Non è facile scrivere una recensione di Postspettatorialità, ovvero di un libro tanto corposo (445 pagine), documentato (40 pagine di bibliografia) e completo come quello di Mario Tirino. Forse un modo per cavarsela è quello di partire dall'ultimo aggettivo: completo. Tirino riesce a tirare le somme di un secolo, più o meno, di studi sulla spettatorialità, concatenando in modo fluido le più importanti teorie internazionali e i contributi, talvolta decisivi, degli studiosi italiani – Francesco Casetti e Ruggero Eugeni su tutti. Anche se l'autore si affretta con modestia a negarlo, la traiettoria tracciata da Tirino è davvero completa: condizione postmediale, fenomenologia, discorsi sull'archiviazione, Realtà Virtuale, il DVD come pratica culturale, movie-going, Netflix, fansubbing, 3D, singalong movie… Ritroviamo tutte le tracce lasciate dallo spettatore nel presente e nella storia.
Ricostruendo le teorie e le pratiche dell'immagine audiovisiva contemporanea, la parola “cinema” (non era affatto scontato) è ancora un termine chiave. Il cinema rimane un medium “in grado di innervare i circuiti della produzione simbolica dell'era moderna e postmoderna” (p. 23), di alimentare “dinamiche di abissale coinvolgimento e co-determinazione tra sguardo e oggetto dello sguardo, occhio dello spettatore e dispositivo tecnologico – dinamiche capaci di generare la radice di una passione, di cui si nutre l'immaginario dall'epoca dei nickelodeon a quella di Netflix” (p. 404).
Termine chiave, in questo senso, è (il casettiano) “esperienza”, che consente di tenere insieme ciò che proviamo (ancora) nelle sale cinematografiche (che negli ultimi anni si erano spese nella spasmodica organizzazione di “eventi”), quello che ci fa vivere la VR, quello che facciamo mentre scrolliamo Netflix per scegliere il film migliore per la serata.
Tirino si interroga sulla storia a partire dal presente, dallo “scandalo mediale” (p. 23) costituito dalla digitalizzazione della cultura contemporanea, assumendo come concetto centrale quello di mediashock. Secondo la teorizzazione di Richard Grusin, “mediashock” è una nozione capace di descrivere diversi aspetti della presenza e del ruolo dei media nel panorama contemporaneo: la pervasività/ossessività dei media durante un’emergenza; lo shock che i media producono nei bio-organismi; la destabilizzazione dei modelli sociali consolidati indotti dai media o dai loro testi; l'impatto geofisico, geopolitico e geoaffettivo dei media.
Il trauma della digitalizzazione è lontano dall'essere assorbito. Siamo oggi nel mezzo di questo (questi) mediashock, senza istruzioni precise, fra mille contraddizioni, all'interno di una cultura che, per esempio, nutre nei confronti della VR al contempo la certezza di una fascinazione futura e un disinteresse palese nel presente. Siamo nel varco, indecisi tra una nostalgia per i vecchi media e i loro supporti (il vinile, la carta, la pellicola) e un nuovo innamoramento per gli archivi digitali – le proprie cartellette, classificazioni, i propri algoritmi. “Strutturazione tassonomica e attivazione memoriale”, scrive Tirino (p. 387) a proposito di questa nuove forme di appropriazione e personalizzazione di testi mediali. È un altro “mal d'archivio”, un'altra pulsione nata sulla spinta della banalizzazione dell'immagine audiovisiva messa in atto dalle spesso grossolane pratiche di scambio dei social network e dei dispositivi mobili, dalla “fondamentale e irreversibile mutazione antropologica” (p. 22) che hanno creato nel rapporto tra sguardo umano e immagini in movimento.
Le pratiche della visione (quelle che ci rassicurano di poterci ancora chiamare spettatori e non “utenti”) sono infatti costrette a confrontarsi con l’altro schermo, lo smartphone. Oltre alla ricostruzione teorica, è interessante in questo caso leggere il resoconto di una ricerca sul campo condotta da Tirino sulle abitudini di consumo (audiovisivo) degli adolescenti: “Per tutti gli usi del second screen legati alla rielaborazione simbolica sia del film che dell'esperienza filmica, si può parlare di uso dello smartphone in termini di subordinazione (sincrona o non sincrona) rispetto alla centralità del first screen. Esiste però una seconda modalità di funzionamento del second screen, che possiamo definire ‘centrifuga’ rispetto al first screen, in base alla quale gli utenti mediali si staccano con sempre maggiore facilità dai contenuti dello schermo primario per abbandonarsi alla molteplicità proteiforme delle opportunità mediali assicurate dal second screen” (p. 251).
Quale nome possiamo dunque utilizzare “per chi oggi si relaziona al film e al cinema attraverso i media, coinvolgendosi in attività altamente performative e che incidono sulle modalità di pensare, girare, progettare, consumare, interpretare il cinema (o quel che è diventato oggi)?” (p. 403). Tirino, nelle pagine finali in cui si espone di più, arriva a proporre il termine che dà il titolo al libro, postspettatore. Con tutti i salutari dubbi del caso sulla categoria del “post-”, la denominazione, lette le 400 pagine del volume di Mario Tirino, convince nel merito: “L'esperienza che gli spettatori maturano attraverso il film è quasi sempre un'esperienza espansa, diffusa, dislocata in attività che coinvolgono interazioni, dispositivi, tecnologie, ambienti e attività assai composite” (p. 402). Come da definizione, tutto ciò che è post- (post-moderno, post-cinema, post-medialità) mantiene e non supera ciò che c'era prima (la modernità, il cinema, i media). Si tratterà ora, a proposito di shock, di vedere che strade intraprenderà la spettatorialità o postspettatorialità negli scenari incerti del post-Covid.