Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.18 (2020)
ISSN 2280-9481

Dieci anni di Sicilia Queer. Sicilia Queer 2020 International New Visions Filmfest

Marco GrifòUniversity of Palermo (Italy)

Pubblicato: 2020-12-28

Per il decennale del Sicilia Queer, il consueto appuntamento con le “nuove visioni” è stato riproposto in modalità “mista”: in parte in presenza, in parte virtuale sulla piattaforma MyMovies, permettendo così a un pubblico più vasto di apprezzare l’accuratezza di una selezione sensibile a una nuova generazione di cineasti eclettici. Il concetto di “queer”, svincolato dalle sue accezioni più strettamente legate alle tematiche LGBT – mai comunque abbandonate grazie a cortometraggi e lungometraggi che di tematica e di estetica fanno un tutt’uno – viene esteso e setacciato, senza mai rinchiuderlo in semplici definizioni ma anche senza relegarlo a mere suggestioni. Il queer rimane un concetto tangibile con lo sguardo eppure sfuggente; viene inquadrato in un tentativo lucido e mai stereotipato di analizzare quelli che potrebbero essere i nervi tesi e comuni di una cinematografia internazionale contemporanea che scavalcando dei limiti varca sempre nuovi orizzonti.

I nomi di Marie Losier, Gustavo Vinagre, Ben Rivers e Luca Ferri sono nomi che hanno interessato più o meno ampiamente le edizioni degli ultimi anni del Sicilia Queer, e hanno portato avanti un’offerta festivaliera sempre più trasversale, continuativa e autocosciente. Un’offerta che più che mai si è espressa nella edizione X della manifestazione in film, visioni e modi di raccontare fra i più diversi e imprevedibili, alla ricerca di nuove chiavi di lettura politiche ed espressive affatto trascurabili.

L’attenzione per il cinema brasiliano non è una novità per il festival: si va dall’indimenticata proiezione di Batguano di Taivinho Teixeira nel 2016 fino a quella di Lembro mais dos corvos del 2019 dello stesso Gustavo Vinagre, che quest’anno è tornato con ben due titoli in concorso; d’altronde il cinema brasiliano si rivela come l’ideale punto di incontro di questa duplice necessità storica e artistica del cinema contemporaneo di tenersi con i piedi ben piantati a terra e con gli occhi spalancati su necessità sociali e sovvertimenti culturali. E dunque non solo A mordida di Pedro Neves Marques – vincitore del miglior cortometraggio per la Giuria Internazionale – è un esperimento curioso e avanguardistico che immagina un mondo paludoso in cui una pandemia di zanzare mette in pericolo l’umanità in tutte le sue diversità, ma anche Le dragon à deux tetes di Pàris Cannes – premio del pubblico al miglior corto – è una piccola serissima commedia che tra doppi, giochi di montaggio e split screen che invita lo spettatore a una maggiore consapevolezza rispetto alle conseguenze del regime del presidente Bolsonaro. Negrum3 di Diego Paulino, poi, combattuto fra documentario intimo, videoclip e storie di Instagram, e premio ex aequo della Giuria del Palermo Pride, sembra attraversare i più diversi e amabili tipi di esseri umani che usano l’esibizione per autoaffermarsi e rivendicare il diritto di esistere; un tratto, questo, che sembra invece negato alla comunità della mitica Indianara nel film di Barbosa e Chevalier-Beaumiel, che fra le ultime inquadrature illuminano la protagonista rinchiusa dentro un edificio storico abbandonato per rifugiarsi dal trionfo esterno di Bolsonaro.

