Nel momento storico in cui ci troviamo a scrivere, girano in rete numerose parodie o “meme” che rilanciano la gaffe del facente funzione del governatore della Calabria, Nino Spirlì, il quale, per difendere la dignità della sua regione, non ha trovato argomentazione migliore del definirla “la terza regione italiana in ordine alfabetico”. Un po’ di cultura in più lo avrebbe aiutato, se è vero che una delle ipotesi più accreditate per spiegare il nome del Bel Paese fa riferimento alla leggenda del re Italo che governava gli Enotri, popolazione che abitava appunto l’antica Calabria (Silvestri 2001). Dunque, a rigor di logica, i calabresi sarebbero i primi italiani (o la Calabria una sineddoche dell’Italia intera), ma tali sono diventati solo nel momento in cui i greci scoprirono quella terra bellissima e tormentata, dunque per via di uno sguardo e di una definizione venuta dall’esterno. Perché, in effetti, un accordo sulle origini del nome – al netto della molteplicità di ipotesi formulate da storici e linguisti – non si è mai trovato.
Non per questo si può mettere in dubbio, come ha fatto Fredric Jameson qualche anno fa (Jameson 1990), l’esistenza dell’Italia che, dal punto di vista dell’immaginario occidentale, è il luogo che ha visto fiorire l’Impero romano, ha contribuito in modo sostanziale all’affermazione del cristianesimo e quindi ha promosso l’avvento dell’antropocentrismo durante quell’epoca storica che genericamente chiamiamo Rinascimento. Epoca che ha visto celebri italiani offrire un contributo essenziale allo sviluppo del pensiero e delle arti: da San Tommaso a San Francesco fino a Leon Battista Alberti, da Galileo Galilei a Giordano Bruno, passando per Dante, Petrarca, Boccaccio, Giotto, Michelangelo, Leonardo, Brunelleschi, Caravaggio e innumerevoli altre “Italian icons”.
Pertanto, quando Massimo D’Azeglio pronunciava la celebre sentenza secondo cui il Risorgimento aveva fatto l’Italia ma restavano da fare gli italiani, diceva una cosa profondamente vera sotto il profilo sociale e politico, ovvero dal punto di vista del presente storico che si trovava a vivere, ma anche del tutto inesatta. L’Italia esisteva da secoli, e con essa gli italiani, almeno nell’immaginario condiviso dagli altri popoli su una scala che oggi definiremmo globale.
Quando, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, William Shakespeare mette in scena le vicende degli amanti di Verona o del Mercante di Venezia, queste città non sono solo dei puntini qualsiasi sulle precarie mappe geografiche dell’epoca, ma dei veri e propri luoghi sia materiali che dello spirito, capaci di evocare atmosfere facilmente riconoscibili per il pubblico dell’epoca e di rendere quelle opere assai più credibili e suggestive che se si fossero svolte a Mosca o a Tunisi. E Venezia, in particolare, era già nota per essere uno spazio d’incontro di diverse realtà culturali, etniche, sociali e politiche, specchio della Londra Shakespeariana certo, ma anche di una italianità cosmopolita (Obertello 1964).
Detto in altri termini, l’Italia era già capace di esercitare un fascino specifico, vale a dire che costituiva un brand dotato di un valore intrinseco, legato a luoghi, monumenti, opere d’arte, modi di vivere, vestire, pensare, sentire, mangiare e quant’altro. C’era un’Italia reale, ampiamente già fatta, e c’erano gli italiani. Ma tutto questo stava nella mente delle persone che di questa Italia avevano letto sui libri o sentito parlare dai precettori, e la cui rappresentazione non necessariamente coincideva con quell’Italia reale che non aveva ancora una precisa fisionomia politica. Un paese che nell’immaginario era poco più di un luogo geografico, abitato da un insieme disordinato e conflittuale di popoli, per lo più sotto il giogo di dominazioni straniere. Poi arrivarono l’industria culturale e i mezzi di comunicazione di massa e tutto è diventato ancora più confuso.
