Parlare di videoarte oggi può sembrare scontato. Ormai quasi tutti abbiamo un’idea di cosa sia il video, quale la sua storia e che intrecci ha tessuto con il mondo del cinema, dell’arte, del teatro, della musica. C’è voluto un po’, verrebbe da dire, per fare in modo che la videoarte diventasse un argomento di studio, di dibattiti accademici, un settore più o meno riconosciuto. In modo chiaro questo è accaduto soprattutto in Paesi quali la Germania, l’Olanda, l’Inghilterra, gli Stati Uniti, fra i vari che si potrebbero citare, un po’ meno in l’Italia. Pensiamo alla Germania, un paese che da molto tempo sta puntando sui rapporti fra arte e nuove tecnologie: dall’Akademie der Künste a Berlino, la Hochschule für Grafik und Buchkunst a Lipzia, l’INM- Institut für Neue Medien a Francoforte, fino all’avvento di uno dei centri più importanti al mondo per le media art, lo ZKM- Zentrum Fur Kunst und Medientechnologiee a Karlsruhe, questi luoghi sono la dimostrazione della volontà di una nazione di investire, già da molto tempo, in territori nuovi e ancora tutti da sperimentare.
Questi investimenti non si trovano in Italia, paese che non riesce a colmare un vuoto culturale scaturito, probabilmente, dai molti pregiudizi basati sull’idea di determinismo tecnologico che queste forme d’arte trascinano. Ridefinire, dunque, e farci vedere un altro modo di concepire il nostro quotidiano, dominato sempre più da strumenti tecnologici. Ridefinire gli ambiti è sempre qualcosa che implica atteggiamenti etici, filosofici e politici. È sempre qualcosa che implica un gioco sul limite di quegli insiemi cantoriani con i quali produciamo i nostri ambiti culturali. E la videoarte è sempre stata, infatti, qualcosa che viaggia fra i confini di ciò che chiamiamo arte contemporanea, cinema e audiovisivi, sound, comunicazione e sviluppo tecnologico.
Questa mancanza di “rigore” ha portato a diversi fraintendimenti sul concetto di videoarte, sulla sua storia e il suo presente, non solo in ambito accademico. La popolarità che il termine ha acquisito negli ultimi anni ha portato non tanto a una analisi approfondita, ma a un uso incondizionato di questo: “il termine videoarte, che allora non esisteva e che a lungo ha designato un ambito circoscritto ed elitario, un segmento del cinema sperimentale oppure (e insieme) dell’arte contemporanea, è oggi diffuso: esteso, sì, ma anche frainteso, o limitato solo a un particolare periodo”1 (Lischi 2020:19). Non solo, aggiungerei che se il periodo iniziale e di affermazione della videoarte, gli anni ’60-’70-’80, è stato alquanto dibattuto, lo è molto meno il periodo caratterizzato dal passaggio al digitale e alle forme di ibridazione con altri contesti tecnologici e culturali, gli anni ’90-’00.
All’interno di questo scenario appena descritto il libro di Milo Adami, La forma video. Tra cinema e arti visive dopo il digitale, acquisisce particolare importanza. In primo luogo, perché va a colmare un vuoto: “ricostruire la genesi delle principali teorie e forme assunte dopo l’avvento del digitale – incluse le sue contaminazioni con gli altri media – è lo scopo di questa ricerca”2(Adami 2020:19). In secondo luogo, perché questa ricostruzione avviene attraverso una metodologia particolare per un libro che ha l’intenzione di assumere una veste “accademica”, “per ricostruire la complessità e gli intrecci del video, la sua storia espositiva e istituzionale è indispensabile far convergere nell’analisi musei, gallerie, mostre, cataloghi, artisti, discorsi critici e riviste specializzate” (Ivi:20).
Analizzare il video dagli anni Novanta in poi non è, dunque, scindibile da uno studio sulle mostre, le esposizioni, le gallerie d’arte, i cataloghi, oltre ovviamente ai testi accademici e non. La grande attenzione data dal giovane autore del libro all’analisi e alla storia dei percorsi espositivi del video è forse uno fra gli elementi più rilevanti e innovativi. Se possiamo trovare studi approfonditi che guardano alla storia della videoarte analizzandone autori, opere d’arte, tecniche e linguaggi, sono molto pochi quelli che si concentrano sulle mostre, i festival e le esposizioni che hanno scandito il percorso di questo settore dagli anni Novanta a oggi. Non è un caso che le mostre, i festival e gli eventi, di videoarte sono aumentati esponenzialmente proprio dagli anni ’90 parallelamente all’ampliamento di un sistema dell’arte contemporanea e allo sviluppo di un sistema di comunicazione globale.
Cercare di capire le peripezie del video all’interno di questi intrecci è cosa ardua ma fondamentale e si collega direttamente all’oggi, al fatto che molta della cultura visiva, all’interno della quale siamo oggi immersi, deriva proprio da questo passaggio. Il libro di Adami è sicuramente una guida importante per riuscire a entrare in questo passaggio e guardare a quello “smarrimento” dell’immagine iniziato con l’avvento del digitale, a tal punto da pensare alle pratiche artistiche come dei veri e propri contenitori di intuizioni, premonizioni, spunti e pratiche di analisi del futuro. Si chiede l’autore: “se il video da sempre si è declinato in stilemi multiformi e caleidoscopici, non riconducibili ad un solo dispositivo e ad una sola macchina, può essere considerato della condizione postmediale il suo precursore, o ancora meglio, la sua più autentica espressione, la sua nouelle image?” (Ivi:113). Guardare all’arte vuol dire proprio questo, vuol dire rileggere il medium da una nuova prospettiva, sperimentare nuove narrazioni e visioni. Forse proprio oggi, più che mai, abbiamo bisogno dell’arte per comprendere il nostro futuro.
Bibliografia
Lischi, Sandra (2020). La lezione della videoarte. Roma: Carrocci.