I film di Vinagre infine sono l’espressione più urgente – talvolta allusiva talvolta esplicita come nelle vette hardcore “urbanistiche” di Nova Dubai del 2014 – di questa necessità del Brasile di raccontarsi ed esibirsi forse per esorcizzare un malessere politico o forse per tirar fuori un malessere esistenziale più esteso. È carnale ma essenzialmente verbale Vil, Ma, che tra un ricordo e un altro di Wilma Azevedo (anziana icona della scena BDSM) titilla gli anditi più reconditi dell’immaginazione spettatoriale; così come è verbale ma anche molto carnale A Rosa Azul de Novalis: un’intervista-documentario ma anche uno sfogo recitato come un aforisma di Bataille sul timore dell’oscenità della gente.

Ma fuori dal Sud America sono tante le eterotopie esplorate dal festival, e fra quelle più clamorose e impreviste c’è l’Italia di Samp di Rezza/Mastrella, body art e performance ancora prima che commedia, amatoriale come un film Dogma ma gioioso e sgrammaticato come un filmino casalingo. Si tratta di un’opera completamente fuori dalle regole, che va per frammenti e improvvisazioni, illudendo la soluzione di continuità narrativa dello spettatore. L’elemento più cocente che emerge nel film appare, però, la totale sfiducia che i due autori, alla maniera di Carmelo Bene, manifestano nei confronti dei limiti del cinema; e come spesso accade a chi non crede nel cinema ma lavora al cinema,1 i limiti sono più che superati e possono quindi essere esplorati i ritmi e gli stili normalmente negati dall’accademismo più severo e limitante.

Per chi invece ha esplorato in lungo e in largo l’edizione 2019, non può che ritrovarsi a suo agio nei fantastici 16 mm di Felix in Wonderland di Marie Losier (protagonista della sezione “Presenze” un anno fa). Quello di Losier è un cinema nostalgico, sempre attento a indagare l’inedito e a rendere l’eccentricità dei suoi personaggi qualcosa di profondamente familiare grazie anche a siparietti, confessioni e intermezzi più illustrativi – in un modo che ricorda il Jonas Mekas della New York anni ’70. Sono puramente mekasiani l’affetto e l’amicizia fra la regista e il protagonista (il compositore di musica elettronica Felix Kubin) che allestiscono una sinergia che proietta fuori dagli schemi alcune riprese e il montaggio. Esattamente come per il regista lituano, l’approccio di Losier è dettato forse più dalla necessità di ripercorrere una strada dei sentimenti, che dalla voglia di analizzare scientificamente il processo creativo di Felix Kubin.

Prostituzione, isolamento e ambienti chiusi legano invece due film apparentemente molto distanti fra loro come La casa dell’amore di Luca Ferri e Days di Tsai Ming-liang. Se Ferri sceglie il documentario, Tsai sceglie invece la performance contemplativa ai confini più sperimentali del cinema non narrativo, ma in entrambi si respira l’aria funerea e immobile di esistenze incapaci di evolvere. A questo Ferri ci aveva abituati l’anno scorso con Dulcinea e Pierino in concorso al Queer, così come ci aveva certamente abituati Tsai con più di 20 anni di carriera esemplare. Si tratta di film talmente essenziali che i fremiti di vita sembrano stare solo nei leggeri movimenti di camera, in quello sguardo indagatore che potrebbe dar senso a un ciclico perpetuarsi di umiliazioni e miserie.

E non è un caso che a vincere sia stato Ne croyez surtout pas que je hurle di Frank Beauvais: un film di montaggio, che lavora sul ritmo visivo, e maneggia testi precedenti per rielaborare le sofferenze e le depressioni del regista-narratore, alternando climax e distensioni. Sembra sussistere un legame simbolico tra questa edizione del Sicilia Queer e il film vincitore, perché in modo non troppo dissimile dall’esemplare sintesi catartica di Beauvais, l’ultima edizione del festival sembra aver racchiuso tutte quelle del passato.


  1. Bene dichiara in Contro il Cinema i limiti della cosiddetta “Settima Arte”; in compenso, il suo film Nostra Signora dei Turchi è acclamato da Enrico Ghezzi come “uno dei film più eccentrici mai (dis)fatti”↩︎