Se avessimo l’ardire di provare a istituire un bizzarro paragone fra gli stati nazionali che si vanno assestando fra Sette e Ottocento e le grandi strutture industriali attuali, potremmo quasi dire che i primi si presentano come dei conglomerati con un forte brand identitario (come Amazon, la Apple o la Disney, che non a caso hanno fatturati annui paragonabili al PIL di grandi nazioni) e cercano di competere con i rivali espandendosi in mercati deboli o utilizzando i loro capitali per annettere marchi identitari più piccoli. In tutto questo, la nazione italiana viene costituita come un conglomerato di marchi non pregiatissimi (un insieme piuttosto caotico di città-stato e territori periferici già sfruttati da altri e in decadenza) e tenuto assieme da una proprietà povera, come in effetti era Casa Savoia, dinastia gloriosa e antica, ma certo non fra le più potenti nello scacchiere dell’aristocrazia europea.
Era fatale che il paese cercasse per lungo tempo di consolidare la sua struttura ed eventualmente proteggerla dalle minacce esterne e non avesse la forza per riuscire a esportare una propria identità attraverso i prodotti di un’industria culturale che costituiva anche la base della cosiddetta soft-power (Colombo 1998). Per questo, fino agli anni Venti del Novecento, le mitologie italiane si contano sulle dita di una mano: Garibaldi, ovviamente, eroe dei due mondi con barba fluente e camicia rossa; Giovanni Battista Belzoni, esploratore, archeologo, templare, forzuto da circo che contribuì certamente ad alimentare una certa idea talentuosa e cialtronesca del carattere italiano; un paio di grandi musicisti, un burattino animato di nome Pinocchio che avrebbe scalato l’hit parade mondiale delle fiabe per ragazzi, un genio del trasformismo come Leopoldo Fregoli e poco altro. Davvero poco per rivaleggiare ad armi pari con le esposizioni universali e i relativi inventori ed esploratori, i quattro moschettieri, i capitani coraggiosi, i detective dal genio sovrumano, i cowboy e le grandi epopee che caratterizzavano le culture imperiali dell’Inghilterra, della Francia, della Russia o di quella potenza esotica ed emergente che erano gli Stati Uniti d’America.
Quando sale al potere Benito Mussolini, nella sua smisurata ambizione, si rende subito conto che non avrà nessuna voce in capitolo sullo scenario internazionale se non sarà in grado di produrre delle forme di ciò che oggi chiameremmo “branded entertainment”, sufficientemente evolute da poter essere diffuse anche nelle grandi nazioni industrializzate. Il brand, naturalmente, è quello dell’Italia fascista, in quanto efficiente e coesa potenza economica e militare (ampiamente sovrastimata). Il veicolo sono i mass media, un sistema al cui centro, all’epoca, vi era il cinema, capace di attivare un’economia del prestigio da cui derivavano importanti conseguenze sia sul piano politico sia su quello dell’economia reale, e dunque meritevole di ingenti investimenti a fondo perduto. I testimonial erano una serie di figure carismatiche, da D’Annunzio a Pirandello, da Primo Carnera a Giuseppe Meazza, fino a Italo Balbo, figura perfino troppo ingombrante con la sua carica di intraprendente giovinezza aviatoria, capace di rivaleggiare con il testimonial per eccellenza, ovvero lo stesso Mussolini, sostenuto da un apparato imponente, interamente votato al suo servizio e in grado di renderlo una star globale (Bertellini 2019).
