpo sensibile e in particolare dell’occhio. Si tratta pertanto di sollecitare uno specifico modo di vedere: “una vista con l’occhio dello spirito (Auge des Geistes) capace di cogliere l’universale nel particolare” (Pinotti 2014: 11).
Lo strumento metodologico di questo “delicato empirismo” (zarte empirie) – il cui obiettivo consiste quindi nello scorgere percettivamente l’identico nel diverso, rilevando connessioni formali e regolarità, pur rispettando, al tempo stesso, il mutamento e la variazione, l’eterogeneità irriducibile del mondo fenomenico –, è per Goethe la comparazione.10 È proprio in virtù di un accostamento produttivo tra le differenti forme e rappresentazioni della natura, in base al criterio dell’analogia – cioè della “somiglianza tra diversi” –, che l’invariante tipologica può emergere (Giacomoni 1993: 71).11
A questo punto, è interessante notare come queste indicazioni morfologiche possano rivestire anche in ambito cinematografico un ruolo di assoluta centralità. Il concetto di metamorfosi assume in questo contesto un significato più specifico se riferito alla nozione di immagine filmica. Si tratta di osservare il mutamento delle immagini montate in sequenza, rilevando in tal modo quei tratti essenziali che le rendono riconoscibili nella loro variazione. Anche qui è nell’accostamento comparativo delle immagini operato dal montaggio, nella sequenza delle figure, che si manifesta l’invariante, una struttura che ritorna tipicamente nelle forme in apparenza più dissimili. Non a caso, nel corso del ’900, “questo stesso sapere morfologico di matrice goethiana viene […] riformulato da tutta una serie di autori che ritengono di poterlo potenziare attraverso la forza conoscitiva del montaggio” (Somaini 2011: 322).12
All’interno della produzione cinematografica di Edgar Reitz, il primo lungometraggio dal titolo Cardillac (1969) fornisce già alcuni degli importanti elementi che ci hanno spinto ad includere anche il regista tedesco nel solco di questa tradizione. Il tema della ripetizione di un’invariante formale in contesti fenomenici differenti, da svelare attraverso la metodologia comparativa – caratteristica fondamentale anche della trilogia di Heimat –, viene infatti qui esplorato attraverso espliciti riferimenti alla morfologia di Goethe. Sebbene considerazioni sui rapporti di somiglianza e differenza formale attraversino tutto il lungometraggio [10:57, 48:50, 1:06:22, 1:07:33], l’atteggiamento morfologico riguarda soprattutto l’attrazione irresistibile per il mondo delle forme che anima la pratica artistica del protagonista Cardillac, e consiste nella capacità eccezionale dell’orafo di individuare ed imitare regole e strutture, nonché di cogliere abilmente le forme sottese alla variazione dei molteplici fenomeni empirici. Tale attitudine si manifesta in tutta la sua pienezza nel corso di una lunga passeggiata all’interno di un giardino, durante la quale sembra proprio che il personaggio pervenga goethianamente, mediante l’osservazione delle venature di una foglia e il confronto di esse con le altre forme della natura e con gli artefatti umani, all’intuizione della forma originaria (fig. 3) [1:09:16]. Perfino il riflesso dei rami di un albero sulle increspature in movimento dell’acqua rievoca la struttura della foglia, alludendo ad una forma stabile che persiste alla mutevolezza e alla continua trasformazione dei vari elementi del mondo fenomenico. Come ha giustamente evidenziato anche Matteo Galli, sembra proprio che la natura sia in questo frangente “ispiratrice per l’orafo di forme pure” (2005: 76). La sequenza delle immagini dei vari elementi montate in successione offre inoltre allo sguardo dello spettatore la possibilità di partecipare in prima persona alla scoperta del protagonista, essendo messo anch’egli in condizione, mediante la comparazione delle figure operata attraverso il montaggio, di cogliere di quegli stessi elementi i tratti essenziali.
Ma queste forme “pure”, colte soltanto “in una visione intuitiva” (Goethe 2017: 43), non possono essere astratte e conosciute in sé.13 Dando “al tempo una forma ritmica, con il montaggio di un film” (Reitz 2016: 269), il regista può svelare infatti un archetipo che se da una parte si ripete e dà la regola a ciascuna delle variazioni nelle quali è inscritto in modo innato, dall’altra non può che essere a sua volta sensibilmente determinato e trasformato dal movimento incessante di queste. Ciò comporta da un lato la differente manifestazione di alcuni aspetti e possibilità dell’origine in ognuna delle sue determinazioni particolari, dall’altro l’inevitabile scarto che ognuna di esse produce sempre rispetto a questa regola universale. La forma originaria si configura quindi, in questo senso, come la condizione di possibilità innata e non cronologica di tutte le sue manifestazioni storiche, un modello neutro dal quale le sue infinite varianti non possono che situarsi alla stessa distanza.14
Come in molti altri autori novecenteschi che hanno interpretato “il montaggio come un sapere morfologico finalizzato allo studio delle forme nelle loro manifestazioni storiche” (Somaini 2011: 322),15 anche in Edgar Reitz si può però riscontrare un’ambivalenza nella definizione del concetto di origine. La struttura narrativa della trilogia di Heimat si basa – ad esempio – su una concezione della forma originaria in gran parte dissimile da quella che abbiamo descritto. La regola invariante sottesa al mutamento delle vicende rappresentate nel film, infatti, sembra essere intesa ampiamente da Reitz non nei termini di un archetipo, bensì come un modello storico-cronologico (Vorbild), un punto iniziale collocato nel tempo rispetto al quale le sue innumerevoli variazioni fenomeniche possono avvicinarsi o allontanarsi in conseguenza di un gesto imitativo più o meno fedele. È la memoria dei personaggi, in questo caso, a produrre la riattivazione mimetica sempre variata, attraverso il ricordo, di forme provenienti da un passato storico in nuovi contesti temporali e spaziali.16 La condizione di ciascuna di queste variazioni formali – copie inevitabilmente degradate, ma anche arricchite e trasformate, di un modello mai pienamente replicabile – sarà dunque quella di un punto ordinato all’interno di una successione cronologica.
