Così come Anna Maria Monteverdi ha voluto dedicare il suo volume a Giacomo Verde, videoartista e tecno-performer scomparso nel maggio scorso, anche chi scrive queste pagine di commento vuole aprirle con un doveroso omaggio al padre fondatore della sperimentazione con arti elettroniche in Italia. Tra i diversi contributi che impreziosiscono Leggere uno spettacolo multimediale, quello di Verde raccoglie la matrice di un’esperienza estetica-politica-sociale che sempre ci si augura accompagni la pratica artistica. A voler immaginare un percorso di lettura autonomo, che si emancipi dalla lineare successione delle pagine, ci sembra quella di Verde una testimonianza che funziona da buon apripista in un volume che lascia volentieri, e a ragione, la parola agli artisti, e insieme agli studiosi. In Video-fondale e Vjing low-tech Giacomo Verde chiude con un convincente monito: “[…] rimango dell’idea che quello che conta non sia tanto la potenza delle macchine quanto piuttosto l’idea di forzarne l’utilizzo per un uso creativo che vada oltre la loro progettazione. In fondo la creatività non costa nulla ed è disponibile a tutti” (p. 114). Le parole del suo maestro, così lo definisce Monteverdi, sembrano allora attraversare tutte le pagine di questo volume, illuminandone le intenzioni. Difatti nell’introduzione l’autrice conferma che il teatro e la tecnologia funzionano solo quando l’arte guida la tecnologia e non viceversa. Le ragioni di una scena multimediale, digitale, interattiva, si sostengono allora nel “progetto, nella scrittura e nelle idee, prima ancora che nella tecnica” (p. 9).
È da diversi anni che Monteverdi si occupa di Digital performance, ricordiamo tra tutti Rimediando il teatro con le ombre, con le macchine, con i new media (Giacché 2014) e il più recente Memoria, maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage (Meltemi 2018). Facendo tesoro delle teorie di Lev Manovich, Jay David Bolter, Richard Grusin e Henry Jenkins, l’autrice muove la sua riflessione in quell’arcipelago sempre più vasto in cui il teatro, assorbendo la tecnologia, si mostra capace di rimanere ancorato alle sue specificità, rizomatizzando però il proprio percorso.
La buona organizzazione del volume funziona da bussola per orientarsi in una materia sconfinata, Monteverdi argina il rischio di renderla caotica e parte dal videoteatro degli anni Ottanta, rintracciando proprio nell’alveo di quegli anni il nervo di una costruzione spettacolare che dei nuovi media farà prezioso strumento di costruzione drammaturgica. È nell’esperienza del Tam Teatromusica di Michele Sambin e in quella di Giorgio Barberio Corsetti con Studio Azzurro (tra tutti Prologo a diario segreto contraffatto) che si riconoscono alcune delle prove peculiari di quella “poetica del frammento, dello squilibrio e della contaminazione con altre forme artistiche” (p. 21) che il video teatro porta avanti almeno sino a metà degli anni Novanta, quelli che poi si aprono al digitale.
Nelle pagine degli studi specialistici le questioni terminologiche sono ancora estremamente dibattute, qui si cerca invece di renderle evidenti nella sostanza delle opere che vengono prese ad esempio. Attraverso l’analisi di alcuni spettacoli particolarmente significativi, senza troppo sostare in tentazioni concettuali, l’autrice si preoccupa di mappare questioni legate alla svolta algoritmica del teatro, alle diverse fasi del video mapping teatrale e alle relative problematiche che emergono con l’introduzione dell’Intelligenza artificiale sulla scena. A sostegno del volume sei diversi contributi critici, affidati a studiosi e artisti, praticano un affondo nei formati digitali e nelle rispettive tecnologie di riferimento. Chiude il libro un’appendice che ci informa, attraverso hashtag riconoscibili (#videomapping #intermedialità #remediation #realtàvirtuale e così via) di alcuni più significativi spettacoli multimediali degli ultimi decenni; ci sembra questa un’importante ricognizione per chi si trovasse ad abitare da neofita questo volume.
A rinforzare l’ossatura del libro c’è una particolare tendenza a storicizzare il problema della New Media Art che, a distanza di decenni dal suo primo apparire, appare ormai d’obbligo. Su questo aspetto è vero che l’autrice non ha mai lesinato pagine sin dai suoi primi contributi: già in Nuovi media, nuovo teatro - Teorie e pratiche tra teatro e digitali (2011), Monteverdi riempiva quasi un’intera pagina con numerose definizioni (o tag) con cui è possibile riferirsi ai nuovi media applicati al teatro; c’era, e in parte rimane, la difficoltà di orientarsi in un panorama sempre più vasto e proteiforme, ma a distanza di quasi un decennio questo ultimo volume pare rinforzare anche l’ossatura dei precedenti. Certo spetta poi a chi legge tracciare una personale mappa, realizzare percorsi e riflessioni, personali ricostruzioni della fisionomia complessa dello spettacolo multimediale.
Monteverdi non trascura il passaggio dall’intermedialità verso la transmedialità: dallo schermo all’ologramma, e poi all’ideazione di “ambienti sensibili”, l’autrice ricostruisce per fasi lo sviluppo della scena multimediale fino ai giorni nostri. Il tracciamento dei corpi tramite sensori, di cui si serve la motion capture, è essenziale in Biped (1999) di Merce Cunningham, e in Afasia 1998 di Antùnez Roca; sono decisivi esperimenti per la svolta digitale nella danza, ma soprattutto per lo sviluppo di un disegno drammaturgico che del digitale non faccia solo sostegno. E accade lo stesso per gli “spettacoli aumentati”di Yago De Quay (Ad Mortuos) o nella telematic performance di Before the Beep di Kònic. Gli esempi sono innumerevoli, ma se negli anni Novanta l’uso della tecnologia poteva apparire come riflesso del mondo nel quale ci troviamo a vivere, è diventata oggi per il teatro uno strumento di riflessione, non più perno ma ruota che gira. Ne emerge, tra ipotesi e esiti interpretativi, il quadro rinnovato di una questione che ormai non è più solo riconducibile alla contaminazione: la capacità combinatoria tra la scena teatrale, il videomapping, l’interaction design, e l’intelligenza artificiale è analizzata da Monteverdi come terreno di potenziali e infinite connotazioni della scena, trama di affinità e alleanze.
Agli inizi del Novecento Gordon Craig diceva che “l’unico mezzo adatto a rappresentare l’espressione dell’anima mediante l’espressione del volto è la maschera”, sempre alla maschera si ricollega in fondo l’invenzione del teatro, che oggi, con profonde e rinnovate ragioni, possiamo ricondurre a una immagine digitale nella scena, ma solo laddove serva ad amplificarne la portata. Allora la temperatura non sarà certo quella fredda della macchina, ma avrà il calore del fuoco, presso il quale torniamo - come spettatori - sempre a radunarci attorno.