Dopo la parentesi tragica della Seconda Guerra Mondiale, la storia che ci interessa riprende con la Repubblica Italiana, la rinascita del paese e il rilancio della sua industria, anche culturale. Il momento in cui i testimonial dell’Italia diventano numerosi e articolati, istituendo una relazione dialettica con le industrie culturali degli altri paesi, i cui prodotti circolano massicciamente nel nostro come i nostri nei loro, in un rapporto che a volte è simbiotico, a volte di complementarietà, altre volte di conflitto ed esplicita opposizione. Neanche Mussolini si era mai sognato di contrastare davvero l’egemonia del cinema americano sul mercato delle sale nazionali. Sarebbe stato un disastro economico e simbolico. Ma sarà il genio diabolico di Giulio Andreotti a individuare il modo di trarre profitto da questa colonizzazione, con leggi studiate ad hoc, che consentiranno al paese di porre le basi per quella che tra gli anni Sessanta e Settanta sarà la seconda industria cinematografica mondiale (dopo Hollywood, of course). Questo rilancio, curiosamente, avverrà a costo del sacrificio del neorealismo, vale a dire la prima corrente cinematografica capace di esportare nel mondo un’immagine dell’Italia compatibile con le aspettative di grandi pubblici globali (il popolo italiano “autentico” come un aggregato di povera, umile e, in fondo “brava gente”), funzionale a sostenere la negoziazione della sconfitta militare ma del tutto inadatto a incoraggiare i grandi investimenti stranieri (al riguardo, si veda il bel documentario di Tatti Sanguineti, Giulio Andreotti: la politica del cinema, prodotto dall’Istituto Luce nel 2017).
Esemplare è la natura duplice e sottile dei processi che si instaurano nel periodo del boom economico. Da una parte, grazie anche agli investimenti stranieri, l’industria culturale autoctona riesce a far circolare un gran numero di testi che veicolano un’immagine necessariamente stereotipata, sia nei suoi aspetti più glamour (la dolce vita e il bel vivere italiano, incluse le sue bellezze e il suo cibo) sia in quelli più problematici (il cinema d’inchiesta e impegnato, ovvero la povertà e l’arretratezza, mafia e corruzione). Dall’altro lato, l’Italia è in grado di mettere in circolazione prodotti che rielaborano in maniera assai creativa alcuni topoi della pop culture, da cui il paese aveva subìto varie forme di colonizzazione culturale, e di usarli, spesso in modo mimetico, per affermare comunque una capacità produttiva fuori dal comune. È il caso degli spaghetti western, ovviamente, con cui Sergio Leone e colleghi riescono a conquistare i mercati stranieri, incluso (entro certi limiti) quello statunitense, rilanciando un mito di importazione con modalità inedite. E il discorso può valere anche per altri generi che non hanno alcuna tradizione autoctona come l’horror, da Mario Bava a Dario Argento. E western e horror diventano anche il vettore dell’esportazione dei prodotti di punta di una gloriosa casa editrice italiana di fumetti come la Sergio Bonelli Editore, capace di esportare testate come Tex, Zagor e più tardi Dylan Dog, con ottimi riscontri, in moltissimi paesi, dalla Francia alla Spagna fino all’intero Est Europa, dall’India al Brasile alla Turchia. Pubblicato dalla casa editrice Astorina, anche Diabolik, ideato dalle sorelle Giussani, viene esportato in diversi paesi, dall’Argentina alla Finlandia, dalla Francia a Israele, dalla Grecia alla Polonia, e in molti altri. E il discorso si applica anche a prodotti recenti, come le animazioni, tra l’anime e il manga, del Winx Club, un prodotto che ha avuto esportazioni globali in più di 150 emittenti televisive internazionali ed è realizzato nelle Marche da un signore (Iginio Straffi) che proviene da un paesino di 750 abitanti. Ma in tutti questi casi, come del resto accade per quei campioni dell’export italiano che sono stati Terence Hill e Bud Spencer, difficilmente il prodotto, per quanto italiano, viene recepito come parte del “brand Italia”, e la maggior parte dei fruitori non si pone neppure il problema di dove siano realizzati: per quanto italiani, sono prodotti riconducibili a una cultura di massa globale di ispirazione statunitense. Mentre il circuito potrebbe includere altre forme artistiche in cui la dinamica si fa più complessa. Prima fra tutte la canzone, dove la tradizione inventata del “bel canto italiano” (Tomatis 2019) trova in effetti applicazione nella riproposizione italianizzata di suggestioni anglosassoni che, una volta rielaborate, si riescono talvolta a esportare in buona parte del mondo a fianco di prodotti che, all’estero, sono percepiti come tipici del paese di provenienza mentre in patria, spesso, attivano resistenze e vengono ritenuti artificiosi (da Bocelli al Trio).