Questa mimesi prodotta dalle immagini della memoria è inevitabilmente indissociabile da un lavoro di ricostruzione interpretativa. È infatti mediante un’opera di ricomposizione parzialmente libera e mai definitiva delle tracce figurali del passato presenti al suo interno che la memoria è in grado di scorgere, attraverso la comparazione, delle affinità formali tra fenomeni, eventi e temporalità eterogenei, che le permettono di ricostruire i complessi rapporti di derivazione storica della tradizione ricordata e al tempo stesso di riattivarla.17 Le analogie con il montaggio cinematografico sono agli occhi del regista evidenti:
È una domanda con cui mi sono confrontato tutta la vita, cioè in che modo funzioni la memoria degli esseri umani. Credo che funzioni esattamente come il montaggio, ed è per questo che i film sono lo strumento perfetto dal punto di vista artistico per trattare il tema della memoria (Reitz 2007: 151).
È proprio il montaggio in sequenza delle immagini del film, in questo senso, a rivelare alla percezione dello spettatore i percorsi storici di queste invarianti.
Ma questo meccanismo di ripetizione morfologica in contesti spaziali e temporali dissimili prodotto dalla memoria – principio compositivo dell’intera opera di Heimat – lungi dal costituire un mero gioco di rimandi intratestuale, riguarda più profondamente il rapporto che il cinema di Edgar Reitz è in grado di intrattenere con la realtà in quanto strumento di interpretazione e rappresentazione storica. Nonostante il suo carattere finzionale, l’immagine cinematografica, in modo pressoché analogo a quella memoriale, è infatti legata alla realtà passata da un riferimento mimetico di natura formale. “L’immagine è così legata con la realtà: giunge ad essa”, afferma precisamente il filosofo Alex nel sesto episodio del secondo ciclo di Heimat, leggendo con tutta evidenza il Tractatus18 [27:42]. Nella proposizione immediatamente precedente del libro Wittgenstein aveva scritto: “La forma della raffigurazione è la possibilità che le cose siano l’una all’altra nella stessa relazione che gli elementi dell’immagine” (1989: 17).19
Il faticoso e potenzialmente infinito lavoro di editing, selezione e confronto delle immagini filmiche, richiesto dalla realizzazione di Heimat,20 è quindi assimilabile, in questa prospettiva, ad un atto di riconfigurazione mnemonica delle “prove” di una realtà perduta in vista della sua ricostruzione (Reitz 1983b: 130), ad un gesto di ricomposizione cronologica delle tracce del passato volto alla rappresentazione e simultanea riattivazione di una possibilità dell’origine storica.21 Un simile meccanismo è ben esemplificato da una scena apparentemente marginale dell’undicesimo episodio di Heimat 2 (Die zweite Heimat, 1992), nella quale il musicista Hermann confronta le caratteristiche morfologiche del pesce che sta per cucinare con quelle di una raffigurazione analoga, al fine di ricostruirne la provenienza (fig. 4).
Questo rapporto che si produce nell’opera di Reitz tra l’universale e il particolare, l’identità e la differenza, l’origine e le sue determinazioni fenomeniche, segue inoltre la legge goethiana della polarità. Secondo tale impostazione, i due termini sarebbero inscindibili e si comprenderebbero a pieno soltanto nella relazione reciproca. Se da una parte, cioè, la forma originaria dà la regola e detta le condizioni di possibilità a ciascuna delle sue varianti, dall’altra è solo nella tensione dialettica che si produce tra due determinazioni differenti e perfino opposte della medesima origine (cioè tra i suoi due poli) che questa può effettivamente manifestarsi. L’allontanamento dall’origine generato inevitabilmente da ognuna delle sue determinazioni, infatti, ne realizza al tempo stesso delle possibilità inespresse, che, latenti in tutte le altre varianti, possono rivelarsi soltanto attraverso il confronto. L’esemplificazione simbolica di una simile concezione è rappresentata, nella riflessione goethiana, dalla morfologia della foglia di Gingo biloba, una pianta considerata appunto come “pretesto per una allusione al rapporto tra l’unità e la scissione” (Giacomoni 1993: 235), alla quale Goethe ha dedicato addirittura una poesia.22 Il riferimento specifico a tali suggestioni goethiane, celato all’interno di una breve scena del terzo episodio di Heimat 3 (2004), prova in maniera pressoché indubitabile l’influenza di simili idee morfologiche sull’opera in questione [45:33].
Ogni aspetto della realtà passata assume per Reitz un carattere ambivalente.23 Questa duplicità strutturale dell’origine storica si riflette e viene svelata nel confronto dialettico tra i suoi frammenti; nella molteplicità dei punti di vista parziali, ma reciprocamente connessi, che possono essere gettati su di essa.
2 Un intreccio tra storia e morfologia: Edgar Reitz e Carlo Ginzburg
Nella prefazione ad un testo del 1986 intitolato Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Carlo Ginzburg faceva retrospettivamente il punto della situazione su una riflessione che lo impegnava già da diversi anni. Lo storico italiano cominciava infatti ad interrogarsi sulla possibilità di integrare all’interno del lavoro di ricostruzione storica, anche una strategia di comparazione e di classificazione dei dati – che in precedenza Marc Bloch aveva definito “etnologica” ed escluso dall’area di interesse della storiografia – riguardante quelle analogie formali che possono essere rilevate tra fenomeni storicamente indipendenti. Un simile confronto tra elementi la cui somiglianza non dipende da un rapporto cronologico può essere definito – a tutti gli effetti – morfologico in senso goethiano.24 Come abbiamo visto, all’interno della riflessione di Goethe, la forma ricorrente e sottesa alla trasformazione del molteplice sensibile, su cui si esercita la metodologia comparativa, presenta infatti le caratteristiche di un vero e proprio fenomeno originario, un modello innato e atemporale già inscritto nella natura di ogni variazione che lo determina. Questa distinzione tra un’origine storico-cronologica ed una innata e archetipica – che Carlo Ginzburg non ha più smesso di esplorare – è proprio quella che per Reitz si radica al principio del concetto stesso di Heimat. L’intera trilogia solleva, effettivamente, il problema di come una simile relazione – non priva di paradossi – debba essere intesa e rappresentata.
