Per il decennale del Sicilia Queer, il consueto appuntamento con le “nuove visioni” è stato riproposto in modalità “mista”: in parte in presenza, in parte virtuale sulla piattaforma MyMovies, permettendo così a un pubblico più vasto di apprezzare l’accuratezza di una selezione sensibile a una nuova generazione di cineasti eclettici. Il concetto di “queer”, svincolato dalle sue accezioni più strettamente legate alle tematiche LGBT – mai comunque abbandonate grazie a cortometraggi e lungometraggi che di tematica e di estetica fanno un tutt’uno – viene esteso e setacciato, senza mai rinchiuderlo in semplici definizioni ma anche senza relegarlo a mere suggestioni. Il queer rimane un concetto tangibile con lo sguardo eppure sfuggente; viene inquadrato in un tentativo lucido e mai stereotipato di analizzare quelli che potrebbero essere i nervi tesi e comuni di una cinematografia internazionale contemporanea che scavalcando dei limiti varca sempre nuovi orizzonti.
I nomi di Marie Losier, Gustavo Vinagre, Ben Rivers e Luca Ferri sono nomi che hanno interessato più o meno ampiamente le edizioni degli ultimi anni del Sicilia Queer, e hanno portato avanti un’offerta festivaliera sempre più trasversale, continuativa e autocosciente. Un’offerta che più che mai si è espressa nella edizione X della manifestazione in film, visioni e modi di raccontare fra i più diversi e imprevedibili, alla ricerca di nuove chiavi di lettura politiche ed espressive affatto trascurabili.
L’attenzione per il cinema brasiliano non è una novità per il festival: si va dall’indimenticata proiezione di Batguano di Taivinho Teixeira nel 2016 fino a quella di Lembro mais dos corvos del 2019 dello stesso Gustavo Vinagre, che quest’anno è tornato con ben due titoli in concorso; d’altronde il cinema brasiliano si rivela come l’ideale punto di incontro di questa duplice necessità storica e artistica del cinema contemporaneo di tenersi con i piedi ben piantati a terra e con gli occhi spalancati su necessità sociali e sovvertimenti culturali. E dunque non solo A mordida di Pedro Neves Marques – vincitore del miglior cortometraggio per la Giuria Internazionale – è un esperimento curioso e avanguardistico che immagina un mondo paludoso in cui una pandemia di zanzare mette in pericolo l’umanità in tutte le sue diversità, ma anche Le dragon à deux tetes di Pàris Cannes – premio del pubblico al miglior corto – è una piccola serissima commedia che tra doppi, giochi di montaggio e split screen che invita lo spettatore a una maggiore consapevolezza rispetto alle conseguenze del regime del presidente Bolsonaro. Negrum3 di Diego Paulino, poi, combattuto fra documentario intimo, videoclip e storie di Instagram, e premio ex aequo della Giuria del Palermo Pride, sembra attraversare i più diversi e amabili tipi di esseri umani che usano l’esibizione per autoaffermarsi e rivendicare il diritto di esistere; un tratto, questo, che sembra invece negato alla comunità della mitica Indianara nel film di Barbosa e Chevalier-Beaumiel, che fra le ultime inquadrature illuminano la protagonista rinchiusa dentro un edificio storico abbandonato per rifugiarsi dal trionfo esterno di Bolsonaro.
I film di Vinagre infine sono l’espressione più urgente – talvolta allusiva talvolta esplicita come nelle vette hardcore “urbanistiche” di Nova Dubai del 2014 – di questa necessità del Brasile di raccontarsi ed esibirsi forse per esorcizzare un malessere politico o forse per tirar fuori un malessere esistenziale più esteso. È carnale ma essenzialmente verbale Vil, Ma, che tra un ricordo e un altro di Wilma Azevedo (anziana icona della scena BDSM) titilla gli anditi più reconditi dell’immaginazione spettatoriale; così come è verbale ma anche molto carnale A Rosa Azul de Novalis: un’intervista-documentario ma anche uno sfogo recitato come un aforisma di Bataille sul timore dell’oscenità della gente.
Ma fuori dal Sud America sono tante le eterotopie esplorate dal festival, e fra quelle più clamorose e impreviste c’è l’Italia di Samp di Rezza/Mastrella, body art e performance ancora prima che commedia, amatoriale come un film Dogma ma gioioso e sgrammaticato come un filmino casalingo. Si tratta di un’opera completamente fuori dalle regole, che va per frammenti e improvvisazioni, illudendo la soluzione di continuità narrativa dello spettatore. L’elemento più cocente che emerge nel film appare, però, la totale sfiducia che i due autori, alla maniera di Carmelo Bene, manifestano nei confronti dei limiti del cinema; e come spesso accade a chi non crede nel cinema ma lavora al cinema,1 i limiti sono più che superati e possono quindi essere esplorati i ritmi e gli stili normalmente negati dall’accademismo più severo e limitante.
Per chi invece ha esplorato in lungo e in largo l’edizione 2019, non può che ritrovarsi a suo agio nei fantastici 16 mm di Felix in Wonderland di Marie Losier (protagonista della sezione “Presenze” un anno fa). Quello di Losier è un cinema nostalgico, sempre attento a indagare l’inedito e a rendere l’eccentricità dei suoi personaggi qualcosa di profondamente familiare grazie anche a siparietti, confessioni e intermezzi più illustrativi – in un modo che ricorda il Jonas Mekas della New York anni ’70. Sono puramente mekasiani l’affetto e l’amicizia fra la regista e il protagonista (il compositore di musica elettronica Felix Kubin) che allestiscono una sinergia che proietta fuori dagli schemi alcune riprese e il montaggio. Esattamente come per il regista lituano, l’approccio di Losier è dettato forse più dalla necessità di ripercorrere una strada dei sentimenti, che dalla voglia di analizzare scientificamente il processo creativo di Felix Kubin.
Prostituzione, isolamento e ambienti chiusi legano invece due film apparentemente molto distanti fra loro come La casa dell’amore di Luca Ferri e Days di Tsai Ming-liang. Se Ferri sceglie il documentario, Tsai sceglie invece la performance contemplativa ai confini più sperimentali del cinema non narrativo, ma in entrambi si respira l’aria funerea e immobile di esistenze incapaci di evolvere. A questo Ferri ci aveva abituati l’anno scorso con Dulcinea e Pierino in concorso al Queer, così come ci aveva certamente abituati Tsai con più di 20 anni di carriera esemplare. Si tratta di film talmente essenziali che i fremiti di vita sembrano stare solo nei leggeri movimenti di camera, in quello sguardo indagatore che potrebbe dar senso a un ciclico perpetuarsi di umiliazioni e miserie.
E non è un caso che a vincere sia stato Ne croyez surtout pas que je hurle di Frank Beauvais: un film di montaggio, che lavora sul ritmo visivo, e maneggia testi precedenti per rielaborare le sofferenze e le depressioni del regista-narratore, alternando climax e distensioni. Sembra sussistere un legame simbolico tra questa edizione del Sicilia Queer e il film vincitore, perché in modo non troppo dissimile dall’esemplare sintesi catartica di Beauvais, l’ultima edizione del festival sembra aver racchiuso tutte quelle del passato.
Bene dichiara in Contro il Cinema i limiti della cosiddetta “Settima Arte”; in compenso, il suo film Nostra Signora dei Turchi è acclamato da Enrico Ghezzi come “uno dei film più eccentrici mai (dis)fatti”↩︎