È chiaro, tuttavia, che oggi la circolazione dell’immagine di un paese è prevalentemente affidata ai mezzi audiovisivi, cinema e serie televisive in particolare, ed è a queste che si deve guardare per capire come impatta (se lo fa) in profondità la rappresentazione di una nazione sullo scenario globale. Uno scenario che vede l’Italia in una situazione particolare, perché se da un lato il “made in Italy” viene efficacemente veicolato da alcuni settori industriali tradizionalmente forti, soprattutto a livello di marchi pregiati (moda, food, design applicato), dall’altro la situazione del settore audiovisivo si scontra con una debolezza endemica di un’industria che non si è mai davvero sviluppata. Questo la mette costantemente sotto lo scacco della schiacciante concorrenza straniera sul mercato interno, riducendola a sopravvivere per lo più grazie al finanziamento pubblico diretto o indiretto: dunque è poco propensa all’esportazione, e comunque obbligata ad appoggiarsi ad agenzie straniere per poter penetrare nei mercati esteri.
Per fortuna, esistono le eccezioni. E, soprattutto, l’evoluzione tecnologica e concettuale della distribuzione, con l’avvento di nuovi soggetti (specialmente nell’ambito dei cosiddetti OTT), sta portando a inedite configurazioni della situazione mediale che consentono, da qualche anno, sperimentazioni impensabili in precedenza e forme di circolazione dei prodotti mediali che seguono traiettorie ancora in gran parte da comprendere e interpretare. Basta prendere il distributore on demand del momento, vale a dire Netflix, per rendersi conto di come stia cambiando il panorama della produzione audiovisiva. Il colosso statunitense, infatti, che nel 2013 ha inaugurato la produzione di serie televisive con titoli di grande impatto come House of Cards (2013-2018), nel corso degli anni successivi è arrivata a produrre (direttamente o tramite una complessa rete di collaborazioni strategiche) tra le 120 e le 150 serie all’anno. I prodotti di punta, ovviamente, sono quelli statunitensi, ma da subito lo sforzo si è andato ramificando in una quantità notevole di imprese targate sotto il profilo nazionale. Scorrendo il catalogo, infatti, ci si accorge che – fra serie originali e continuazioni – Netflix ha messo in circolazione importanti serie messicane, argentine, colombiane, brasiliane, svedesi, norvegesi, finlandesi, perfino islandesi. E ancora, serie britanniche, fiamminghe, polacche, belghe, francesi, tedesche, una gran quantità di serie spagnole e addirittura catalane, oltre a una quantità impressionante di serie indiane, giapponesi, turche, arabe, sudcoreane e di molti altri paesi. E naturalmente serie italiane, prodotte in proprio, in coproduzione o distribuite, che vanno da Suburra (2017-2020) a Baby (2018-2020) e Skam Italia (2018-2020), fino a Summertime (2020-), che si affiancano a una altrettanto variegata produzione di film, che comprendono titoli di assoluto prestigio come The Irishman (2019) di Martin Scorsese, La ballata di Buster Scruggs (2018) dei fratelli Coen o il messicano Roma (2018) di Alfonso Cuaròn, per coinvolgere anche l’Italia con titoli eterogenei che vanno dal profondo dramma sull’omicidio di Stefano Cucchi, Sulla mia pelle, girato da Alessio Cremonini nel 2018, al brillante e leggero Sotto il sole di Riccione (2020) con cui il duo YouNuts! ha portato sullo schermo una sceneggiatura di Enrico Vanzina.
E, naturalmente, Netflix non è che uno degli operatori di un settore immenso, che vede OTT come Amazon Prime o altri canali on demand, come HBO o Sky, produrre, promuovere o distribuire prodotti seriali o filmici che vanno da Romanzo criminale a Gomorra, da Suspiria (Luca Guadagnino, 2019) a The New Pope (2020), fino a Chiamami col tuo nome (Luca Guadagnino, 2017), L’amica geniale (2018-), Diavoli (2020-) o Romulus (2020-), attraverso i quali si è andata affermando una generazione di autori che hanno una evidente vocazione internazionale, da Sorrentino a Guadagnino, da Saverio Costanzo a Matteo Rovere.