La giustificazione teorica dei presupposti concettuali di una tale impresa metodologica viene fornita allo storico italiano da alcune riflessioni, esplicitamente debitrici nei confronti della morfologia goethiana, formulate da Wittgenstein nelle Note sul “Ramo d’oro” di Frazer. All’interno del testo, l’autore distingue infatti due modi di intendere le relazioni di somiglianza formale che consentono di raccogliere insieme i dati della ricerca. Se il primo prende in considerazione l’ipotesi di uno sviluppo storico che possa spiegare l’affinità morfologica del materiale, il secondo riguarda invece la possibilità di riassumere gli elementi simili in una “rappresentazione perspicua” (1975: 29) senza alcun rapporto di derivazione cronologica al suo interno. Ma la seconda strategia – più propriamente morfologica25 –, giudicata dall’autore del testo implicitamente superiore, viene adoperata da Ginzburg soltanto in funzione strumentale. “Quando mi decisi ad affrontare il rapporto tra benandanti friuliani e sciamani siberiani [trascurato per via di un iniziale rifiuto della comparazione”etnografica“], la morfologia riemerse, configurandosi non come un fine ma come un mezzo: uno strumento ineludibile al servizio della storia (morphologia ancilla historie)”, scriverà infatti Carlo Ginzburg – riflettendo a posteriori sulle precedenti ricerche – in un’opera del 1989 intitolata Storia notturna, all’interno della quale la riflessione su “morfologia” e “storia” verrà ulteriormente approfondita (2017: 349).
Come lo storico italiano cominciava già ad accorgersi durante il lavoro di ricognizione del materiale per la stesura del libro, se la morfologia non poteva sostituire la ricostruzione dei dati in termini di sviluppo storico, poteva tuttavia favorire una fase preliminare di comparazione, esclusivamente tipologica, da operare su tutti quegli elementi appartenenti a contesti culturali anche molto dissimili – e dunque difficilmente riconducibili nell’immediato alla conoscenza storica – che soltanto successivamente si sarebbe potuto tentare di disporre in una successione cronologica. Nella prefazione a Miti emblemi spie, Ginzburg lo spiega con chiarezza:
Improvvisamente mi accorsi che nella ricerca in corso da anni sul sabba stavo adoperando un metodo molto più morfologico che storico. Raccoglievo miti e credenze provenienti da ambiti culturali diversi, sulla base di affinità formali. […] riconoscevo […] omologie profonde […]. Le connessioni storiche non potevano guidarmi, perché quei miti e quelle credenze […] potevano risalire a un passato molto più antico. Usavo la morfologia come una sonda, per scandagliare uno strato inattingibile agli strumenti consueti della conoscenza storica. […] Nelle mie intenzioni, il lavoro di classificazione dovrebbe costituire una fase preliminare, volta a ricostruire una serie di fenomeni che vorrei analizzare storicamente (Ginzburg 2000: XIV-XV).
Interrogato sulla genesi del film Die andere Heimat, ambientato durante gli anni delle migrazioni tedesche in Sudamerica, anche Edgar Reitz – lettore di Wittgenstein a sua volta, dopotutto – ha mostrato di avere una certa familiarità con la distinzione tra somiglianze indipendenti da una relazione storica e affinità tra fenomeni derivanti da rapporti cronologici, nonché di condividere una strategia metodologica in qualche modo analoga a quella di Ginzburg:
Un giorno ho ricevuto una lettera da una infermiera di Porto Alegre, aveva visto un documentario su di me ed era rimasta colpita dalla mia somiglianza con un medico dell’ospedale in cui lavorava. Mi ha chiesto se c’era tra noi un rapporto di parentela, e così insieme a mio fratello abbiamo cominciato a fare delle ricerche scoprendo che moltissimi tedeschi anche della nostra regione nell’Ottocento erano emigrati in America latina (Reitz 2015).
Anche in questo caso, dunque, un preliminare confronto meramente tipologico tra elementi provenienti da contesti spazialmente anche molto dissimili precede – inevitabilmente – l’ipotesi e il tentativo di ricostruzione dei dati in termini di sviluppo storico. Proprio attraverso il lungometraggio Die andere Heimat, il regista tedesco sembra voler sottolineare, infatti, la relazione paradossale che intercorre tra questi due modi differenti di intendere l’origine della variazione, presupposta ed esibita – di fatto – dall’intera trilogia.
Il tema del film è innanzitutto quello della migrazione, un argomento che consente a Reitz di rendere ancora più esplicito il principio che governa l’opera nella sua interezza. Il processo di riattivazione dell’origine storica consiste infatti in uno spostamento in tutto assimilabile ad un movimento migratorio. “Die andere Heimat obbedisce allo stesso modo al principio narrativo epico: l’emigrazione, in quanto grande movimento storico, attraversa tutto il film e non è utilizzata come elemento decorativo o sfondo”, ha spiegato infatti il regista in proposito (2013: 17). Un bagaglio di forme appartenenti ad una tradizione storica, originata in un punto iniziale collocato nel tempo, attraversa dunque differenti contesti cronologici e spaziali, a cui fornisce quella regola, che, al tempo stesso, non potrà che venire determinata e degradata dal gesto imitativo parzialmente libero che costantemente la riattiva. Una postura assunta da Hermann nell’episodio sette del secondo Heimat, che allude all’imitazione della cultura giapponese da parte dei tedeschi, esemplifica chiaramente questo meccanismo mimetico prodotto dall’immagine e dalla memoria in generale (fig. 5) [19:05].