Ebbene, questo immenso catalogo di luoghi, lingue e linguaggi, stili, razze, colori, ideologie, religioni, valori, storie, leggi, usi e costumi, modi di vestire, mangiare, far l’amore e quant’altro, tutti ugualmente disponibili e a portata di click nello stesso catalogo, tutti concepiti al contempo per soddisfare spettatori diversi per nazionalità e clienti ugualmente interessanti da intrattenere e far viaggiare ai quattro angoli del pianeta, quali tipi di ricezione, ovvero di relazioni, stanno producendo? Che tipo di pubblico stanno forgiando? Quali incontri e scontri, quali associazioni e frizioni stanno ponendo in essere? E soprattutto, dalla prospettiva di chi partecipa della nostra specifica cultura nazionale, quale idea e immagine dell’Italia stanno elaborando e disseminando questi prodotti che derivano da una rapidissima e selvaggia evoluzione di un intero settore dell’industria culturale che si interseca, in maniera sinergica, con tutti gli altri? Quali stereotipi e quali realtà, quali percezioni corrette o distorte, quali somiglianze o differenze fra l’autorappresentazione dell’Italia vista dagli italiani e quella di uno stivale visto dalla lente di altre sensibilità che si trovano fatalmente a collidere?
Da queste suggestioni nasce l’esigenza di riflettere su una serie di casi esemplari come quelli affrontati nei saggi che seguono, interventi che sono stati sollecitati nel quadro del progetto di ricerca dal titolo Global Italy. Circolazione e ricezione internazionale delle narrazioni intermediali relative alla realtà italiana contemporanea, finanziato nel quadro del bando Alma Idea 2017, e dei due convegni Global Friction(s) e Global Friction(s) 2: Immagini e narrazioni dell’Italia nel contesto globale, tenutisi rispettivamente nel 2018 e nel 2019 e promossi dal gruppo di ricerca Millenium Novels, Global Readers, dall’Academy of Global Humanities and Critical Theory, dal Centro di Ricerca sull’Utopia, dal Dipartimento delle Arti, dal Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne e dal Dipartimento di Storia, Culture, Civiltà dell’Università di Bologna. Ciascuno di questi testi va in profondità su aspetti puntuali e specifici del problema, legati alla contingenza di un caso o di un tema, per riuscire in maniera sorprendentemente spontanea a dialogare con tutti gli altri e con ulteriori ricerche che sono in via di svolgimento (Scaglioni 2020).
Alcuni si concentrano sulla circolazione di alcune serie in paesi differenti. È il caso del saggio di Luca Barra che affronta la campagna promozionale di HBO per il lancio statunitense di The Young Pope (2016) e The New Pope (2020), venduto in grande stile, nell’ottica di un’economia del prestigio, a un pubblico highbrow che ha reagito in maniera inizialmente ottima per poi dimostrare un entusiasmo assai più tiepido per il prosieguo della serie, non riconoscendo forse quegli elementi di italianità che venivano promessi al lancio. E un destino ancora più difficile sembra aver incontrato il film Loro (2018) dello stesso Sorrentino in Francia, secondo l’analisi puntuale svolta da Valerio Coladonato, che mette a confronto l’andamento del film con quello assai più lusinghiero di altre opere del medesimo regista o di altri artisti italiani più congeniali all’idea che la Francia ha del nostro paese. Ben altra accoglienza ha avuto L’amica geniale (2018-), grazie anche al clima favorevole creato dal fenomeno Ferrante negli Stati Uniti. Claudio Bisoni ed Elisa Farinacci, infatti, mettono in evidenza quanto un determinato pubblico americano abbia apprezzato la serie sulla base di un apparente paradosso: la differenza di questo prodotto rispetto alle “solite” serie hollywoodiane e lo standard qualitativo altissimo che la accomuna alle migliori serie USA. E interessantissimo è anche il dibattito tedesco che ha seguito la distribuzione di Gomorra – La serie (2014-) sul mercato tedesco, ricostruita con accuratezza da Angela Fabris, un dibattito basato sulla opposizione fra l’autenticità di una rappresentazione dell’Italia assai diversa dai consueti stereotipi (specialmente quelli relativi a un Sud assolato e allegro) e il dissenso