Le forme storiche migrano quindi nello spazio e nel tempo. Nello stesso episodio, ad esempio, durante la scena del matrimonio, Helga incontra un suonatore della Renania che porta un nome russo [1:32:09]. Nell’episodio cinque, Juan spiega a Waltroud che le empanadas provengono dal Perù, ma sono il piatto nazionale del Cile [1:07:16]. Nell’episodio otto del primo ciclo i segni della colonizzazione americana sono resi evidenti dalla trasmissione degli oggetti materiali e delle abitudini culturali.
È la condivisione della medesima provenienza ciò che garantisce, in questo caso, l’affinità morfologica parziale tra i soggetti, quindi la possibilità di comprensione reciproca. “Ulisse, per esempio, ritorna da un viaggio che non riesce a raccontare perché le esperienze che ha vissuto durante la sua lunga assenza non possono essere condivise. Ecco perché il suo ritorno è una catastrofe”, ha notato infatti Reitz (2016: 266). Nel secondo episodio di Heimat, allo stesso modo, Eduard e Lucie non riescono a comunicare perché la parola “terra” non ha lo stesso significato nei differenti luoghi d’origine dei due personaggi [47:07]. Anche il racconto di Ansgar, nel terzo episodio del secondo ciclo, non viene ben compreso dalla compagna. Il ragazzo ne prende atto e le dice: “Tu non puoi capire, Evelyne. Per te è stato tutto diverso” [1:29:40].
Ma la forma ricorrente e sottesa alla variazione dei fenomeni storicamente determinati non va necessariamente ricercata nella stazione di partenza di una migrazione. Anche Edgar Reitz, infatti, – come Wittgenstein e Ginzburg – sembra ammettere la possibilità che alcune analogie formali profonde possano riguardare fenomeni indipendenti da un’origine storica comune. La radice di questa ipotesi, come sappiamo, la si può in gran parte individuare nel prodotto della riflessione morfologica goethiana. Proprio per introdurre la nozione di “rappresentazione perspicua”, lo stesso Wittgenstein aveva fatto riferimento, molto significativamente, a dei versi dell’elegia di Goethe La metamorfosi delle piante, uno dei testi più determinanti per la definizione della sua morfologia: “Son simili tutte le forme ma nessuna è uguale alle altre / così allude il coro ad una legge nascosta [ein geheimes Gesetz]” (1989: 1004-1005). Questa legge nascosta, che si ripete differenziandosi nella molteplicità dei fenomeni empirici, non è intesa da Goethe nei termini di un’origine storica e geografica, ma piuttosto come un fenomeno originario.
Alcune sequenze del film Die andere Heimat, se sottoposte ad un attento esame, rivelano chiaramente come lo stesso Reitz, nella sua inesausta ricerca dell’origine, debba necessariamente presupporre anche una simile possibilità. Il peso della riflessione morfologica goethiana nell’orientare la sua concezione, specialmente in questo caso, sembra essere del tutto evidente. Il protagonista del lungometraggio, un giovane contadino dell’Hunsrück di nome Jakob, stimolato dai racconti di viaggio, immagina infatti una cultura lontana – quella degli indiani d’America – con l’obiettivo di studiarla attraverso la pratica del confronto formale. Sebbene le sue costruzioni risultino idealizzate e sognanti, le osservazioni di carattere metodologico che sviluppa ci offrono invece delle indicazioni fondamentali. In una scena del film, durante un dialogo sul problema delle analogie e delle differenze formali riscontrabili nelle varie lingue – svolto significativamente con un incisore intento nella realizzazione di un sigillo (fig. 6) –, il ragazzo fa riferimento – goethianamente, ma anche humboldtianamente26 – proprio ad una legge segreta, una forma archetipica che possa consentire la comunicazione tra culture anche molto distanti spazialmente e temporalmente.27 “Ci deve essere qualcosa che accomuna tutte le lingue, una legge segreta [ein geheimes Gesetz], altrimenti non riusciremmo a comunicare”, afferma precisamente Jakob [28:31, parte seconda].
Proseguendo la riflessione, il giovane poi dichiara: “Per esempio, come potremmo dire… Madre!”. Proprio in quell’istante, infatti, la visione improvvisa del genitore in difficoltà interrompe la conversazione tra i due personaggi. Ma l’esclamazione del protagonista non può che suggerire allo spettatore l’eventualità, appena presupposta, di un’origine morfologica, di un fenomeno originario. Le Madri sono infatti anche per Goethe il luogo indeterminato e archetipico delle forme potenziali,28 di quegli Urbilder invarianti e senza tempo, che risultano però inattingibili al di fuori delle infinite manifestazioni sensibili, che ne rivelano le molteplici possibilità e al tempo stesso li rendono impuri. Paradossalmente unitario e molteplice, “incessante Bildung di infinite Gestalten che insistono sullo stesso Urphänomen” (Pinotti 2001: 201), l’archetipo è quindi stabile, ma per certi versi anche mobile. “Siete arrivata! Non andate avanti”, dice infatti Jakob alla madre stanca, di ritorno da un faticoso viaggio [29:48, parte seconda].29
Ma quest’idea di una forma archetipica, responsabile dell’affinità morfologica tra culture indipendenti da un’origine storica comune – evidenziata in Die andere Heimat forse con più nettezza – è riscontrabile sicuramente nell’intera trilogia. “Io credo che sia anche questo che rende il film comprensibile in tutto il mondo, perché si tratta di fenomeni che accadono dappertutto”, aveva dichiarato infatti Reitz, già nel 1988, in riferimento alle vicende essenziali del primo ciclo dell’opera (1988: 18). Alcune esperienze profonde, potenzialmente universali, scaturiscono verosimilmente, quindi, dall’attività di una regola innata, da una condizione di possibilità trascendentale inscritta all’interno del corpo. Una di queste è certamente la morte. “Penso spesso alla morte. Di notte, quando giro per le strade, penso che c’è sempre qualcuno che muore. Qualcuno che non conosco, di cui non so niente, ma la morte è qualcosa che è anche in me. Di fronte alla morte siamo tutti uguali. Se penso alla gente che muore in queste case, mi sento quasi come a casa”, dice ad esempio Hermann degli abitanti di Monaco, nel secondo episodio di Heimat 230 [40:10].
Tutte le differenti culture, anche per Goethe, sono reciprocamente e indissolubilmente legate da una forma comune che ne garantisce la parentela, la Verwandschaft. “Qui mi credevo fra sconosciuti. / Trovo, purtroppo, parenti prossimi [Nahverwandte]. / È la medesima vecchia storia: / dallo Harz all’Ellade, sempre cugini!”, afferma infatti Mefistofele nel Faust, trovandosi, anch’egli, al cospetto di “creature affini” (Goethe 2016: 740).31 La rapida citazione perfino di questi versi faustiani, all’interno di una sequenza apparentemente marginale di Heimat 2, rafforza ulteriormente la nostra ipotesi sul ruolo significativo che la morfologia di Goethe abbia potuto rivestire sulla concezione dell’origine, a questa parzialmente analoga, elaborata da Reitz ed esibita dall’opera in questione. Nell’ottavo episodio, una comitiva di turisti americani invade la villa della signora Cerphal, disturbando il lavoro di Hermann. Alla domanda della governante, che chiede al musicista se queste persone siano amici suoi, il ragazzo risponde con spazientita ironia: “Amici? Tutti parenti! [Alles Verwandte]” [44:24].
Due modi conflittuali di intendere la forma sottesa alla variazione, uno cronologico e storico, l’altro tipologico e archetipico, vengono dunque inclusi all’interno della prospettiva reitziana. Lungi dal rappresentare possibilità esclusivamente divergenti, tuttavia, le due opposte modalità vanno pensate – problematicamente e paradossalmente – in un reciproco intreccio. I termini opposti in cui l’origine si manifesta hanno infatti una radice comune.
Le considerazioni sviluppate da Carlo Ginzburg in Storia notturna, forniscono certamente importanti indicazioni in proposito. Qui la relazione tra “storia” e “morfologia”, pensata fino a questo momento in termini di cooperazione, ma secondo modalità rigidamente dicotomiche, comincia infatti ad essere intesa in maniera molto più sfumata. Anche a livello epistemologico – scrive lo storico italiano – “non c’è motivo di supporre che queste prospettive si escludano a vicenda. Per questo cercheremo di integrare nell’analisi i dati storici esterni e le caratteristiche interne, strutturali del fenomeno trasmesso” (2017: 229). La valutazione in merito alla natura morfologica o storica delle connessioni rilevate potrebbe in effetti non essere così netta. La radicale eterogeneità dei contesti spaziali e temporali, presi in considerazione da Ginzburg all’interno dell’opera, non potendo che vanificare il tentativo di ricostruire con precisione i rapporti di derivazione storica tra i fenomeni analoghi riscontrabili al loro interno, induce infatti lo storico a ipotizzare la possibilità che una forma archetipica sia sempre intrecciata al processo storico in ogni momento del suo sviluppo.32
La consapevolezza dei limiti della conoscenza del passato, in modo analogo, spinge anche Edgar Reitz a considerare l’ipotesi paradossale secondo la quale l’origine di alcune ricorrenze formali riscontrate durante il lavoro di comparazione, svolto in funzione dell’indagine storica, possa presentare una componente archetipica. “Molti personaggi descritti nella storia della famiglia Simon sono archetipi, numerosi eventi ricordano le storie che ognuno ha vissuto o riportano alla memoria un passato perduto per sempre” (Galli 2007: 12), ha affermato infatti il regista in riferimento alla sua opera.
Nel costante e inesausto sforzo di rappresentazione della Heimat, Edgar Reitz si trova quindi a dover gestire un’inevitabile e contraddittoria duplicità. Da una parte, in senso storico-cronologico, l’origine viene infatti esperita nei termini di una tradizione ricevuta dal passato in eredità, che il regista deve ricostruire da una distanza temporale e ripercorrere all’indietro, fino al termine primo da cui ha preso avvio il processo di trasmissione formale. Dall’altra, al contrario, la consapevolezza della precarietà della conoscenza storica, dunque l’evidente impossibilità di attingere spesso, in via definitiva, alla determinazione del primum momentum agens, lo spinge ad assumere anche una concezione morfologico-tipologica del modello originario. I due punti di vista, opposti e complementari, vanno intesi in un reciproco intreccio. Ciò risulta evidente da quanto dichiarato dallo stesso Reitz: “La plupart des personnages son des archetypes qui ne sont pas strictement allemands. A Venise, une journaliste japonaise, une dame âgée, est venue me voir en larmes, disant que la grand’mère du film, c’était sa grand mère” (1984: 41).33
In una scena del film Die andere Heimat, anche Jakob sembra riconoscere un fenomeno originario alla radice dell’affinità tra la cultura tedesca e quella indiana, oggetto delle sue ricerche. La somiglianza riguarda proprio la struttura della temporalità che fin qui abbiamo tentato di descrivere. Una frase pronunciata dal protagonista pare infatti voler sintetizzare la duplicità paradossale che l’origine può manifestare, ripetendosi nelle sue differenti determinazioni temporali: “Nella lingua dei Cayucachúa c’è una parola che significa più o meno: ‘Ritorno alla fine del tempo’, Tapa-na-ma, la freccia che ritorna nella mano dell’arciere. Così io inseguo la freccia del tempo e il respiro di mia madre” [1:15:20, parte seconda]. Se da un lato, quindi, l’origine della tensione polare, la garanzia della ritornanza della freccia che attraversa l’arco, viene intesa nei termini di un modello cronologico verso cui si ritorna, dall’altro, la dilatazione temporale estrema a cui allude il personaggio non può che contrarsi nella sintesi di un fenomeno originario.34
È questo dunque il paradosso a cui va inevitabilmente incontro ogni narrazione che si riproponga di rappresentare l’origine. Lo sforzo di rammemorazione, infatti, coinvolge sempre l’immagine in due sensi differenti e intrecciati. L’imitazione degradata di un modello originale posto all’inizio del tempo (Vor-bild), che ogni figura può realizzare allontanandosene in misura maggiore o minore, sviluppando una sequenza descrivibile cronograficamente, è sempre, al tempo stesso, – in qualche modo e sorprendentemente – anche la determinazione immaginale di una forma originaria posta fuori dalla storia (Ur-bild). In questo secondo caso, l’inesauribile disposizione in contiguità delle figure che compongono la configurazione interpretativa, lascia intravedere una regola storicamente indeterminata. “Abbiamo mille vite, infinite vite, e l’unica cosa determinante è a chi raccontiamo, perché la vita non è come una storia, la vita diventa come una storia nel momento in cui la si racconta; non ci sono storie, la vita non scrive romanzi”, ha spiegato chiaramente Reitz (1988: 17). Ogni immagine, come ogni racconto, è in tal senso equidistante dall’origine come dalla sua eterna condizione di possibilità.