per una nuova forma di stereotipizzazione che collega la serie di Saviano e Sollima ad analoghi prodotti che rientrano nel novero della quality tv. Temi che si intersecano perfettamente con i testi di Catherine O’Rawe, sulla persistenza della retorica dell’attore non-professionista che parte dal neorealismo e arriva alle ultime due serie citate e con il saggio di Massimo Scaglioni che chiarisce come la collocazione internazionale di audiovisivi italiani si inquadri, pressoché sempre, nel frame della serialità premium che corrisponde a una percezione automatica del brand Italia nel suo insieme fra quelli di pregio, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che questo comporta. Un fenomeno che riguarda evidentemente anche il cinema di Luca Guadagnino, la cui ricezione americana è oggetto del saggio di Damiano Garofalo. Ma il caso di Guadagnino rappresenta anche un notevole esempio di come sia difficile conciliare una rappresentazione dell’Italia che sia appetibile su un mercato estero difficilissimo con quella che può essere digeribile sul mercato interno, col risultato di opere che ottengono un riscontro davvero straordinario in paesi solitamente preclusi alla circolazione di film italiani e vengono pressoché ignorati in patria. Ancora, il caso affrontato da Paola Scrolavezza, ovvero quello di serie televisive italiane popolari, come Il commissario Montalbano (1999-) o Don Matteo (1998-), che vengono completamente rilette nel contesto giapponese e guidano una revisione positiva del rapporto fra un certo pubblico giapponese e l’Italia, rappresenta uno straordinario caso di traduzione interculturale che rende compatibili contesti tendenzialmente alieni.
Infine, Giovanna De Luca, partendo dalla sua esperienza personale, analizza il ruolo di una istituzione tradizionale come quella dei festival nella promozione del cinema italiano negli Stati Uniti, mettendo in rilevo quanto sia complessa la struttura ministeriale per la promozione del cinema nazionale all’estero e imprevedibili le ragioni che, nelle diverse comunità, possono attirare il pubblico verso prodotti a dir poco esotici. Infine, last but absolutely not least, il saggio di Roberto Dainotto, che offre una panoramica di amplissimo respiro e mette in relazione il contenuto di tutti i saggi precedenti con una serie di dinamiche economiche, sociali e culturali che da sempre, nel contesto letterario, hanno guidato la diffusione e la ricezione delle opere nazionali a livello globale, evidenziando le ricadute che l’organizzazione dell’industria culturale determina sul processo e come, nello scenario digitale, tali dinamiche abbiano subìto anche sostanziali modifiche.
In attesa di futuri, auspicabili approfondimenti, leggendo questi testi si capisce meglio quanto sia difficile, se non impossibile, allineare le ricezioni interne ed esterne di prodotti audiovisivi italiani, ma al contempo di quanto sia necessario questo specchio deformante per avere una più realistica percezione della cosiddetta italianità. Detto in altri termini, non basta essere italiani per sapere davvero cosa sia l’Italia e, soprattutto, per essere percepiti come tali da chi vive immerso in culture differenti.
Bibliografia
Bertellini, Giorgio (2019). The Divo and the Duce: Promoting Film Stardom and Political Leadership in 1920s America. Oakland: University of California Press.
Colombo, Fausto (1998). La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’Ottocento agli anni Novanta. Milano: Bompiani.
Jameson, Fredric (1990). Signatures of the Visible. New York: Routledge (tr. it. Firme del visibile. Roma: Donzelli, 2003).
Obertello, Alfredo (1964). “Shakespeare e l’Italia.” Lettere italiane 16(4): 415-424.
Scaglioni, Massimo (a cura di) (2020). Cinema made in Italy. La circolazione internazionale dell’audiovisivo italiano. Roma: Carocci.
Silvestri, Domenico (2001). “Per una etimologia del nome Italia.” In Il mondo enotrio tra VI e V sec. a.C., Atti dei seminari napoletani (1996-1998), a cura di Maurizio Bugno e Concetta Masseria, 207-238. Napoli: Loffredo.
Tomatis, Jacopo (2019). Storia culturale della canzone italiana. Milano: Il Saggiatore.