Bibliografia
Benjamin, Walter (2010 [1982]). I «Passages» di Parigi. Torino: Einaudi.
Cassirer, Ernst (1982 [1945]), “Lo strutturalismo nella linguistica moderna.” In Saggio sull’uomo, edited by Ernst Cassirer, 385-416. Roma: Armando.
Dagrada Elena, De Berti Raffaele, Farinotti Luisella, Galli Matteo, Malatesta Marta, Reitz Edgar, Subini Tomaso (2007). “Tavola rotonda”, in Cronaca di un secolo concluso. La trilogia di Heimat di Edgar Reitz, edited by Tomaso Subini, 139-165. Trento: Temi.
Farinotti, Luisella (2007). “Ricominciare ogni volta: il tempo come infinita serie di inizi nella trilogia di Heimat.” In Cronaca di un secolo concluso. La trilogia di Heimat di Edgar Reitz, edited by Tomaso Subini, 73-99. Trento: Temi.
Gallese, Vittorio and Guerra, Michele (2015). Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Galli, Matteo (2006 [2005]). Edgar Reitz. Milano: Il Castoro.
Giacomoni, Paola (1993). Le forme e il vivente. Morfologia e filosofia della natura in J.W. Goethe. Napoli: Guida.
Ginzburg, Carlo (1982). “Datazione assoluta e datazione relativa: sul metodo di Longhi.” Paragone - Letteratura 386(4): 5-17.
Ginzburg, Carlo (2017 [1989]). Storia notturna. Una decifrazione del Sabba. Milano: Adelphi.
Ginzburg, Carlo (2000 [1986]). Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia. Torino: Einaudi.
Goethe, Johann Wolfgang (1997 [1819]). “Divan occidentale-orientale.” In Tutte le poesie, edited by Roberto Fertonani, 220-121. Milano: Mondadori.
Goethe, Johann Wolfgang (2016 [1831]). Faust. Milano: Mondadori.
Goethe, Johann Wolfgang (2017 [1807]). “Introduzione all’oggetto.” In La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, edited by Stefano Zecchi, 42-45. Milano: Guanda.
Goethe, Johann Wolfgang (1989 [1798]). “La metamorfosi delle piante”. In Tutte le poesie, edited by Roberto Fertonani, 1004-1005. Milano: Mondadori.
Goethe, Johann Wolfgang (2014 [1810]). La teoria dei colori. Milano: Il Saggiatore.
Goethe, Johann Wolfgang (1947 [1788]). “Zur Morphologie. Von den Anfängen bis 1795.” In Die Schriften zur Naturwissenschaft, Leopoldina Ausgabe, edited by Lothar Wolf, Wilhelm Troll, Rupprecht Matthei, Wolf von Engelhardt, Dorothea Kuhn, vol. 9A. Weimar: Böhlaus.
Goethe, Johann Wolfgang (1963 [1816-1817]). “Viaggio in Italia.” In Opere, edited by Lavinia Mazzucchetti, 423-1046 (vol. 2). Firenze: Sansoni.
Guynn, William (2006). Writing history in film. New York: Routledge.
Kaes, Anton (1992). From Hitler to Heimat. Cambridge: Harvard University Press.
Moiso, Francesco (2002). Goethe: la natura e le sue forme. Milano: Mimesis.
Moiso, Francesco (1998). “La scoperta dell’osso intermascellare e la questione del tipo osteologico.” In Goethe scienziato, edited by Giulio Giorello and Agnese Grieco, 298-337. Torino: Einaudi.
Pinotti, Andrea (2001). Memorie del neutro. Morfologia dell’immagine in Aby Warburg. Milano: Mimesis.
Pinotti, Andrea (2003). Memory and Image. The Italian Academy for Advanced Studies in America. https://doi.org/10.7916/D8F1951B (last accessed 30-03-21).
Pinotti, Andrea (2010). “Pazienza del dissimile e sguardo pontefice.” Aut-aut 348(4): 66-83.
Pinotti, Andrea and Tedesco, Salvatore (2013). Estetica e scienze della vita. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Quaresima, Leonardo (1988). “La vita non scrive romanzi. Conversazione con Edgar Reitz”, in La cinepresa e l’orologio, edited by Leonardo Quaresima, 13-22. Firenze: La casa Usher.
Reitz, Edgar (1983a [1980-1982]). “Aus dem Produktionstagebuch (Heimat, eine Chronik).” In Liebe zum Kino, edited by Edgar Reitz, 134-207. Köln: Verlag Köln 78. (partial translation into italian in La cinepresa e l’orologio (1988), edited by Leonardo Quaresima. Firenze: La casa Usher).
Reitz, Edgar (1983b [1983]). “Das Unsichtbare und der Film.” In Liebe zum Kino, edited by Edgar Reitz, 125-132. Köln: Verlag Köln 78. (partial translation into italian in La cinepresa e l’orologio (1988), edited by Leonardo Quaresima. Firenze: La casa Usher).
Reitz, Edgar (1983c [1979]). “Die Kamera ist keine Uhr.” In Liebe zum Kino, edited by Edgar Reitz, 106-110 Köln: Verlag Köln 78. (partial translation into italian in La cinepresa e l’orologio (1988), edited by Leonardo Quaresima. Firenze: La casa Usher).
Reitz, Edgar (2015). “Il sogno di un’altra patria.”, Il manifesto. https://ilmanifesto.it/edgar-reitz-il-sogno-di-unaltra-patria/ (last accessed 03-03-21).
Reitz, Edgar (2013). Press-book (Die andere Heimat).
Reitz, Edgar (2016). “Là dove ha origine il racconto.” In Cinema, pensiero, vita. Conversazioni con Fata Morgana, edited by Roberto De Gaetano e Francesco Ceraolo, 261-270. Cosenza: Pellegrini Editore.
Reitz, Edgar (1984). “L’Allemagne se souvient.” Cahiers du cinema 366(1): 38-41.
Somaini, Antonio (2011). Ejzenštejn. Il cinema, le arti, il montaggio. Torino: Einaudi.
Subini, Tomaso (2007). “La trilogia di Heimat come serial anomalo: ripetizioni e variazioni.” In Cronaca di un secolo concluso. La trilogia di Heimat di Edgar Reitz, edited by Tomaso Subini, 13-50. Trento: Temi.
Wittgenstein, Ludwig (1975 [1967]). Note sul “Ramo d’oro” di Frazer. Milano: Adelphi.
Wittgenstein, Ludwig (1989 [1921]). Tractatus logico-philosophicus. Torino: Einaudi.
Zecchi, Stefano (2017 [1983]). “Il tempo e la metamorfosi.” In La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, edited by Stefano Zecchi, 9-26. Milano: Guanda.
Per un’ampia disamina dell’argomento cfr. Giacomoni 1993.↩︎
Cfr. Pinotti and Tedesco 2013.↩︎
“We could mention, from very different fields, Th. Mann and T.S. Eliot, Propp and Jolles in the literary theory, Spengler and Frobenius in the philosophy of culture, Husserl, Simmel, Benjamin and Wittgenstein in philosophy, Wölfflin and Warburg himself in the so-called Kunstwissenschaft, the science of art” (Pinotti 2003: 8). In proposito cfr. anche Pinotti 2001: 13-17. In ambito cinematografico, Somaini ha incluso inoltre Ejzenštejn all’interno di questa tradizione morfologica goethiana (2011).↩︎
Cfr. Galli 2006: 122.↩︎
Per un’analisi dei processi di ripetizione e variazione all’interno della trilogia di Heimat in relazione alla questione della serialità cfr. Subini 2007: 13-50.↩︎
Cfr. Subini 2007: 141; Galli 2006: 22.↩︎
Riflettendo su questa comunanza, Pinotti scrive: “Adopting a musical metaphor, we could say that the originary form [in Goethean morphology] is like a theme which is never given in itself, but only in its variations” (2003: 8).↩︎
Cfr. Pinotti 2001: 179.↩︎
I presupposti del moderno approccio neuroscientifico al cinema sono i medesimi: “È da questa costitutiva relazione tra corpo ed espressione simbolica che si deve iniziare se si vuole affrontare il tema della creatività artistica espressa dal cinema e della sua ricezione da parte degli spettatori” (Gallese and Guerra 2015: 216).↩︎
Cfr. Pinotti 2010.↩︎
Cfr. inoltre Giacomoni 1993: 64-70.↩︎
Ad esempio, “il libro di Ejzenštejn [Teoria generale del montaggio] può essere considerato non solo come un libro-esposizione, un libro-museo, ma anche come il tentativo di elaborare una vera e propria morfologia del montaggio, uno studio delle diverse manifestazioni concrete di quello che, con un termine ripreso direttamente dalla morfologia di Goethe, Ejzenštejn considera come il ‘fenomeno originario’ (Urphänomen) del cinema” (Somaini 2011: 321).↩︎
Cfr. le considerazioni del regista in Quaresima 1988: 66.↩︎
“È necessaria una certa cautela di fronte alle metafore spaziali e temporali con cui Goethe caratterizza il fenomeno originario. L’originarietà non è l’originalità, non sta nel tempo, come primum momentum agens, nel senso che l’Urphänomen non deve essere inteso come la prima fase temporaneamente antecedente di un processo, rispetto alla quale questo fenomeno concreto starebbe più vicino, e quello più lontano. Tutti i fenomeni concreti sono ugualmente distanti nel tempo (o ugualmente vicini – il che è lo stesso) al fenomeno originario”, scrive infatti Pinotti (2001: 139). In proposito cfr. anche Moiso 1988: 327. D’altra parte, a rigore, “non [c’è] luogo intorno ad esse, e meno ancora tempo”, ha scritto Goethe nel Faust, riferendosi proprio alle forme archetipiche (2016: 592).↩︎
Tra questi Somaini annovera, ad esempio, Ejzenštejn, Benjamin e Warburg.↩︎
Cfr. Reitz 1983c: 106-110.↩︎
Cfr. le parole di Reitz in Dagrada et. al. 2007: 151.↩︎
La proposizione alla quale il personaggio si riferisce è la 2.1511.↩︎
La proposizione è la 2.151. Questo riferimento di Reitz a Wittgenstein conferma inoltre l’ascendenza goethiana di alcune di queste idee morfologiche; il pensatore austriaco – come è noto – è infatti esplicito debitore nei confronti della morfologia di Goethe.↩︎
Sull’indeterminatezza di questo processo come principio compositivo dell’opera cfr. Farinotti 2007: 73-99.↩︎
Su questo si veda almeno Kaes 1992: 161-182; Farinotti 2007: 79-99.↩︎
Cfr. Goethe 1997: 220-221.↩︎
Cfr. Reitz 1983a: 140.↩︎
L’influenza della morfologia di Goethe sull’opera di Ginzburg è sicuramente evidente, sebbene egli abbia dichiarato, nella postfazione all’ultima edizione di Storia notturna, di essersi ispirato inconsapevolmente più a Cuvier che a Goethe, avendo attribuito alle forme, rispetto a quest’ultimo, minore flessibilità (Ginzburg 2017: 347-363). Più in generale, in linea di massima, questa maggiore rigidità delle forme adoperate dall’indagine (che si traduce evidentemente in una più immediata possibilità di generalizzarne i risultati, al prezzo però di un allontanamento dalla realtà descritta) è ciò che differenzia il lavoro di ricostruzione del passato di uno storico da quello di un regista. In merito cfr. Guynn 2006: 17-18.↩︎
Nelle Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, scrive Ginzburg, “Wittgenstein contrappone due modi di presentazione del materiale, uno sinottico (e acronico), l’altro basato su un’ipotesi di sviluppo anche cronologico, sottolineando la superiorità del primo. Il rinvio a Goethe (al Goethe morfologo) è esplicito […]” (2000: XV).↩︎
Ernst Cassirer, che si è occupato approfonditamente di entrambi gli autori, infatti scrive: “Le idee di Goethe rimanevano la bussola intellettuale di Humboldt. […] Goethe aveva dato una teoria dei tipi organici, parlando di ‘formazione e trasformazione delle nature organiche’: Humboldt parlò di tipi linguistici”. Se nel poema di Goethe La metamorfosi delle piante, spiega Cassirer, si sostituisce alla parola “Gestalten” la parola “Sprachen”, si comprende il problema generale che preoccupa Humboldt: “Goethe cercò questa legge nascosta nel mondo naturale, Humboldt nel mondo culturale, nel mondo del linguaggio umano” (1982: 407-408).↩︎
Anche Ginzburg, in riferimento al materiale della sua ricerca, ha ipotizzato il grosso potenziale in termini di comunicazione tra le culture che potrebbe garantire l’esistenza di una qualche regola strutturale, scrivendo: “È probabile che questa caratteristica potenzialmente transculturale, perché elementarmente umana, non sia estranea alla straordinaria comunicabilità di questa famiglia di miti e di riti” (2017: 287).↩︎
Cfr. Goethe 2016: 596.↩︎
Carlo Ginzburg ha formulato rilevanti considerazioni in merito alla nozione di archetipo, intesa proprio in questi termini. Scrive infatti lo storico: “Con ciò la nozione di archetipo viene riformulata in maniera radicale, perché saldamente ancorata al corpo. Più precisamente alla sua autorappresentazione. Si può ipotizzare che essa operi come uno schema, come un’istanza mediatrice di carattere formale in grado di rielaborare esperienze legate a caratteristiche fisiche della specie umana, traducendole in configurazioni simboliche potenzialmente universali” (2017: 259) [corsivo mio].↩︎
Proprio in riferimento alle esperienze archetipiche, Ginzburg analogamente scrive: “Tra queste ultime bisognerà includere anche, anzi soprattutto, l’esperienza corporea di grado zero: la morte” (2017: 260).↩︎
“Mefistofele vuol qui alludere alla diffusione dei demoni erotici in ogni tempo e luogo”, spiega Franco Fortini in nota (Goethe 2016: 1187). Commentando questi versi, citati in più luoghi anche da Warburg, Pinotti scrive: “Chiediamoci per adesso: che cosa è, qui, propriamente, questa ‘identità’ o ‘stessità’? È ciò per cui quelle culture sono parenti, verwandt. E che cosa è, qui, propriamente, verwandt? Verwandt è una certa forma” (2001: 65).↩︎
“Il ripresentarsi di forme simboliche analoghe a distanza di millenni, in ambiti spaziali e culturali del tutto eterogenei, poteva essere analizzato in termini puramente storici? O si trattava invece di casi limite che facevano apparire nell’ordito della storia una trama intemporale?”, si chiede appunto lo storico nell’introduzione al testo (Ginzburg 2017: XXXI). La risposta fornita all’interno del libro è ipoteticamente affermativa. Scrive Ginzburg: “La documentazione che abbiamo accumulato prova al di là di ogni ragionevole dubbio l’esistenza di una sotterranea unità mitologica eurasiatica, frutto di rapporti culturali sedimentati nei millenni. È inevitabile chiedersi se e fino a che punto le forme interne che abbiamo individuato siano in grado di generare riti e miti isomorfi anche all’interno di culture non connesse storicamente. Purtroppo quest’ultima condizione (l’assenza di qualsiasi forma di connessione storica tra due culture) è per definizione indimostrabile. Della storia umana sappiamo e sapremo sempre troppo poco. In mancanza di una prova contraria, non rimane che postulare, dietro i fenomeni di convergenza culturale che abbiamo indagato, un intreccio di morfologia e storia” (2017: 288).↩︎
[corsivo mio].↩︎
Questo meccanismo è notoriamente familiare anche a Benjamin, che in proposito ha scritto: “L’immagine dialettica è quella forma dell’oggetto storico che soddisfa le esigenze che Goethe pone per l’oggetto di un’analisi: mostrare una vera sintesi. Essa è il fenomeno originario della storia” (2010: 532).↩︎